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La Croce racquistata

di Francesco Bracciolini

Libro XXXII

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 23.02.16 10:36

ARGOMENTO
Col favor di Maria del Ciel regina
liberato è Bizanzio e ’l duce morto.
Quindi alla greca gente, alla latina
Cesere apparir fa lieto diporto,
fan le fere tra lor strage e ruina.
Erinta intanto il reo Domete ha scorto
e, scoperto e convinto, il traditore
dalle belve stracciato in pena muore.

Egisto racconta di come poi hanno vinto anche in battaglia campale, liberando la città (1-36)

1«Ma come prima la novella aurora
a raccor cominciò dell’ombre il velo,
e innanzi al sol che ’l mondo ricolora
di gigli e rose apparecchiarsi il cielo,
l’audace suon che gl’animi avvalora
d’ogni timor liquefacendo il gielo,
incominciò con replicati carmi
a dare il segno e stimolarci all’armi.

2E noi, ben trenta mila, insieme uniti
per uscir contro alle pagane genti,
parte di Bizantini innanimiti,
part’Italiani e Rodian possenti,
né pur faceane il fier Leandro arditi
ma d’inquieta aviditade ardenti.
Leandro è ’l duce de’ guerrier di Rodi,
d’animo invitto e cupido di lodi.

3Egli, che per legnaggio e per valore
nacque in Italia, e visse illustre e chiaro,
con prove d’armi accompagnando amore
spera farsi a Matilda amato e caro.
E però tanto è cupido d’onore
che se ne mostra ingordamente avaro,
et or l’innamorata anima ardita
ci esorta a far la generosa uscita.

4Ma Bonso, il vice imperadore accorto,
– Contenianci, – dicea – guerrieri, intanto
che sia della città libero il porto,
né cerchiam or più periglioso vanto.
Voi ci avete a bastanza aiuto porto,
e ’l capitan che ne minaccia tanto,
poi che nuocer non può, quasi leone
incatenato a vòto i denti suone.

5Moderianci pur noi, ché l’ampio stuolo
ch’ei regge là, se non penetra i muri,
forza è che lasci alfin libero il suolo,
stanco e noiato, e noi siam qui sicuri.
Se combatter si de’, per vincer solo,
vincere, e non pugnar da noi sicuri,
e non dimostri un giovenil consiglio
d’amar non la vittoria ma ’l periglio -.

6Ma le parole sue spargonsi al vento,
però che tutti alla battaglia volti
tenendo lui per neghittoso e lento
non ha nessun che sue ragioni ascolti.
E pien di sicurezza e d’ardimento
dicea Leandro: – In queste mura accolti
dunque vilmente rimaner vincendo
debbiam prigioni? Or che saria perdendo?

7Cento galee con men di trenta or ora
vincemmo, e temerem via più di trenta
mila guerrieri uscir d’assedio fuora?
Di poch’animo è ben chi si sgomenta
senza la fin che ciascun opra onora,
e fugge a chi nel corso si rallenta;
che sarebb’all’impresa esserm’io posto
e la gloria oscurar del vincer tosto?

8Me n’uscirò co i Rodiani miei,
e rimangasi pur chi non ardisce,
e veggia me che men pugnar devrei,
poiché nulla per me si diffinisce,
e da me impari in dubbi assalti e rei
come guerra intrapresa si finisce.
Venite, o valorosi amici eletti,
al periglio, alla gloria andiam soletti -.

9E con atto sì fier disse et espose
del magnanimo cor gl’audaci sensi,
che fremendo al suo dir volenterose
le schiere appalesàr gl’animi accensi.
Onde Bonso alla fin così rispose:
– A tanti uniti acconsentir conviensi;
ceda, se parvi, al voler vostro il mio,
ch’io non voglio ad oppormi esser sol io -.

10E così detto a i lor furori il freno
ch’ei più regger non può, cede e rallenta,
come nocchier se l’arte sua val meno
convien ch’a forza all’Aquilon consenta.
Né ritardar può quell’uscita almeno
che la face diurna in mar sia spenta,
e sia l’impeto loro all’aer nero
quant’improviso più tanto più fero.

11Così senza dimora, impazienti,
uscimmo noi dall’assediata terra,
come precipitosi alti torrenti
che resistenza d’argine non serra.
Et ecco omai con le pagane genti
s’appicca orrenda e disperata guerra,
e l’istesso Leandro omai si spinge
tanto che con Satin s’affronta e stringe.

12E due e tre volte in sua la fronte avversa
calar facendo il formidabil brando,
l’introna sì ch’in tenebre sommersa
sovra gl’omeri suoi cadde sonando,
e per lo naso e per la bocca versa
sanguinosi singhiozzi a quando a quando.
Indi fra mille lance e mille spade,
pondo stordito, a impolverarsi cade.

13Per ultimar la sua vittoria, ardito
Leandro allor su l’avversario corre,
ma di pagani un fier drappello unito
subitamente al general soccorre;
e, mortalmente il cavalier ferito,
egli con tutto ciò ritrarsi aborre,
e tra mill’aste e mille spade stassi
nel core invitto e immobile ne’ passi.

14Ma più spessa che grandine stridente
che sonar faccia il tempestato tetto,
ferendo in lui l’accumulata gente
la fronte, i fianchi e ’l valoroso petto,
trafitto al fine, e più che neve algente,
preme dell’ampia terra il duro letto;
né s’arrende però, muore e ferisce,
e combatte morendo e non languisce.

15Leandro muore e ’l capitan de’ Persi
abbattuto da lui s’alza e risorge,
e la fortuna, che parea volersi
allontanar, ravvicinata sorge.
E incontro a i Greci e gl’Italiani avversi
gl’Armeni e i Parti innanimisce e scorge,
e cotanto è ’l furor, l’impeto è tale
che repuglianza incontro a lor non vale.

16Volghianci alfin, da tanta furia vinti,
verso le porte ond’eravamo usciti.
Voi del sangue romano aspersi e tinti,
siatemi testimon, difesi liti,
s’io mi fermai più volte infra i respinti
stabile incontro a i vincitori arditi.
Ma il Ciel devea, non le mortali spade,
salvare a te l’imperial cittade.

17A cui per entro avviluppati e misti
con la gente cristiana i Persi audaci,
in estremo pericolo son visti
co i Latini pugnar, pugnar co i Traci.
Fanciulli e donne e vecchi infermi e tristi
con affanni del cor gravi e penaci
corron pallidi al tempio, e là devoti
porgono al Re del Ciel preghiere e voti.

18Sentì l’affetto e le querele e ’l pianto
l’alta Madre di Dio Vergine pura,
quella che piacque al Creator cotanto
ch’in lei discese a farsi creatura;
e dentro al chiostro virginale e santo
tanto nobilitò nostra natura
che sovr’ogn’altra ierarchia celeste
siede la nata umanità terrestre.

19Onde, mossa pietà, l’alma Regina,
fonte d’ogni pietà, dal Ciel discende,
folgorante, ammirabile e divina,
ov’ogni lume, ogni beltà risplende,
e mentre all’ima terra ella s’inchina,
dall’uno all’altro polo il ciel si fende,
e d’un lucido termine diviso
mostra, aprendosi il Cielo, il Paradiso.

20Quinci pallido il sol, quindi la luna
mentre scendon tra lor gl’empirei lampi,
non hanno luce o scolorata o bruna
sì che d’oscurità la terra stampi;
indi nel chiaro lume appar quell’una
che scende a dare a noi gl’ultimi scampi.
Ma nulla già non aspettar di lei
pur ch’accennin lontano i detti miei.

21Bruna i begl’occhi e ’l lungo crine errante
muoversi all’aura e lampeggiar parea;
di rubini è la vesta e fiammeggiante
con larghe piaghe il chiaro lume empiea;
e nuvol di purissimo diamante
sparso di stelle a sé d’intorno avea,
e sotto a i piè con folgoranti strali
schiere d’innumerabili immortali.

22Ella nella man manca uno stendardo
candido più che neve al vento scioglie,
e l’asta sua, che sembra d’oro al guardo,
su la cima ha di palma eterne foglie.
Tien nella destra, e par di foco, un dardo
minacciator di spaventose doglie.
Scend’ella e pianta in su le dubbie mura
l’insegna di vittoria e l’assicura.

23E due e tre volte al popolo pagano
fattasi incontro imperiosamente
mosse, e spirò l’onnipotente mano
percossa inevitabile et ardente.
Indi fermossi, e si levò pian piano
per lo calle purissimo lucente,
sovr’ogni stella e quasi un fragil velo
sotto a’ suoi piè si ricongiunse il Cielo.

24Da tai prodigi il popolo commosso,
che già vincea l’imperial tua terra,
tremar sentesi il cor, quasi percosso
giunco dall’Aquilon che si disserra,
e, volgendo a fuggirsi, altri nel fosso
trabocca et altri il ferro nostro atterra.
Satin s’adira e più che fiamma in volto
s’oppone al popol suo timido e sciolto.

25Ma contra lui del buon Clotareo il figlio
con ben cento francesi unito muove,
e fa veder con quanta gloria il giglio
fiorì mai sempre ovunque il sangue piove;
senza temer, senza mirar periglio
corrono a dimostrar l’usate prove.
Satin, che ’l vede anch’ei, sua squadra aduna
che per insegna ha l’argentata luna.

26Né men co’ suoi si ricompone e stringe
e se gli serra il fero duce appresso,
e quinci e quindi a insanguinar si spinge
l’uno e l’altro drappel calcato e spesso.
Così due tori allor ch’amor gl’attinge
a contesa tra lor corrono spesso,
e trae ciascun la sua cornuta greggia
che ’l seconda alla pugna e ’l favoreggia.

27Negli scudi gli scudi e ne gl’elmetti
cozzan gl’elmetti alla serrata mischia;
l’ira arruota il valor, feroci e stretti
l’un nell’altro si preme, un l’altro incischia.
Tra i ginocchi i ginocchi, i petti i petti,
gamba con gamba e piè con piè si mischia,
e l’un cade su l’altro e dall’estinto
s’opprime il vivo e ’l vincitor dal vinto.

28Né quell’impeto lor che gli trasporta
rallentò mai, fin che quel duce e questo
mirò la schiera sua disfatta e morta,
con esempio ammirabile e funesto.
Ma ’l francese baron, poi che gl’ha scorta
la sua già spenta, a sé favella: – Io resto
vivo, dunque, tra i morti? e non ho cuore
che mi vaglia a morir s’ogn’altro muore?

29Non fia mai vero -. E qui s’infiamma, e quale
ircana tigre al cacciator s’avventa,
che gl’ha tolto i figliuoli, e non ha eguale
furia o velocità sì violenta,
e, trafitte a Satino amendue l’ale
del mobile polmon che s’apre e venta,
muor senza moto e senza fiato il lassa,
e senz’aura spirar la vita passa.

30Ma nel punto medesmo in cui gl’arriva
la punta al cor del cavalier francese,
per ch’a lui dopo il feritor non viva,
con un colpo mortal la spada stese,
e ’l guerrier franco, ov’egli al mento univa
le molli fauci, in tal maniera offese
che passò per la nuca e su l’usbergo
corse un tiepido fiume al petto, al tergo.

31E cadder amendue, l’un con la spada
nell’altro fitta, e risonò la terra.
Così veggiam che di due faggi accada,
se l’un misto con l’altro i rami serra,
quando ’l fiato rifeo che ’l ciel dirada
l’uno e l’altro congiunti insieme atterra,
e l’un e l’altro un ampio spazio abbraccia
del verde suol con le fronzute braccia.

32Satin caduto, ogni pagan tremante,
quasi morto il pastor greggia smarrita,
di qua, di là con le fugaci piante
richiede al corso incontro al ferro aita.
Ma seguendo pur noi la turba errante
ch’or getta l’armi e fu sì dianzi ardita,
con intera vittoria in breve tutta
serva s’arrese o si restò distrutta.

33Così salvo Bizanzio io, che le genti
rassegnai dopo alla mortal vittoria,
quasi tutti trovai di vita spenti
i miei compagni, e viva sol la gloria.
Doloroso, raccolgo i corpi algenti
e ne fo con pietà mesta memoria;
e fra gl’egri e gl’uccisi un terzo in guerra
m’ha tolto il mare e la metà la terra.

34Due mila fummo, or siam trecento a pena,
da regger armi; io parlo sol di noi,
che fendemmo al partir l’onda tirrena,
de gl’altri no che si congiunser poi,
ché l’armata di Rodi alla sua rena
rivoltò con le prede i legni suoi,
né meno ancor quei che s’uniron pria,
tornaro altri in Egitto, altri in Soria.

35Ond’io, che tanto i miei guerrier m’avveggio
esser mancati, in dubbio sto s’io torno
d’ond’io venni in Italia o se pur deggio
condurmi in Persia o far colà soggiorno.
Di ciò consiglio a’ miei consorti chieggio,
né fu caro a nessun di far ritorno,
ma rimaser gran parte a i traci liti
per la cura de gl’egri e de’ feriti.

36Et io con questi, e son cinquanta, elessi
venirne a te sovra ’l famoso Eufrate,
e se poca favilla or sarann’essi
dentro all’ardor di tante schiere armate,
se non pur quai guerrier, almen quai messi
delle tue mura in lor virtù salvate,
vincitori per terra e sopra l’acque,
spero devrai gradirci» e qui si tacque.

Eraclio indice uno spettacolo con belve per festeggiare (37-64)

37Eraclio allor, che fermamente intento
stat’era a quel che ’l capitano espose,
trasparendoli in volto il cor contento,
benignamente a lui così rispose:
«Quanto il debito sia conosco e sento,
per sì dure battaglie e sanguinose,
prese e vinte per noi col valor vostro,
e conservato a noi l’imperio nostro.

38Onde non pur fra i miei più cari accetto
voi de gl’acquisti a parte e dell’onore,
ma chiaramente a palesarvi aspetto
all’opportunirà con l’opre il core.
Né già poco stim’io numero eletto
che di merito abbondi e di valore,
pochi son quei che vaglion poco, e voi
valete molto», e chiuse i detti suoi.

39E per dar agio a chi languisce e geme
delle ferite, di riposo e cura,
e per diporto e per letizia insieme
delle paterne liberate mura,
e mostrar che non ei ma Cosdra teme,
e tra forti trincee si rassicura,
anzi per allettarlo a venir esso
seco a pugnar dall’umido recesso,

40di feroci animai sanguigno agone
vuol che per suo diporto il campo veggia.
E poi ch’aprì l’oriental balcone
la gelid’alba, e ’l nero ciel biancheggia,
van molti a caccia, e fan che ’l bosco suone
e si commuova ogni frondosa reggia.
Trascorre il bracco e l’inquieta pena
mostra il levrier, cui dura lassa affrena.

41De i corni al suon le generose teste
veggionsi sollevar pardi e pantere,
che di candido pel natura veste,
spargendoli di picciol macchie e nere.
Del medesimo suon le tigri deste
ne i cor feroci e sopra i piè leggiere,
rompon la selva, e rimaner più lento
fan per le valli a seguitarle il vento.

42Corre il tauro selvaggio e le gran corna
minaccian fuor del rabbuffato pelo,
che in su dal tergo alla cervice torna,
né ’l poria penetrar lancia né telo.
Verde ha l’occhio crudel, quantunque aggiorna,
di fiamma è poscia all’imbrunir del cielo;
strage è del bosco e non è tronco o sasso
che arrestar possa all’empia fera il passo.

43Corron belve infinite al suono orrendo,
misto di corni e di percosse e stridi,
e viensi il calle inusitato aprendo
a gl’ermi ombrosi e solitari lidi.
Guerra vedi e non caccia, audaci uscendo
le fere fuor de i lor nascosti nidi,
e ’l sangue macchia in cento parti il piano
mescolato il salvatico e l’umano.

44Tornan di preda e di letizia carchi
col fin del giorno i cacciator guerrieri;
suonano a i fianchi lor faretre et archi
stridono gl’animai legati e feri.
E poi tosto che l’alba il mondo scarchi
della gravezza de’ color più neri,
posti son nel teatro, ov’ogni sponda
empie la turba e desiosa inonda.

45Ampio è ’l teatro e d’ogn’intorno il serra
di contesti cipressi alto riparo,
onde non pon dalla feroce guerra
più le belve partir poiché v’entraro.
Danna gl’indugi e pur bramosa atterra
l’impaziente turba il guardo avaro,
et ecco omai che nel teatro è posto
grande elefante a gran contesa esposto.

46Et a rimpetto all’elefante immenso
non minor punto un fier rinoceronte
viene alla pugna, e, tranne l’ira e ’l senso,
muover diresti un contr’un altro monte.
Di qua spira e di là lo sdegno accenso,
visibilmente all’una e l’altra fronte,
par che ceda la terra e non sostenga
sì vaste moli e mobile divenga.

47Due volte e tre la meglio armata fera
batte col corno all’elefante il seno,
e l’apre sì con l’aspra punta e fera
ch’in sanguinoso mar cangia ’l terreno.
La proboscide allor, che quasi cera
s’arrende al corno del suo sangue pieno,
ravvolg’ei tutta, e sì tenace implica
che si rende prigion l’arme nemica.

48E l’avorio pungente al lato manco
dell’aversario e quattro volte et otto
ripercotendo e ripassando il fianco
d’acerbe piaghe orribilmente ha rotto.
Ma non vinto però, non però stanco,
né ceder vuol né vuole andar di sotto,
ma con mille rivolte e mille scosse
più crescendo il furor crescon le posse.

49Indi con violenza a sé tirando
il corno, all’elefante il laccio spezza,
e poi contr’esso iratamente urtando
piaghe non si fèr mai d’eguale asprezza.
Vansi di qua, di là dilacerando
le belve, e tale in lor fu la franchezza
ch’ambe moriro, e terminar non lice
qual si fusse di lor la vincitrice.

50Dalle bocche d’ognun lieto bisbiglio
concitò della pugna il fine atroce,
che mentre ella durò la turba il ciglio
mani non batté né risonò mai voce.
Vien poscia esposto a insanguinar l’artiglio
un possente leon grande e feroce,
et ecco ei già del concitato sdegno
dà con le branche e con la coda il segno.

51A lui contrario un corridor s’espone
che solleva la fronte alta e superba,
né freno ancor né mai sentito ha sprone
quell’indomita sua fierezza acerba.
Nessuna legge il folto crin dispone,
le vestigia indistinte il suol ne serba;
nitrisce e freme, e non sa stare a loco,
porta il vento ne’ piè, nel petto il foco.

52L’un contra l’altro audacemente intanto
corron veloci, e poi di petto dansi,
sì che mai non urtar macchine tanto
qualor la via con le rovine fansi.
Mira attonito il volgo a ciascun canto
l’acerbo assalto e i cor dubbiosi stansi,
e fissi e muti i circostanti aspetti
ferme han le luci e palpitanti i petti.

53Pria ferisce il leon, ma la ferita
la pelle a pena al corridor offende,
ond’ei però più se medesmo irrita
e più contra il leon lo sdegno accende.
La groppa ei volge e alla gran belva ardita
col ferrato suo piè risposta rende,
e percotela al fianco e da sé lunge
getta il leon, di tanta forza il giunge.

54Ma come il suo calor tosto ripiglia
fiaccola che ’l fanciullo al vento gira,
tal divenne il leon, dalle cui ciglia
vidersi balenar folgori d’ira.
Gran lancio ei spicca, e sul destrier s’appiglia,
più che penna leggier se l’aura spira,
e con doppio ferir d’unghia e di morso
lacera e sbrana al corridore il dorso.

55Così vince il leone, e già di doglia
cade il destrier nel suo sanguigno smalto,
trofeo superbo e gloriosa spoglia
di possente nemico in crudo assalto.
E ’l vincitor, qual trionfante soglia,
scorre l’ampio teatro a salto a salto,
e con atto di scherno e di disprezzo
si ferma e guata il perditor da sezzo.

56Ne’ circostanti cavalier pietade
destò di sé quel corridore estinto,
animal che tra l’aste e tra le spade
a servir l’uomo è per natura accinto,
e per cui spesso combattendo accade
tener la palma il vincitor del vinto;
onde a ragione universal favore
traea da i cavalieri il corridore.

57Ciò veggendo Volturno, acciò ch’altero
di lui più molto il fier leon non reste,
prende un scudo suo composto e nero
di zolfo e pece, e in lui le fiamme ha deste,
e se ne va folgoreggiante e fero
dove ’l morto destrier l’arene ha peste,
per vendicarlo entro ’l racchiuso loco
sol con la spada e lo spirante foco.

58Ciò veggendo il leon, che per natura
teme le fiamme, o ’l nuovo mostro sia
dall’acceso fulgor fredda paura
per ogni vena in mezzo al cor s’invia,
e qual timido can che l’esca fura
soprapreso da altrui fugge e va via,
chinato e ratto e palpitante i polsi
e pria del colpo impaurito duolsi,

59così fugge il leone, onde col foco
più l’incalza Volturno, e lo respinge
fino all’ultima sponda a poco a poco,
dove poi nel suo sen la spada spinge,
che, giungendoli al cor per più d’un loco,
di purpureo color l’arena tinge,
ond’ei ne muore, alfin caduto, e insieme
mancan gl’ultimi moti e l’aure estreme.

60Dalle spalle superbe il capo trunca
Volturno, e lascia il freddo busto esangue,
spaventosa ancor morta, e l’unghia adunca
qual reciso s’aborre in terra l’angue.
E prendendo con man la testa trunca
per lo folto suo crin tinto di sangue,
vincitor glorioso e trionfante
vanne con essa al sommo duce avante.

61Ciascun gl’applaude e in favorevol festa
suo feroce trofeo ciascuno mira,
chi lui riguarda e chi l’incisa testa,
chi dello scudo suo gl’incendi mira,
e d’ogni lingua alle sue lodi desta
trascorre l’aura popolare e spira.
A sé Cesare il chiama e di corona
d’odorifero mirto l’incorona.

62Ma destinati a quel teatro ancora
restan molti animali, e intanto il sole,
calando opposto a i regni dell’aurora,
chiuder nell’ocean suo carro vuole,
e ’l ciel tiepido fatto omai ristora
l’erbe con le rugiade e le viole,
e dal campo rimena a lenti passi
l’arator polveroso i buoi già lassi.

63Cesare allor fa nel teatro insieme
tutte confusamente entrar le fere.
Vario è ’l sembiante e differente ’l seme,
e traspaiono in lor l’anime altere.
Chi vien, chi va, chi si rabuffa o freme,
chi rugge o cozza e chi minaccia o fère.
Assordan l’aria e le montagne e i liti
latrati e mugli e fremiti e ruggiti.

64Onde dal variar di mille morti
di ben mille animai superbi e feri,
traggon lieto diletto i petti forti
de’ magnanimi duci e de’ guerrieri;
e pare a lor che innanzi tempo porti
l’umida notte i suoi color più neri,
et incolpano il sol che sì repente
tuffi il lucido carro in Occidente.

Erinta riconosce Domete e lo denuncia, Eraclio consente che il popolo lo giustizi: viene dato in pasto alle belve (65-72)

65Non lungi intanto alla guerriera Erinta
mirando stava il traditor Domete,
quel che l’avea contra il suo campo spinta
per le tenebre già notturne e chete,
allor che d’oppio il frodolente avvinta
avea la guardia e seppellita in Lete,
e lo scudo del Ciel con l’empie mani
portò furato a i padiglion pagani.

66La costui fellonia fin qui celata
da lui sì fu che sconosciuto ei resta,
quantunque pure ultimamente nata
ne sia qualch’ombra in quella mente e ’n questa.
Volgesi a caso la guerriera e ’l guata
due volte e tre nella malvagia testa,
e al pallor, allo sguardo, all’atto espresso
conosce alfin che ’l traditore è desso.

67E nel petto magnanimo repente
arder sentendo un generoso sdegno,
corre e dagli di piglio immantinente
traendol fuor d’eccelso loco e degno,
e portal, come suol preda stridente
aquila altera, in vèr l’etereo regno,
et all’imperator quell’infelice
present’ella d’avanti e così dice:

68«Quest’è costui che, quasi indegna e nera
cornice rea tra candide colombe,
nemico e traditor della sua schiera
seguita i tuoi stendardi e le tue trombe,
e copre sì la sua malizia fera
che pure un grido sol non ne rimbombe.
Quest’è colui che va di notte e tolle
lo scudo a te che Dio mandar ti volle.

69E ’l porta a Cosdra, et è da lui raccolto,
e ’l campo tuo per le sue man tradito,
ond’egli poi nel cieco sonno avvolto
fu per opera sua nudo assalito.
Ravvisato ho ben io l’infame volto
né fia già l’empio a contradirmi ardito,
e vo’ punir, se mel concedi, in lui
mille sue colpe ond’egli offese altrui».

70A questi detti il misero tremante
più che in foce di rio palustre canna,
non può risposta proferir sonante
ma nelle fauci ogni suo detto appanna,
e col silenzio, a danno suo parlante,
confuso e tristo il suo fallir condanna,
e di morte dipinto e di terrore
né sa negar né confessar l’errore.

71E vilmente il fellone alfin si volta
con preghi e pianti a dimandar mercede,
ma non piegasi Eraclio e non l’ascolta
ché non trova perdon colpa di fede.
Corre la turba e strepitosa e folta
con alte strida il suo castigo chiede;
consente Augusto alle dimande e l’empio
lascia al popolo in preda a farne scempio.

72E dicendo ad Erinta: «A te non caglia
che t’imbratti le man sangue sì vile,
ma la serba ad oprar nella battaglia
con degne prove all’altre tue simile».
Et ecco il popol tutto in lui si scaglia,
che nulla ha più d’accorto o di virile,
ma sembra anzi che senta alcun suo danno,
morto dalla sciagura e dall’affanno.

73La turba irata infra l’irate fere
senza più indugio allora allora il getta,
ond’ei medesmo alle tradite schiere
lo spettacolo adempie e la vendetta.
E così fa la strage sua vedere
che se l’ira di Dio non cade in fretta,
differendo talor per ch’uom si penta,
più amara vien poi quanto più lenta.