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La Croce racquistata

di Francesco Bracciolini

Libro XXVII

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 22.02.16 13:35

ARGOMENTO
Niega Eraclio a’ messaggeri accordo e pace;
Alvida a dar nelle sue man si viene,
ma da lui ricusata i boschi face
piangendo attenti alle sue dolci pene.
Per Dio muore Anastasio; al ben verace
l’anima s’alza, e supplicando ottiene
che finischin d’Eraclio affanni e guai,
e si racquisti il sacro tronco omai.

Eraclio rifiuta le condizioni di Cosdra e ne propone di altrettanto pesanti (1-17,4)

1Entrò dopo l’araldo Armallo il fero,
et all’imperador postosi a fronte,
nel breve riverir l’animo altero
trasparir feo dalla superba fronte.
Ma poi che replicò l’altro guerriero,
dimostranze d’onor cortesi e pronte,
nel magnanimo Augusto i lumi affisse,
e l’ambasciata sua gl’espose e disse:

2«Il mio signor, che tutto il mondo insieme,
fuor che tu sol con l’ostinata gente,
ubbidisce soggetto e servo teme,
l’alto moderator dell’Oriente,
poi che sì fattamente oggi ti preme
ch’a risorger mai più non sei possente,
e che vinto non pur ma qui prigione
t’ha chiuso in così picciola magione,

3per dimostrar che s’ei l’animo audace
ch’alberga in te col suo valore avanza,
non meno ancor superiore il face
a te la cortesia che la possanza,
ti manda offerir concordia e pace,
e sicuro ritorno alla tua stanza,
là dove poi nella paterna riva
signor d’Europa a lui soggetto viva.

4Ma la fede in quel Dio ch’è nato e morto
fa di mestier che tu ricusi e lassi,
e ’l sole adori, ond’ogni germe è sorto,
e ’l bel tutto per lui si scorge e fassi.
Così potrai dalle tempeste al porto
ridur sicuri i tuoi guerrier già lassi,
e quel che non potrian le vinte spade
farà del mio signor l’alta pietade.

5E perché tu di sì benigna offerta
quanto prender si può fidanza prenda,
poi che dar non potrebbe arra più certa
vuol che sua figlia in sicurtà ti renda,
che non pur sia di Calisiro aperta
oggi la porta alla prigione orrenda
ma darassi per moglie al tuo nepote,
e tutti regni occidentali in dote.

6Tu dunque eleggi: o qui morir serrato
nel duro assedio, e tutto il popol teco,
quasi dal cacciator lupo arrabbiato,
stretto in angusto e cavernoso speco,
e dal re Cosdra a libertà donato
conservar tutta via l’imperio greco;
o salvarti o perir per chi ti serra,
o i regni in pace o le rovine in guerra.

7E perché sempre aver dimostro parmi
giudizio tu, se non da prima, quando
contra tanto poter movesti l’armi,
ch’allor fu posto ogni giudizio in bando,
mio consiglio e mio dir vo’ che sparmi
e tanto più che nulla a te dimando,
né dimanda il mio re ma sol concede
quel che per te necessità li chiede.

8Col tuo bisogno al mio signore i preghi
se’ tu che porgi, e gridi a lui pietade,
e venghian noi per non parer ch’ei nieghi
quanto è pronto a largir per sua bontade.
Ma d’accettar non aspettar ch’io preghi,
che benefizio in chi nol vuol non cade,
né t’offrisch’io ma sol t’avviso e questo
basta al mio re, sia poi tua cura il resto».

9Così disse Rubeno, e poiché gl’ebbe
taciuto alquanto, a lui ripose Augusto,
e la natia sua maestà s’accrebbe
più dell’usato, e più divenne augusto:
«A voi ben molto il signor vostro debbe
sì grande il fate e me rendete angusto,
e in qualche dubbio io rimarrei se sole
s’adoprassero in guerra le parole.

10Ma perché chi guerreggia ha più mestiero
di valor che di voce, e non si scema
per gl’altrui detti e non s’accresce il vero,
non mi muove il parlar fidanza o tema.
Ite dunque a ridir che del mio impero
lasci a me la cura, e del suo regno ei tema,
e guardi ben ch’ei va ramingo e fuora
dell’arsa reggia, e la mia resta ancora.

11Apra ben gl’occhi il signor vostro e scorga
sé fuggitivo e ’l nido suo disfatto,
e disfatto da me, così s’accorga
che son quell’io che vincitor combatto.
Qual vinto adunque a me la palma ei porga,
ch’io per farli non son più duro patto,
né men che di valor, di cortesia
mostrare a lui che inferior mi sia.

12E però quand’ei veramente lassi
creder nel sol che gl’abbarbaglia i sensi,
e con la fede al sommo Sol trapassi
ond’ha ’l minore i propri raggi accensi,
e ’l sacro legno, a cui rivolsi i passi,
fin da principio, e gl’avversari spensi,
com’ha fatto finor non mi contenda
e tributario al mio poter s’arrenda

13son content’io ch’al mio nepote unisca
di legitimo nodo Alvida figlia,
ma le condizion prima adempisca
che speranza altrimenti indarno piglia.
Ammoniscil poi tu che mal s’arrischia
mandarvi e incautamente si consiglia,
ché strage feo de’ miei messaggi acerba,
né dovria trovar fé chi non la serba.

14Ma tornatene pur, ch’Eraclio è tale
che punisce gl’error ma non gl’imita».
E qui si tacque, e risonar mortale
non fu di lui la chiara voce udita.
Allora il messaggier, da poi che male
vede l’impresa, onde si mosse, uscita,
per ritornare alle pagane tende
già dell’imperador commiato prende.

15Ma l’indomito Armallo, orribil quanto
mai minacciasse alcun gigante in Flegra,
quando alzaron di monti orribil tanto
scala che fino al ciel giungesse integra,
con un rider crudel, che doglia e pianto
parea spirasse, in fiera vista et egra,
«Or vuoi,» disse «vuoi guerra, e guerra a morte
non ti si neghi», e ’l piè volse alle porte.

16E tornando al suo re gl’ambasciadori,
Rubeno a lui con brevi note espose
come pur mantenean gl’invitti cori
senza punto temer l’armi animose,
né riferir se li potea di fuori
dell’incognite a lui bramate cose,
però ch’Augusto al limitar più basso
interrotta avea lor la vista e ’l passo.

17A sì fatte parole il ciglio inchina
quel re superbo, e dentro al cor ne bolle,
e de’ cristiani all’ultima ruina
più che mai si dispon, di sdegno folle.
Ma la figlia gentil d’acuta spinaAlvida decide di darsi prigioniera ad Eraclio così che con uno scambio di prigionieri si possa liberare Calisiro (17,5-27)
trapassata il bel petto e ’l viso molle,
gl’amorosi sospiri e ’l dolce pianto
ben vorrebbe affrenar, ma non può tanto.

18E piegando alla terra i vaghi lumi,
che fanno invidia a mezz’aprile al sole,
dalle pupille sua versa due fiumi
sul volto a inumidir rose e viole,
ma perché la cagion che la consumi
piangendo altrui manifestar non vuole,
s’asciuga gl’occhi, e tacita e dolente
in disparte ne va dall’altra gente.

19E disserrando il duol acerbo e rio
che quanto è chiuso più tanto è più fero,
incominciò: «Ben la mia vita ordio
Parca crudel d’acerbo stame e nero,
che per non terminar lo strazio mio
mantiene il filo a tanta pena intero,
né so ben poi, quando ’l mio mal m’uccida,
se finirà di tormentar Alvida.

20Ahi che di libertà l’antico stato
riconosco ben or tra tante pene!,
lassa, ma che mi val, poiché stimato
vien dal misero core il mal per bene,
e durissimamente incatenato
loda colui che in servitù lo tiene,
né libertà vogl’io, salvo che quella
di chi mi tien co’ suoi begl’occhi ancella?

21E così nel mio mal più non m’avanza
se non morir per terminar gl’affanni,
e la mia infirmità senza speranza
può la vita allungar molti e molt’anni.
Con l’indomita sua dura costanza
fermo è l’imperador ne’ propri danni,
e trovo in lui d’anguste mura avvinto
d’invitto il cor quand’io ’l credea di vinto.

22Et un legno insensibile et esposto
a i carnefici oggetto et a i nocenti
bramar più molto e rivoler più tosto
che de i regni il dominio e delle genti;
e che per adorar venga anteposto
a chi vita e splendor porge a i viventi,
ma non è, non è già quella che chiede
la guerra a lui religion né fede.

23Ché nessun dio, se ’l ben quaggiù deriva,
dalla man de gli dèi, voler più guerra,
e nessun può voler ch’altri non viva
s’ei fecondano a noi l’acqua e la terra.
Ma sol mia stella a mia sventura il priva
d’aver mai pace, e ’l cor gl’indura e serra;
il core, ohimè, che d’ogni belva atroce
più spietato è nell’uomo e più feroce.

24Per amar la natura ignudo e molle
fe’ nascer l’uomo, e non di ferro armato,
e stromento mortal dell’ira folle
la zanna o ’l corno a gl’animali ha dato,
ma le doti di pace il reo si tolle
e spogliando ragion, con ch’egli è nato,
si disumana, e più crudel s’infiera
contra la specie sua d’ogn’altra fiera.

25Maledetto il crudel che prima aperse
con mano orrenda all’ampia terra ’l seno,
e fuor trassene ’l ferro, onde s’aperse
d’umano sangue e si scaldò il terreno.
Natura indarno il mostro reo coperse,
chiuse indarno nel suol l’empio veleno
e sotterrollo in sempiterna notte,
ché l’uom perverso ha le sue leggi rotte.

26Ma che vaneggio, e senza pro mi doglio,
né tento il disserrar l’empia prigione?
Se in ciò tem’io del genitor l’orgoglio,
pungemi amor con rintuzzato sprone.
Poca fiamma è la mia, s’a lei pur voglio
preferirsi il mio padre e la ragione;
padre, vita, onestà posposte sieno
che non ha sommo amor legge né freno.

27Andar vogl’io là tra i nemici e loro
darommi esposta e volontaria preda,
fin che l’idolo mio, che in terra adoro,
liberamente al campo suo non rieda.
E poi ch’altro non ho cambio o tesoro,
per cui poterlo ricomprarlo io creda,
almen farò questa mia voglia espressa
di dar quanto si può dando me stessa».

Si spinge al campo cristiano, Eraclio non la accetta come prigioniera, lei per la vergogna fugge nel bosco anziché tornare al proprio esercito (28-50)

28E, così ferma, omai rivolge e pensa
dell’uscir quindi e chi l’aiti e come.
Tra sue donzelle a ben amarla accensa
una fida n’avea, ch’Eurilla ha nome;
a lei sovente i suoi pensier dispensa,
ministra eletta in acconciar le chiome,
ma più di fede: a mille prove esperta,
segretaria d’amor costante e certa.

29A costei dunque ella narrò che quando
l’alma luce del dì nel mar si celi,
e posta ogn’opra, ogni fatica in bando,
nelle tenebre mute il mondo veli,
partir sen vuole; e, i suoi disegni ombrando
di finzion sotto mentiti veli,
vittima e benda d’or, coltello e veste
e quanto è d’uopo al sacrificio appreste.

30E poi quando la notte il ciel colora
con sua gelida man di fiamme ardenti,
e ’l bel sereno padiglione indora
di vive fiamme alle sopite genti,
con le cose apprestate esc’ella fuora
de gli steccati al duro assedio intenti,
e con la sua fidata compagnia
vèr la chiusa magion cheta s’invia.

31E per calle diritto il piè non muove
perché non sia dal campo suo notata,
ma gira il colle e fa la via di dove
più si cred’ella approssimar celata.
Et ecco intorno i nuvoli rimuove
la bianca luna, ond’era dianzi ombrata,
e ’l chiarissimo lume la dimostra
a quei che son nella munita chiostra,

32onde subito a lei la sentinella
chi sia dimanda in fiero suono ardito,
e con l’arco minaccia la donzella
se non s’arretra e va lontan dal lito.
Et ella allor su la rosata e bella
bocca, senza parlar, premendo il dito,
fa cenno a lei ch’ella s’acqueti e taccia
e d’introdurla al capitan le piaccia.

33Mostra ch’entrar per benefizio vuole
de gl’assediati, e come sono inermi
due giovanette scompagnate e sole,
che non posson ferir né fare schermi.
Passa la sentinella le parole
e fa che quella coppia ivi si fermi,
e ’l saggio imperador, ma cautamente,
che s’ammettan le giovani consente.

34La guardia allor con piccoletto legno
tacita se ne va sicando l’onda,
e in lui raccoglie il prezioso pegno
di donzella real dall’altra sponda.
Oh d’amor singolare e raro pegno!,
oh prova a nessun’altra unqua seconda!,
la bella figlia del gran re pagano
da se medesma a’ suoi nemici in mano.

35L’imperadore alla donzella ammessa,
tosto ch’esser Alvida egli comprende,
benignamente ad ascoltar s’appressa
e fin sul basso limitar discende
per farle onore, e molto più perch’essa
non abbia entro a veder quel che l’offende.
Tacque ella alquanto e vergognosi, e poi
sciolse da i dolci labbri i detti suoi,

36e così comincio: «Figlia son io
stata sin qui del persian signore,
or di sua potestà l’incendio mio
m’ha liberata e sottomessa Amore,
né posso all’ardentissimo desio
contrasto far, ch’è già passato al core,
né già scuoter lo può chi tra le vene
misto col sangue e con la vita il tiene.

37Però convien che, seguitando il foco
che mi distrugge e dove vuol mi mena,
senza riguardo aver molto né poco
a tutto quel ch’una donzella affrena
a voi ne venga, e in questo chiuso loco
con voi mi serri in assediata arena,
da poi ch’inutilmente ogn’altro modo
tentai di sciorre a Calisiro il nodo.

38Per lui dunque, signor, perché mio padre
il tuo nipote in libertà rilassi
io (tu ’l vedi s’io l’amo) a queste squadre
voltai soletta a mezza notte i passi,
e vengo a te per l’ombre mute et adre
perché mi tenga tu fin ch’ei lo lassi,
ch’al creder mio contracambiar ben puote,
figlia di re, d’imperador nipote.

39Anzi di più, per tua pietà, ti prego,
usami crudeltà, ché ’l padre il senta,
e, se qual vedi, a me medesma io niego
il mio stato real, fammi contenta,
ché quella servitù dov’io mi lego
quando fusse per te soave e lenta,
mentr’io fusse onorata in forza altrui
gioverebbe a me poco e nulla a lui.

40Deh, per pietà la crudeltade apprendi
tu da mio padre, e quel crudel martiro
con larga mano a me, sua figlia, rendi,
ch’ei porge al tuo nepote Calisiro.
Forse avverrà, se tra gli scogli orrendi
però non nacque e vipere il nutriro,
che sentendo il mio mal pietà ne prenda
e l’avvinto garzon per me ti renda».

41E qui tacendo, i detti suoi raccolse
con sì dolce silenzio Alvida bella
che non men che pur or mentre gli sciolse
col soave tacer prega e favella.
E seco insieme a riguardar si volse
supplice in atto la fidata ancella,
la risposta attendendo a i loro errori,
pallidi i volti e palpitanti i cori.

42Allor l’imperador queto e severo,
ma di severità dolce e serena,
risponde a lei: «Che in giovenil pensiero
s’accenda amor, ch’a traviar vi mena,
meraviglia non è; ma chi ’lS | che ’l sentiero
smarrisce e quando può non si raffrena
per le distorte e sdrucciolose strade
di fallo in fallo al precipizio cade.

43Or io, che tale (e sia sofferto in pace,
giovanetta real, dal vostro affetto)
vi scopro inferma d’amorosa face,
e guardo a quel che vi consuma il petto,
negando a voi, come talor si face
all’egro l’onda, il prender qui ricetto,
consiglierovvi alle pagane squadre
tornar più tosto a dimorar col padre.

44Ché se restar tra queste mura a voi
lecito fusse, e senza biasmo o fregio
dell’onestà, che più de gl’occhi suoi
aver de’ sempre ogni donzella in pregio,
oh come qui non vi faremmo noi
già strazio alcun ma trattamento regio!
Tolga Dio pur che mai nodo servile
distringesse tra noi donna gentile.

45Con le femine no ma con gl’armati
è l’uso mio di dimostrarmi forte,
e se fur presi i miei nepoti e dati
l’uno a dura prigione e l’altro a morte,
alla guerra venn’io, non a mercati
con Cosdra; usi pur ei la propria sorte
com’usar più contra di me gl’aggrada,
ch’a me sol giova adoperar la spada.

46E voi pur, damigella, a i guerrier vostri
tornate omai, ché rimaner non lice.
Itene in pace, e la ragion vi mostri
che per vostro miglior vi si disdice».
Et ella allor tra i dolci avori e gl’ostri
cospargendo un ruscel che ’l duolo elice,
al ciel voltossi e innamorò le stelle
di così care lagrime e sì belle.

47Poi chinando i begl’occhi Alvida disse:
«Disperata, che fai? vattene e muori,
poi che sorte acerbissima prefisse
ch’altro non si trovi a’ tuoi dolori.
E qual misera mai nel mondo visse
per sì dolenti e sventurati amori
che mi nega il tenor d’avversa stella
anco restar de’ miei nemici ancella?».

48E in questo dir dalla munita soglia
con bell’atto natio di doglia e d’ira,
volgesi al navicel, ché la raccoglia,
e da gl’occhi e dal cor piange e sospira.
E qual nuvola in ciel che si discioglia
in folta pioggia allor che ’l vento spira,
vassene disperata, e ’l lago accresce
con tristo umor che da be’ lumi gl’esce.

49Com’è poi fuor dell’acque e ’l piè sospende
per pigliar via, per non saper l’arresta,
onde l’irresoluta anco non rende
l’orma, che sollevata in aria resta.
Lontana al fin dalle paterne tende
se n’andàr per incognita foresta,
fatte da i duri lor casi infelici
delle ruvide selve abitatrici.

50Ché non vuol, per vergogna, a quelle rive
ella tornar là d’onde amor partilla,
e tra le selve solitarie vive
in compagnia della diletta Eurilla;
e rincorre i suoi casi e gli descrive
nelle cortecce con acuta spilla,
e vede ogni dì più fatte maggiori
le note in lor de’ suoi dolenti amori.

Anastasio raccoglie una grande schiera di cristiani con le sue predicazioni: Cosdra lo fa imprigionare e torturare (51-60)

51Non lungi intanto a queste selve accoglie
Anastasio le genti e gl’incamina
a seguir Cristo, e con Eran si toglie
dalle sponde del mar di Palestina.
Scorre ogni villa e dalle labbra scioglie,
di Dio predicator, voce divina,
ch’alletta e tragge un’infinita schiera
alla sua fede indubitata e vera.

52Così tornando a rifruir la luce
dalle ceneri sue l’unico augello,
a cui per le piume arde e riluce
mescolato a i rubinS | rubini l’auro novello,
una nuvola alata si conduce
a seguir lui di questo poggio in quello,
e l’accompagna, anzi ’l vagheggia amante
per lo liquido ciel corre volate.

53Spoglia d’abitator le piagge e i liti
seguitando Anastasio il popol folto,
onde gl’empi ministri ingelositi,
celatamente un lor concilio accolto,
ordinaron, d’accordo al male uniti,
che l’innocente in duri lacci avvolto
si mandi a Cosdra, e come a lui gradisca
o ’l condanni e l’assolva e l’ammonisca.

54E così fatto innanzi a Cosdra arriva
l’incatenato servidor di Cristo,
e ’l suo maestro ogni fedel seguiva,
benché da lungi, addolorato e tristo.
E giunto al campo un mormorio s’udiva
là risonar tra ’l popol vario e misto,
e traggon tutti, ognun sua cura oblia,
a veder e saper chi costui sia.

55Condotto il santo al fiero Cosdra avante,
«Dimmi,» disse ’l crudel con volto amaro,
perché ’l sol non adori?». Et ei costante,
«Perch’adoro del sole un Sol più chiaro».
E così, fermo a l’un l’altro sembiante,
l’un prodigo di sangue e l’altro avaro,
l’un minaccia di lor, l’altro non cede,
e cresce all’ira l’un, l’altro alla fede.

56Ma poi che pur resiste e nulla teme
la secura umiltà l’orgoglio altero,
e ’l tiranno però cruccioso freme,
sprezzar veggendo il suo feroce impero,
lo sdegno aprendo e le parole insieme,
così soggiunge impetuoso e fero:
«Or ti farò veder qual più s’abbaglia
nel proprio sole e qual di lor più vaglia.

57Costui si prenda e si flagelli, e tanto
si raddoppino in lui pene e martiri
che i pensier cangi infra i tormenti e ’l pianto,
o cedendo al dolor l’anima spiri».
Et ecco a lui già dispogliato il manto,
già s’adempion del re gl’empi desiri,
e già sul tergo all’annodate braccia
steso l’orribil canape s’allaccia;

58e l’un capo di lui tira et abbassa
l’unita turba, e poi che ’l peso è giunto
fino all’alta carrucola lo lassa
a tracollo cader tutto in un punto.
Riman la terra un palmo sol più bassa
e suona ogn’osso a quel cader disgiunto,
e l’una e l’altra man sovra la testa
con le braccia sconvolte appesa resta.

59E quattro volte e sei, dodici e venti
tornando all’empio e doloroso strazio
fannolo ricader gl’aspri sergenti
per tutto quanto il tormentoso spazio.
Indi per variar pene e tormenti
e farne il fiero re contento e sazio,
con flagelli nodosi e verghe crude
prendono a lacerar le carni ignude.

60Ma la ferma virtù però non manca
sotto l’innumerabil battiture
ma, sofferendo immobilmente, stanca
le mani altrui, di giusto sangue impure.
Perduto affatto ogni color di bianca
ha già la carne a tante macchie oscure,
e già l’oscurità da sé rimossa
appar sanguigna e lacerata e rossa.

I suoi seguaci vengono uccisi, lui fa la stessa fine: salito al Cielo, chiede al Signore che ponga fine alla guerra (61-74)

61Sonava intanto ogni propinquo lido
del suo martirio, e ’l suo costante esempio
invitava lo stuol seguace e fido
a correr pronto al doloroso scempio,
e traendo i fideli al santo grido
s’offrivan molto al duro strazio et empio,
e correan, da i martiri innanimiti,
ch’esser devean paure e sono inviti.

62Quindi al fiero spettacolo presenti
d’anime generose illustre schiera,
chieggono a gara omai pene e tormenti,
dimanda ognun che la sua vita pèra,
e, incolpando i ministri, «A che sì lenti?»
diceano, «Ancor non è la strage intera?
Manca allo strazio alcuna parte ancora
se rimangono i figli e ’l padre mora?».

63Ma ’l carnefice reo, che ’l santo germe
de’ seguaci di Dio scorgea più sempre
ripupular le messe sue più ferme
contra ’l martirio e con più salde tempre,
né per lacero petto o membra inferme
l’infrangibil pietà vien che si stempre,
da poi ch’indarno ogn’altra pena adopra
vuol che la morte omai si ponga in opra.

64E di quell’alme generose e sante
fatte omai nel Signor sicure e fide,
ad una ad una ad Anastasio avante
il bel numero scema e i corpi uccide.
Et ei la virtù lor fa più costante
sotto la scure, che scendendo stride,
e ciascun conforta e tutte aita
sul limitar della seconda vita.

65«Con un breve sospir,» dic’ei «ché morte
altro non è, quando per Dio si muoia,
noi per sempre acquistiam beata sorte,
con due stille di sangue un mar di gioia.
Mostriam pur su l’estremo animo forte
a così breve e sì fugace noia,
e comperianci pur con un momento
l’infinito del Ciel sommo contento».

66Ma non molto tardò che l’empio, a cui
l’opera dispietata il re commise,
da poi che gl’ebbe gl’argomenti sui
provati in mille strane guise,
cader lasciando il mortal ferro in lui
la fronte venerabile recise,
e ’l capo al colpo reo che ’l dipartì
con tre balzi sonò: «Giesù, Gie, Gi».

67E così del gelato e sacro petto
la bell’anima pura si discioglie,
che in terra abbandonando il suo ricetto
nel Cielo in grembo a Dio lieta s’accoglie,
e ricongiunta al bel numero eletto
che seco abbandonò l’umane spoglie,
come saetta alla prefissa meta
fermossi in lui, ch’ogni desire acqueta.

68E in quell’atto purissimo sovrano
vede l’immensità che non ha fine,
sopr’ogni cielo e sotto ogn’oceano
e fuor d’immaginabile confine.
E vede oprar l’onnipotente mano
e le cose mortali e le divine,
e vede ogni voler, ved’ogni brama
che in lui si sazia e più di lui non brama.

69Et ecco intorno a lui l’alme beate
sciolte dalla sanguigna e rotta salma,
d’infinita mercé rimunerate
alzan concordi un ramuscel di palma;
e dal mar del contento inebriate
che non perde giammai giolito e calma,
rendon lodi per grazie, e la più bella
così per tutte al Re del Ciel favella:

70«Noi siam venuti a te, Signor, là donde
chiuggon fertile terra Eufrate e Tigre,
e facemmo laggiù correr quell’onde
del sangue nostro macolate e nigre.
Or se la grazia tua, che ci s’infonde,
ci fe’ il tuo nome a confessar non pigre,
speriamo in lei che più che mai si mostri
favorevole in Cielo a i preghi nostri.

71E ti preghiam che ’l sacrosanto legno
che ti fu nel morir letto crudele,
e dove offerto, ahi duro strazio indegno,
per bevanda ti fu l’aceto e ’l fiele,
più non abbia a restar negletto pegno
nell’empie man del popolo infedele,
ma ricovrinlo omai nel settim’anno
l’armi ch’a gloria tua combattut’hanno.

72Tu, ch’al settimoS | settim’ giorno, allor che festi
l’opra maggior del vago mondo a noi,
pur come stanco riposar volesti,
riposar lascia il settim’anno i tuoi.
Vinca e regni ’l tuo nome, e non s’arresti
da gl’esperi volando a i liti eoi.
Basti, Signor, nel dubbio stato incerto
quel che pugnando han sin’a qui sofferto.

73E se tanto non val quel sangue sparso
che tante volte in suo servigio hann’essi,
e s’aggiuntovi il nostro ancora è scarso
per impetrar che ’l lor travaglio cessi,
Signor, vagliane il tuo, che d’amor arso
per noi spargesti in caldi rivi e spessi,
e sol una potea di tante stille
non un mondo salvar ma mille e mille».

74E qui tacque Anastasio. Allor quel misto
di tre persone in un soggetto eterno,
benignamente acconsentir fu visto
e fuor trasparve il gran consiglio eterno,
e dalla bocca risonò di Cristo
decreto inviolabile e superno:
«Or si volgan le cose, e giunto sia
l’affanno al fin della milizia pia.

Dio impone la fine dei travagli per i cristiani, manda due Angeli a scacciare la Fame e la Peste (75-84)

75Torni al campo Niceto, e vi riduca
a tempo i suoi guerrier, torni lo scudo,
e fame e peste alla tremenda buca
sien resospinte in loco eterno e crudo.
Destro girisi il Ciel, sorte conduca
tutto a gloria de’ miei, così conchiudo».
E fermato lassù l’alto consiglio
piegò benigno il gran Motore il ciglio.

76E l’affissò dove da noi si preme
picciol globo quaggiù d’acqua e d’arena,
e dove addotto alle miserie estreme
regge l’imperador le squadre a pena,
ché la parte minor la peste preme,
seco ridutta in angosciosa pena,
e la maggiore il principe germano
sparsa per lo digiun rappella invano.

77Et ecco omai ristoratore arriva
di Dio lo sguardo amabile e benigno,
che l’aer denso e nubiloso avviva
e ne discaccia ogni vapor maligno,
e in ogni piaggia e su per ogni riva
parte dall’erbe ogni squallor ferrigno,
tranquilla l’onde e placidissim’aura
ogni frutto, ogni fior nutre e restaura.

78E come allor che da gl’ardori estivi
là verso ’l fin del polveroso agosto
pendice adusta i suoi color più vivi
sitibonda d’umor tutti ha deposto,
valica il villanel senz’onda i rivi,
pallido è ’l prato al sol nemico opposto,
se desiata al fin la pioggia scende
la terra il verde suo lieta riprende,

79tale il guardo di Dio salute e vita
rende al suo campo addolorato e mesto,
e porg’a lui, con sovrumana aita
lieto soccorso s’ suoi bisogni presto.
E discendono in giù contro l’ardita
forza d’inferno a’ suoi guerrieri infesto
due de’ più degni e più sovrani cori
del divino secreto esecutori.

80Vermiglie l’ali e di zaffir le vesti
le membra foco e ’l volto avean di sole,
e due spade versatili celesti
scendean vibrando alla terrena mole.
Né sì lucidi mai né mai sì presti
per le piagge dell’aria aperte e sole
segnàr vapori in prima notte il cielo
né rupper lampi all’atre nubi il velo.

81Indi poi che sì presto al mondo furo
che ’l fumifero suol tutto s’adombra,
e ’l più basso del ciel rende men puro
terrestre nebbia e ’l suol sereno ingombra,
verso i mostri crudel del centro oscuro,
che fuor ne spinse il regnator dell’ombra,
strinser ambo le spade e corse l’uno
l’empia Peste al ferir, l’altro il Digiuno.

82E i colpi accompagnando e le parole
dicean: «Voi dunque intorbidare il mondo,
voi presumete, e presentarvi al sole,
malvagi abitator del centro immondo?
Pur vi dovreste rammentar se duole
piaga di Dio, se ’l nostro ferro ha ’l pondo.
Itene, maledetti, al fuoco eterno,
l’albergo vostro è ’l tenebroso inferno».

83Così disser di Dio gli spirti alati,
né pur la vista a sostener bastanti
fur quei pallidi mostri, e spaventati
nelle tenebre lo cadder tremanti,
là dove eternamente condannati
suonan per l’ombre i sempiterni pianti,
e dove notte e dì l’anime cuoce
disugualmente un’egual fiamma atroce.

84Quindi il popol di Dio cessar de i mali
ch’ei sostenea nella sua giusta impresa,
le cagioni invisibili, immortali,
ch’avean la palma al suo valor contesa.
Ma qual ordine poi l’opre mortali
prendesser quindi alla mortal contesa,
Musa, aiutami tu tanto ch’esporre
cantand’io ’l possaS | passa e ’l mio bel nodo sciorre.