ARGOMENTO
Giunto al castel d’Armida ardito e baldo
co ’l resto de l’essercito Idraote,
preso riman Tancredi con Rinaldo;
va contra Boemondo, e a scure e ignote
prigion li manda, e in ciò di fé ben saldo
elegge essecutor; ma Idetta puote
pur liberarli, estinto con le infide
genti Idraote. Armida anco s’uccide.
Idraote prende in consegna i due campioni e si avvia a battaglia contro Boemondo, per la disperazione delle due donne (1-12)
1A il barbaro tiranno, in cui non poco
d’Armida e de’ campion sospetto regna,
sospetto che d’amor fatta esca al foco
n’arda col tempo e a sprigionargli vegna,
pensa come gliel vieti, e dal suo loco
menarli seco in servitù disegna,
che s’in fortuna avversa ha questi, un pegno
ha, con cui stabilisca il proprio regno.
2Le squadre oltra incamina e via ne mena
con quella oste diversa i guerrier seco.
Stringe le braccia lor ferrea catena,
tratti che son del carcer duro e cieco;
gli vedi, e te ’l comporti, Armida, e pena
ne senti, ma ben poi discorri teco
far, mentre il zio con Boemondo pugna
che lor non tardo il tuo soccorso giugna.
3Per celar egli il ver «Questi vo’» dice
«ch’a Damasco in prigion tanto si stieno
che de l’istante pugna il fin felice
col non essermi contra in man mi dieno,
in fin ch’i petti e l’arme e de l’ultrice
ira il dolor sarà sfogato a pieno.
Per lor, se ’l pensier non falla, i nostri noi
da le man de i nemici avrem da poi».
4Con quell’arte il fellon de la nipote
l’arte e ’l disegno agevolmente inganna,
e non vuol ch’ella sappia o ch’ella note
qual via faran, ma in van per sé s’affanna,
ché già condurli seco egli non puote
e ’l suo sapere il Ciel schernisce e danna.
Ma non in pro di lei rompe i disegni
di lui, ché par che contra ambi si sdegni.
5Non lunge al suo castel verso Ponente
è bipartita via: l’una conduce
là dove ad incontrar la poca gente
si va, che Boemondo ha per suo duce;
l’altra mena a Damasco. Or la dolente
pensa come più in ciel Febo non luce
in questa (mentre il zio per l’altra corre)
a le guardie i campion per arte tòrre.
6Se l’irriti ella contra o pur si scopra
per donna a lui che sia de l’onor priva,
no ’l pensa ella e no ’l cura; essequir l’opra
disegna, o, se no ’l fa, non restar viva.
E ferma e sì nel suo voler ch’adopra
i conforti con l’altra, a cui nociva
piaga d’aspro timor facea nel seno
aspra quella d’amor col suo veleno.
7Molle Erminia è di cor, non ha consiglio,
inesperta a gli inganni, al dolor pronta;
bagna, ch’altro non sa, di pianto il ciglio,
e ’l suo breve piacer or danna e sconta.
Vede ella del suo caro il gran periglio,
se stessa ha in odio e seco in ira monta;
né, perché la conforti Armida, vuole
conforto o speme porre in sue parole.
8E piagne, e tanto al duolo allarga il freno
ch’ogni regio costume al tutto oblia,
qual cara madre suole, a cui dal seno
svelto e scannato innanzi il figlio sia,
o come le baccanti, a l’or che pieno
del suon notturno il petto, alta follia
l’istiga a gir sopra il Citereo a schiera,
tal ne i moti e nel pianto orribil era.
9«Dove (dice) e perché per l’aria a volo
drizzasti, Armida, il corso, e con qual preda?
Incauta, non vedesti un grande e solo
ben quanto male in luogo tal si creda?
Qui, dove eterna poi cagion di duolo
ad ambe nasca, e l’una e l’altra il veda;
me teco in altri a l’or ch’osasti tanto
perdesti. Ahi temerario ardir d’incanto!
10Quanto era me’ per noi viver ancelle
palesi, e ricoprir secrete amanti
entro al feminil sen le fiamme belle,
che ree ci fanno e sconsolate erranti,
ahi, che tempesta or da radice svelle
l’arbore del piacer che poco avanti
fiorì, ma tosto in precipizio eterno
lo spinse al basso crudo orribil verno?
11Oh non fossi stat’io de le mie voglie
così pronta a scoprirti il grande ardore,
non tu sì presta a medicar le doglie
che crescon, medicate, il mio dolore,
ch’io non sarei fuor de le regie soglie
qui giunta a lagrimare un folle errore!
Error di morte acerba e de lo sdegno,
ch’io stimo più, del mio signor sei degno».
12Così son due per la cagione istessa
in un mar di dolor vive sommerse,
ma in differente modo: una l’impressa
doglia, ch’al cor la via più breve aperse,
preme entro e chiude, e di pensar non cessa
rimedi e spera; e l’altra in sé converse
le luci, altrui non spera e mostra fuore
quanto è lontan da’ suoi rimedi il core.
Idraote decide di venire a battaglia con Boemondo che marcia su Gerusalemme ma decide di mandare i prigionieri a Damasco, e di darne falsi avvisi ad Armida (13-32)
13Ma non è ancora il zio d’Armida al passo
giunto che l’una strada in due disgiunge,
ch’a lui sudato, polveroso e lasso
dal camino e dal sol, un messo giunge.
A lui ne vien dolente, e ’l volto basso
a terra tiene, e col silenzio il punge;
silenzio sì, ma in cui legger novella
puossi al disegno suo contraria e fella.
14Era un di quei ch’a discoprire inanzi
la gente e i passi il re mandato avea,
e giunto a lui, ch’i sanguinosi avanzi
mena da le campagne or di Giudea,
porta ciò che veduto ha poco dianzi;
e in vista nunzio di novella rea
del re domanda, e giunto al suo cospetto
la voce in questo dir tragge dal petto:
15«Signor, come imponesti, anch’io fra molti
a spiar de’ nemici intorno andai,
e l’altr’ier, su ’l mattin, su i vaghi e colti
campi inanzi venir gli rimirai.
Marciar gli vidi, e dal timore sciolti
facili a l’esser vinti io gli pensai,
ch’è picciol l’oste, e di vittoria il pregio
fa ch’ogni gran periglio ell’ha in dispregio.
16Ma d’intorno a le rive ognior del mare
escon da mille navi uomini armati:
la fama de l’acquisto ha fatto alzare
lieto il grido per loro in tutti i lati;
s’uniscon questi a l’oste amica, e pare
nel crescimento suo stormo d’alati
ch’ad or ad or s’ingrossi, e l’aria densa
renda, e farassi al fin quell’oste immensa.
17Vien Boemondo, e non ha tema in vero
ch’a lo stretto de’ passi altri l’assaglia.
E si potea sperar ben di leggiero
che restato saria vinto in battaglia,
ma se tal si rinforza, io più non spero
che contra lui l’ardir di questi vaglia.
Né tema avrà di genti o vinte o nove,
capitan di gran cor, di molte prove».
18Qui tace, e ’l damascen per poco resta
in dubbio, e ’l dubbio entro a la mente volve.
Seguendo a dura impresa andar s’appresta,
vil sarà se fuggirlo ei si risolve,
e facil fia che la volante e presta
fama, ch’è quasi inanzi al vento polve,
scopra il timor di lui, la fuga scopra,
e, suo mal grado, abbia ’l nemico sopra.
19Ruben, che stare irresoluto il vede,
uom feroce di man, di core ardito,
e ch’uso a trar da le marine prede
il vitto, abbandonando or l’onde e ’l lito
posto aveva di fresco in terra il piede,
di questo re, con cento, al primo invito,
sprezzator de’ perigli, in fier sembiante
così parlò, trattosi al rege inante:
20«A che si tarda il passo, e da qual tema,
buon re, sospeso star fra due ti veggio?
Folle nunzio d’error, dunque sì scema
l’ardire in noi, che ne può trarre al peggio?
Cresca l’oste nimica, ardisca e prema
i piani interi in schiera, altro non chieggio:
rotta maggior, preda maggior
fra lor, di lor faran la mano e ’l ferro.
21Cresce e s’aggiunge ognior, cresca e s’aggiunga
forza nova dal mare a l’oste aversa:
qual ordin fia fra lor per aspra e lunga
via, qual fermezza in qualità diversa?
Qual arme fia fra lor che tagli o punga
sì che del sangue nostro appaia aspersa?
Saranno or temerari, io ’l so, ma poi
perderanno ogni ardir vedendo i tuoi.
22Esser non può ch’inordinato e nudo
numer di gente, in un dal caso accolto,
si faccia in compagnia di pochi scudo
contra gente guerriera, e mostri il volto.
E, non ch’altro, que’ pochi a’ quali il crudo
tiranno è guida a noi resister molto
già non potranno; e gente anco inesperta
de’ luoghi a men temuta esser non merta.
23Non avrem forse noi numero pare
di gente, che star possa a questi a fronte?
Contra tanti più brami? A me non pare
uopo ch’oste maggior con lor s’affronte.
Ma gente hai tu, ch’esperta e singolare
brama sol vendicar gli oltraggi e l’onte.
Ma sien pochi quest’altri e me per quanti
ci conti, e me di qual numero vanti».
24Sì parla il fiero, e desta in chi l’ascolta
di guerra e d’arme un temerario ardire,
e quella poca turba intorno accolta
gli acuti sdegni mostra in volto e l’ire.
E già del damasceno egli ha rivolta
la mente dubbia e ’l passo a non fuggire;
a quell’ordine, a quel parlare acerbo
ardiscon tutti, ardisce il re superbo.
25Ma non vuol già, poi che non ha sì certa
speme qual pria di rimaner vincente,
offrir la strada a i due prigioni aperta
di liberarsi ov’egli sia perdente,
che stima men che sia l’oste diserta
ch’ei mena, e rimaner privo di gente
che perder duo cotali, onde poi s’erga
l’oste fedel per loro, e lui sommerga.
26Di seco a l’or condurli avea pensato
che di vincer tenea più certa speme,
e temer non potea ch’avverso fato
sciogliesse il nodo, ch’or gli stringe e preme.
Or cangia egli pensier, ché cangia stato
fortuna, e seco ritenerli teme.
Pensò per poco spazio, e in somma fisse
di farne quanto a la nepote disse.
27Far ch’in Damasco, e dentro a la più scura
tenebrosa prigion, riposti sieno.
Così risolve, e ne dà lor la cura
ad uom ne la cui fede ha fede a pieno.
A questo impon che fin ch’entro le mura
di Damasco i prigion giunti non sieno
non posi, e perché far sicuro il possa
manda egli seco una sua squadra grossa.
28E perché, come lui fortuna inganna
egli Armida ingannare in ciò non resti,
perché se pure ella salvar s’affanna
questi, ch’esser a lui potriano infesti,
ch’ella il vero ne sappia in tutto danna,
onde, perch’a Damasco andar s’arresti,
subito lei ne manda un messaggiero
che menta novo inganno e celi il vero.
29A questo dice: «Or tu colà camina
ratto d’onde partimmo, e nove porta
che da noi per timor d’alta ruina
stato è de’ due campion la coppia morta,
e ch’a ciò far ne consigliò vicina
necessità, ch’a più crude opre essorta».
Così levar di mente a lei disegna
di salvar il disio, se pur vi regna.
30Vanne il messo al castello, e la gran coppia
a destra in vèr Damasco altri conduce.
Ma non così nel campo arida stoppia
arde, e Febo nel ciel così non luce,
come i cor generosi ira, ch’addoppia
sue forze in loro, e fuor passa e traluce,
e nel volto e per gli occhi a chi gli mena
destan terror, legati anco in catena.
31Così talor due generose fere
di Libia prese e in duri lacci avvolte,
col guardo sol, de i cacciator temere
fanno d’intorno a sé le turbe accolte,
e sì legate anche alzan l’altiere
cervici, e in chiome rabbuffate e folte,
benché in membri legate, appar di fuori
animo ostil che squarci e che divori,
32tal se ne vanno i forti, e ’l dubbio core
dentro mille pensier preme e nasconde,
qual uom che senza aver commesso errore
e per lungo uso d’innocenza abonde.
Non ben fra ʼl cupo e taciturno orrore
ha la memoria del fallo, e in sé confonde
l’ora, il modo, il misfatto, in tale inganno
vèr Damasco menati essi ne vanno.
Idetta, sorella di Goffredo, libera i due prigionieri facendo grande strage e si innamora di Rinaldo (33-57)
33Già più che mezzo avea nel carro d’oro
trascorso il biondo dio del suo viaggio,
et a dar cominciava alcun ristoro
compartendo a’ mortai men caldo il raggio,
e facea tremolar l’elce e l’alloro
l’aura, ch’ondeggiar fa le biade il maggio,
quando contra la turba un gran guerriero
vien solo, armato, sopra un gran corsiero.
34Sembra latte il corsiero o pur non tocca
neve caduta in solitario colle.
Neve sembra il cimiero, a l’or che fiocca
per l’aria e poi sopra il terren s’estolle.
Bianca è di spume e l’or morde la bocca,
che, più frenata, rende il fren più molle.
Terso e lucido acciar la testa e ’l busto
gli arma, e ’l fa vago e ’l credi anco robusto.
35Marte sembra al sembiante, e ben ch’il mira
Marte il diria, ma tien sospesa in alto
la visiera dal volto, e qualor gira
gli occhi move d’amor soave assalto,
atti a frenar nel petto a Giove l’ira,
e i cor ferir d’adamantino smalto.
E le sue lucide armi e senza fregio
sopravesta non han, vile o di pregio.
36Cavalca e sol ne vien lungo la sponda
destra il guerrier di chiaro e picciol rio;
van contr’acqua i prigioni, egli a seconda,
come d’onore il porta alto disio.
Rende il finto di lui lucida l’onda,
e, percotendo l’arme, il biondo dio
lampeggia, e pare oltr’ogni uman costume
se ’l sole in lui si specchi egli nel fiume.
37Guerrier questa non è, ma diella a l’armi
spirto guerrier che lei tolse a la gonna,
e val, quantunque giovanetta s’armi,
più di quanto aspettar si può da donna,
poco anzi chiusa, or vien che non risparmi
la vita in arme, e ne l’oprar s’indonna.
Idetta ha nome, al gran Buglion sorella,
che con Eustazio il forte era gemella.
38Piacque al fratel che questa in Oriente
con Gutura passasse in compagnia,
Gutura moglie a Balduin, ché sente
noiosa men con lei sì lunga via,
donna di regal sangue e d’alta mente,
e ch’in Francia menar con lei solia
l’ore del dì sovente, e l’era grata
qual suora o figlia sua, non qual cognata.
39Seco, benché di guerra il cor bollisse
quale a modesta vergine conviensi,
in Eraclea rimase e con lei visse,
nel molle sen chiudendo spirti accensi.
Cesse al fato Gutura; ella a l’or disse:
«Idetta, or quivi a che fermarti pensi,
dove il tutto il nemico intorno scorre
mentre lunge Goffredo inanzi corre?
40Già non debbo io da mal guardate mura
vergine donna sola esser qui cinta,
lunge da l’oste amica e mal sicura
di non vi rimanere un giorno estinta;
morte vile e plebea: da qual più dura
sorte esser può donna real mai vinta?
Meglio è là, dove in campo i miei germani
pugnan, morendo oprar per Dio le mani».
41Fatto questo pensier tace e provede
opportune al bisogno arme e cavallo.
Si serra in cella e vibra il brando e crede,
ché vigor sente in sé, di non far fallo.
S’arma il busto e s’addestra e ferma il piede,
lo scudo imbraccia e se pur poi portallo
usar, come conviensi in guerra, tenta,
e del proprio valor non si sgomenta.
42Poi che più giorni senza alcun contrasto
provata s’ebbe, ove nessun l’osserva
dal vil ozio a i perigli il petto casto
espone, et alcuno fido ha che la serva,
qual correr suol fiero leone al pasto,
o in selva i can fuggir timida cerva.
Né dubbio alcuno ha nel voler concorde,
ché l’è cibo il pugnar, l’ozio la morde.
43Partì soletta e sconosciuta, e mille
campagne corse, e riversò per terra
gente infedele; del suo onor faville
mostrò, cortese e valorosa in guerra
lontan da le cittadi e da le ville,
per non si scoprir mai baldanzosa erra.
Or sopra il fiume giunge e questi mira,
l’abito fedel nota e monta in ira.
44In arrivando avria la donna forse
d’amoroso stupor le menti ingombre,
ma come prima i suoi conobbe, e scorse
la squadra rea, le sue dimore sgombre,
ratto precipitosa innanzi corse,
pur come se ’l sentiero i venti o l’ombre
serrin leggiere e non d’armata gente
squadra di forze e di vigor potente.
45«Lascinsi» grida «questi, e più non prema
lor il collo o le braccia indegno nodo;
sotto carco sì vil più tosto gema
empia gente infedel, piena di frodo».
E sembra a l’or che più cruccioso frema
l’ondoso Noto, e ’l più vicin di sodo
urto in terra distende, e innanzi passa
per correr l’asta, e la visiera abbassa.
46A quel parlare, a quella ingiuria acerba
ciascun si desta a l’ire, e l’arme stringe.
Tema ancor non gli arretra, ancor si serba
l’ardire in tutti, e ciaschedun la finge
sua facil preda. Ella ne vien superba,
e ’l cerchio che con l’aste omai la cinge
rompe, e folgore sembra, e sol de l’asta
un colpo a levar due di vita basta.
47Un passato nel mezzo, e col troncone
l’altro percosso in testa a morte corre.
A la spada la destra ardita pone
e, in guisa di ben ferma eccelsa torre,
fra l’uno e l’altro prencipe prigione,
che stanno a rimirar chi gli soccorre,
l’impeto ostil sostiene, e ’l tempo attende
di sciorgli, e muor chi lei pur poco offende.
48Di sdegno il capitan freme e di rabbia,
ché vede far de’ suoi strage e macello.
Più di venti ne son sopra la sabbia,
morto o mal vivo questo, inutil quello.
La lancia arresta, e crede ben ch’ell’abbia
nessun riparo a quello scontro fello;
ma non piega lei più col grosso pino
che l’aura lieve pieghi il giogo alpino.
49Sostien, qual alto e ben fondato scoglio,
l’impeto ostil, ma non così sostiene
l’ingiuria, e con colui piena d’orgoglio
si stringe, che di novo a lei ne viene,
e «S’io son» dice «qui quel ch’esser soglio,
ben pagherai del troppo ardir le pene».
Mena in questo la spada e fiede in fronte
colpo che far potria piegar un monte.
50Piegò, mal grado suo, la testa altera
Idetta a l’or, ma in quel medesmo punto
ella il braccio cacciò per la visiera,
ch’a l’occhio destro, indi a la nuca è giunto.
Quel cade, ultima notte inanzi sera
mirando, et ella ad un che ’l braccio punto
le avea col brando, fere in su l’elmetto,
e ’l taglia, e parte il capo insino al petto.
51Morto è quel che di lor fu capo e guida,
e non san gli altri omai far più riparo.
«Sciolgasi» l’un prigione e l’altro grida,
«questi lacci, o guerrier, che ci legaro.
Lascia che questa man sia l’omicida
di quei che salvi le tue man lasciaroí.
Ella, ch’alcun no ’l vieta, a lor ne viene,
e fa in terra cader l’aspre catene.
52Freccia che d’arco fuor libera scocca,
fulmine che dal ciel Giove ne mandi
non sì veloce corre al segno, e ’l tocca
quella, o fa quest’alte ruine e grandi
di ben grosso parete a forte rocca
con lagrimabil danni e memorandi
com’or veloci e in forze estreme uniti
van di Marte essi a i sanguinosi inviti.
53De’ brandi, onde per man de la guerriera
morti tanti e feriti in terra sono,
arman le forti destre, e con leggiera
destrezza a due destrier, ch’in abbandono
vanno, premon le selle, e d’una altera
sembianza armati, in minaccevol suono
d’irate voci a la vil gente fanno
sentir atroce irreparabil danno.
54Quei van fuggendo ove a traverso il calle
per via men lunga a l’oste lor gli guide.
Ma tosto i liberati hanno a le spalle:
un di lor passa innanzi e lor recide
la strada al passo d’una angusta valle
(sì fra due tanta strage or si divide);
l’altro, che fu Tancredi, in dietro tenne
il passo, e da le spalle a ferir venne.
55Ma la guerriera, poi che sciolti gli ebbe,
e lor vide anco a vendicarsi buoni,
segue il dritto camin, ché gir vorrebbe
al fratello, e ’l destrier tocca di sproni.
Ma punta ella è d’amor, che tanto crebbe
in tòrre a le catene i due campioni,
che mentre sciolse altrui, legò la stessa,
e sentì al cor novella forma impressa.
56Ambi mirolli, ambi lodolli e parve
a lei ciascun di lor degno di pregio;
pur lodò più Rinaldo e più le parve
per beltà, per valor guerriero egregio.
Sentì colpo d’amor ma sogno o larve
lo stimò a l’or l’eccelso animo regio.
Seguir volse, e pentissi et ebbe a scherzo
scender dal quinto cielo armata al terzo.
57Ma quanto oltre più va, convienle a forza
sentir più il nodo che allaccia e stringe.
Fiamma sprezza d’amor ma non l’ammorza,
e quella serpe, e l’alma intorno cinge;
tacita ella trapassa, e de la scorza
non si contenta, e pur la donna finge.
Finge che non sia ver, ma sente in breve
che rimedio il suo mal più non riceve.
Idraote all’alba viene a giornata con Boemondo, la battaglia è incerta e sanguinosa (58-77)
58Ma già precipitoso il suo camino
trascorso aveva il sole, e ’l mar di Spagna
gli dava albergo in seno, e ’l peregrino
più non traggeva il passo a la campagna,
quando d’Armida il zio falso indovino,
che va per còrre e fia colto a la ragna,
poi che col vel copre la notte i poggi
vuol ch’ove egli si trova il campo alloggi.
59Riposa il campo ben, ma ’l cinge intorno
di fossa, e con tal guarda ei l’assicura
che temer non si possa oltraggio e scorno,
qual s’entro fosse a ben guardate mura.
Quinci partir disegna al far del giorno
per incontrar la buona o rea ventura,
e crede egli, per quel ch’ascolta e sente,
trovarsi a fronte i nostri il dì seguente.
60Non bene ancor da l’orizzonte i fiori
del coronato crin l’alba scopriva,
ma fra ’l vel de la notte i primi albori
incerti e dubbi ancor non desta apriva,
quando, senza sentirsi altri rumori,
l’oste infedel dal chiuso vallo usciva,
e in fermo ordin disposta a gire inanti,
con silenzio movean cavalli e fanti.
61Van taciturni e inanzi alcun precorre
lieve a scoprire e gl’inimici e ’l sito.
Segue il campo, e per via tenta raccorre
gente dal monte e trarla seco al lito,
onde numero par si possa opporre,
col già raccolto stuolo insieme unito,
al campo de’ cristian; ma co’ suoi mesce
gente, ma di vigor non già gli accresce.
62Turba inesperta e vile, e qual il caso
l’offre a necessità ministra indegna,
come se ’l prezioso umore al vaso
manca, e del vile empirlo altri s’ingegna.
Ma son disposti i primi e persuaso
s’han la vittoria, e questa e quella insegna
già tremar vedi al vento, e vedi il vento
l’arme insieme ferir (vano ardimento).
63Marcian le squadre infide, et han già corse
per la parte maggior l’ore del die,
et ecco un di color ch’inanzi corse
torna e, calcando or le medesme vie,
nunzio di certa nova al campo porse
come l’oste cristiana oltre s’invie
per larghi pian lunge sei miglia o manco,
e la segue per mar l’armata la fianco.
64Sotto ordine miglior le squadre a l’ora
varie e diverse il damascen raduna.
Qua scorre e là per l’oste e la rincora,
e ’l ciel finge propizio e la fortuna.
Corse passando un breve spazio d’ora,
quando a scoprir senza contesa alcuna
de l’oste avversaria in luminoso e chiaro
suono e splendor le squadre incominciaro.
65L’essercito fedele ancor che nuova
di tal incontro avuta egli non have,
pur tema vile in lui luogo non trova,
né punto a lo scoprir de l’arme prave.
Gli ordini il capitan vede e rinuova,
e scorre intorno baldanzoso e grave;
addita, a’ suoi guerrier, vinti e fugati
guerrier, non di valor ma d’ira armati.
66Così con fronte ardita inanzi vassi,
così da gl’infedeli inanzi viensi,
e non è chi ritrarre indietro i passi
o pur di tardo gire in parte pensi.
Fronti di cavalier co i ferri bassi,
e con gli spirti a sparger sangue accensi
vansi a ferire, e giù cader gli miri,
morti gli altri, altri trar gli ultimi sospiri.
67Alarco inanzi viene e ’l ferro abbassa
contra Gismondo, e morto in terra il pone.
Al fier Selin Riccardo il petto passa,
e traboccare il fa fuor de l’arcione;
de la spezzata lancia il tronco lassa
e trova Assan col brando e se gli oppone.
E la gente ch’è a piè confonde in tanto
gli ordini, e ’l tutto empie di morte e pianto.
68La gente è qui di men valor che pugna
d’ambe le parti, e nel pugnar son pari,
e si mantiene in stato egual la pugna,
e non appar ch’in parte alcuna vari;
par che d’ambe le parti a morte giugna
numero egual per tutto, e non prepari
o prometta vittoria ancor la sorte,
né segno alcun più in qua che in là ne porte.
69Fra le turbe pagane a l’or si mise,
con Sabin da Croton, Rugger d’Anversa,
alcun valor tanto fortuna arrise
che a favorir per loro i lor conversa:
gli spinge innanzi audaci e fra l’incise
membra e fra ’l sangue che deriva e versa
in lago omai, di sé lasciarvi grandi
d’alto valor vestigi e memorandi.
70Non fan più resistenza i Siri a l’ora
quivi al furor dei formidabil brandi,
ch’al superbo Aquilon piacevol ora,
o gregge a lupo che l’Ercinia mandi.
Tu per man di Sabin l’anima fuora
versi, o forte Rudeno, e mentre spandi
il proprio sangue non lontan ti vedi
Siracono il fratel cadere a i piedi.
71Al valor di due soli, a le gran prove
prende ardire il fedele, il pagan teme;
omai quel fuga e questi fugge, e dove
l’ardir fu pari in tutti or nova speme
di qua ministra ardore e forze nove,
di là morte, spavento e danno insieme.
Ma no ’l comporta lungamente il mago,
che spinge innanzi i suoi, di sangue vago.
72Et a Ruben, che verso gli arenosi
lidi il corno sinistro in guardia avea,
fa saper che co’ suoi più non riposi;
et ei poscia il destrier colà volgea,
dove di gloria due guerrier bramosi
più incrudelir ne’ danni suoi vedea.
L’asta contra Sabino arresta, e ’l coglie
a l’elmo, e piega lui, l’elmo discioglie.
73E torna, poi che disarmato ei resta,
per levar con la spada il capo al busto,
ma Ruggier se gli oppone, e da tempesta
schiva il compagno del tiranno ingiusto,
che tempo ha intanto di coprir la testa.
Ma stretti ambi ormai son da cerchio angusto
che gli preme, e di trarsi in lor si sforza
la sete che col sangue uman si smorza.
74Ma sdegnoso non men, non me feroce
da sinistra Rubeno entrò in battaglia
contra il destro de’ Franchi, in cui veloce
cavalleria contra il corsar si scaglia.
Tullo il forte gli guida, e con l’atroce
pagan di forze e di gran cor s’agguaglia.
Con lo squadron di mezzo intanto corre
Boemondo, e i primi che fuggian soccorre.
75Gli sgrida, gli conforta e lor la faccia
volger fa dove dianzi aveano il tergo,
e fra le turbe folte oltra si caccia,
come in riva del mar ne l’onde il mergo.
Convien che chi l’aspetta in terra giaccia,
e lasci l’alma il suo nativo albergo,
ché del braccio e del brando a i colpi duri,
non par ch’usbergo od elmo altri assicuri.
76Innanzi al mago, a Boemondo il forte
qui cerca ogni guerrier sembrare Achille.
Non pallida si vede errar la morte,
ma d’atro sangue rossa, e in guise mille
a i miseri mortali aprir le porte
d’Averno; e qui non vedi o righe o stille,
ma fiumi e laghi, e i vivi in lor sepolti
co’ morti insieme in vari monti accolti.
77Non è minor la strage, ove Rubeno
ha Tullo incontro e di Campagna il fiore.
Si scontran questi, e colpìr l’aste a pieno
su gli elmi, e fur del pari, e poscia fuore
trasser le spade, e d’ira accesi il seno
mostra ne fan tra lor. Ma quel furore,
quel furor che le schiere urta e confonde,
gli svia per forza a sfogar l’ire altronde.
Giungono Tancredi e Rinaldo, che indirizzano le sorti dello scontro: Idraote è ucciso da Tancredi e i pagani fuggono (78-94)
78Ma Rinaldo e Tancredi a lor grand’agio
fatto vendetta avean di mille torti,
e, già sorta la notte, ad un palagio
ne gian, lasciando a’ corbi i corpi morti.
Son d’arme proveduti, e dal disagio
non posan pria ch’a lor la fama apporti
d’Idraote il disegno, onde col sole
sorge la coppia e più tardar non vuole.
79Non molto inanzi andàr che da più freschi
avvisi udìr ch’ognior più s’avvicina
l’oste fedele, e i capitan turcheschi
pronti innanzi ne vanno a sua ruina.
Esca non è che così il pesce adeschi,
come or tal nuova questi, et a mancina
correr con tal prestezza al mar gli vedi
ch’orma i corsier non fan nel suol co’ piedi.
80Fortuna arrise al gran desir, che tosto
vider de’ primi fugitivi sparsi,
e ch’i due campi indi non sien discosto
da questi in mente loro assicuràrsi.
Seguiro, e de l’un campo a l’altro opposto
vider tosto le schiere insieme urtarsi;
ma così l’uno e l’altro ha il destrier lasso
che, non che a pugna, non son buoni al passo.
81Scorrer ne veggion molto a briglia sciolta,
scarchi in tutto del peso a selle vòte,
fuor de la zuffa mescolata e stolta,
tal che in miglior cangiar ciascuno il puote.
Ciascun montato, e grossa antenna tolta,
fra la calca più stretta urta e percote.
Or qual può densa calca o vigor saldo
non aprìrsi a Tancredi et a Rinaldo?
82Son tosto in mezzo a l’inimiche schiere,
né lor la lancia in mano ancor si rompe,
sì le due forti destre ora leggiere
provan le forze altrui, tanto interrompe
il corso a lor di mille e più bandiere
numero che si guasta e si corrompe,
e non resiste a lor più che si faccia
stormo d’alati vil s’aquila il caccia.
83Ma le sdegnano al fine, e via lontano
le gettano ambi, a fiera pugna intenti.
Ambi del ferro acuto arman la mano,
nullo intoppo è ch’a questi il corso allenti.
Vede Tancredi il zio che i monti al piano
alza egli sol de le straniere genti;
il riconosce a l’arme ricche, e ’l grido
alza, e se stesso scopre al popol fido.
84Si fa noto il gran nome, e fassi noto
l’altro per lui, non meno in guerra saldo.
Scorre intorno la fama, e del devoto
popol ne’ petti accresce ardire e caldo.
Già va dal più vicino al più remoto
luogo, e «Tancredi» in un suona e «Rinaldo»;
passa ancora tra’ pagan ma disuguale
da quel de’ nostri affetto a l’or gli assale.
85Orror più che di morte i cori ingombra,
pallor più che di morte i volti imbianca.
Fugge il sole, e l’orror cresce con l’ombra,
che cresce più quanto più il giorno manca.
D’ogni più fier pagan la mente adombra,
la man d’ogni più forte al tutto è stanca.
Morte e sangue il terren copre, e rimbomba
di strida l’aria e d’alto suon di tromba.
86Trova Tancredi Assan, che presso al mago
s’è posto, e ’l fedel impeto sostiene,
di morti un monte e d’atro sangue un lago
ha sotto, e ’l vede quando a sé ne viene.
No ’l fugge, e quasi di morir sia vago,
colpo menò; non già ferì, ma bene
l’altro percosse lui di così crudo
ch’in due parti cader gli fe’ lo scudo.
87Mena il brando di punta il fier pagano,
di far vendetta e di morire ingordo,
e ne la spalla al cavalier sovrano
lieve il tinge; ma quegli il suo fa lordo
nel ventre a lui. Veduto il corpo strano,
quei che fèr testa qui fuggon d’accordo.
Fugge ogni altro da lui; solo Idraote
sostener di morir per sua man puote.
88Giunge, e d’un tal fendente a l’elmo il tocca
che la testa piegar conviengli a forza;
ma sorge, e qual contra gagliarda rocca
machina grossa il valor suo rinforza,
l’elmo lucido e fin tocca e ritocca,
e fa il mago piegare a poggia e ad orza.
Poi quando sorger crede e vendicarsi,
vede il braccio sinistro anco tagliarsi.
89Si sente egli mancar; Tancredi al collo
drizza un grave fendente e ’l taglia netto;
quello in terra a l’or dà l’ultimo crollo,
e balza immondo fuor del cavo elmetto.
Non ben di sangue il pio campion satollo
si volge a gli altri, e del suo stuolo eletto
non è chi resti, e in volta rotta il campo
va senza aver da quella parte scampo.
90Rinaldo, che più inanzi era trascorso
dove è Ruben vèr gli arenosi piani,
corre, ché ’l vede a Bonifacio il corso
con due colpi troncare ambe le mani.
Ma se gli oppone a l’ora il forte Azorso,
ricco e noto signor tra gl’Indiani,
e vuol zuffa con lui, ma tosto cade
come innanzi al villan mature biade.
91Amurato, Ismaelle, Abdel, Sinoro
son da cento seguiti e gli fan cerchio;
cercan d’accordo lui ferir costoro,
ma s’avedran ch’ardire ebbe soverchio.
Abdel passa di punta e poscia al moro,
che si fa de lo scudo in van coperchio,
fende il capo in due parti, i due son poscia
feriti un ne la spalla, un ne la coscia.
92Gli altri di men vigor mostrare il volto
ormai non sono in parte alcuna arditi.
Ruben per man di Tullo a i vivi è tolto,
già fuggon tutti i Mori, e son seguiti
dal franco stuol, che stretto insieme accolto
sparge di sangue, empie di morti i liti.
Nel più alto non meno il Franco fuga
la gente di Soria, già volta in fuga.
93Ma qual fuga salvar feriti o stanchi
può, ch’altri non gli segua e non gli arrivi?
Nulla è velocità d’ardir che manchi,
nullo scampo ormai resta a’ fugitivi.
Cingonli intorno e minacciando i Franchi
serran la fuga; apron al sangue i rivi
e la strage a voglia lor tanta ne fanno,
che per molto ristora ogni lor danno.
94Fin’al fin dopo tanta strage impose
de la notte il principio a l’ira, al sangue,
e come oltra il Marocco il sol s’ascose,
non trovossi pagan se non essangue.
Fur le prede raccolte, e le noiose
piaghe curate a chi per Cristo langue,
e i due guerrier con Boemondo al cielo
le mani alzàr con pio devoto zelo.
Giunge ad Armida il messo di Idraote, le dà notizia della morte di Rinaldo e Tancredi: nottetempo lei si suicida (95-113)
95Mentre questo seguì, giunto era il messo
con la rea nova a la magion d’Armida,
et esposto l’aveva il finto eccesso
onde al pensier di lei l’opra recida.
E tosto ch’ella il crede esser successo,
sdegna che ’l cielo il voler suo derida;
ben la perdita sua, l’altrui sventura
pianger vorria, ma ’l duolo il pianto indura.
96Non mostra al messo il cor, ma cheta e sola
s’asconde a tutti gli occhi, e pensa e tace,
a la cara compagna anco s’invola,
né del comun dolor parte la face.
Cresce il duol mentre il chiude, e fa che vola
errando la smarrita alma fugace,
forse cercando unirsi a l’altra amata
alma, che del suo vel credea spogliata.
97Sì stette alquanto, e poscia in sé rivenne,
e dal profondo cor trasse un sospiro.
Girò il pensier con le veloci penne
tre volte a rimembrar l’aspro martiro;
tre girò tardi gli occhi intorno e venne
sparso sempre di morte alzato il giro;
tre sforzossi gridare, e tre la doglia
ritenne il grido, e crebbe in lei la voglia.
98Sorse di mezzo a l’ira al fine, e vinse
nel combattuto petto a forza il duolo;
ma né vittoriosa anco l’estinse,
né fello alzarsi quindi in fuga a volo.
Ma tanto ella il sopì, tanto lo strinse
che scorrer non potea libero e solo,
e troppo crudo al suon chiudere il varco
lasciando il cor di doppio peso carco.
99«Pur son finti» disse al fine «i tanti
piaceri, Amor, che mi versasti in grembo.
I tuoi risi han qui fin, l’avranno i pianti
che ne l’alma or mi fan torbido nembo:
usciran, bagneranno il petto e quanti
ne versi in me dal non veduto lembo;
pioggia saran di questa fronte e fuori
trarran la tua memoria e i miei dolori.
100Tirano ingiusto, Amor, de’ cori umani,
che con false lusinghe ognior gli alletti,
e di false speranze e piacer vani
empi le sciocche menti e cibi i petti,
tu pur vedrai la via con queste mani
aprirmi a l’alma, e sieno i tuoi diletti
nel veder il mio strazio e ’l fin de i giorni
che già fecer beati i miei soggiorni.
101Da le lusinghe tue tant’oltre scorta
me beata fra l’altre esser pensai;
mente folle d’amanti e mal accorta,
ch’al diletto seguir non crede i guai!
Mescesti il dolce de’ diletti, e porta
bevanda or di velen sì tosto m’hai.
Di te più ch’altra io ben doler mi deggio,
che tale esser con tutti io non ti veggio.
102N’ebbe il tuo regno mille, e mille n’have
di quei che di piacer colmar ti piacque
ch’amareggiar di pena o lieve o grave
non mai del fonte tuo si vider l’acque.
Io, questa è ingiustizia, un ben soave
gustai, che nato a pena estinto giacque.
Il doni e ’l serbi a gli altri; io me l’acquisto
e tu me ’l turbi, e togli il caro acquisto.
103Ladro di chi ti serve! Or quando udissi
di fede e premio in vece inganno e furto?
Quai non ti porsi preghi o quai non dissi
lodi in tua lode in questo viver corto?
Perch’il seren de’ giorni or m’ineclissi?
Et onde incontro m’è tal nembo surto,
se ’l promettesti a me, s’io da te merto
ciel senza nube e sol chiaro e scoperto?».
104Sì parla, e spiega il duol ma non lo scema,
pur nel fonte del core il serra e chiude,
e a quanto fuor n’appar titol di tema
dà con Erminia, e ’l creder suo delude.
Ma perch’ella se ’l taccia e dentro il prema
non però di morir la voglia esclude.
Tace quel che sa il cor la bocca, e dentro
alza l’anima il grido in mezzo al centro.
105Avea, per confortar già la dolente,
detto che come il sol nel mare scenda
per via, di notte, a la sua propria gente
vuol torli, e far di quell’error l’emenda.
Dice or di differire al dì seguente
l’andata, e finge per che farlo intenda.
Così fa, ch’altra via non l’è concessa,
mentre inganna colei, forza se stessa.
106Era la notte, e in grembo al queto dio
stanco prendeva ogni animal quiete,
tacean le frondi in selva, e ’l muto oblio
l’onde facea del mare anco star quete;
in mandra greggia, augel vicino a rio
truffato aveva e l’uom le cure in Lete,
quando partì da l’altra, e in più sicuro
sembiante a lei prescrisse il dì futuro.
107Son di marmi più fini e di dorate
travi e nobil pitture anco l’ornaro
due stanze, le più ascoste, in cui serrate
l’arme al venir de i due guerrier celaro,
ch’a l’uscir di Sion l’avean portate
sul carro, a l’or ch’in aria elle s’alzaro.
Qui poi che riman sola, al brando fisse
di Rinaldo le luci, il prese e disse:
108«O famosa di spoglie e nobil parte,
dolci quando ebbe in me dolcezza luogo,
ben è dover se quella or se ne parte
ch’io per voi corra al mio funereo rogo.
Morte lui che portovvi or da voi parte,
nulla io se in ciò v’adopro a lui derogo,
ch’io feci in parte errore, e non lo scusa
mia lingua, e pena il corpo or non recusa.
109Ma che? Fu lieve errore, error di cui
donna amante perdono impetrar deve.
Grave danno or ne segue, e questo in nui
vendetta chiede, e scusa or non riceve.
Io fui cagion che ne le mani altrui
venisse il signor nostro, io di far breve
il vital corso a lui, quando lo tolsi
al corso de la gloria e meco il volsi.
110Due son gli errori e gravi, e di due morti
rea sono, e volentier darei due vite;
ma se non l’ho, se pagar ambi i torti
non posso, almen due doglie insieme unite
con pronta voglia inanzi il sen vi porti,
e voi due colpe in lui così punite.
Gradisca una morte ei di mille in vece,
che tante io ne torrei, ma più non lece.
111Gradisci, anima amica, il mio morire
nel proprio affetto, e in tua vendetta il prendi,
e se non paga il danno, ammorzi l’ire,
di cui forse a ragione in me t’accendi.
Apri tu, ferro, il petto, e non soffrire
ch’altri m’uccida, e col mio sangue rendi,
te vendicando, e me rendendo essangue
del tuo fedel signor placato il sangue».
112Qui tace, e nudo stringe il brando fido,
e in terra il ferma e mostra al sen la punta.
Su ’l peso andar si lascia; alto lo strido
fuor esce, e fa sentir ch’a morte è giunta.
Le vicine donzelle odono il grido,
ciascuna corre e dal dolor compunta
è, ché nel sangue suo col volto immersa
la mira, e l’alma ancora e ’l sangue versa.
113Estremo ufficio e mesto, in su le braccia
recan il corpo omai di vita privo.
Chiama una Armida a nome, una la slaccia,
cerca un’altra se ’l corpo ancora è vivo;
ma, fermo gli occhi, impallidì la faccia,
e mostrossi a l’uscir lo spirto schivo,
schivo che ’l tarda il corpo e ’l tempo allunga
ch’a riveder l’amato spirto ei giunga.