ARGOMENTO
Manda in Gierusalemme il fier Plutone
l’Invidia, e tra Goffredo entra e Raimondo,
la torre di David n’è sol cagione;
non ha Camillo a’ suoi desir secondo,
mercé divina, e manco altre persone.
Si mostrano tra lor del core il fondo
Armida e Erminia, e menar seco vedi,
partendo, il suo Rinaldo e ’l suo Tancredi.
Le preghiere dei cristiani giungono a Dio (1-5)
1Del popol fido a Dio gli allegri cori
fin là dov’egli siede alzaro a volo
i santi preghi e, trapassando i cori,
che miran sotto e gli elementi e ’l polo,
fermàrsi ov’Egli in fra divini albori
del suo lume sedea beato e solo,
dove in tre triplicati giri
splender di luce triplicata il miri.
2- Padre (questo in ciascuno a l’or si lesse),
che tempri l’universo e ’l movi e reggi,
dopo le grazie al popol tuo concesse
ferma in riposo i liberati seggi.
Non ci dar preda a gli empi e sian depresse
le sette ree, vivan le sante leggi,
viva il culto divino e ’l popol empio
non più ci vieti omai la tomba e ’l tempio.
3Tu, Signor, che rompesti i lacci indegni,
e rotto il duro giogo or ci consoli,
ch’in Ciel beato vivi, eterno regni,
noi che già fummo abbandonati e soli
or difendi e ben reggi; i novi regni
per te godiamo, e con sicuri voli
preghi t’alziamo. Or sì buon re ci serba,
non ci si toglia in lui la speme in erba -.
4Parte concesse il Re del Cielo, e fora
com’ei concesse il tutto or ne le mani
de’ suoi fedeli, e vi terriano ancora
la tomba e ’l tempio e ’l regno i suoi cristiani!
Ma traviaro i successori, e fora
dal camin dritto usciro, onde inumani
barbari ingiusti or han le giuste prede
ch’esser devrian di chi ben dritto crede.
5Parte negò de’ preghi, e già non volse
un re sì pio lunga stagione in terra,
né differirli il premio, onde l’accolse
ben tosto in Ciel, dove ogni ben si serra.
Dal mortal mondo prima egli lo tolse
che ’l senso uman, ch’in noi vaneggia et erra,
traviare il facesse, onde la via
dritta smarrisse, in cui corse avea pria.
Satana decide di turbare la pace dei cristiani, manda in terra l’Invidia (6-22)
6Ma colà giù dov’il trifauce cane
con tre gole e tre bocche abbaia e morde,
e di rabbia e dolor le squadre insane
ebre di sangue son, di pene ingorde,
fra le strida e fra gli urli e fra le strane
forme di morte spaventose e lorde
crebbe a gli spirti del tartareo fondo
rabbia e dolor, queto e tranquillo il mondo.
7Membràr l’alte fatiche i laghi averni
in vano spese, e fèrsi a l’or più neri;
e di rabbia gli spirti i pianti eterni
versaro, e in vista spaventosi e fieri
entraro in mezzo a i tenebrosi verni,
dove in Cocito i mal guidati imperi
obediscon di Pluto, ove la notte
più palpabile e cieca in sé gli inghiotte.
8Gli vide, e lesse in fronte il gran cordoglio
a tutti, e ’l suo raddoppiò vedendo.
Dal profondo del petto il grand’orgoglio
mostrò mugghiando, e non sfogò gemendo
e, in guisa eretto di marino scoglio,
sé ne’ gemiti suoi scosse scotendo
entro a le gran caverne il suo muggito,
doppiò terror, tal fu tremendo udito.
9Sembra venuto il dì che, giunto al fine
il mondo, in giù cadano aperti i monti,
e che l’un polo e l’altro arda e ruine,
e prema lor l’alte selvose fronti,
e che giù seco al precipizio inchine
ciò che soggiace a gli assi, e che sormonti
l’abisso e oscuri il cielo, e al cielo intorno
corra e scota Titano a terra il giorno.
10«Dunque ha vinto costui? Noi qui fra tanto»
poi che parlar potette, a gli altri disse
«cibo di fiamme, abbian per cibo il pianto,
ei paci e regni or trae da guerre e risse?
Lui copre omai regal purpureo manto,
noi qui la fiamma in carcer tetro afflisse.
E là passo e non mostro e non m’ingegno,
e non provo che può tartareo sdegno?
11Non sarà forza qui che vinca e rompa
de le tante vittorie a questi il corso?
Sì, sarà; sorga e passi, e fra la pompa
e l’ozio giostri, e batter faccia il dorso
a tanto fasto e infetti, vi corrompa
qual nova peste, poi ch’avrà trascorso
ne i petti amici e in lor desti, e commova
fiamma d’impeto ostil che scorra in prova».
12L’infauste ardenti faci intorno gira,
in cui vedi scolpito orror di morte,
e ne i più truci mostri avido mira
con guardature assai bieche e ritorte.
Né può veder del sen gravido d’ira
atto ministro e degno entro a le porte
di Cocito; in sé mira, e certo tiensi
trovarlo in mezzo a i cupi orrori e densi.
13Com’uom cui grave danno alcun sovrasta
e diversi rimedi in sé discorre,
poi ch’al suo scampo alcun di quei non basta,
nel tempio a Dio, fonte d’aiuto, corre,
sì l’empio al fin, poi che l’odiosa e vasta
caterva sua no ’l sazia e no ’l soccorre
in sé torce il pensiero, in sé si fida,
dove ogni crudo mal cresce e s’annida.
14Nel gran dì ch’egli aperse al Sole eterno
i bei lumi, che mal poi seppe usare,
e che di lui de’ suoi crudel governo
fèr le squadre del Cielo a Dio più care,
in lui nacque, e ’l tirò seco a l’Inferno
mostro non più veduto, e ’l fe’ bramare
di farsi eguale a chi sì bello il fece,
e n’arse egli e divenne oscura pece.
15Questi sempre gli è in sen, sempre di lui
divora il cor, se ben da lui si parte,
ch’uscir può bene a tormentare altrui
di suo consenso, e in lui restarsi parte.
Né, ben ch’in lui sia tutto, in tutti i sui
manca d’esser, ch’a tutti ei si comparte;
ma n’è sempre egli pregno, e in suo supplizio
quegli è novo avoltoio et egli è Tizio.
16Mostruoso avoltor, pallido ha il volto,
e ’l corpo asciutto e magro, e ’l guardo bieco.
Ruggin livida tienli ascoso e involto
il dente e chiude il petto, e porta seco
amaro fele, e ne la lingua accolto
velen che rende ognun che ’l tocchi cieco.
Rider no ’l vedi già, se non se il duolo
altrui fa, trarti un secco ghigno e solo.
17Non dorme già, ché vigilanti cure
sempre al sonno nemico essere il fanno.
Vede quel che gli spiace e mira pure,
si consuma vedendo e sente affanno;
e insieme il fe’ sentir, che le punture
di lui son (com’a gli altri, a lui) di danno;
e s’altri a lui sferzar bene è concesso,
è ne’ supplizi altrui sferza a se stesso.
18Entra, e non tocca l’osso, a le medolle,
e, quasi avido lupo, ei le divora.
Continuo e grave sospirar s’estolle
sempre dal petto, e l’ange e l’addolora
infelice magrezza; e sveglia il folle
furor tacendo, e foco accende ogniora.
Ha nome Invidia: or tal fra mille scelse
l’empio, e da l’empio seno a l’or si svelse.
19Or tu sant’aura, i cui celesti ardori
soli han virtù d’assicurare i petti
da qual peste più rea, circonda i cori
de’ tuoi fedeli, e questa or non gl’infetti,
ché se tu mostri loro i tuoi splendori
qual vana ombra d’error fia che gli alletti?
Che, se non tu, vietare al mostro infame
può, che del sangue nostro ei non si sfame?
20Parte, e viene a la luce alma divina,
esecutrice al mal oprar non tarda,
invisibil Erinni e taciturna,
voci ode allegre e pompe allegre guarda.
Se n’affligge e si rode, e la notturna
face vibra, onde meglio al nocer arda;
ma né tempo né luogo ella discerne
atto a versar le sue miserie eterne.
21Meschiar non può bestemmie in mezzo a i preghi,
né risse ove si grida: «In terra pace»,
né versar suoi fetori ove dispieghi
odor d’incenso a Dio pietose face;
e dove cor devoto a terra pieghi
umil ginocchio alzare ella mordace
curar non può, né dentro al sacro tempio
far fra gl’inni de l’alme acerbo scempio.
22Manca il potere in lei, cresce la voglia,
e perch’altrui non può se stessa offende;
e ne l’ardor de la sua queta doglia
se stessa ognor più furiosa accende.
E dentro serra a l’infernale spoglia
il suo mortal veleno, e ’l tempo attende
in cui la face e i serpi intorno rote:
serve ella intanto al suo desio per cote.
Goffredo chiede a Raimondo di consegnare la torre di David, il vecchio conte istigato dall’Invidia se ne risente (23-36)
23Già finiscon le pompe, e con sonori
cavi oricalchi, turba allegra e magna
precede al pio Buglion, cui cresce onori
l’oste sua, che ’l circonda e l’accompagna.
Vansi a gli alberghi i cavallier minori,
resta la nobil gente a lui compagna;
et ei con tutti è tal ch’a più d’un segno
d’alto stato real si mostra degno.
24Così passaro il dì solenne, e poi
che del corso ha gran parte il sol finito,
e già lontan col carro a i regni eoi
piega veloce, invèr l’esperio lito,
Goffredo a sé Raimondo chiama e «Vuoi»
dice, ché ’l sente ogni guerrier più ardito,
«por ne le nostre man, come conviensi,
il forte che per te qui solo or tieni?».
25Raimondo infin dal dì che morto al piano
cadde l’ampio Aladin, de’ suoi l’aiuto
giunto al valor de l’invincibil mano,
la presa rocca avea per sé tenuto.
Per sé disegna averla e parli strano
sentir ciò che men vuole e men dovuto
gli pare, e mostra qui palese al volto
lo sdegno, et al parlar libero e sciolto:
26«Sì dunque inutil fui, sì fui nocivo
ne l’ardor de la guerra, e poco oprai,
e sì val poco aver di vita privo
il tiranno ch’in terra io pur gittai
ch’or poco e stretto giro in cui mi vivo
di muro, o re, nel fin tòr mi vorrai,
né del mio sparso sangue almen per segno
d’animo grato vuoi lasciarmi un pegno?».
27«Io non vo’ già (risponde a lui Goffredo)
d’alcun lasciar non premiato il merto,
ma convenirsi a regio onor non credo
città smembrata in parte e regno incerto.
Lo scettro altrui più tosto io ne concedo,
non cercato, ma tolto a’ preghi offerto;
et è ben onor vile e seggio indegno
scettro o corona aver di servo regno».
28Più non si disse a l’or, ma fisso in mente
ambi han che segua effetto al suo pensiero;
è ciascun de’ migliori a ciò presente,
e d’ambi ode il parlar greve e severo.
Pensa aver modo a l’ora ond’è il nocente
velen suo sparga in lor lo spirto nero,
e perché l’ora al ritirarsi alletta
trascorre questo e quel trono e l’infetta.
29Ma prima un de’ suoi serpe, il più maligno,
partendo al petto al pio Buglione aventa;
ma non più noce a lui che se macigno
altri spezzar con debil verga tenta.
Gli altri segue, e per via fa col ferrigno
dente stridore, e ’l ferro in tutto allenta
a le sue voglie, e spera alte ruine
e far de i cori a Pluto empie rapine.
30Ma, prima ch’altri, al suo furor disegna
esser esca opportuna il vecchio conte.
Lui segue, e mentre andando egli si sdegna
e ricever gli pare oltraggi et onte,
invisibile il tocca, e detta e ’nsegna
a lui ragioni in pro di lui sì pronte
che cieco omai pesa i suoi merti, e tali
gli fa ch’altri non stima a quelli eguali.
31Apre l’ira l’entrata al mostro rio,
ch’è suo compagno, e facil fulle il varco.
«Vedi (nel cor gli parla) uomo di Dio
che viver vuol de’ pesi umani scarco,
e si mostra a regnar duro e restio,
quasi vil soma fia regale incarco;
poi, fatto di quel d’altri anco capace,
cerca a’ seguaci suoi turbar la pace.
32Dunque sì più di tanti oprò costui
che non stima altro merto al suo simile?
Sì poco stima il sangue e l’arme altrui
che di tutti e di me le tenga a vile?
Non fur tanti altri seco, anch’io non fui,
e spesso egli anco il disse? or basso e umile
vuol che resti ciascuno, e me del seggio
proprio privare? Io comportar no ’l deggio».
33Sì parla, e spira il suo furore intanto
dal suo petto infernale al petto umano,
né si parte da lui fin che ’l suo manto
stende la notte, e copre il monte e ’l piano.
Il circonda, il percote, e mai da canto
non se gli leva, e ne vien quasi insano.
Poi, quando il sonno in grembo a sé l’avvolge,
con la man fredda il tocca e ’l piè rivolge.
34Rivolge il piede, e la gran torre lassa
de l’empio suo velen per tutto aspersa,
e quindi a nove imprese oltra sen passa,
e speranza concepe e furor versa,
né luogo alcuno da sé libero lassa
mentre è la gente omai nel sonno immersa;
pur colà tra’ migliori ella s’aggira,
ch’oprar più spera in questi, a questi aspira.
35Così rapace augel, cui non ben sazio
renduto ha prima non bastevol preda,
là drizza il volo ove in più breve spazio
esca trovare al gozzo avido creda,
e ’l becco aguzza, e far novello strazio
pensa d’augel ch’a le sue forze ceda,
che più che pria la non saziata gola
l’istiga, e fa che con più fretta ei vola;
36tal di miserie ingorda ella trascorre
con l’ombra, e l’ombra col pensiero avanza.
E mentre il bene altrui livida aborre,
non oblia di turbar l’odiosa usanza.
Primo s’offre a l’uscir de la gran torre,
come a quella vicino avea la stanza,
il buon Camillo, avuta il dì che degne
sopra il muro fatal piantò l’insegne.
L’Invidia nottetempo aizza anche Camillo a ribellarsi alla tirannia di Goffredo (37-48)
37Dove il forte latin riposo prende,
fra l’ombre amiche del silenzio è scorta.
Veste visibil forma, e ’l mento rende
barbuto, e ’l crine allunga e ’l passo accorta;
purpureo manto da le spalle pende,
e sotto appar sottil tela ritorta;
porpora copre il capo, e nel sembiante
severo a lui si para il mostro avante.
38Fassi il gran Giulio, che per via di padre
dato avea la natura a lui per zio,
sorte per guida il dì che fra le squadre
nemiche armato il padre unissi a Dio.
Questi sempre da man rapaci e ladre
guardollo infante, e d’ogni inganno rio,
e ben ch’ei fosse in sacra toga, il fece
nodrir ne l’arme per un anno e diece.
39Con l’opra e col consiglio i teneri anni
resse e guidò per vie lodate il vecchio.
Lasciollo poi ch’a gli alti eterei scanni
salì, stato vèr lui di fede specchio;
l’elesse poscia il santo Padre a’ danni
de gli empi in questo grande alto apparecchio.
Or con questo parlare e in queste forme
si mostra, e dice al pio latin che dorme:
40«Camillo, indarno le fatiche hai sparte,
indarno sono i tuoi Latin qui morti.
Tu d’acquisto sì grande or non hai parte
col Franco, e quest’ingiuria ancor sopporti?
A che fin dunque al periglioso Marte,
misero, in compagnia con essi esporti
s’in compagnia con essi a te non viene
dopo i perigli parte in tanto bene?
41Oh saggio il tolosano, oh d’alto core,
che non cede a l’ingordo e non si piega!
Vuol parte de la preda e de l’onore,
et ubidirlo ove egli regne nega.
Tu qual partito pigli, o qual migliore
gente per tanta gente in re ti prega,
per tante arme con gli altri unite a gara
qual mitra o scettro l’oste or ti prepara?
42Chi ti manda, chi sei, di chi nascesti,
in che grado, in che patria or ti rammenta,
et a te non potrai veder che questi
sien preferiti: brama, ardisci e tenta.
Che s’ancor tu gli spirti avvivi e desti
con la virtù che mai non vidi spenta,
ben potrò qui de gli altri al par vederti
d’onor, com’io ti resi, egual di merti».
43Fredda più che di ghiaccio al petto accosta
la scelerata man, poi ch’ella ha detto.
Passa e scorre il velen tra costa e costa,
già tutto il cerca e già l’ha tutto infetto.
Ne la parte più interna e più riposta
penetra, e intorno a lo spazioso letto
sparse il fiato nocivo, e le sue larve
lasciò, piena di speme, e via disparve.
44Ruppeli a l’ora il sonno il freddo orrore,
e gli scorse per l’ossa e per le membra.
Sparso per tutto il corpo esce il sudore,
e sol di preda e ferro ei si rimembra.
Gli paion pigre e tarde a scorrer l’ore,
et un secolo a lui la notte sembra.
Arde, trema, s’adira, ingordo brama,
e fino a l’or sé neghittoso chiama.
45Come se fiamma in su lieve s’estolle
et al concavo rame il fondo scalda,
liquido umor nel vaso ondeggia e bolle,
e par che l’onda mai sappia star salda,
passa i confin de l’orlo e ’l rende molle
e già bagna d’intorno ancor la falda;
s’aggira il fonte e fuor versa la spuma,
e in sé non cape e in umor s’alza e fuma.
46Non riposa, non dorme, arde e vaneggia,
gli porge orror la notte, orror le piume.
Pensa come, a quai forze unir si deggia
per quella impresa ch’ei tentar presume;
qual parte anch’egli a lui debita chieggia
come prima si scopra il novo lume.
E se stesso inquieta e si dibatte,
sì ch’ei co’ suoi pensier, con sé combatte.
47«Unirò (dice) i miei guerrieri insieme,
troverò il novo re, nasciuto il giorno,
farà l’essempio mio, s’altri pur teme,
che torni ardir ne gli altri a far soggiorno.
Forza è venire al fine a quelle estreme
prove, o in Italia più non far ritorno,
o qui, dove impiegai l’arme e le schiere
in pro comune, anch’io dominio avere.
48Né perché molto s’inquieti e molto
sbatta, il furor da sé concetto scote,
che cresce ognior, come più cresce avvolto
globo ch’accoglie in sé più larghe rote.
Lo stanca al fin, poi che lasciar disciolto
no ’l vuole, e sì che mentre egli non puote
prender alcun riposo al fine è vinto,
e da sonno confuso alquanto è cinto.
La Vergine scende in visione a Camillo e riporta sulla retta via (49-58)
49Serpe fra la stanchezza il sonno e tregua
co i moti del corpo fa, ma l’alma audace
forz’è che come prima i pensier segua
da lui concetti, e star non sappia in pace.
Ma già il tempo è vicin che si dilegua
l’ombra, e non posa il bue, l’augel non tace,
quando il buon genio suo con l’auree penne
volando innanzi al gran Motor si tenne.
50Spiegò i merti passati e ’l gran periglio
vicin, s’era per lui l’aiuto tardo;
mosse benigno il Padre eterno il ciglio,
e ’l promise col cenno e con lo sguardo.
Fra quanti in questo suo terreno essiglio
là su devoto il Capitan gagliardo
vider di sé, fu lei che nel suo grembo
ebbe il gran parto e in un fu sole e nembo.
51L’eterno amor a’ suoi beati amanti
qual più sia pronto a la bell’opra mira:
spiegàr tutti il suo ardore, e lei fra tanti
vede ch’a ciò con maggior zelo aspira.
Già preme i fermi cerchi e i cerchi erranti
col cenno suo, per l’aria già s’aggira,
già vestita di sol Camillo trova,
ch’ancor gli sdegni in mezzo al sonno prova.
52Sparge il tutto d’odor, di lume ingombra,
che di tenebre il mostro e puzza sparse.
Cesse il fetore al suo venire e l’ombra,
e visione a lui contraria apparse;
vision che quel primo orror disgombra,
e vinte vede omai le larve darse.
Vien, si ferma, è veduta e in pro di lui
dolce spiega i celesti accenti sui.
53«Amico, a che t’inchini, e perché porgi
l’orecchie a pensier novi, a nove brame?
A che fin miri, qual contento scorgi
in questa di regnare avida fame?
Sorgi, e ’l tuo primo fin rimira; sorgi,
fuggi lontan da la vil voglia infame.
Misero, ah non conosci, ah non comprendi
ch’empio ti fai qualor tai fiamme accendi?
54Quai preghi al tuo partir tu ci porgesti,
e quai fur le tue voglie or ti rammenta.
Il tuo proprio in non cale a l’or ponesti
per Cristo; or sì la prima fiamma è spenta
che l’acquistato a lui per te vorresti,
e ’l tuo cor l’osa e la tua mano il tenta?
L’osa e ’l tenta, e non mira a quanti danni
te, l’opre fatte e l’oste in un condanni.
55Santa guerra, arme sante e desir santo
l’arme svegliaro, e dier sì gran vittoria.
Che faran gli altri omai, se chi dal manto
di Pier dipende perde ogni memoria
del dritto, e sprezza e vuol che stia da canto
l’onor di Dio, recando a sé la gloria?
La gloria è ’l frutto, e dir: non fu da Dio
la vittoria, opra è sol del braccio mio.
56Deh, per quanto ami il Ciel, per quanto hai caro
che sieno i tuoi sudor là su graditi,
il titol ch’ognior tu d’empio e d’avaro
fuggisti or fuggi, or odia risse e liti.
Non vedi com’il gaudio in pianto amaro
tosto converti, e contra il Ciel t’irriti?
Troppo è buon, troppo grande è il tuo vessillo:
contra buon re non lo spiegar, Camillo».
57Con questo dir gl’infetti spirti e ’l petto
lava, e nel primo suo stato riduce.
Del suo proposto rio già l’intelletto
si toglie, e gode omai la prima luce.
Parte, e ’n lui lascia il riverito aspetto
pace, e splendor che dentro a l’alma luce;
ond’ei non che tentare altro pur pensi,
ma vedi ch’impedirlo a lui conviensi.
58«O de’ miei giorni lieti, o ne i perigli»
dice il campion, poi che partito è ’l sonno,
«scampo insieme e cagion che da gli artigli
fuggir mi fai, che mal fuggir si ponno,
ecco io pur ti conosco, i tuoi consigli
pur seguo, e, tua mercé, son di me donno.
Siami tu sempre tal, perché la nebbia
d’error mai farmi traviar non debbia».
L’Invidia infetta altri eroi, solo Tancredi e Rinaldo ne sono immuni (59-61)
59A grand’agio fra tanto in più d’un loco
sparso il velen la scelerata avea,
ch’esser esca dovesse al novo foco,
pronta di mille colpe a farsi rea.
Ma in Rinaldo e ’n Tancredi o molto o poco
danno, né forza il suo furor non fea:
questi fra tanti ella non punge o morde,
c’han de l’alma al suo dir l’orecchie sorde.
60Non da l’ira di Borea insieme e d’Ostro
sì bene in chiusa cava altri s’asconde;
non sì ben entro a solitario chiostro
schiva il sicur del mar gonfiato l’onde,
come questi al furor de l’empio mostro
saldi ciascun lo spezza e lo confonde.
È la sua rabbia insana incontro a questi
qual se contra due torri aura si desti.
61Ma se ben essi in generose cure
d’onor immersi han la sua rabbia a scherno,
e l’alme han sì dal suo furor sicure
che contra loro in van s’arma l’Inferno,
altr’arme, altr’esca in tenebrose e scure
noie tirarli e danneggiarli scerno.
Ah, chi da i lacci può del mondo tetro
senz’alcun danno mai tirarsi indietro?
Le ambasciate di Vafrino non vanno a buon fine, Erminia se ne lamenta con Armida (62-86)
62Già sparsi indarno avea più volte i preghi
Vaffrino, e fatto il chiuso amor palese,
ma cagion trova sempre onde gli neghi
spegner Tancredi l’altrui fiamme accese.
Ben pietate ha d’Erminia, e par che pieghi
il core, e se d’amor non è cortese
fa la cagion parerlo, ond’ei si scusa,
giusto anco a chi di crudeltà l’accusa.
63Ma, né quantunque in sé crudele il prove,
Erminia è di crudel chiamarlo ardita.
«Non perché volto» dice «il core altrove
egli abbia, io non gli son d’amor gradita;
spente son già le vecchie, or fiamme nove
cangiar non cura in quelle, e ciò m’invita
a più durare, ad amar più, ch’acquisto
farò maggior s’un cor sì saldo acquisto.
64S’ei ciò che più non vede e più non puote
goder, con tal fermezza in mente serba
ch’i preghi altrui, che le pietose note
udir non vuole, e l’altrui pena acerba
sanar non cura, e per le vie remote
fura la mente incontro Amor superba,
io perché non costante in far che sia
beltà, ch’io scorgo, e goder posso mia.
65O bel core, o bell’alma! Or quanto uniro
natura e ’l ciel tante delizie altrove?
Quante e in sì bel sembiante io ne rimiro,
e quante in voi n’ascose il sommo Giove?
Io che pregante, amante in van sospiro
fin qui per voi, se qual cagion vi move
contemplo, ad amar più m’è duce e guida,
e quel che mi spaventa anco m’affida».
66Sì parla con se stessa e si consola,
e non minor conforto ella riceve
perché non vive in tale stato sola,
ch’ogni mal fa l’aver compagno lieve;
che, come innanzi al sol nebbia sen vola,
così strugge per lui falda di neve,
così fugge il dolor de l’egra mente
s’ha compagna con chi sfogar sovente.
67Ha compagna, e l’ha tal che far leggiero
può non sol con far noto il suo dolore,
ma col veder ch’in lei non men sia fiero
protervo amante o men tenace amore.
Armida è seco, e fin dal dì primiero
quasi avuto han per uso insieme l’ore
menar, poi che di sé contezza vera
ebber che l’una e l’altra in Solima era.
68Grata e pari union: chi la potrebbe,
se ben compra con oro, aver più cara?
L’una pianse talora, a l’altra increbbe
il pianto, e dolse la sua doglia amara.
Crebbe la confidenza in tanto, e crebbe
l’amor fra loro: una soffrire impara
al sofferir de l’altra, ambe l’istesso
mal provan, ambe l’hanno ognor appresso.
69Gli andati piacer l’una racconta
e dolce noia in raccontarli sente;
poi d’averli perduti, offesa, l’onta
piagne, e d’altrui si duol, di sé si pente,
d’esser d’amata ancella, e in ira monta
che sien le fiamme altrui sì tosto spente;
e, d’esser ascoltata in parte vaga,
spiega irata il suo duol ma non l’appaga.
70L’altra d’Amor l’occulta piaga antica
narra, e qual man, qual arme il petto aprille;
la servitù, l’essiglio, e qual nemica
fortuna alti perigli ognior sortille;
qual nova speme, e da qual sua fatica
nasca, e quanti sospiri e quante stille
e del petto e de gli occhi han fatto fede
ch’ella merta appo lui trovar mercede.
71«Questa nova pietà, benché tenuta
prima io fossi d’usarla» Erminia dice,
«se così tosto il suo voler non muta,
né ’l suo bramato guiderdone lice,
e se mostrarsi il signor mio rifiuta
benigno, e perch’a lui tanto non lice;
ma nel mio regno e qui parve a’ miei lumi
esca d’Amor nel viso e ne i costumi.
72Ivi, benché ’l destin priva m’avesse
de la patria, del padre e d’ogni bene,
col mio peso terren lo spirto elesse
volontario servire, e fur le pene
nel queto oblio dal cor sepolte e messe
in bando, e sì mi scorse a l’or le vene
novo insolito ardor che le ruine
furo amare al principio e liete al fine.
73Ma non ruine furo, e non distrusse
egli il mio ben quando la patria m’arse;
ruina fu che ’nsieme ei non ridusse
me seco fuor de le reliquie sparse.
L’incendio a me splendor sembrò che fusse
sceso dal ciel per qui più grato farse,
e fra ’l sangue e fra l’ire al molle petto
per lui passò maggior il suo diletto.
74Novo e strano miracol che si trovi
fra gl’incendi e fra l’arme in dura sorte
vergine donna, e nel suo danno provi
diletto, e scherzo in rimirar la morte,
e brami che s’allunghi o si rinovi
l’atto del suo cadere, onde le porte,
quand’altrui più la tien sommersa al fondo,
nobil cagion di stato alto e giocondo.
75Qui poi sorte cangiammo in parte, et io,
bench’egra de la mente, il corpo sana
languir ferito vidi, e dal suo rio
stato medica il trassi e per la piana
via di salute scorsi; et egli il mio
studio ebbe in pregio, e non fia forse vana
l’opra, e darammi il cielo (oh ch’io lo spero!)
lui più placabil tosto o men severo.
76Ma qual severo il fingo, o qual mostrommi
atto o pensier d’umanità mai scemo?
Anzi, forse non meno il cor legommi
mansueto sembiante or ne l’estremo
di quel che, quando intatta egli salvommi
nel proprio nido, or qui dove noi semo,
tal il vidi ne gli atti e nel sembiante
che, se ben fugge amor, lo spero amante.
77Fu ’l volto bel d’un bel pallore asperso,
pallida anch’io nel medicarlo venni.
Si dols’egli, io mi dolsi; al ciel converso
sospirò, sospirare anch’io convenni.
Trattai le piaghe e intenerita verso
il guerrier volta il pianto non ritenni,
sì trafitta a l’or fui, sì di duol piena
che tolte in me l’avrei con minor pena.
78Ma se la man trattollo e l’occhio il vide
e tal giacer col core egro mirollo,
ben del caro piacer l’alma s’avide
sì nel seco trovarsi a l’or gustollo.
Or che fatto già san pur si divide
da me sì ch’arrestar l’alma non puollo,
di quel ben priva ella veder piagato
no ’l brama già, ma ben sel brama a lato.
79Oh s’avvien mai che per pietà rimiri
egli qual per lui piaga il cor mi colse,
qual più dolce di pianto e di sospiri
frutto nel giardin mai d’Amor si colse?».
Qui diè fine al parlare, in duo bei giri
di chiare stille i due begli occhi involse.
Ferma nel petto il dir, ne l’altra i lumi,
come arda dentro e fuor poi si consumi.
80Così l’altrui miserie Armida ascolta
pietosa, e parte del suo mal si lagna,
né tien la doglia sua nel seno accolta,
ma di lagrime anch’ella il viso bagna.
Più cose in sé risolve, e poi rivolta
apre anch’ella il suo duolo a la compagna.
Lo spiega, e scopre a l’altra il suo consiglio;
tien ella intento al dir l’orecchie e ’l ciglio:
81«Ben io maggior cagione, onde mi vanti
ebbi, et or l’ho maggior di che dolermi,
ch’i diletti amorosi, i piacer tanti
una stagion con lui potei godermi.
Freddo nembo d’orror poi tosto in pianti
converse, lassa, i miei diletti infermi.
Caddi serva d’amante in vil dispregio,
perduta avendo d’onestade il pregio.
82Così fortuna in un girar di ciglia
le cose alte e le basse in un rivolve,
e sì tosto le turba e le scompiglia
come il vento veggiam minuta polve.
La rota sua stato d’amor somiglia,
in cui quanto più l’uomo entra e s’involve
tanto al piacer lontan poi si ritrova,
ch’Amor saette in danno suo rinova.
83Io bene alto presumo, alto m’invoglio,
né per una repulsa ancor mi stanco,
né per aver la nave in duro scoglio
rotta mi vien l’ardire in tutto manco;
ben so le vie di far che il mio cordoglio
cessi, e batta fortuna in terra il fianco,
e vinto Amor senz’arme e senza prieghi
l’arme e se stesso a le mie forze pieghi.
84Tu, se pur tanto ardisci, al mio parere,
per tuo diletto almeno, Erminia, attienti:
io m’offro dar Tancredi in tuo potere;
solo audacia virile in ciò convienti.
Non d’affrontar nemiche armate schiere
ma d’alzarti ne l’aria al par de i venti;
calcar le nubi è d’uopo, altro non dei
ardire, e facil fia s’amante sei».
85Quasi a miracol novo a tale offerta
stupisce Erminia, e con timor l’ascolta;
non che fede a colei non presti certa,
ch’udito ha ben le prove sue tal volta,
ma, in simil casi rozza et inesperta,
trema e la lingua ha nel silenzio involta,
ch’accettar vuol ciò che ’l cor brama, e poi
non ben ferma il pensier ne i desir suoi.
86Novità la spaventa e la ritragge,
natura ve l’istiga, Amor l’alletta.
Il van piacer l’occhio mental sottragge
a i perigli per via non ben diretta.
Speme rompe il timore, e per le piagge
del ciel volar col vago suo s’affretta;
di viltà feminil tutta si spoglia,
ché così crede tosto uscir di doglia.
Di concerto con Armida, rapisce Tancredi e Rinaldo, che vengono costretti a vivere come amanti nel castello della maga (87-94)
87Spiegava intorno a l’aria il manto nero
la notte, e de i color privava il mondo,
e già l’umido sonno e lusinghiero
gravava altrui di grato immobil pondo,
quando la maga al solito suo impero
chiamò gli spirti del tartareo fondo,
e fe’ il carro apprestare e con l’amica
pronta s’accinse al corso, a la fatica.
88Ambe si parton donde a lor talento
ponno i due cavallier, dal sonno presi,
attar su ’l carro, e non è ’l sonno lento,
ché gli ha con l’arte sua la maga offesi.
S’alzan da terra e a paragon del vento
lascian le sante mura, e per paesi
vietati a quei ch’al gir non han le penne,
tratto da forze occulte il carro venne.
89Come perfetta palla in duro smalto
da buon braccio percossa in alto balza,
tal da terra si eleva il carro e in alto
porta i quattro, e con loro in aria s’alza,
cotal se Borea impetuoso assalto
ha con Garbin protervo, un globo innalza
o di polve o di nubi, e quel s’invola
da un luogo a l’altro, e al par de’ venti vola.
90Gierusalemme in dietro il carro lassa,
e vèr Damasco prende il camin dritto.
Si mira sotto, mentre innanzi passa,
Gilga e Norata, e segue il suo tragitto
lungo il fiume Giordano, e ’l corso abbassa
verso Perva, Talemme, Enno e Tarchitto.
D’un guerrier ladra e d’una ladra guida,
in breve giunge al suo castello Armida.
91Dal queto sonno ancor desto non s’era
alcun de’ due, né desteransi tosto
sì l’incanto può in lor, con cui la fiera
maga gli avinse. Il carro ivi deposto
scese, e scender fe’ l’altra, e in viso altera,
senza che tempo in mezzo abbia fraposto,
gli adagia in ricco albergo, e quando il sonno
gli lascia essi di sé dispor non ponno.
92Dan l’alma in preda a l’amorose cure,
e l’uno e l’altro è non guerrier ma drudo.
Non usberghi, non brandi e non sicure
loriche han qui, ciascun de l’arme è nudo.
In molli vesti avvolti a le punture
d’amor son segno, o non hann’elmo o scudo.
Di donne servi e non guerrier di Dio
han l’arme e ’l proprio onor posto in oblio.
93Quivi in sicuro porto Armida ferma
al fin gli antichi suoi diletti gode;
in quei si spazia e ’l suo pensier vi ferma,
e impedisce a l’amato e palma e lode.
Dà l’esca Erminia a la sua mente inferma,
e non vede altro bene, altro non gode
che l’amato guerriero; in lui la sete
sfoga d’amor, ch’a lei non è chi ’l viete.
94Ma fugace è ’l diletto, e la speranza
nostra tosto si secca e ’l vago perde,
e qualor più nel suo vigor s’avanza
e fuor germoglia allegra e mostra il verde,
tanto più sorte a l’or, che ne l’usanza
stabile sua l’instabil non disperde,
meschia il fondo e la cima, e ne le rote
di lei piè saldo stare unqua non puote.
Idraote con i resti del suo esercito giunge al castello di Armida, si rallegra di trovarvi i due campioni ma teme che la nipote possa liberarli per amore (95-102)
95Sotto il vessillo suo raccolte intanto
quelle reliquie avea lo zio d’Armida
che con la fuga sotto il nero manto
de la notte salvarsi e l’ebber guida.
Con queste ardisce, e dassi in parte vanto,
pur che fortuna al suo disegno arrida,
a l’or che men tal cosa il Franco aspetta
far de l’uccise genti sue vendetta.
96Per più d’un messo a lui la fama corre
spesso nunzia del falso et or del vero,
che con pochi Boemondo il voto a sciorre
ne viene a la città del novo impero.
Con questi a lui vuolsi il tiranno opporre,
e la vittoria ottenerne ha per leggiero,
c’ha gente, benché vinta, esperta e i lochi
sa bene, e ch’incontrar si va con pochi.
97Con tal pensier gli essorta e insieme aduna,
e dice lor che ’l Cielo a tanto bene
gli serba di vendetta, e la fortuna
finge propizia e avviva in lor la spene.
Giunge a queste altre forze e l’importuna
voglia ogni più di sangue avida viene;
capitan d’oste ormai, non d’un drappello
guida, giugne d’Armida egli al castello.
98Schernisce l’arti sue consiglio averso
del ciel, che le sue voglie ancor delude;
l’uno e l’altro guerrier, ne l’ozio immerso,
tema e pensier d’arme e nemici esclude.
Da lui, che vien, colta improviso, verso
lui vanne e per color ch’ivi entro chiude
finge menzogne, a lei sol questo dice,
per coprire il suo fallo e così dice:
99«Già non dà il Franco a le vittorie sue
lieto (qual forse egli pensossi), il vanto
d’arme quel giorno anch’io coperta, i due
qui menati prigioni aver mi vanto,
che fèr soli più danno a l’arme tue
e diero a noi maggior cagion di pianto
che mille schiere, e ben fra fuga e morte
di tanti, sola ebb’io propizia sorte.
100Qui gli serbo e puoi tu ben più sicuro
questi seguire e far novi disegni,
che non è senza lor d’oste o di muro
forte il nome cristian contra i tuoi sdegni».
Sì del fatto l’affida, e intanto al duro
caso riparar pensa, e non dà segni
del suo voler; ma poi come il tiranno
parta, vuol questi assicurar dal danno.
101Leva le mani al ciel, che le due teste
a i pagan sì dannose egli abbia quivi,
e di nova speranza il cor si veste
far del sangue fedel correre i rivi.
Ma comanda egli, e vuol che dentro a queste
mura di libertate al tutto privi
sien serbati in prigion, sì ch’in più lieti
pensier sicura egli la mente acqueti.
102Qui posa un giorno o due, fin che giugne
gente che da più parti ancora aspetta.
Questa intorno al castel già si congiunge
co’ suoi, già il campo è pien di gente eletta.
Altri più non s’aspetta, e ’l desio pugne
tutti egualmente a l’arme e tutti alletta
contra l’antiocheno, e’l dì prescritto
chiama i Siri al partir con quei d’Egitto.