ARGOMENTO
Erminia, mentre al suo Tancredi cura
pieghe letal, resta piagata il core,
e ne la presa de le sante mura
salvata Ermanno Altea da ostil furore;
accusat’è, da chi infedel lo giura;
Buglion l’assolve, e ’l fa di lei signore;
e ’l consiglio de suoi indi adunato,
re di Gierusalem vien coronato.
Goffredo fa curare i feriti e riposare l’esercito (1-4)
1Già le pie cerimonie eran fornite
del maggior duce e de’ guerrier più degni,
e le genti che fur con loro unite
a l’opra or, poste giù l’arme e gli sdegni,
senza aspettar che segno o suon l’invite,
dan di vera pietà non bassi segni:
ciascun piange, e nel pianto allegre voglie
mostra, e la tomba adora e ’l voto scioglie.
2Ratto correndo il sol fea mostra intanto
di voler co’ destrier nel mar tuffarsi;
e fra modesto gaudio e lieto pianto,
invita l’ombra omai tutti a ritrarsi.
Torna Goffredo co’ migliori a canto,
ch’invita seco quella notte a starsi;
seco gli accoglie a mensa et al fin posa
fin che di novo appar la luce ascosa.
3Nel dì seguente a più tranquilli uffici
le genti impiega il capitano invitto,
e i corpi sepellir fa de gli amici
che perìr ne l’assalto e nel conflitto;
e in catasta bruciar quei de’ nemici
che per gloria di lui venner d’Egitto,
per vietar che dal puzzo infetta l’aria
a chi vivo riman sia poi contraria.
4Poi, perché de’ feriti egri e languenti
esser gran copia in ogni parte mira,
e perché convertire i lor tormenti,
qual sua pietà ricerca, in gioia aspira,
e vuol che da’ disagi e da gli stenti
s’erga chi per la guerra ancor sospira,
per nove dì riposo alto e felice
a i suoi guerrieri il capitano indice.
Erminia cura Tancredi e tacitamente mostra di esserne innamorata, decide di affidare la propria ambasciata a Vafrino (5-22)
5Al buon Tancredi intanto Erminia bella
le piaghe acerbe risanar procura,
e, mentre minor viene or questa or quella,
ché già non vive in sé, la sua non cura.
Son le piaghe di lui per lei quadrella
ch’ella ognor tratta, e nel suo mal s’indura
sì che mentre a l’altrui salute intende
più vien piagata e men suo mal sorprende.
6Ebra del bene altrui se stessa oblia,
o, se pur non s’oblia, se stessa sprezza.
– Deh, rendi Amor – dicea – qual era pria
questa pelle, e ’l mio cor ferisci e spezza;
sana a l’amato ogni aspra piaga e ria,
con la tua mano a sanar piaghe avvezza.
Pur ch’io veggia robusto e san Tancredi,
Amor, me quanto vuoi col dardo fiedi.
7Et oh felice e non indarno serva
del tuo regno s’in premio io ne riporto
che de l’alta cagion perch’io sì il serva
sia per te fatto il mio signor accorto,
sì che ’n lui non ingrato il desio serva
per me, ch’in me per lui fors’egli ha scorto,
che ben verrà ch’ogni mio duol s’appaghi
se mentre io ’l sano fuor tu dentro il piaghi.
8Piagal tu mentr’io ’l sano, e non ti caglia,
né già caler te ’n dèe, di sua salute,
ché s’ho medica man che sanar vaglia
fatte da crudel ferro ampie ferute
ben avrò cor che s’erga e ’n pregio saglia
di sanar piaghe ascose inconosciute.
Pronta e mesta or il sano, allegra e pronta
sanar il vo’ se la tua man l’affronta -.
9Così tacita parla, e l’altro vede
silenzio in lei ch’alte parole copre;
pur non s’oppone ancor al ver, ma crede
l’opre d’amor di gratitudine opre.
E per quanto per lei già fece ha fede
che grata sì ma non amante adopre.
Ah sei Tancredi e non conosci ancora
come fiamma del cor si mostri fuora?
10Deh, come mal si cela amor che sciolto
fuor vago vola, e pur dentro si ferma?
La rimira Tancredi e nel bel volto
tien l’una e l’altra sua pupilla ferma,
e vede intorno a’ due bei lumi accolto
vago umor di cristallo, e de l’inferma
mente quasi presago al suo partire
sol si raccoglie, e così prende a dire:
11«Misera Erminia, or quai pensier, quai segni
mal cauta copri, e dotta in van palesi?
Tu sola forse i viperini sdegni
non sai, con cui me stesso in altro offesi?
Com’esser può ch’amarmi Amor t’insegni,
s’udisti mai di qual furor m’accesi
contra l’amata donna? e perché tanto
se ’l sai t’arrischi, e non ne temi il pianto?
12Tu del destino altrui l’orme sanguigne
semplicetta non temi? O vuoi ch’ancora
infeste a gli amor miei furie maligne
mi traggan sì dal camin dritto fuora,
che ’l ferro mio, che volentier si tigne
nel sangue amico, opri ch’ancor tu mòra,
e fia la man crudel due volte, e fia
crudel due volte l’empia voglia mia?
13Ah non fia ver che quando in te pur cresca
sì quel desio che ’n te veder mi pare
far amor non potrà che di nuov’esca
de la sua mensa voglia il cor cibare.
Senza amor viver voglio, e non t’incresca
ch’io schivi pene dolorose amare,
e te sottragga al fier periglio e rio
ch’io porto meco ognor dal fato mio.
14S’a novo amor volessi, a nove cure
donarmi, ancor che mal mi si convegna,
e di novo soffrir pene sì dure,
tu forse sola or ne saresti degna,
e tu sola potresti altre punture
far nel mio cor, ch’ora le sprezza e sdegna,
e ’n fiamma nova accender le mie voglie
sola dovresti et ammorzar le doglie.
15Ma vo’, prima che il ciel mi neghi il sole
e che la terra sostenermi neghi,
che morte prima l’aura e ’l dì m’invole
ch’a desir novo, a novo amor mi pieghi.
Prima, Amor, che mai più ne le tue scole
io torni, o ch’altro laccio il cor mi leghi,
l’ombre oscure d’Averno e la profonda
notte del pianto entro al suo sen m’asconda.
16Quella ch’a l’amor suo prima mi volse
rapimmi il core, e viva ognor se ’l tenne,
che fuor di lei viver mai più non volse,
né mai tornar nel seggio suo sostenne;
ella seco il portò, con lei si sciolse
da’ vivi, e saggio alcun mia vita dienne.
Ella entro al sasso amato il serbi et ivi
m’aspetti infin che ’l Ciel mi tolga a’ vivi».
17Così quel tempo di quiete i due
con pensieri inquieti i dì menaro;
differenti inquieti: una le sue
fiamme fomenta in sen, l’altro d’amaro
amar fugge l’insidie. Egli, che fue
egro, va già co’ più feroci al paro,
e le già tarde membra alto solleva
ma il non veduto mal più altra aggreva.
18Cerva ferita è tal, cui tolse in caccia
di mira e colse il poderoso arciero,
che col corso s’inselva et a la traccia
si fura, ove men fia trito il sentiero,
colà sempre mirando ove la caccia
doglia e timor di novo colpo fiero,
e col fuggir di doppio duol s’affanna,
che ’l fianco ascosa ancor serba la canna.
19Qual in campo talor largo si mira
di verdi giunchi alta palude piena,
che s’Austro incontro a Borea accesa d’ira
orribil suon per l’aria aggira e mena,
tutti gli scote l’uno e gli raggira,
e piega l’altro, e tornan dritti a pena,
ché da l’altro respinti al basso vanno,
e sempre in moto e sempre in piega stanno,
20così nel petto suo pensier diversi
s’ergon dubbiosi, e frali tutti e infermi,
che, quasi in stagno di dolore immersi,
far non sanno a la tema o al dubbio schermi,
ma come vien che l’uno o l’altro versi
il suo furore in lor, mai fermi
non ponno stare, e l’un l’altro percote,
e l’altro sprezza l’un mentre lo scote.
21Ma vede al fin che trarre al fin sue voglie
non potrà mai, se sempre ella le tace.
Fren di vergogna il discoprir le toglie
a chi spegner potria d’Amor la face;
ma s’ella non l’allenta o non lo scioglie
sperar non può la sua bramata pace.
Pensa, e dopo star molto a capo chino,
risolve che per lei parli Vafrino.
22Lui trova, a lui la cura e ’l carco impone,
che con bei modi il suo signore informe
quanto soffre per lui; seco compone,
ché sa ben quanto ei sa, diverse forme:
preghi, essorti, dimandi il guiderdone
(s’altro non vuol) d’aver seguito l’orme
di lui, d’aver con man pietosa e forte
toltol di mano a la vicina morte.
Goffredo deve dirimiere una controversia tra due cristiani, Tazio e Ermanno, che durante il saccheggio della città sono venuti a duello (23-62)
23Non però tutti il capitano in questi
giorni d’ozio ne l’ozio i dì ne mena,
ché se vuol che non sieno altrui molesti,
talor prende ei per sé riposo a pena.
Membra il fatto e divisa i primi onesti
a i forti; opre qualcun degne di pena
narra di chi l’offese. Or viene a lui
Tazio ad accelerar la pena altrui.
24Tazio, che ’l dì che di Sion le porte
al purpureo vessillo aperte furo,
colpa di cieco error, vicino a morte
corse quand’esser più credea sicuro,
ché ’l trasse ad espugnar nemica sorte
d’acuto occhio d’Amor guardato muro,
e quasi oppresso vi rimase; or chiede
ne l’offensor vendetta, in sé mercede.
25Fra quei ch’insieme uscìr quando il tiranno
da forze occulte assicurar si volle,
partì scontento il giovanetto Ermanno,
cui pelo ancor non copre il volto molle;
teme il periglio altrui, piagne il suo danno,
e in sì mesto sembiante indi si tolle,
ch’ogn’alma può, benché gioconda e lieta,
solo a veder intenerir di pieta.
26Ricco e nobil di sangue a l’or vivea
fra quanti in sé Gierusalemme accoglie
un ch’in Etruria per sua patria Alfea
ebbe, uom di sagge et onorate voglie,
ch’acquistando di lei per figlia Altea
pianta molt’anni prima avea la moglie,
et egli stesso fea nutrir la figlia,
ch’è già cresciuta e bella a meraviglia.
27N’arse fin da fanciullo Ermanno, et ella
se n’accorse; il gradì, cambiollo a pieno.
S’accese in pari etate egual facella,
chiusero ambi i lor petti egual veleno;
velen dolce d’amor, cui lieta stella
lor distillò soavemente in seno
l’alme, commune il mal, commune il bene
sempre gustaro, e commun tema e spene.
28Un istesso camin fan due desiri,
anzi pur due camini un desir solo,
che s’ambo spingon fuora i lor sospiri,
per farli andar nel ben bramato a volo,
pur da questi e da quei non vien che spiri
fuor che brama d’amor, fede di duolo;
ma s’escon fuor d’un petto han per confine
l’altro, e gli altri ne l’uno hanno il suo fine.
29Cangian l’anime albergo, e ben s’accorge
l’una de l’altra, e nel suo essilio gode,
ch’ad ambe il cambio alto guadagno porge,
ambe par che l’essilio insieme annode.
Invisibil viaggio, e pur si scorge
d’ambe il partir, ch’ad ambe Amor sue frode
scopre, e par ch’ei trionfi in far che sciolte
sien dal suo petto e ne l’altrui raccolte.
30E ben possono spesso a questo gioco
ambi tornar, dove in due cor si mira
la fiamma alzarsi e star sopito il foco
mentre insieme si tace e si sospira;
che lor non vieta in un medesmo loco
trovarsi il Ciel, che lor benigno aspira,
che, com’ella era nato in quella guisa,
ma di padre tedesco, Ermanno in Pisa.
31Tanto lor lice, e lor può ben sol tanto
bastar dove onestate Amor contempre;
onestà che d’amor lucido manto,
come no ’l copre mai, lo vela sempre.
Han sospirato sì ma non han pianto
fin qui, ché fin qui fur dolci le tempre.
Speme accrebbe il piacer, ma bene il tolse
lor gelosia, che parte aver vi volse.
32Anzi, e questo lor più la gioia accresce,
co ’l padre Ermanno ha già mosso parole
d’averla in moglie, e sol dove riesce
il moto, onde la terra ora si dole,
aspetta; e ’l sa la figlia, e ’n tanto cresce
da la speme l’ardor, che, come suole
Amor ne’ cori a sé devoti, infiamma
intanto i due d’una medesma fiamma.
33Era in colmo la speme e ’l piacer seco,
quando un giorno fra gli altri Ermanno giugne
guidato dal fanciullo ignudo e cieco
là dov’un guardo ’l pugne, un volto l’ugne;
et era me’ per lui che ’n cavo speco
quel dì secondo s’involasse a l’ugne
de l’invidioso mostro, il cui furore
non più provato, il fe’ provar dolore.
34Arriva a punto in quel ch’indi partire
cara amica d’Altea da lei s’appresta
bella compagna sua, con cui partire
l’opre suole, i pensieri e l’ore; a questa
dopo lei s’inchin’egli, del suo gire
fa sembiante d’aver l’anima mesta,
che così vuol da lei coprirsi o vuole
splender di cortesia presso al suo sole.
35Larga trova l’entrata il mostro orrendo
di qui, ch’altronde mai prima non l’ebbe.
Qual serpe in mezzo a i fiori andò scorrendo
dentro al bel seno, e in tal grandezza crebbe
in un volger di ciglia, oltre porgendo
freddo velen, che l’alma ascoso bebbe,
moti alzando di sdegno alti e sublimi,
ch’agghiacciò il mar di quei diletti primi.
36Parte una e restan due, l’una in se stessa
mutata e l’altra al suo mutarsi un ghiaccio,
che se ben co ’l pensiero ei non s’appressa
a spiar la cagion del novo impaccio,
pur gl’insegna a temere amor ch’ad essa
lasci libera l’alma il caro laccio,
ch’ambi in voglie conformi ognor gli strinse
e, disgiunti di fuor, dentro gli cinse.
37Già de la voce al suon, de gli occhi al guardo
il soave e ’l seren non ode o vede,
mesto e dimesso è l’un, severo e tardo
l’altra sì ch’ad Ermanno il cor ne fiede.
Pensa, e in sé dice quel a che bugiardo
esser vorrebbe, e lo riprova e ’l crede.
Ben conosce ch’o sdegno o doglia acerba
la nobil figlia entro al bel sen riserba.
38Sdegno non ha, come né sdegno puollo
pensar, ch’ei già non sa d’averla offesa.
Vuol, per levar a lei la pena al collo,
ogni giogo portare, ad ogni impresa
esporsi, ancor che dar l’ultimo crollo
debba, o per ferro acuto o fiamma accesa.
Par ch’ella allegri il cor, sereni il ciglio
ogni strazio in lui torni, ogni periglio.
39Osserva cauto il tempo, in cui sicuro
parli, ond’altri no ’l noti e non l’ascolti,
e le dice: «Qual mal è così duro
ch’entro a nembo d’affanno or tien sepolti
i bei lumi sereni? Al cielo io giuro
ogni opra far ché non vi stieno involti.
Dicamisi da te, per me si faccia,
quant’osa un cor ciò che ’l pensier abbraccia».
40«Degna offerta di te, c’hai sempre in uso
molto voler (dic’ella) e molto puoi.
Serba quel c’hai promesso; io chiedo escluso
sia sempre il nome mio da i detti tuoi;
non dir mai più d’amarmi». Egli confuso
resta in udir gli ultimi detti suoi,
ch’in atto tal parlare egli la mira
che ’l pianto asconde e manifesta l’ira.
41Non fece d’uom giamai sasso Medusa
col morto viso e ’l viperin capello,
com’or costei col dire, e sì confusa
n’ha la mente il garzon che puoi vedello
non trar fiato dal petto, e se l’accusa,
udisse almeno ond’ella afflitto fello,
onde il danno li vien: potrebbe almeno
di quel ch’ei non errò scusarsi a pieno.
42Tal ei riman; poi qui dimora un poco
e va, senza spiare il suo pensiero,
ché non li dà la turba agio né loco
di poterne da lei cercare il vero.
Ma chiede prima in suon tremante e fioco
umil congedo, e vinto; e prigioniero
mentre ei parte, «Riman» le rispond’ella,
quasi a posto in non cale e sua rubella.
43Venne intanto la nova entro la terra
che lo stuol franco viene, e ’l suo disegno,
onde Aladin ch’ogn’uom atto a la guerra
cristian se n’esca vuol, con cauto sdegno.
Quivi il padre d’Altea nel petto serra
pensier diversi, e van tutti ad un segno,
d’assicurar, poi ch’ir convienli fuore,
de la figliuola il virginale onore.
44Donna pagana è qui ch’obligo molto
aveva a lui, per beneficio antico
d’avere in Pisa appresso a sé raccolto
il figlio suo, che stuol cristian nemico
preso, vendello a lui; da lui disciolto
e posto in libertà qual caro amico
il tenne, e dopo cinque mesi o sei
lasciò cortese ritornarlo a lei.
45Questa, quand’egli poi del proprio lido
essule di fermar ivi s’elesse,
fe’ parerli Sion soave nido,
che vita al figlio e libertà concesse.
Pronta ne l’opre e ’l cor mai sempre fido
mostrolli, e ’l grato suo voler gli espresse
a mille segni, e in lei ben aver fede
può come in chi con lui l’istesso crede.
46Con prudente consiglio il padre avvisa
che può la figlia star con lei sicura,
che succedendo in qual si voglia guisa
la guerra, o stieno o sien prese le mura,
ben sarà che da lei non sia divisa,
sì nella sua bontà si rassicura
ch’o fia con lei, se la città non cade,
salva, o per lui s’anco il contrario accade.
47A lei ne viene e prega e piega a un punto,
donna ch’è pronta a le sue giuste voglie;
già del partire il termine era giunto,
e già seco la figlia in casa accoglie.
Ermanno il tutto sa (chi d’un sol punto
celar puossi a l’amante?), onde si toglie
indi sì mesto, e al primo danno aggiugne
l’assenza, e l’uno e l’altra il cor li pugne.
48Tema e dolor n’ebbe al partir compagni,
zelo e cura v’aggiunse al suo ritorno.
E se ben crede ch’ella ancor si lagni
di lui, come mostrò l’ultimo giorno
ch’ei seco fu, pur spera ancor che bagni
con l’acqua di pietà quel core intorno
santa fede, e qual prima a lui lo renda
amor di novo, e ’l foco suo v’accenda.
49Nutrì il sen giovenil pensier cotale
infin che ’l dì da Dio prescritto venne
d’espugnar l’alte mura, e ’l generale
ultimo assalto la città sostenne.
Entrò co’ primi in schiera, e di mortale
colpo o periglio mai cura non tenne,
fin ch’espugnato il muro, al muro il tergo
non volse, e drizzò il corso al caro albergo.
50Van gli altri ove del sangue o pur de l’oro
gli trae la sete inanzi a incrudelire,
a portar ne i nocenti aspro martoro,
e vendicar gli oltraggi e sfogar l’ire.
Ei sol di sangue sprezza e di tesoro
sparger laghi over le mani empire,
pur ch’egli salvi ad una sola il tutto
empian gli altri sé d’oro, altrui di lutto.
51Caval cui lungo tempo a freno il morso
abbia tenuto e senta al fin lo sprone
non suol tanto leggier mover al corso
come in quel punto il nobile garzone.
Ale giugne a le piante, e ben ch’al dorso
abbia l’arme, no ’l sente, e si dispone
di non girare in altra parte il piede
fin ch’in altri i suoi rischi egli non vede.
52Sa dove fu lasciata, e se del pio
stuolo innanzi vi giunge armata gente
teme ch’ignota a i cavalier di Dio
non pata oltraggio, ov’ei non sia presente;
tanto più che cader di colpo rio
vide morto a le mura il suo parente.
Consiglia amor fra l’arme e persuade
pietà ne i cor fra l’ire e fra le spade.
53Corre, e precorre quei ch’a un tempo stesso
seco passaro, e dal medesmo loco
Tazio non già co’ suoi, che più d’appresso
entrato giugne, e già prepara il foco
per espugnar le porte, e volto ad esso
«Ferma,» disse «Signor, deh frena un poco
l’impeto e l’arme tue, che qui non puoi
giustamente sfogar gli sdegni tuoi.
54Benché queste sien vie dove non suole
gente abitar, se non di fede priva,
tal qui dentro si cela a cui le scole
di Dio mostràr la vera luce e viva».
Non ascolta egli più le sue parole
che ’l vento fan gli scogli al mare in riva.
Pur gli replica l’altro, et egli pure
par che del suo parlar nulla si cure.
55Quei segue innanzi, e mentre i suoi conforta
porge speranza lor d’alte rapine.
Già sono insieme a la serrata porta
co ’l foco, e già son pronti a le ruine.
A l’altro, poi ch’una vil voglia e torta
scorge ch’ei cerca trarre ingordo al fine,
e l’ostinato suo voler comprende,
sdegno degno d’uom forte il core accende.
56Ad un di quei che l’accensibil esca
portan dà d’urto, e steso in terra il pone.
Poi, perché la lor opra in van riesca,
fra loro e ’l muro ardito ei s’interpone,
e volge a tutti il viso, e che rincresca
vuol questo ardir a tutti, et al campione
che gli altri essorta con parole, grida:
«Vien tu, che sei de gli altri a l’opra guida.
57Io quel tetto difendo, e qua non voglio
ch’alcuno osi portar dannosa guerra».
«Chi sei tu (dice Tazio) e quanto orgoglio
mostri in favor de l’espugnata terra?».
E verso lui, che qual marino scoglio
fermo non pave, irato ei si disserra;
e crede farlo anco in un colpo o due
pentir d’essersi opposto a l’arme sue.
58Mena di punta, e quello oppon lo scudo
al colpo e ’l fugge, e lui percote in fronte.
Quel piega un de’ ginocchi e resta nudo
la spalla destra, mentre ei crede l’onte
vendicar, che di nuovo un colpo crudo
mena, che far potea cader un monte,
e vi lascia gran piaga, e in volto irato
l’urta, e per terra il fa cader piagato.
59Che faran gli altri? Un cade a terra estinto,
un piagato nel fianco, e duo storditi.
I non offesi a vendicar il vinto
non par che bastin più, né sono arditi
spingersi contra Ermanno, il quale accinto
ne l’arme a pugna sol gli aspetta uniti.
Ma poi ch’egli ha il timor di pace in atto
fermo, egli ancor s’è indietro al fin ritratto.
60«Vivo o morto ch’ei sia, portate dove
più v’aggrada il signor che vi fu guida,
fuggendo ingiuste e temerarie prove,
ch’in voi pari al pensier valor s’annida».
Sì parla; essi a colui che non si muove,
pria ch’alto intoppo l’opra lor precida,
di sua vita dubbiosi oltra ne vanno
e ’l portan via, né dove ancor ben sanno.
61Dal custodito albergo il vincitore
partir non vuole, altro tentar non osa.
L’altro ch’ebbe con lui sorte peggiore
di non giusta contesa e perigliosa,
colà passa portato ove il maggiore
sforzo correndo omai vince ogni cosa;
nel capitan s’avviene, e chi l’ha offeso
intende, e vuol che sia trovato e preso.
62Preso fu, ma tant’ebbe amica sorte
al suo nobil pensier ch’ei vide prima
l’arme cessar del sangue, e giù la morte
por la falce sanguigna oltra ogni stima.
Et a lui sol si vieta oltra le porte
di real casa uscir, né posto in ima
parte di carcer tetro ascosto giace,
ma né qui trova al suo cordoglio pace.
Altea, amata di Ermanno, lo scagiona dalle infondate accuse di Tazio (63-73)
63Questa dunque in tai giorni è la cagione
che Tazio già risorto inanzi fassi,
e mostrando i suoi danni al pio Buglione
chiede che l’offensore egli non lassi
senza castigo; e tanto fa che pone
in sospetto il garzon ch’ei gli vietassi
in pro di tanta gente infida oprar la spada,
e che sia infido e sconosciuto vada.
64Del padre il caso intanto e del fedele
odiato suo sente il periglio grave;
piagne quel, com’è giusto, e sé crudele
chiama per l’altro, e più timor non have
Altea, ch’altro fuor mostri et altro cele
nel cor, già che per lei rischio non pave,
e si pente e ved’ora per prova certa
che di sua grazia privo esser non merta.
65Molto discorre e poscia a la cortese
ospite il suo parlar la figlia volve,
e l’obligo e ’l pensier le fa palese
a cui per grato ufficio ella si volve.
N’è lodata, e vanno ambe ove l’offese
udendo, il capitan danna et assolve.
Passa ove l’aversario il fatto accresce,
e ’n danno altrui col vero il falso mesce.
66Giugne, sente e s’avvede aver l’offeso
cose nel petto al capitano impresse
che contra Ermanno l’han di sdegno acceso,
sì con l’arte colui tutte l’espresse,
onde ne sente al cor sì grave peso
che tal giamai cor feminil non presse.
Ma poi ch’ei tacque in un modesta e ardita,
prega et ottien d’essere anche’alla udita.
67«Non è, signor, sotto altro nome ascosto
core infedele come costui tel finge,
né ’l reo, ch’a lui s’è giustamente opposto,
e laccio ingiusto è il suo se pur lo stringe.
Ben fu degna cagion, ben saprai tosto
tutto il fatto da me, ch’a ciò m’astringe
oltre al debito antico obligo novo,
in cui per cotal fatto oggi mi trovo.
68Queste, onde mover te cerca a pietade
piaghe son ch’egli stesso andò cercando.
Irritò l’altrui sdegno, e feritade
mostrò nel fallo, et, ammonito, errando
creder non volse, e le lodate strade
sprezzò d’onore, e diede al dritto bando:
punir empi dovea con l’arme e volle
spingerle in me, temerario e folle.
69In me che son fedele et ho del padre
morto in servizio tuo molle anco il viso.
E chi pronto da man rapaci e ladre
salvommi, or fia come rebel conquiso?
A me se valse un sol per mille squadre
giusto non è che ’l suo pietoso avviso
li nuoca, e par ch’anco il dover comporte
che s’ho perduto il padre abbia il consorte».
70E seguendo il parlar sua ragion disse
sì ben che fenne il capitan capace.
Dal principio a la fin gli espose e fisse
pensier nel petto suo saldo e tenace
ch’Ermanno ebbe ragione e che le risse
sien sopite, e fra lor tranquilla pace
vuol che segua, e ’l comanda, e sì corregge
l’altro ch’accetta il voler suo per legge.
71E chiamato il garzon, che non lontano
costante in sé l’altrui giudicio attende,
né de l’opera il cor de la sua mano
si pente, sì ch’in parte il fallo emende,
ma vede starsi innanzi al capitano
l’irata sua che ’l mira e che ’l difende,
stupore a l’or, gioia, diletto e speme
gli strinser l’alma e l’ingombraro insieme.
72Ma come inteso poi quel ch’è seguito
ebbe dal pio Buglion, si trasse avanti,
e tal mostrossi al cavalier ferito
cortese in volto e placido in sembianti
che conobbe suo errore, e seco unito
esser gli piacque d’amicizia, e tanti
segni ne diè ch’ormai più non s’ha tema
ch’odio contra di lui nel petto il prema.
73Ma quel ch’appaga ogni passato oltraggio,
di fortuna e d’amor grave e noioso,
è che del chiaro viso il chiaro raggio
già libero contempla et è già sposo,
e levar puote in parte a lei, che ’l saggio
aviso prese, il suo stato angoscioso,
anzi in tutto sopirlo, e i dì far lieti
senza ch’altro accidente omai gliel vieti.
Al nono giorno Goffredo ringrazia il Signore (74-82)
74Ma già l’aurora nona allegra uscendo
portava il giorno e ne spargeva i monti,
che, con l’oro di lei vaghi mescendo
i suoi color, più belle avean le fronti,
e l’uscio del sol con le sue mani aprendo
teneano il carro l’Ore e i destrier pronti,
quando le trombe udir Goffredo fece,
ch’oltre a quel giorno a’ suoi posar non lece.
75L’arme e gli animi in punto abbian le schiere,
e sien pronti ad unirle i lor famosi,
sì che di poi come il bisogno chiere
l’oste fedel di Dio sudi o riposi,
ché cagion sempre nova ha di temere
o guerre aperte o insidie e danni ascosi
chi vinse, e s’ei s’estolle al vinto porge
agio onde poi più fier contra gli sorge.
76Nel dì seguente poi, perché già vòle
i suoi primi a consiglio il duca accolti,
lascia i riposi e sorge al par col sole,
et al gran Sol s’inchina, e in lui rivolti
i suoi pensier, come ne l’altro suole
talor l’aquila gli occhi, i preghi sciolti
manda fuor da la lingua, e prega e rende
grazie per doni, e tutto in Dio s’accende.
77«Signor, tu che da l’empie ingiuste mani
togliesti il popol tuo del re d’Egitto,
dando ne’ larghi a lui liquidi piani
de l’instabil camin fermo tragitto,
e d’esserciti fieri et inumani
vincer con pochi in questo e ’n quel conflitto,
sei quel ch’a’ miei, ch’a me desti vittoria:
nostri son questi frutti e tua la gloria.
78Nostri son questi frutti, e Tu de l’empio
popol per nostra man vittoria avesti.
Tu rompesti le mura e Tu del tempio
gl’idoli falsi e ’l culto empio togliesti;
tua bontà fu che de’ nemici scempio
fece co ’l nostro ferro, e Tu tenesti
sopra i fedeli tuoi celeste scudo
ne l’ardor de la guerra acerbo e crudo.
79Tue son dunque le prede e sono i regni
debiti a te; Tu conservar gli puoi
più che le nostre forze e i nostri ingegni,
ch’oprano in van senza gli aiuti tuoi.
Agitati dal mar sdrusciti legni
senza l’aiuto tuo siam qua giù noi,
onde a ragione in Te recar si deve
quanto di buono in terra uomo riceve.
80A Te renderne grazie, a Te devoti
il ginocchio piegar, giunger le palme,
e in testimon del buon volere i voti
sciogliere a te, quasi onorate salme.
Troppo eccelsi per noi, son troppo noti
i doni tuoi ch’a te rapiscon l’alme;
né Tu per altro in noi gli spargi e versi,
che per tenerci nel tuo amore immersi.
81Or Tu, cui me chiamar primo fra tanti
piacque, de la tua grazia anco mi degna.
Non torca il piè dal dritto e non mi vanti
ne l’opre: Tu mi reggi e Tu m’insegna.
E, meco, a gli altri ancor sì che fra quanto
qui sono, il suon del tuo voler ne vegna.
Tu de le tue vittorie il don rimira,
e come usar si debba in tutti spira».
82Ciò detto tacque, e di sì novo lume
nova grazia spirar sentissi al core,
ch’a gli occhi quasi abondar fece un fiume
d’esterno pianto, interno alto dolciore.
Lo ritien, sorge e serba il suo costume,
ma novo il cinge insolito splendore
che l’accompagna ovunque il passo gira,
e via più ch’uom il vede ogn’uom che ’l mira.
Convoca il consiglio e rassegna il titolo di comandante, e suggerisce la creazione di un governo per il nuovo regno (83-96)
83Ne viene in larga sala, ove s’aduna
or quel principe or questo al suo cospetto,
pronti tutti al suo cenno; et or da l’una
parte or da l’altra il bel numero eletto
compare, e già senza dimora alcuna
di nessun più si brama il caro aspetto.
Trionfante consiglio in lieto giorno
tacito siede al pio Buglione intorno.
84Ma già non posa in seggio alto e sublime,
e, quai son gli altri, a lui d’averlo basta,
ché sa quanto se stesso abbassa a l’ime
parti chi gonfio in dignità sovrasta.
Ma, così ancor, di riverenza imprime
i petti altrui, ch’a pura mente e casta
dassi splendor nel volto, e mostrar fuori
maestà che n’ombreggi i bei colori.
85Tre volte e quattro il riverito sguardo
in quei famosi eroi grave girando,
tre volte e quattro in sé l’accolse, e tardo
queto in tutti fermollo, e poscia quando
gli occhi conobbe in sé d’ogni gagliardo
rivolti, diede a quel silenzio bando,
saggio allargando a le parole il freno
che tali udirle tutti uscir dal seno:
86«Principi eletti in Ciel per fare acquisto
di queste mura in terra a Dio dilette,
e per alzar devoti tempi a Cristo
qui dove fur tante meschite erette,
ecco che pur pugnando abbian già visto
le genti qui dal fier tiranno astrette
in liberà bramata, e ’l giogo indegno
tolto a questo dal Cielo amato regno.
87Questo fu il fin, per questo in tutti nacque
desio d’abbandonar le patrie terre,
e perciò del Giordan vicino a l’acque
portammo noi le perigliose guerre,
e (tanto a Dio quest’ardir vostro piacque)
fin qui luogo non è ch’a voi si serre;
ciò che s’aveva a far tutto è fornito,
or sopra il fatto a consigliar v’invito.
88Io, membrando il passato, in sì gran corso
di felici vittorie ho gran temenza
ch’armata gente et usa a porre il morso
a le straniere genti or che sia senza
fren di forze nimiche al fin ricorso,
così non abbia a militar licenza
che lo splendor de le sue glorie oscuri,
né sien gli acquisti poi per noi sicuri.
89Chi non sa, chi non vede ove penètra
l’ozio e le voglie al dominar ingorde?
Chi da i mondani error tanto s’arretra,
et ha l’orecchie a sue lusinghe sorde,
ch’allettar non si lasci? e chi si spetra
tanto dal vulgo che da lui discorde
frenar si sappia, e di tesoro eterno
vago, i regni sprezzare? Io no ’l discerno.
90Che s’alcun pur si sforza, e svelle o sterpe
questo antico dal core ascoso verme,
pur tuttavia l’antico invido serpe
tacito entra, e vi pianta un nuovo germe;
e le radici sue, mentre egli serpe,
nutre e dilata, e le fa ognor più ferme
ne l’infermo voler ch’al fin riceve
l’assenso, e ’l suo veleno incauto beve.
91Tolga Dio peste tal da i nostri petti,
cerchiam non, s’esser può, sopirla al tutto.
Non ci torca sirena e non ci alletti
per questo de gl’imperi ondoso flutto.
Siamo egualmente noi da noi negletti,
ogni torto voler vinto e distrutto.
L’onor de l’opre nostre a Dio si rechi,
né falsa ombra di gloria unqua n’acciechi.
92Or voi, che me fra tanti a tanto onore
degnaste alzare, e d’un voler chiamarmi
capitan di compagno, ecco che fuore
d’obligo sète, e ben dritto parmi
or che de l’alta impresa è vincitore
il campo tutto in libertà ritrarmi,
ceder l’imperio e ’l peso, e qui deporre
il dato, e ’l dato voi per voi ricòrre.
93Sia del comun periglio e de le pari
fatiche ancora il pro commune, e sia
egualmente il parer ne’ gradi vari
libero, ciascun dica e ciascun dia
il suo consiglio, e poi fra più contrari
l’intenzion più lodata e la più pia,
e più d’onor, d’util maggior s’eleggia,
cedan l’altre, seguir quella si deggia.
94Regni lasciati abbiam dopo le spalle,
guadagni nostri, in man d’amici grati;
fin qui sicuro è il passo, e non è valle
o luogo onde temer forze et agguati:
da i lati a fronte assicurarci il calle
convienci, e forti avere, e ben guardati
luoghi, onde poi di forza ostil non tema
chi vinse, e ’l vinto poi l’incalzi e prema.
95Ma ben prima è dover che di governo
bastante a queste mura or si proveda,
e tal che poi durar vi possa eterno
ne’ successori suoi che non sien preda,
forze mancando a l’inimico esterno
a cui di novo poi l’acquisto ceda.
Questo primo si tratti, e stabil questo
si fermi, e s’abbia poi cura del resto.
96Ciascun pensi e consigli, io qui l’insegne
d’imperator, qual io le presi, lasso.
Né vo’ ch’altro desio le vie mi segne
e faccia al piede mio torcere il passo
dal giusto, e voglie ingorde et opre indegne
ragion d’imperio detti umile e basso,
ch’in van la strada altrui mostrare agogno,
se di primo stamparla io mi vergogno».
Il consiglio gli consegna lo scettro, Goffredo accetta i compiti di governo ma rifiuta il titolo regale (97-104)
97Tacque, e ’l suo ragionar ne’ cori impresse
di tanti eroi stupor ch’entro gli mosse.
Stupor che tanta un uomo in sé chiudesse
virtute in loro emulazion destosse,
ch’anime del desio d’onore impresse
con gli stimoli suoi, spinse e percosse,
ch’ei sembra a tutti non pur sagio e pio,
ma quasi rapto e trasformato in Dio.
98Ciascuno entra in se stesso e – Ben conosco
(dice) quanto Goffredo al ver s’accosta;
anzi pur lo penetra, e me nel fosco
desio l’error più tuttavia ne scosta.
Non son tante d’april foglie nel bosco
quante nasconde in sé l’anima posta
entro al carcer terreno avide voglie,
che son suoi lacci e pur non se ne scioglie -.
99Così diceano in sé; poscia fra loro
breve e dimesso bisbigliar s’udiro,
e quasi tutti in un voler fermoro
la mente, poi che i lor discorsi apriro.
Indi Guelfo levossi, e di costoro
«Se bene dentro» disse «il petto miro,
io vi scerno un parer che ragionare
poter credo per tutti, e in ciò bastare.
100Di giusto affetto e di pio zel fur pieni
(soggiunse poi), Goffredo, i tuoi sermoni;
ma par che ’n cosa grave altrui ne meni
il presto consigliare, ancor che buoni.
Sieno consigli, al peggio: or tu ch’afreni
gli altri fin qui, godi medesmi doni
d’imperio, e comandar tanto ti piaccia
che si conosca il meglio e quel si faccia»,
101disse, e gli altri di lui seguìr co ’l cenno
i detti, e con l’applauso e co ’l bisbiglio,
e magnanimi a l’or tai segni denno
che si prevede omai qual sia il consiglio
di tutti, o ch’abbia di Goffredo il senno
avere il carco in sé d’ogni periglio
regger i santi acquisti e a più d’un luogo
vicin, s’esser potrà, mettere il giogo.
102Né molto andò, che ponderando i merti
tutti fa lor di questo e quel più raro,
e in secrete adunanze e in detti aperti
uniti in un voler si ritrovaro.
Dan lo scettro al Buglione, e son ben certi
tal veggion l’alma e ’l suo valor provaro,
ch’in pace esser non può da man più giusta
retto, o in guerra più forte e più robusta.
103Chiaman Goffredo re, vogliono in testa
come lo scettro in man, por la corona.
Ma il ricusa pietà che ’n lui si desta,
e in fortuna real non l’abbandona.
«Non vo’» dicea «cerchiar di geme questa
testa mortal qui dove il Re che tuona
eterno infin dal Ciel, principio e fine
del tutto, l’ebbe al capo suo di spine».
104Rallegrossi, e sentissi il popol fido
d’allegre voci empir la valle e ’l monte.
Vider liete le madri il caro nido
antico tolto i gravi danni a l’onte.
E in lui sperando tutti alzaro il grido
di pace, e se non ha splendore in fronte
di corona real, vi splende almeno
di real maestate un bel sereno.