commenti
riassunti
font
AA+
Chiudi

Cinque Canti

di Camillo Camilli

Canto IV

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 2.03.15 8:24

ARGOMENTO
Spronati da l’invidia, essortan molti
Raimondo che non ceda al pio Buglione;
ma gli ha Camillo in arbitri raccolti,
quai levan de la torre ogni ragione
a lui, che irato parte, e i passi ha volti
a Idetta, e seco alloggia in stanze buone.
Odon del fonte che del core il duolo
purga, e Raimondo là s’indrizza solo.

Alcastro sobilla Raimondo a rivendicare i propri diritti su Goffredo (1-11)

1Tal fu de l’armi e tal de l’arti il fine
che guidò mal consiglio, Amor compose;
tal chi tentò piegar le cime alpine
se stesso al basso in precipizio ascose.
Non così l’empio mostro a le ruine
de la cittate il fin bramato pose;
qui, del ciel grazia, il ver ch’alluma a pochi
la mente sgombra i suoi tartarei fochi.

2Girato intorno avea la peste rea
a invelenir per la cittate i cori.
Già l’alba in Oriente il crin parea
ch’incominciasse a inghirlandar di fiori,
e già sorgean per la cittate ebrea
i duci e i cavallier co i primi albori,
e voglia han di veder che non si pieghi
Raimondo, e ’l forte dimandato neghi.

3Anzi, alcun di loro, come l’iniqua
peste tacita dentro ancor lavora,
lunge da la lor voglia onesta antiqua
non così tosto uscir veggion l’aurora
e i lumi in ciel fuggir che per l’obliqua
strada guidati ove il guascon dimora
ciò che nel sonno essi gustar d’amaro
nel cor con vive voci a lui stillaro.

4Guasco, Guido, Roberto, Alcastro e molti
dopo questi a trovare il conte vanno,
e dentro al forte e intorno a lui raccolti
con vario dir lode e ragion gli danno;
e pienamente in favor suo rivolti
si mostran tutti, e d’ogni oltraggio e danno
con l’arme sue ciascun farlo sicuro
promette, e a lui serbare il forte muro.

5Ma più di tutti Alcastro in lui nutrica
quel verme che circonda e rode il core.
Essalta i suoi gran fatti e la nemica
cura inanzi gli pon del vano onore:
«Meglio è (dice) s’in selva o in piaggia aprica,
lontan dal ferro in ozio vil si muore,
che ne l’arme sudar, vincer, e vivo
soffrir d’onore e preda esser poi privo.

6Qual mai tentossi, o fe’ difficil prova
ch’ardito cor chiedesse ingegno acuto,
qual ne i corsi perigli o ne la nova
impresa uopo ne fu di fermo aiuto,
che tu primo no ’l dessi? Or che ti giova
l’aver fin ora il primo luogo avuto
fra ’l sangue e fra’ perigli al campo infesti
s’or, quasi un uom del volgo, indietro resti?

7Or va fra mille spade e mille lance
pronto e sicuro ad incontrar la morte,
libra i consigli tuoi con giuste lance,
onde spoglie e trofei l’oste riporte;
suda, e sii per valor di molte France
degno, saggio di mente e di man forte,
perché di pochi sassi un breve cerchio
premio sia detto al tuo valor soverchio.

8Se di risse fuggir desio t’invoglia,
né, per pace serbar, di premio hai cura,
cedi, e di quel ch’è tuo te stesso spoglia,
e l’altrui mente ingorda anco assicura.
Non si dirà giamai che santa voglia
ceder ti faccia, o spirto o mente pura;
ma diran tutti: a mantener costui
non valse il proprio, e ’l cesse in preda altrui».

9Così gli parla e a l’irritata mente
stimol novo l’audace Elvezio aggiunge.
quella doppio il dolore e i colpi sente,
e ’l desio manda ove l’oprar non giunge.
Parli che ’l re lo sprezzi e che vilmente
il tratti, e dal dover sia troppo lunge;
con bieco occhio gli onor l’alma rimira,
se ne degna e che gli abbia altri s’adira.

10Qual se fiamma d’incendio alto e rapace
nel primo impeto suo s’apprende e fuma
se nova esca è ministra al sen vorace,
quella anco accende e ’l tutto arde e consuma,
insolente s’estolle, e ’l corso face
in larghe falde e ’l mondo intorno alluma,
empie il tutto d’incendio e lo splendore
leva l’ombre a la notte e non l’orrore,

11tal in colui quel grave incendio d’ira,
che la face infernale al sen gli accese,
mentre in globi si volve e si raggira
e fa ne l’alma ognior più gravi offese,
più s’alza poi che l’altro al petto spira
novo furor, ch’anch’ei d’Averno apprese
di sdegno fuor mostra le fiamme, e ’l seno
bolle e d’oscure tenebre è ripieno.

Camillo si offre di mediare con Raimondo dalla parte di Goffredo (12-25)

12Ma ’l pio Buglion che ’l fine, ove con questi
principi vassi, ben conosce aperto,
gli mira e nota, e songli al cor molesti;
pur dissimula quel di ch’egli è certo,
non vuol pietà ch’in lui pensier si desti
contra quei ch’appo lui fur di tal merto;
ragion d’impero a lui spiacevol modo
detta di scior di questa lite il nodo.

13Volge il pensiero in questa e in quella parte,
com’uom che nulla cerchi e ’l tutto intenda;
fugge di rimirar quel moto ad arte,
ma teme poi che troppo in alto ascenda.
Periglio e sicurezza in lui comparte
cauti consigli, e brama in lor l’emenda.
Stassi qual fra due venti eccelsa nave
in moto, e ’l tutto osserva e nulla pave.

14Chiude ov’altri nol vede occulti i sensi,
parla ove altri nol sente e dice: – O Dio,
che con la giusta e larga man dispensi
le pene al trasgressore, i premi al pio,
se mai commisi error, s’aspro conviensi
da te castigo alcuno al fallir mio
da te sol venga e solo in me si stenda,
né tanto o quanto i tuoi fedeli offenda.

15E s’è scritto là su ch’io patir deggia,
o sia ragione, o sia giudicio occulto,
sia fatto il tuo voler, non fia ch’io chieggia
esser se non dal tuo favor sussulto.
Me servo prima in vil bassezza io veggia
ch’a’ tuoi fidi turbato il vero culto.
Com’esser può se questi impeti primi
con la tua santa mano or non reprimi? -.

16Lasciato avean le molli piume intanto
Guelfo, Camillo e i due minor Buglione;
questi già sono al pio fratello a canto,
avendo in rischio tal vari sermoni;
soggiornar gli altri due dopo lor quanto
basti a mostrarli a quello error non proni.
L’un quasi e l’altro a un tempo innanzi giunge
al re, cui l’alma il nuovo capo punge.

17Giunti costoro a la real presenza
fur dal Buglion con lieta fronte accolti.
Seguì fra lor breve discorso e, senza
che troppo altro si dica o più s’ascolti,
concluso han perigliosa esser licenza
quella ove correr già si veggion molti.
Ma come ella s’affreni in dubbio volve
ciascuno, e bene ancor non si risolve.

18Ceder dal suo proposto, oltra che fora
di viltà manifesta un atto indegno,
non si dèe far per la ragione ancora
che ’l mosse, pria di libertà, di regno.
Usar la forza e trarre il ferro fuora,
chiamando l’arme cittadine a sdegno
esser potria cagion d’alte ruine,
e di dare a gli acquisti un tristo fine.

19Dunque piacevol modi usar conviene,
e pria la lingua oprar di forza in vece.
Ma non fien forse i frati uditi bene
dal conte; a Guelfo farlo ancor non lece,
troppo grato al Buglion, che troppo tiene
di lui la parte, e re sol quasi il fece.
Camillo a l’or, che chine a terra fisse
tenea le luci, alzolle ardito e disse:

20«O sacro invitto re, cui con felici
armi passar il ciel tant’oltre ha dato,
sotto i cui fermi gloriosi auspici
pervenimmo de l’opra al fin bramato,
me nel numero ognior de’ fidi amici
riponi, o t’accarezzi o prema il fato,
altri se cangiar vede o stato o sorte
fé cangi, io sia fedel sino a la morte.

21Fedel non solo a seguitarti ovunque
tu di Cristo spiegar vorrai l’insegna,
ma, dove il voglia tu, pormi a qualunque
rischio, ond’opra di me si veggia degna.
Io pronto sono, or tu comanda adunque,
o pur col cenno il voler tuo m’insegna,
o vuoi ch’opri la man o pur la lingua
non fia che tale ardore in me s’estingua.

22Se via miglior ti pare e più l’approvi,
che i tumulti e le risse usare i preghi,
anch’io lodo il consiglio: or or si provi
come il conte al dover facil si pieghi.
Andrò, se credi che ’l mio andar ti giovi,
starò s’egli è nocivo e se mel nieghi;
tuo son, tu mi rifiuta e tu m’eleggi,
fien le tue voglie ognior mie ferme leggi».

23Sì disse, e in atto riverente e chino
la risposta il guerrier tacendo attese.
Mirollo il re nel volto, e poi vicino
gli venne, e stretto con le braccia il prese.
«Specchio tu sei del vero onor latino,»
poi disse «e non potrian le dubbie imprese
né da forze maggior né da più dotte
voci al fin desiato esser condotte.

24Non tu da noi più d’altri avesti mai
cosa onde più voler deggia per noi.
Libero don del tuo voler ci fai,
premio adeguar non puote i merti tuoi;
premio maggior nel Vaticano avrai
d’onore almen fra tanti antichi eroi.
Qui tu dispon del tutto, e da noi spera
là testimon de la tua lode vera.

25A voler così buon, a sì gran senno
conforti altri o ricordi or non occorre;
serve in vece del dire al savio il cenno,
nodo poi tu più inviluppato sciorre.
Questi o da nullo o scior da te si denno:
va, parla, odi, rispondi, a te comporre
lice il tutto; in te poso, e nel tuo petto
d’ogni affar lieve o grave il fin rimetto».

Camillo convince Raimondo a portare la questione davanti a un giudice, visto che il tolosano rifiuta ogni mediazione (26-43)

26Tronca gli indugi a l’or colui ch’ascolta
il suo parlare e per la via del monte
vanne, ove ormai gran gente insieme accolta
le lingue ha quete u’ son le voglie pronte.
Di luogo in luogo va, che no ’l può folta
turba impedire, a ritrovare il conte.
Con lui s’arretra in parte ove non l’oda
altri, e la lingua in queste voci snoda:

27«Signor, quai moti sorger miro, e quale
n’è la cagion? Qual brama o qual speme
gli alletta o nutre? A qual verace male
ne porta ciechi falsa ombra di bene?
L’aver Cristo seguito or che ci vale
se contra lui con l’arme sue si viene?
Numer di merti in lungo oprar che giova
se gli estingue or picciola colpa nova?

28Ché non miriam d’accordo il biasmo e ’l danno
ove util vano, u’ falso onor ne porta?
Lungo viaggio e periglioso affanno
sofferto, e tanta gente in guerre morta
tanto in petti fedeli or non potranno
che la luce del ver da lor sia scorta?
Ah non guastin vil brame imprese tali,
che dar ci ponno in ciel seggi immortali.

29Ben diranno i signor de l’Oriente
che d’onor e d’imperio ingorde brame,
e non zel di pietà, pietosa gente
movesse a l’arme, al sangue in fier certame.
Fien le fiamme di gloria al tutto spente
per ciò, ma non di posseder la fame,
ché non si può qua giù render mai pago
l’uman desio, sempre d’aver più vago.

30Ma peggio fia che dal voler discorde
allettati, ardiranno a i nostri danni
molti unirsi in un voler concorde,
tosto opprimendo i novi eretti scanni.
Popoli numerosi e voglie ingorde
non lasceran che con girar de gli anni
si fermi il santo acquisto e fia del tutto
per sì lieve cagion perduto il frutto.

31Ma quando pure in questi moti avrai
qui stabilito tu con l’arme il piede,
dimmi, i moti e l’error non piangerai
che torni in danno a la cristiana fede?
Come l’ire aguzzar, come potrai
volger il ferro in chi ben dritto crede?
Pensa che Cristo al fin di tal fatica
ci veggia in arme e ce ne biasmi e dica:

32- Voi dunque sotto i gloriosi segni,
gente fedel, popol amico accolsi;
vi fei di palme vincitrici degni,
schiere di vita e fier tiranni tolsi
perché l’invidia al fin destasse a sdegni
le man ch’a l’opre gloriose io volsi?
Or cieco impeto vostro a perder viene
quanto succeder mai vi feci a bene?

33Così dunque stimate, ingrati, il dono
favor del Ciel, ch’accolse i vostri voti?
Autor io dunque sol così ne sono
creduto, o questi sono i cor devoti?
Quanto con larga man cortese io dono,
così poi si disperde? e sì mal noti
vi son del Cielo i benefici e l’ire
ch’irritarle e sprezzarli avete ardire? -.

34E se ciò noi pensiamo, e ’l giusto e ’l vero
con dritto occhio miriam, chi fia di noi
sì di sé vago e incontro Dio severo
che l’alma osi aver sorda a i detti suoi?
Ah ben misura il fatto, e dal primiero
disegno parti; onde si dica poi:
questi altri vinse, e le vittrici spoglie
cedendo altrui, sé vinse e le sue voglie».

35In tal forma gli parla, e quel non piega
l’altera mente al dire e non si move.
Risponde a le ragion che l’altro allega
sempre in favor di sé querele nove.
Ritenta quegli indarno, e ’ndarno il prega,
null’arte par ch’al suo consiglio giove,
ché con suoi detti molli o parlar grave
di trarlo in suo parer forza non have.

36Da le molte ragion che vere adduce
cieco affetto infernal il conte arretra,
né il ver che sciolto in dolci detti luce
fra gl’infetti pensier passa o penetra.
Parte serra l’orecchie il mostro truce,
e fa che ’l buon latin più non impetra,
che se dal nudo scoglio altri disegna
acqua trar che ’l desio di ber gli spegna.

37Come suol quercia annosa al soffio irato
di Borea salda star ne i gioghi alpini
a l’or ch’ei freme e in contro al ciel turbato,
par che la cima or l’alzi et or l’inchini,
n’odon le stelle il grido, e ’l suolo alzato
di scosse foglie copre i fior vicini;
sta salda ella lo scoglio, al ciel la fronte
va, quanto la radice in giù s’asconde,

38tal è il conte a le voci, e tale il duro
petto molle parlar percote e batte.
Ma qual chi forte inespugnabil muro
con valoroso ardire in van combatte,
poi ch’è di non salire ormai sicuro
a le merlate cime, oltra le fatte
macchine a danni lor tosto appresenta
e d’impeto maggior l’assalta e tenta,

39tal il guerrier, poi che del conte vede
la mente ch’ostinata al ceder tiene,
né più ciò ch’ei domanda ottener crede;
con altri preghi ad altro assalto viene:
«Se pur (dice), signor, ciò che si chiede
neghi, un altro partito or mi sovviene;
e se di tua ragion sì certo sei,
tu quel ch’io t’offro ricusar non dei.

40Né già dovrà, credo, parerti strano
se tu col re di questo or vieni a lite,
placabil por le tue ragioni in mano
a chi l’intenda, e poi ch’avralle udite
cessin vostri litigi al tutto, e ’l vano
desir con cui la strada a l’ire aprite.
Colui possieda il forte a cui per dritto
di ragion sie da buon giudice ascritto.

41Così non fia che contr’alcun ti snodi
la lingua, e te quel temerario accusi,
se tu con quei che son debiti modi
senz’arme tua ragion dispieghi e l’usi;
così non fia che per alcun ti frodi
il merto tuo. Ma se far ciò ricusi
oltre che ’l dover fuggi, incontro t’armi
de i miglior, giustamente, i cori e l’armi».

42Tace, e del conte a la seconda offerta
piega la poco dianzi mobil mente,
che ’l furor che l’istiga ancor l’accerta
di sua ragione, e ragion detta e mente.
Dice che vede ognun quanto egli merta,
nessuno il biasma o in disfavor gli sente.
Con tal pensiero a tal partito appaga
la mente nel suo error costante e vaga.

43Qual chi de l’altrui morte avido pensa
tosco nel vaso por ch’egli presenta,
e letargo in bevanda a lui dispensa,
contrario effetto al mal ch’ei brama e tenta,
sì del mostro la face, in giri ascensa,
queta i romor mentre il colpir non lenta,
ch’altri al conte vil fece e fe’ che tenne
se stesso in pregio, onde a l’accordo ei venne.

La torre viene data in custodia a Goffredo in attesa del giudizio, Raimondo se ne sdegna e parte dal campo dopo aver cambiato armatura (44-50)

44E tal sente lo stesso ancor vivace
stimol di merto il generoso cor,
ch’a l’ora a l’or, come a Camillo piace
consegna ad altri il forte e n’esce fuore,
et in vece di lui restar vi face
d’Alvaro a la custodia il buon pastore,
con patto ch’egli a quello in mano il dia,
che di ragion giusto signor ne sia.

45Ma fosse o ragion certa od ira ascosta
che, ben ch’in van, temesse il suo custode,
che non ben se n’ha il ver, non ben proposta
sua ragion prima, vede il conte et ode
ch’in man la torre al pio Buglione è posta,
onde si duole, e sdegno il cor li rode.
Ma convien ch’egli taccia al fine, e toglia
di far la sua conforme a l’altrui voglia.

46Non però così dentro il suo mal preme,
che di sentirsi offeso ei non dia segni.
Qual vapor ch’entro a nube ascoso freme,
e par che di star chiuso si sdegni,
fuor esce a forza al fine, e seco insieme
i lampi alluman di Giunone i regni;
tal preme e freme e il conte il duolo, e poi
mostra quanto tal danno il cor gli annoi.

47L’impeto, che sfogare egli non puote
contra color da cui si tien sì offeso,
in danno suo ritorce, e ripercote
tutto in sé sol de la vendetta il peso.
Dispone indi partirsi, e vuol che note
ciascun di quanto sdegno ha ’l core acceso.
Così vuol, ch’altro a lui non si concede,
vendetta far di quel che torto ei crede,

48ch’assai ben vendicato esser si stima
qualor di sua presenza il regno privi.
Dal giuramento i suoi libera prima,
onde vada ciascuno o resti quivi,
«Ma non fia ch’alcun più calchi o deprima»
dice «et o pur novo periglio arrivi,
come a l’or esser conosciuto e pianto
dal re, da’ suoi più cari ancor mi vanto».

49In forma di trofeo l’usbergo pende
de l’antico tiranno e le sue spoglie,
cui barbaro lavor pompose rende
l’estreme parti, e in vago fregio accoglie.
Già vincitor serbolle, or se le prende,
se n’arma e copre il busto, e non già toglie
l’arme solite sue, ché sconosciuto
caminar molte miglia è risoluto.

50Oltre che può, di queste armato, in parte
alleggerire il suo dolor novello,
e noto al mondo far quanto gran parte
di vittoria ebbe in quello assalto fello.
Così tacito e solo indi si parte,
e gli amici abbandona e ’l regno, e quello
dolor che ’n mezzo al cor gli ha fatto stagno
noioso vanne al suo partir compagno.

Lungo la via incontra Idetta, vengono a duello ma poi si riconoscono (51-68)

51Volge, come il pensiero, in vèr Ponente
tacito ancor gli sconsolati passi.
Duro intoppo non è che ’l suo pungente
stimolo allenti, non che vinto il lassi;
pur lo rivenne a forza il dì seguente,
nel camin dritto ove a Damasco vassi,
scontro fier ch’arrestollo, e ’l suo veloce
corso frenò bel volto e man feroce.

52D’Ida incontrò la generosa figlia
che, i due prencipi sciolti, in vèr le mura
or soggette al fratello il camin piglia,
e nel cor preme alta nova amorosa cura.
La guerriera e ’l guerrier, basse le ciglia
tiene in passando, e l’un l’altro non cura,
ch’egualmente ei di sdegno, ella d’amore
soggetti in altra parte han fisso il core.

53Passata, ella in sé pur torna e si pente,
come da lungo sonno al fin si svella,
si volge indietro e al cavalier pon mente,
che tacito oltra il corsier punge, et ella,
come sia saracino, audacemente
seco a mortal guerra tosto l’appella,
che vincer crede e crede insieme farsi
preda il guerrier e di sue spoglie ornarsi.

54Appar in esse il barbaro ornamento,
e ’l fa creder a lei quel che non era,
ché la croce purpurea in puro argento,
che noto il potea fare a la guerriera,
un vel d’or gli copre, et ella drento
cela, com’egli, il volto a la visiera,
sì che non conosciuti oltra ne vanno
con generoso ardire a farsi danno.

55Né già può sopportar l’audace vecchio
di nemico guerrier secondo invito;
gli fa incontro feroce alto apparecchio,
non men di cor, non men di voce ardito:
«Ecco (intrepido dice) io m’apparecchio
a mortal pugna» e far le crede il trito
sentier batter col dorso a viva forza,
e mentre ardisce più, più si rinforza.

56Prendon del campo e muovon lenti al corso
prima i destrier, poi fan sentir lo sprone
più forte e spesso, e provar fanno il morso
men tenace a i destrieri, e ciascun pone
mira al ferire e piega inanzi il dorso,
e ben si ferma in sul serrato arcione.
Raimondo l’asta a la donzella in fronte
ruppe, e non piegò lei più ch’aura monte.

57Egli è colto da lei sopra lo scudo,
ma da più forte braccio il colpo venne:
stracciossi il velo a l’ora, e di quel crudo
scontro cadere il tolosan convenne.
Torna la donna a lui col ferro nudo,
poi che l’impeto primo ei non sostenne;
ma pender mira da lo scudo il velo
e vede il segno riverito in Cielo.

58Stupor, dolor del caso indegno e reo
sente la donna, e immobil quasi adombra.
Qual già veduto il gran figliuol Teseo,
da la spada fatal discussa l’ombra,
pianse per ira e per letizia Egeo,
sì da timore ebbe la mente ingombra
tal del colpo presente e del periglio
de gli altri versa pianto ella dal ciglio.

59A lui, che de l’oltraggio a la vendetta
pronto in piedi era sorto, e d’ira pieno,
come lieve suol d’arco uscir saetta
o fuor di nube lampeggiar baleno,
già venia per ferir, con voce Idetta
parlò, l’arme e la man tenendo a freno,
«Ah cada l’ira al seno, il taglio al brando
fra noi, signor. In grazia io tel domando.

60Io, che fui primo a domandar battaglia,
son primo a chieder pace, e dommi vinto;
e s’al mio grave error pur non s’agguaglia
valore o merto, e rimanere estinto
un di noi deve, or or di piastra e maglia
me sgravo, e te signor lascio far tinto
ne le viscere mie l’ingordo ferro;
e perch’agevol più ti sia m’atterro».

61A cotal dire il conte, a quel soave
suon de la voce anch’ei depor lo sdegno
vorria, ma gli par poi che troppo aggrave
l’onor se del suo ardir non mostra segno.
«Error del primo fia l’altro più grave,
se chi non fa difesa a ferir vegno»,
dice, et a lei che più non si difende
fa risposta col dire e non l’offende.

62«Usa pur la tua sorte; o qui morire,
o vincitor del tutto ir via convienti,
né potran molli detti unqua addolcire
mia mente, o render men gli sdegni ardenti.
Dimmi tu la cagion che dal ferire
t’arretra, e se pur tal me la presenti
che ne fia degna, anch’io forse potrei
teco addolcir gli sdegni e i detti miei».

63«Cotal, signor (gli dice Idetta a l’ora),
e tanto giusta è la cagion ch’io reco
che puoi ben tu depor senza dimora
l’ire, e voler pace e concordia meco.
Pugnar non dèe guerrier che Cristo adora
con guerrier che di Cristo i segni ha seco:
tal sei tu, tal son io; di morte siamo
entrambi rei se ’l ferro in noi volgiamo.

64E se prima io sapea quel ch’ora aperto
veggio, stato sarei men pronto a l’arme.
Celommi l’esser tuo l’abito incerto,
mia sorte poi venne di dubbio a trarme.
Tu perdona l’errore o, s’io nol merto,
qual più t’aggrada puoi castigo darme».
Tace, e dolor del fatto in sé nasconde,
attenta a quel che ’l tolosan risponde.

65Fatto il conte a quel dir già mansueto,
«Anch’io, se di te vero è quel ch’io n’odo,
a le ragion del tuo parlar m’acqueto,
e ’l tuo volere abbraccio e ’l valor lodo;
né vèr te sarei stato io men quieto
s’io sapea il ver, che di sapere or godo.
Ma perch’ancora io ti conosca in faccia
come di fede pio, l’elmo ti slaccia».

66Sì dice; ella, che quanto andar celata
più può si sforza, il nega e se ne scusa.
Instà il conte, e ch’a farlo era obligata
gli mostra, ond’ella al fin non lo recusa.
Si disarma la testa, intento guata
egli il volto, e non men se stesso accusa,
ché può, ben ch’in discordia sia col frate,
sopir lo sdegno in lui tanta beltate.

67Già lo conobbe in Francia, a l’or ch’infante
d’anni tenera ancor solea vederla;
poi nel camin de le fatiche sante,
quando a Gutura i suoi compagna dierla,
in più d’un luogo tante volte e tante
la vide, che ben puote in mente averla.
Ha stupor nel mirarla e l’ha maggiore
d’averne in sé provato anco il valore.

68Già de l’obligo suo l’alta donzella
sciolta, il medesmo al tolosan richiede;
scopre egli a l’ora il crin canuto, et ella
venerabil di faccia un vecchio vede.
Cerca da lui saper come s’appella;
ei non gliel nega, e non torce indi il piede,
ché, la cagion di sue discordie udita,
a tornar seco onde partì l’invita:

Si avviano insieme verso Gerusalemme, per volere di Idetta (69-78)

69«Ben quantunque altra volta io non vedessi
te nel volto signor fra ’l popol fido,
a le gran voci de i gran fatti espressi
n’udii talor ben glorioso in grido.
Or poi che qui, la Dio mercede, i messi
di quanto oprasti in quello e in questo lido
non odo ma con te parlo e ti veggio,
non mi negar ciò ch’in favor ti chieggio.

70Colà meco t’invia, non si disgiunga
l’un da l’altro voler, s’uniti furo.
Tosto verrà che d’un parere congiunga
te seco il Ciel, che cura ha del futuro».
«Ben amo il tuo voler, ma non ti punga
(dice) se di tornare oltra non curo:
là dove io fui schernito esser non voglio;
ma ch’io non possa a te piacer mi doglio.

71Tu non creder però che ’l non tornare
a servirti men pronto il cor mi renda;
bramerò sempre in tuo servigio oprare
gran cose, ove la vita ancor si spenda.
Così ti giuro, or dammi tu di fare
occasion di questo error l’emenda,
ch’erro, ov’io non compiaccia, e ’l veggo certo,
a donna di tal grado e di tal merto».

72Ripiglia a l’or le sue parole e «Poi»
dice «che ’l tuo parlar mi fa sicura,
l’offerta accetto, e tu serbarla puoi,
e fare il dei, già che tua lingua il giura.
S’a le prime domande mie non vuoi
renderti molle, almen d’un’altra cura
ch’intorno al core or mi s’avvolge fammi
libera tosto, e ’l tuo consenso dammi».

73«Chiedi pur (dice il conte a l’or), che dove
utili ti sia son ad ogni opra accinto,
e la mia fede or con promesse nove
t’impegno, come a vincitore il vinto».
Baldanzosa ella a l’or la lingua move
con dolce riso, in cui veder dipinto
puossi del nobil core un bello inganno,
ma tal ch’è senza offesa e non fa danno.

74«Già son più dì che peregrina errando
vo per far di me prove ardita in arme,
ardir ch’in donna è raro, e pur mirando
di nobil donna indegno egli non parme;
no ’l sanno i miei nel vero ancora, e quando
vedrammi incerta son come accettarme
debbano. Or tu lor mi presenta e spero
che così l’error mio parrà leggiero».

75Qual fier leon che rotto aver si creda
ne i salti di Numidia a forza il laccio,
poi nel voler qual pria fuggir s’avveda
esser più tosto astretto dal nodoso impaccio,
e non potere al fin fuggir, che preda
non sia così del cacciatore al braccio,
freme in suon d’ira generosa e in vano
sprezza, in cervice altier, non forte mano,

76tal quando esser ormai crede Raimondo
da quelle prime sue domande sciolto,
si sente a’ preghi suoi da quel secondo
laccio di fede esser più stretto avvolto,
Fuor lampeggia nel viso anco iracondo
ciò che ’l cor generoso ha in sé raccolto;
ma, poi ch’altro non può, s’adatta e in sella
monta, e prende il camin con la donzella.

77Ella che ben del suo dolor s’accorge,
quanto sa meglio a consolarlo attende:
«Signor (dice), non vedi a quanto sorge
calmo la tua virtù, com’ella splende?
Se nel seren de l’opre sue si scorge
che per oltraggio cortesia si rende,
che s’a Goffredo io son grata, ne deve
grazia egli a te, dal quale or mi riceve».

78Ambi così da pensier vario punti
verso un colle ne van, che poco s’erge.
Ma i destrieri del sol son quasi giunti
a Calpe, in Calpe il carro ormai s’immerge,
e da l’aureo timon ratto disgiunti
questa ora e quella il crin sudato terge,
e poco men che bruna l’aria in fronte
fa d’albergo pensar la donna e ’l conte.

Lungo la strada incontrano un palazzo, vengono accolti da un cristiano che racconta loro la propria storia di redenzione dal peccato e indica loro una fontana incantata che purga l’anima (79-112)

79Veggion ch’a man sinistra, oltra le spalle
di picciol bosco un gran palagio appare;
ambi colà prendon d’accordo il calle,
dove a’ corpi potean riposo dare,
a le menti non già, ché girar falle
qua sdegno, amor colà in pene amare.
Là sono al fin, dove in real sembiante
veggion lieto venirsi un uomo inante.

80Sollevan ambi alquanto i cor sepolti,
l’una in cure d’amor, l’altro di sdegno,
ché da colui con lieta fronte accolti
forza è che dien pur di letizia segno.
Poi che se mirar lice i cor ne i volti
essi nel suo d’amor han certo pegno.
Smontan, pregati, e sotto a l’aureo tetto
han da l’ospite lor fido ricetto.

81Questi è cristiano, e benché l’arme finte
veggia e la finta altrui nova divisa,
nondimen, poi che sa che al tutto estinte
son le forze pagane, il ver s’avvisa,
ch’alcun fedel forze nemiche vinte
abbia, e se n’abbia ornato in quella guisa.
Ma poi che ’l ver da loro adagio n’ode
più gli onora e d’averli in casa gode.

82Nobil d’arte e di pietre, ampio e capace
la nobil coppia il bel palagio vede.
Ammira intorno il tutto e si compiace
del tutto, e ’l cenno e ’l die ne fanno fede.
Gente in abito d’ozio, avvezze in pace
è, quale il luogo e ’l suo signor richiede,
quella che vi soggiorna et or gli accoglie
con lieta fronte entro a le regie soglie.

83Già l’ora il signor chiama e gli osti a mensa,
ove a servir presti ministri foro,
dove in copia la Copia apre e dispensa
ciò ch’esser può de’ corpi ampio ristoro.
Dopo il cibo i signor, di face accensa
a più d’un lume, a mensa anco restoro;
i due quindi al signor ch’ospite n’era
chieggon de l’esser suo contezza vera.

84«Se pur saper a noi tant’oltre lice
o del parlare il peso non t’è grave,
volentieri udiremmo» il conte dice
«come il viver qui solo or non t’aggrave,
onde venisti, e qual tristo o felice
successo abbandonar costretto t’have
le città regie, e la tua prima sorte
dinne, fin ch’ora tarda il sonno porte».

85Serenò a l’or la generosa fronte
più de l’usato l’oste e gli rispose:
«Ben voi degni parete a cui si conte
ciò ch’ad altri mia lingua ognor nascose.
Le voglie a compiacervi ho poi sì pronte
che, se bene i color tolti a le cose
ha la notte già molto e cader veggio
le stelle, io recusar no ’l voglio o deggio».

86Indi ripiglia il dir: «La patria mia,
ove di nobil gente io venni al mondo,
fu Partenope bella, e in signoria
d’assai terre vi ressi un tempo il pondo,
che quanto il padre mio regger solia,
poi ch’egli giunse al suo viver secondo,
ressi, acerbo d’età; ma come poi
regger non seppi me, saprete voi.

87Su ’l fior de l’età mia, quando per mille
vie con vane lusinghe Amor n’alletta,
arse, o d’arder mostrò, d’alte faville
donna per me, ch’al grado esser negletta
degna non fu; costei bagnar di stille
vidi il viso più volte e, se con retta
mente veder si può del cor l’interno,
scolpito il vidi nel sembiante esterno

88Io, che di sì gran donna in me conversi
esser d’amore i bei pensier m’avveggio,
ciò che fino a quel dì mai non soffersi
amai (no ’l nego, e già negar nol deggio):
la via per gli occhi insino al core apersi,
qui fermò sua beltà stabile il seggio.
Così mentre al suo foco arder appresi,
per lei me stesso d’alto incendio accesi.

89D’ambi arrise al voler ne i primi giorni
con più fausti successi amica sorte,
che di vista goderci in bei soggiorni
spesso potemmo entro la regia corte.
Qui non è chi pur noti e chi distorni
che con dolci talor maniere accorte
sagaci arti d’amor, nunzie del vero,
non scopra l’uno a l’altro il suo pensiero.

90Risi, sguardi, sospiri, moti e favori
spesso e di pari a l’or tra noi s’usaro,
che per essi mandàr l’anime fuori
e fede in me di certo amor doppiaro.
Né, vaglia il ver, diletti unqua maggiori
alme felici in sé qua giù provaro
come quelli onde a l’or mi sentii pieno
sovente aver fra tai cagioni il seno.

91Chi misura le fiamme o può dir come
amore impaziente è di riposo?
Gran cose in breve oprai, feci il mio nome
celebre e noto, vil prima e nascoso.
Io per piacer a lei non ebbi dome
le forze mai, non mai grave o noioso
periglio o danno in me timore o duolo
destàr; feci idol mio suo cenno solo.

92Ella molto per lei mi vide oprare,
or volontario or come ella m’espresse,
e, se fede del ver nel volto appare,
nel volto ancor mie vive fiamme lesse.
Piacer mostronne, e ’l disse, e voler dare
onesto premio al mio servir promesse;
commoda un giorno al fin l’ora prescrisse
sicura, e fece a sé chiamarmi, e disse:

93- L’eccelse prove e i gloriosi gesti
di tua mano al mio cor fiamme portaro,
ma tu com’esser tal giamai potesti?
quai merti fiamma in te giamai destaro
che miro? o donde nasce? e quali avesti
cagion d’amarmi? et a qual fin miraro
i pensieri alti tuoi, ch’era ben degno
che drizzassero il volo a più bel segno? -.

94- La mia stella, il tuo gran merto
rete al destino e a le mie voglie ordiro
(dissi), e ben tu vedesti il core aperto,
né in beltà gli occhi a me più cara or giro,
segno chiaro a’ miei pensier più certo.
S’io servo te, sudando anco respiro,
et, oh gran tua mercede, et oh miei lieti
giorni se non lo sdegni e te n’acqueti! -.

95Ahi strada erta d’amor! Non fu concesso
più spazio o lungo o breve al parlar mio,
qual si fosse sua mente, e venne appresso
intoppo fier che ’l dir nostro partio.
– Tieni – io le dissi al mio partire – impresso
nel cor ciò che mia lingua ora t’apr’io,
ch’io sarò sempre tale -. Ella rispose:
– Terrollo -, e ratta a gli occhi miei s’ascose.

96Lieto più che mai fossi altrove io torsi
pien di gioia infinita a l’ora il piede.
Maggior che pria la speme a l’alma porsi,
premio aspettando al mio servir con fede.
Più oltre al fin col gran desio trascorsi
che per cosa mortal non si richiede,
ch’appresso lei credendo essere in pregio
altri e me per lei sola ebbi in dispregio.

97Molto in questa credenza io vissi, e vinsi
per lei con lieta fronte aspre contese,
e sol quanto per lei servir mi accinsi,
o per piacerle in perigliose imprese,
vissi caro a me stesso, e spesso tinsi
d’ostro il volto, e per segno ella palese
come prima ebbe poi del grande amore
opre più vive in testimon del core.

98Io, grave o lieve, ogni altra cura avea
de la patria e di me posta in non cale,
e sì cieco era a l’or ch’io non vedea
l’altrui picciola fede e ’l mio gran male.
L’occhio e ’l pensiero in lei sol tenea,
mentre ella a mille infida e disleale
farsi oggetto di mille in mente s’era
disposta, in vista accorta e lusinghiera.

99Ma non lunga stagion s’inganna amante
che pien di fede infide opre rimiri:
scopersi al fin l’errore e vidi quante
alme lacci tendean de gli occhi i giri.
La mia folle credenza e le sue tante
false lusinghe a l’or, falsi sospiri
piansi, e fu poco aver bagnato il volto
ch’anco fui per venir di sdegno tolto.

100Tant’oltre aveva omai trascorso amando,
mentre che ’l ver non vidi a gli occhi ascosto,
e ’l varco chiuso al ritornar che, quando
io di lasciar l’impresa ebbi disposto,
non potei dal mio cor cacciare in bando
quel pensier ch’entro a lui s’era riposto,
fermate avendo in lui le sue radici
col promettergli sempre i dì felici.

101Sostenni a l’or ciò che ridir non puote
lingua mortal, non petto uman soffrire;
vide ella il mio dolor, le furon note
mie pene, e non curò del mio languire,
là dove più mal si vede e più percote,
qual chi cerchi sfogar giustissime ire.
Conobbi al fin che rea non solo ell’era
ma ch’anco d’esser tal viveva altera.

102Mio dolor tanto più si fea nocente
quanto ad altrui men palesarlo osava;
stimol sentia non meno anco pungente
che quei ch’a sé col guardo ella tirava,
e dove più parea piegar la mente
qualor parole e sguardi in noi voltava,
parte eguali miei fur, molti da meno,
nessun da più, né più servilla a pieno.

103Vedea, lasso, che d’odio ella era degna,
e mi sforzava odiarla e non potea,
ché sì del primo error la mente pregna
era che scuse in favor suo porgea.
Ma, fusse il ciel che pure al fin si degna
che de l’altrui mal goda anima rea
o mia sorte propizia, al fin levosse
del grave error la mente in cui trovosse.

104Uom che lunga stagion di lei contezza
ebbe, e de gli ampi suoi costumi rei,
quando io l’alma avea già tacendo avvezza
a tener in sé chiusi i dolor miei,
tali opre a me scoprire ebbe vaghezza
che pure al fin tenerla a vil potei.
Ma fur tali, nel ver, ch’a me ridirle
già non conviene et a voi meno udirle.

105Basta ch’oprano in me con tal virtute
ch’io sprezzai l’empia donna e l’opre indegne,
vergogna avendo al fin che di ferute
sì vili Amor per lei l’alma mi segne.
Piantò certezza in me di mia salute
con generoso ardir vittrici insegne;
quasi nube d’errore i dubbi sciolti
che pria scusàrla, e ’l dato cor mi tolsi.

106Ma sì lasciommi il mio passato affanno
scosso e del primo mio vigor sì privo,
e tal sedea ne la memoria il danno
che pur mi convenisse avere a schivo
ciò che prima ebbi in pregio, e fare inganno
al mio voler, ch’al fin d’aspro e nocivo
mal caddi infermo, e di sé l’alma in forse
d’aver troppo sofferto al fin s’accorse.

107Mentre io viveva in tale stato e ’l fiero
duol cercava cacciar medica arte,
mi giunse a casa il venerabil Piero,
cui dal Cielo i secreti Iddio comparte;
giunse ivi egli per fare il suo primiero
passaggio peregrino in questa parte.
Visitommi, e sé tale a me scoperse
che volentier mia lingua il cor gli aperse.

108Dolcemente il mio lungo e folle errore
riprese, e periglioso e van mostrollo;
m’insegnò che torcendo al cieco amore
l’affetto, un giogo tengo indegno al collo;
porse co i detti medicina al core,
et al vero camin di Dio voltollo.
Poi mi fece veder che con la fuga
quest’ampia peste e sol si vince e fuga.

109Patria, stato, ricchezze a l’or disposi
lasciare, e da colei viver lontano.
Minor d’anni un germano ebbi, e gli posi
libero de lo stato il peso in mano;
e come prima torsi da i riposi
poté del letto, fatto il corpo sano,
carico di molt’oro il mio viaggio
presi per mare in qua col vecchio saggio.

110Visitai prima i santi luoghi e poi
ch’egli partissi a la grand’opra intento,
saldo in seguir tutti i consigli suoi,
già quel folle desio del tutto spento,
qui venni, e qui, come vedete or voi,
con spesa di molt’oro e molto argento
questo luogo v’alzai, questi compagni
mi scelsi, e non è ancor ch’io me ne lagni.

111Anzi da quel ch’io fui diverso,
sì solingo vivendo, esser mi trovo,
ch’ogni or via più di quel desio perverso
l’odio ne la memoria ergo e rinovo.
Talor m’involo a i pensier bassi e verso
il cielo alzo la mente, e vivo e provo;
lunge da i rischi uman vita tranquilla
qual in terra a’ suoi cari il Ciel sortilla.

112Giovommi a sveller, credo, anco non poco
quello antico dolor ch’al cor mi nacque
che di qui non lontano in basso loco
sorge salubre una fontana d’acque
che d’ogni passione estingue il foco
de l’alma, e farla tal forse a Dio piacque,
perché qualunque il corpo entro v’immerga
sani, e libera l’alma uscendo s’erga».

Raimondo e Idetta prendono la via della fontana (113-114)

113Sì parla, e Cinzia ormai ne’ regni spiega
de la fredda Giunon l’argentee corna;
già con lento susurro il sonno lega
ogni animal ch’a’ suoi riposi torna.
Nessun de i tre quiete al corpo nega,
ma in grembo al queto dio tanto soggiorna
ch’ergan le piante i rugiadosi fiori
a salutare i mattutini albori.

114Sorge e s’arma la coppia in fretta, o prende
dal cortese oste suo licenza prima;
grazie poi senza fin grata gli rende,
ma del colle il guascon su l’erta cima
additar fassi per qual via si scende
a quel salubre fonte, ov’egli stima
poter, come colui, levar dal core
quel ch’a doppio il premea novel dolore.