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Cinque Canti

di Camillo Camilli

Canto V

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 2.03.15 8:28

ARGOMENTO
Morta la bella Armida, Erminia parte
dal castello di lei, ove l’ha pianta.
Giungon tutti i gran guerrier di Marte
co ’l buon Raimondo a la Cittate Santa,
a cui liberò il cor del fonte l’arte;
rende Idetta al fratel, Tancredi ammanta
di fede Erminia; e appresta Boemondo
per chinarsi al Sepolcro, il suo cor mondo.

Erminia piange Tancredi credendolo morto (1-10)

1Tu forse ancora, Erminia, ita saresti
dove il fonte di duolo i petti sgombra,
per trovar pace a’ tuoi lugubri e mesti
pianti, onde l’alma or hai, misera, ingombra;
ma non tu com’il conte il ver sapesti,
o ’l duol ti tenne sì la mente adombra
che te l’avria vietato, a l’or ch’aperse
l’altrui morte il suo danno e ’l tuo scoperse.

2Falsa cagion di vera morte e danno
falso, e pur vero come l’altra il credi;
ma nel tuo di dolor funebre inganno
non corri al tosco ancora o ’l ferro chiedi.
D’ambe stimoli acuti al cor ne vanno
ma diverso l’effetto uscir ne vedi:
tuo senno è forse, o forse disacerba
tuo duolo il Cielo, ch’a miglior fin ti serba.

3Come l’infausta morte Erminia scopre
u’ corsa è già la sventurata amica,
pianti, gridi, sospiri e tutte l’opre
in cui se stesso un cor doglioso implica
non dà per lei, che ’l messo a lei non copre
la cagion ch’è non meno a lei nemica:
a pianger corre il proprio danno, e lunge
resta da l’altra il duol, né il cor le punge.

4Così se stracca giunge o lieve scocca
d’arco saetta e poco sangue asperge,
ma novo stral giungendo al vivo tocca
il corpo, e tutto quasi entro s’immerge,
non quel che venne a lui da lenta cocca
mira il ferito o ’l sangue via ne terge,
ma de l’altro ha timor, ne l’altro fige
gli occhi e ’l pensiero, e per quel solo s’afflige.

5«Presagio mal veduto, io pur (dic’ella)
dovea, sciocca, fuggirlo, e pur nol fei!
Voglie mal sazie mie, di qual più fella
pena o morte perciò degna sarei?
O foss’io stata in solitaria cella,
nel cor chiudendo i lievi dolor miei
prima ch’esser cagion di morte a lui,
che sol nacque a serbare in vita altrui.

6Spesso egli a chi l’offese e porlo a morte
volse a forza col ferro, usò pietate;
de’ feritori suoi le fredde e morte
spoglie lasciò del pianto suo bagnate,
ma ben provata ha in sé contraria sorte,
già non segue altri lui per vie lodate,
ch’a lui di chi ferillo a morte increbbe
e tal viva salvò che morte n’ebbe.

7O spietato mio cor, dunque un che merta
fin da i nemici guiderdone e vita
da me, che de la vita al tutto incerta
n’ebbi a tempo fedel cortese aita,
morte riceve? E questa mano aperta
non have a l’alma ancor larga l’uscita,
per castigar error nefando e greve,
di cui scusa accettar nulla si deve?

8Non si dèe, né l’accetto, anzi pur voglio
ne le viscere mie farne vendetta.
Sia di castigo in vece or il cordoglio
a l’alma intanto, e in lui viva ristretta.
Tanto spazio e non più di tempo io toglio
ch’almen giunga ov’ei giace. Or tu m’aspetta,
freddo del mio signor cenere amato,
né sdegnar ch’io morir ti voglia a lato.

9Ch’io già non chiedo, io già bramar non oso
che dopo morte il mio teco si chiuda:
spargalo il vento, a l’ombra il suo riposo
neghisi, l’ombra sia contra sé cruda.
Sol ch’io prima ti veggia, e ’l mio doglioso
spirto lasci di sé la carne ignuda
mi si conceda, e morte sol daramme
l’orror di spente incenerite fiamme.

10Orror ch’ovunque poi lo spirto vada
gli farà ognior fra le vere ombre appresso
spaventevol di vita; ovunque ei cada
o sorga in sé vedrallo oscuro impresso
lo sferzerà, gli impedirà la strada,
gli porrà sempre inanzi il grave eccesso.
Cura n’avrà, ma cura tal ch’ei gema
fra furie, e questa e quella il morda e prema».

Decide di vedere il corpo dell’amato prima di togliersi la vita, parte ma sbaglia strada (11-15)

11Così dice ella, e ’l dir già non pareggia
di gran lunga il dolor che ’l petto chiude;
quel più s’avanza ognior, che non l’alleggia
conforto altrui, non propria sua virtude.
Da l’infausto castel, com’ella deggia
partir se pensa, e al fin partir conchiude,
disposta errar fin ch’ella giunga dove
del morto suo signor l’ossa ritrove.

12Vassene e non sa dove, e de l’errante
sua mente sconsolata è guida il piede,
sé non cura o ’l suo onor, ché donna amante
non mira ciò ch’a lei ben si richiede.
Per luoghi solitari ella le piante
move, e diserto ov’ella mira vede;
diserto ancor le sembreria frequente
gran teatro d’allegra e nobil gente.

13Qual chi di piacer la mente ha piena,
e ne’ diletti suoi spazia e s’aggira,
se ben duro spettacolo o d’oscena
ferita cruda alcun successo ei mira
tanto s’interna in quel che l’altrui pena
non l’ange o preme, e a compatir nol tira,
tal, benché in mezzo a mille allegre torme,
del suo cupo dolor seguiria l’orme.

14Sol se punto il suo danno alzar le lassa
dal pianto o dal dolor gli occhi o ’l pensiero,
talor si ferma, e intenta e lenta passa,
dubbiosa se trovar saprà il sentiero.
Or alza al colle or a la valle abbassa
il guardo per seguire il camin vero,
che più nol fece, e sol se stessa guida
là dove il zio partir vide d’Armida.

15Quando partì notollo, e d’altra parte
seguiro ambe di lui con l’occhio l’orme.
Spesso i luoghi divisa e in sé comparte
i siti, e ’l suo giudicio in lei non dorme;
ma debol è il giudizio, il qual de l’arte
precetto o esperienza non informe.
Falla il viaggio, e volge a la man destra
il debol piede in vèr la parte alpestra.

Tancredi e Rinaldo tornano al castello e Rinaldo commemora Armida; quindi ripartono per cercare Erminia (16-26)

16Ma l’un guerriero e l’altro avendo intanto
con Boemondo lo stuol nemico ucciso,
poi che vèr Palestina il seguir tanto
di poterlo lasciar fu loro avviso,
dove un’amante il sangue e l’altra il pianto
versaro, una dal petto, una dal viso,
voltàrsi, ma non prima a lui narraro
lor prigionie e quai man gli liberaro.

17Ben han pensier di tosto esser con lui,
e inanzi forse entro a le regie mura,
né voglion l’arme pria ch’ingiuria altrui
lor tolse aver, non hanno essi altra cura,
ch’averle e tornar là dove ambedui
speme d’altre vendette anco assicura.
Partonsi, e giungon tosto ove fra l’onde
l’ascosto mur l’uccisa donna asconde.

18Guardia non è che il loro passo viete,
né se vi fosse il vietarebbe loro,
ché conosciuti son per quei che liete
ore menàrvi e poi traditi foro.
Ne le più interne parti e più secrete
del palagio le grida essi ascoltoro
che d’una uccisa e d’una indi partita
fan le rimase donzelle in vita.

19Solitario è ’l castel, vi s’ode il pianto
qual s’ode il suon presso a Cariddi o Scilla;
mesto è il palagio, il riso in ogni canto
è spento, e non appar di lui favilla.
Dorato o d’ostro colorito ammanto
s’asconde, oro non splende e non favilla.
Han già in pronto il feretro e già la tomba
di strida feminil s’empie e rimbomba.

20Come vide Rinaldo in quel bel volto,
spettacolo di morte, i lumi spenti,
da sì rea vista a l’improviso colto
fuggir non può, che ’l corso al duol non lenti.
Va in mezzo al cerchio intorno a lei raccolto
e lascia parte uscir dogliosi accenti,
ché se ben già per lei più d’un periglio
corse, non odia lei ma il suo consiglio.

21Poi che la cagion seppe onde l’averso
fatto l’ultimo giorno a lei prescrisse,
e mirato l’acciar lucido e terso
ch’ella contra sé cruda al cor si fisse,
mirolla mesto, e di rugiada asperso
gli occhi, gli occhi in lei tenne fermi, e disse:
«O sfortunata amante, or tanto paghi
breve amor, che te stessa a morte impiaghi?

22Falsa credenza, false infauste nove
in mente feminil credula opraro.
A frettolosa morte amare prove
te non degna di morte ancor menaro.
Ben folle amore, Armida, i cenni altrove
diemmi ch’esser dovea tuo fine amaro.
Ah del primo fallir la mente vaga
restata fosse almen contenta e paga!

23Tua morte a me doler già non devrebbe,
e pur il mio dolor tua morte chiede,
che non posso io membrar come t’increbbe
l’incerto danno altrui, che non si vede,
né in te morta mirar come egli accrebbe
quel furor che la morte al fin ti diede
ch’io, se non donna empia di fede, almeno
non pianga la pietà ch’aprille il seno.

24Avesse prima almen, poi che ti spinse
tant’oltre, Amor ne la tua mente oprato
che ’l vero ben che ’l mio dir ti distinse
in te credenza avesse a l’or trovato».
Tanto sol disse, e in se represse e vinse
quel più ch’a lui dettò piacer passato.
Indi si leva e de la sepoltura
lascia a l’afflitte sue donzelle cura.

25Gli amari pianti e la furtiva uscita
de l’altra in tanto avea Tancredi intesa:
teme ch’anch’ella al fin l’aura e la vita
non lasci disperata, e glie ne pesa,
e non meno ha dolor, che sì romita
di lui morto cercar tolto abbia impresa.
Affretta per ciò l’altro indi a partire,
ché vuol cercarne e i passi suoi seguire.

26Vuol vietar ch’ella ancora a straneo fine
per falso error precipitosa cada;
l’arme solite loro adamantine
prendon, prende ciascun la propria spada.
Ma mentre del castello ogni confine
lascia incerta la coppia, ov’ella vada,
Boemondo e l’oste ormai lieta e sicura
vien da lunge a scoprir le sante mura.

Boemondo giunge a Gerusalemme, è ricevuto festosamente da Goffredo e racconta di come Tancredi e Rinaldo non siano morti (27-46)

27E, già fatto vicin, già n’ha la nuova
per più messi iterati al pio Buglione.
Fa diversi apparecchi onde la nova
gente s’onori, e che s’onori impone;
e perché amico tal veder li giova
segno espresso mostrarne, ei si dispone:
gli manda incontro prima assai de’ suoi,
co i pochi ei vienlo ad incontrar di poi.

28Con quei debiti modi e d’amor pieni
che regio onor, che pietà santa osserva
si miran questi, e i volti lor sereni
mostran ciò che più dentro il cor conserva.
«Sacro re, che levasti i duri freni
a la città che visse un tempo serva»
dice il prence a Goffredo «or lieto io vegno
ad onorarti nel tuo proprio regno.

29Ch’anima non poteva amica a Dio
sentir sì lieto e glorioso acquisto
senza grande allegrezza averne? Et io
il sentii, e dissi: – Insin che visto
non avrò nel suo seggio un re sì pio
tal dolce avrò di qualche amaro misto -.
Venni ancor, perché a te, se pur t’aggrada,
serva in altro il mio scettro e la mia spada.

30Già stabilito in Antiochia il piede
fermo, e sicur con l’arme nostre abbiamo
piantato il vero culto, e questa fede
ivi or germoglia quasi un verde ramo.
D’arme e gente che guerra agogna e chiede
contra infedeli or copia aver possiamo.
Di chi venne e chi vien tu dunque imponi,
e di quanto poss’io per te disponi.

31E tu ben fare il puoi, ché qual non frena
di fiume pien già mai corso repente
debol sostegno, anzi ei lo svolge e mena
fra l’onde absorto seco al mar sovente,
o grosso argine ancor con l’urna piena
svelle, e ’l colle inghiottisce entr’al torrente,
forza più ognor, più ognor dando al suo corso
più prest’il passo e men veloce il morso,

32così forza non fia presso o lontano
che de le tue vittorie il corso allenti,
né ch’al vigor de la tua invitta mano
resista, e ’l nome tuo sol non paventi.
Tu nulla impresa puoi prender in vano,
frenar prima potransi in aria i venti
che in terra l’arme tue, col cui buon zelo
combatte ancor, per favorirti, il Cielo».

33Poi che con questo dire egli ebbe mostro
de l’animo sincero un certo pegno,
«Ben puoi» dice Goffredo «al vincer nostro
allegrezza sentire e darne segno:
non è sol mio l’acquisto, è insieme vostro,
che voi meco il curiate ancora è degno;
e ben d’amor, di cura or tu ci dai
fraterno segno, e sei qual sempre mai.

34Non è pur or che i tuoi ricordi fidi
e le tue voglie pronte al mio ben provo;
molto offri tu, ma di più ancor m’affidi
qualor l’andato in mente io mi rinovo.
L’amor, la fede tua fin là ne i nidi
greci m’apristi amico, et or di novo
nulla sento; ma ben mi reca a mente
l’andate cose il tuo parlar presente.

35Ben teco io rinovar l’obligo antico
per le nove cagion dovere intendo,
che da colpo d’ascosto empio nemico
cauto fin dentro al petto il cor vedendo,
salvar cercasti noi, qual vero amico
l’ingiusto fin de’ suoi consigli aprendo.
Se poi, qual tu conforti, avvien ch’io pigli
guerre nove, avrai parte in tai consigli.

36Ma del passato prima al Ciel si renda
grazia, e grazia da quel dipoi s’impetri,
ch’a far cose a Dio grate il cor v’accenda;
Egli il duro da lui mova e lo spetri.
Così chi fia che s’armi o si difenda
da noi? di noi chi dal morir s’arretri?
Non fia che tema alcun di morte l’orme,
s’avrem volere al suo voler conforme».

37Sì col principe amico in dolci note
de’ gravi affari il pio Buglion ragiona,
ma meraviglia ben che del nipote,
di cui darli credea nova non buona,
nol vedendo non chieda, e far non puote
così tal dubbio a lui la mente sprona,
ch’ei non cominci a dir: «Ben duolmi ch’io
mostrar non possa il suo nipote al zio.

38Senza saputa altrui già son più giorni
col figliuol di Bertoldo egli partissi,
dov’or si viva o vada i suoi soggiorni
non so, ma d’ambidue nel cor gli ho fissi;
né fin che la gran coppia a noi non torni,
che sì d’accordo al dipartire unissi,
avrò compitamente un’ora lieta,
cotanto il merto e ’l valor suo mel vieta».

39Tace ’l prencipe a l’or. «Di due cotali
nascosto il nome star non può (gli dice):
se qui non è, dispiega altrove l’ali
più bel, più novo ognior, quasi fenice.
Ambi fur meco, a gli imminenti mali
porgendo meco a tempo il fin felice,
quando al venir vicino a l’onde salse
di Damasco il tiranno empio m’assalse.

40Essi giunservi a tempo, e strage fella
con questi miei de l’oste avversa fèro;
essi men sanguinoso e via più bella
vittoria in man col valor suo mi diero.
Mostraron poscia il dì seguente in sella,
dicendo voler fare altro sentiero,
poco dal mio diverso, e ben saranno
qui tosto: io ’l dico, a me promesso l’hanno».

41Come se ’l caro padre avuto ha nova
che stato sia privo di vita il figlio,
riposo alcuno al suo dolor non trova
e porta mesto e lagrimoso il ciglio,
nel core al fin letizia immensa prova
che salvo l’ode e fuor d’ogni periglio,
n’alza le mani al ciel, giubila e tanto
mostra il piacer quanto fu prima il pianto,

42così il Buglion, che pria d’inganno e frode
per lor temuto avea con saggio avviso,
ora che ’l ver dal caro amico n’ode
rallegra il ciglio e rasserena il viso.
Non men d’annunzio tal per Guelfo gode,
in cui timor che stato fosse ucciso
il figlio di Bertoldo in petto avea
velen di doglia sparso acerba e rea.

43Giungono intanto al gran palagio e quivi
tutti gli altri accomiata, e Guelfo chiama,
con Boemondo l’accoglie, e che son vivi
i due l’accerta, e ne fa uscir la fama
in corte prima e poi vien ch’ella arrivi
per la cittate a questo e quel che gli ama,
che l’ascosta partita e ’l non avere
nova di lor gli avea fatti temere.

44Dice al prencipe: «Guelfo, oh quanto caro
qui giungi, e come volentier ti veggio!
Poteva in ogni tempo un uom sì chiaro
caro aver, or più caro avere il deggio,
quando col venir suo da me l’amaro
timor solleva, il qual poteva a peggio
condurmi. Or, tua mercé, vivo e respiro,
da i sospetti che prima il cor m’apriro».

45Così diceva, e intanto il nero velo
de la notte copriva a l’aria il volto;
han già le fronti il Libano e ’l Carmelo
ne le tenebre quete al tutto involto,
risplende Cinzia, e più d’un lume in cielo
s’è intorno a lei con vaghi balli accolto,
e par che l’ora già gli inviti e chiame
che da i membri cacciar debban la fame.

46Le stanche membra poi nel muto oblio,
scarche di noia, abbandonàr di Lete,
che in sé tutti gli accolse e gli sopio,
e fe’ restar le cure avide quete.
Ma come prima il biondo aurato dio
fe’ de i propri color le cose liete,
e la luce spiegò che ’l tutto scopre,
sorser da l’ozio molle allegri a l’opre.

Tancredi e Rinaldo giungono al campo, chiedono venia a Goffredo per la loro assenza (47-53)

47I due fra tanto avean cercato intorno
campagne e boschi, e più d’una contrada
Erminia, che partita era quel giorno,
uscendo per error poi fuor di strada;
né mai nuova n’udìr, né mai trovorno
orma di lei dove lor gire accada.
A lo spuntar del sol l’altra mattina
trovàrsi aver Gierusalem vicina.

48Mira Tancredi, e giunto esser s’accorge
onde non sa com’ei partissi in prima,
da destra loro il minor colle sorge,
scopre loro il maggior di sé la cima.
Novo pensier l’occasion gli porge,
che non difficil qui trovarla estima:
esser può che, per lui tolta di via,
come essi han fatto per error si sia.

49E quando pur qui non la trovi è bene
ch’a farvi di sé mostra egli non tardi,
che l’ha promesso al zio; così ne viene
la gran coppia de’ due guerrier gagliardi.
Egli o di poi trovarla ha certa spene,
usando in questo i debiti riguardi,
o di saper almen s’ella ad essempio
de l’altra ha di sé fatto ultimo scempio.

50Volgon dunque i destrieri a quella porta
e miran, ché l’entrata è più vicina.
La turba militar s’è tosto accorta
di loro, e lieta lor tosto s’inchina.
Corre altri, et al Buglion la nuova porta,
che già venìa da la magion vicina,
et essi son giunti ove il re pio
ne viene in mezzo a l’uno e l’altro zio.

51Smontaro, e riverìrlo e fare scusa
di lor partita incominciò Tancredi:
«Signor, da te partimmo, e non si scusa
fatto ove d’intenzione error non vedi;
non cerchi emenda e non ricevi accusa,
dove l’espresso altrui mancar non vedi.
Come lasciammo te noi non sappiamo,
ma bene or volontari a te torniamo.

52Larve altrui non parer, sogni e chimere
quelle ove a forza noi fummo rapiti;
raccontarle è follia, che ’l non vedere
par ch’a non creder anco i cori inviti.
Torniamo or volentieri in tuo potere,
ove ne siamo involontari usciti.
Tanto sol basti: a stagion poi migliore
tu meglio a noi saprem tutto il tenore».

53«Non si crede di voi (dice il Buglione)
opra per noi non buona, ad atto indegno.
Di tema il cor ci venne acuto sprone,
che d’empia sorte voi non foste segno,
che non con tal periglio al mar s’espone,
quando è più irato, uno sdruscito legno
con qual in man d’empi nemici cade
difensor di giustizia e di pietade».

Raimondo purifica il proprio animo alla fontana, Idetta no (54-64)

54Così parlò; poi riverente in atto
Boemondo, Guelfo e gli altri essi inchinaro.
Poi si ritrasser là dove del fatto
d’arme e di lor partita a pien parlaro.
Ma là dov’il guascon s’avea già tratto
l’arme, a lui tratto aveva il fonte chiaro,
in cui lavossi il reo dolor da l’alma,
che gli era stato insopportabil salma.

55Non così folta nebbia unita in colle
al suo primo apparire il sol dissolve,
né così ratto Borea in alto estolle
col soffio irato al ciel minuta polve,
come a l’entrar ne l’onda fredda e molle
fugge il concetto affanno e si risolve,
e come pensier novo in lui risorge,
che dolce e lieto un vigor novo porge.

56Mentre fuor poi se n’esce, e che le membra
terge, e in se stesso bene il pensier ferma,
gli sdegni andati e la cagion rimembra
de l’opre occorse e de la carne inferma.
Un riso, un gioco, un folle error gli sembra;
mente nova or si veste e si conferma.
Se stesso in sé schernisce, e chiama indegna
ogni cagion che petto umano sdegna.

57«Indegna è» dice «ogni cagion che desti
moti d’ira o di sdegno in petto umano,
fuor che contra se stesso ognior, ch’infesti
o ch’infetti opre sue desire insano:
per tai cagioni incontro a sé, per questi
moti s’adiri, e non s’adiri in vano.
Ma gli emendi e corregga; altro non sia
che mai noia inquieta al cor gli dia».

58Così dic’egli, e in tanto ove l’attende
scevra da lui la bella donna arriva,
e purgato è così che non comprende
reliquie in sé di doglia aspra e nociva.
L’uno a l’altro il destrier d’accordo ascende,
egli non pur con lei d’andar non schiva,
ma se ’l negasse i preghi usar vorria,
ché ’l togliesse ella seco in compagnia.

59Tal de le mediche acque il vivo umore
quel che prima aborrì bramar gli face,
e quanto prima tormentogli il core
or tanto giù l’alletta e più gli piace;
se n’allegra e gioisce, e mostra fuore
ciò che dentro ne l’alma ascosto giace.
Ma la compagna sua del fresco danno
non così volse medicar l’affanno.

60Non cura ella sanar la nova piaga
d’amor, ma volentieri in sen la serba,
e, benché doglia più, più chiusa; appaga
sempre il pensier ne la sua pena acerba.
Non si nutre di speme e pur la vaga,
mente a sé, finge men la doglia acerba;
né sa ben se sia doglia o piacer dolce
che mentre l’alma strugge i sensi molce.

61Come pesce restar suol preso a l’amo
che d’esca involto in gola egli ricetta,
o come augel ch’in quello e ’n questo ramo
volante al vischio il fischio dolce alletta;
o come a peregrin falcon porgiamo
ciò ch’a noi farlo ritornar l’affretta,
poi colà lo leghiamo, onde a sue voglie
per libero volar più non si scioglie,

62così costei quella beltà lusinga
ch’invisibil d’amor nasconde il foco.
Parle ch’egli al cantar piacer dipinga,
né sente ella un languir dimesso e roco;
colà vola il pensier dov’ei gli finga
per lungo affanno un gioir breve e poco.
In questo stato la novella fiamma
dà luogo, e quella corre e più l’infiamma.

63Segue il conte co i passi e con lui parte
di varie cose ad or ad or parole,
ma colà ne l’ascosa interna parte
stanza Amor solo aver libera vuole.
Così d’astuto ingegno usando l’arte,
pian piano alcun farsi tiranno suole;
così vien ch’a l’onore o ch’al guadagno
uom fugga aver alcun con lui compagno.

64Oh come, Amor, ti piace aver l’impero
per te di nobil cor libero in mano!
Come, molti ingannando, a pochi il vero
dici, in voglie crudele, in volto umano!
Ah se placabil più, se men severo
tiranno fossi, e lusinghier men vano,
quanto più fora il tuo gran regno in gioia,
che poca or n’have et è si pien di noia?

Lungo la strada per Gerusalemme incontrano Erminia, la rassicurano sul fatto che Tancredi è vivo e prendono la via per Gerusalemme (65-87)

65Non ancor di costoro il guardo acquista
la città, ch’apparir la coppia vede
donna che mesta e dolorosa in vista
va, né del venir lor punto s’avvede.
Ma ben, quantunque afflitta e molto trista,
chi ben la mira tosto il ver ne crede,
e nel di lei regio sembiante scopre
ciò che ’l presente stato altrui ricopre.

66Erminia è questa, e non ha ancor potuto
udir del pianto suo Tancredi il vero.
Le provide il dì primo il Ciel d’aiuto,
che la scontrò Vaffrin, di lui scudiero,
che, per cercar lui (c’ha per perduto)
credeva, errando andò dal dì primiero:
ché con Rinaldo egli non fu più visto
e n’aveva il core ancor doglioso e tristo.

67Scontrolla il dì che dal castello uscita
prendea senza saper dove il camino,
perché piangesse e sì sola e romita
n’andasse a l’or da lei seppe Vaffrino.
Afflitto per tal nova, a la smarrita
dona aveva egli dato il suo ronzino,
seco venendo anch’ei per saper dove
o morto o vivo il suo signor si trove.

68Per tenersi egli lunge al camin dritto,
potuto non avea scontrar le schiere
di Boemondo, da cui del gran conflitto
e del vivo signor potea sapere.
La mesta donna e lo scudiero afflitto
vuol più d’appresso Idetta anco vedere:
lascia il conte e ’l destrier più forte fiede,
giunge e saluta, e l’esser suo le chiede.

69Tosto che comparir si vede inante
la bella donna in lucide arme involta,
ch’ella crede un guerriero, e ’l fier sembiante
ne vede Erminia e ’l parlar dolce ascolta,
«Signor, son» disse «sventurata errante
donna morta tra vivi e non sepolta.
Né morte avrò se manco in me non viene
parte del duol che viva ancor mi tiene.

70Viva mi tien perch’è sì grande e intenso
che passa il segno, e ’l suo poter vien manco;
a l’ora a morte condurrammi, io penso,
che fia minore e men pungente al fianco.
Non puote tale altezza il basso senza
ferire: al senso naturale al manco
pareggi il duol stesso, e così trarme
potrà di vita e poco polve farme».

71Non bene ancor del suo parlare apprende
la sorella gentil del pio Buglione,
qual grave noia a l’altra il core offende,
né qual per lamentarsi ella ha cagione.
Da l’età, d’amor segni in lei comprende,
ch’al ver di cosa a le nota s’oppone:
così talor d’un altro infermo il male
altri, se ’l prova in sé, giudicar vale.

72Chiede a colei che meglio il ver le conte
de’ suoi dolori, e nulla asconda o taccia.
Alza di nuovo mesta a l’or la fronte
Erminia, e mira la donzella in faccia.
Sovragiunge fra tanto il vecchio conte,
quasi uom cui nove cose udir non spiaccia;
Vaffrin conosce et è da lui non manco
riconosciuto il generoso franco.

73Come il conte di lui prima s’accorse
che in cotal guisa andar errando il vide,
chiesto a lui di Tancredi avrebbe forse
ma Erminia al suo parlar la via recide,
ch’a giusti preghi ormai che l’altra porse
pronta s’induce a raccontar l’infide
promesse di fortuna, e in voci meste
l’espresse, e fur le sue parole queste:

74«Regio il mio stato fu, morte cangiollo,
anzi il distrusse, e serva ancor fui lieta,
ch’a me perder non parve e non dar crollo
né d’aita né degna esser di pieta.
Ma ben degna ne fui, quando dal collo
il caro giogo torsi: a l’or la meta
passai de le miserie, a l’or gli affanni
origin fur de’ miei presenti danni.

75Amai, bramai gran cose, e grandi furo
più quelle ancor che per godere osai,
non fu l’ardir mio, no, d’un più sicuro
petto d’audacia albergo a l’opra entrai.
Volse Dio, che presente anco ha ’l futuro,
che la mia folle audacia io non lodai;
a penar lungo un gioir breve io scerno,
ma dopo quel succede un pianto eterno.

76Fra il miglior cavalier che ’l campo onori
che menò seco in Asia il duce franco,
d’un ch’in Italia nacque i vivi ardori
sentii d’amore e mille strali al fianco.
Gustai con lui mal fortunati amori,
poi ratto mi sparìr dinanzi, et anco
dolor n’ho che, vivendo, a me fu tolto;
saputo ho poi ch’egli è di vita sciolto.

77Fu con un altro, pur guerrier pregiato,
compagno suo, già passa il terzo giorno,
a Damasco, in prigion preso menato
per farvi forse un lungo aspro soggiorno.
N’ho poi la morte udito, ecco lo stato,
misera, in cui per tal cagion soggiorno.
Era nipote al prencipe che regge
or Antiochia e le dà norma e legge».

78Da la bocca d’Erminia Idetta intenta
dal principio a la fin tacita prende,
e senza ch’altro più domandi o senta
un de’ due liberati esser comprende.
Ma di gelo al suo dir prima diventa,
che sta in dubbio qual sia; poi, come intende
che non è quel per cui langue e sospira,
del mal de l’altra duolsi e in sé respira.

79Qual se per far di custodita rocca
o di ben forte muro aspra ruina
s’accosta a lo spiraglio e lieve il tocca
accesa corda, ond’arda poi la mina,
se ’l cavo precipizio in giù trabocca
fin là corre la fiamma ov’ei dechina,
poi, da l’intoppo che ’l suo corso allenta,
senza effetto rimansi oscura e spenta,

80così per fare al sen d’amore acceso
peste di gelosia crudele oltraggio,
a mezzo il dir d’Erminia avea già preso
per gir fin dove ei fiede il suo viaggio,
ma trovò intoppo a l’or ch’ebbe compreso
Idetta ove colei volto ha ’l coraggio.
Giunge fin là senza trovar mai meta,
ma il sentir poscia il chiaro il ver gliel vieta.

81Poi ch’al velen ch’entrarle al petto volle
tronca a mezzo il camin restò la strada,
cortese Idetta le ragiona: «Il folle
desio che ’l tuo signor prigion ne vada
è tronco al tutto; in van per ciò di molle
pianto il volto si riga: amica spada
ambi salvò da i lacci, ambi poi fèro
di chi gli conducea macello fiero».

82Fu vicina a sentir tanta allegrezza
l’anima a l’or che ne periva forse,
né avria potuto, a dolor tanto avvezza,
gioir senza morir, ma la soccorse
dubio del ver che, parte usando asprezza,
parte del dolce a l’or negando, torse
dal viaggio la mente ov’ella giva
s’a la certezza largo il calle apriva.

83Quel dubbio poi che la sottragge a morte,
al parlar le ministra anco la voce.
Pianto ha del suo signor l’ultima sorte,
caso di lui non crede or manco atroce;
pur quel novo parlar vien che le porte
il desio di saper con piè veloce
a voler meglio penetrare il vero
del fatto, e da colei saperlo intero.

84«Se ciò che più ’l desio brama e la mente
men crede è ver, tu dimmi ove si trove,
ond’io possa accertar questa dolente
vista, ch’indarno l’ha cercato altrove».
Sì disse, e l’altra: «Il mio parlar non mente,
ma dar non ti saprei più certe nove:
nel camin (dice) ove a Damasco vassi
gli vidi, e più non osservai lor passi».

85Colà prender disegna il suo camino,
che ritrovarlo ov’ei sia vivo spera;
fassi prima additare il più vicino
calle, e più dritto a la gentil guerriera,
ma s’interpone al suo voler Vaffrino,
che sa del suo signor la mente intera:
«Esser» dice «non può lunga stagione,
se libero è, lontan dal pio Buglione.

86Colà dunque si vada, ivi saranno
giunti a volo (soggiunge) i due guerrieri;
o, se pure a tornar tardato avranno,
cercando forse pria vari sentieri,
ivi tosto gli avrem, ché non potranno
tardare, o quivi almen per messi veri
saprem di lor. Poi, tu gli aspetta o vogli
cercar di lor, men dubbia impresa togli».

87Al parer di colui concordi furo
gli altri, ciascuno a ritornar l’essorta.
Ivi starsi potrà fin che sicuro
messo di ciò la nova a lei ne porta.
A quel parer s’attiene, e fa men duro
viaggio Erminia, e in sé si riconforta,
che se ’l troppo bramar fa ch’ella teme,
pur danle ancor l’altrui parole speme.

Giungono in città, Raimondo fa ammenda di fronte a Goffredo (88-97)

88Vanno insieme le belle e pellegrine
donne, ma non per donna Idetta è tolta.
Già scopron la città, già son vicine
le mura, ov’è gran gente insieme accolta.
Ma come prima entràr le palestine
porte, Vaffrin diè con Erminia volta
(ma prima accomiatassi) in parte donde
sappia nascosta il ver ch’a lei s’asconde.

89Con l’altra il conte vanne; ognun che ’l vede
così venir la sua tornata ammira,
ché sì tosto del danno anco non crede
esser del petto suo smorzata l’ira.
Fa de l’altra il sembiante a tutti fede
ch’è guerrier di gran pregio, e ciascun gira
gli occhi a mirar, che non l’han vista inante,
lo splendor di quell’arme e ’l bel sembiante.

90Poi che fur dove in larga piazza abonda
de l’oste amica ognior novella gente,
veggion ove in disparte poi circonda
numer d’eroi più scelto il re presente.
Fattosi il conte inanzi e con gioconda
fronte raccolto, a lui cortesemente
favella il re: «Ben opportuno or giungi:
col tuo venir pace a contento aggiungi.

91E ben contento era io ch’a i novi acquisti
giungesser queste nove amiche schiere;
ma il pensar poi che tu da noi partisti
rendea scemato in parte il mio piacere.
Boemondo è qui, qui son popoli misti
di più nazion con lui, come vedere
tu puoi: molto può farsi. Or tu chi meni
teco ci narra e con qual mente vieni».

92Raimondo, poi che più nel cor non bolle
l’ira, e già spento quel veleno avendo,
«Partii» dice «sdegnato, e di quel folle
pensier degna cagione or non comprendo,
se sopra sé la mente or lieve estolle.
Errai, ben veggio, et or l’errore emendo,
che me stesso ti rendo e meco un dono
ti fo, mercé del qual merto perdono».

93Poi che sì disse, a lei di sua man tolse
l’elmo ch’al capo l’aureo crin coperse;
quel, mentre a l’aura dispiegassi e sciolse,
ondeggiò vago e ’l suo splendore aperse.
Ma poiché su le spalle al fin s’accolse,
mille volti un sol volto in sé converse,
e ’l sol prima sì bel ne l’armadura
al girar di due stelle or qui s’oscura.

94Non lo vede uom ch’al cor non senta un gelo,
né sente gel che non diventi ardore,
né fassi ardor che non s’inalzi al cielo,
né s’alza al ciel che non rapisca il core.
Qui fra ’l secondo e ’l primo bello il velo
squarcia a se stesso, in sé del primo amore
sveglia i diletti, e mentre a quel trapassa
la memoria de l’altro in terra lassa.

95Tanto in sì breve spazio arde e risplende
lume talor, che ’l veder nostro abbaglia.
Al re buon conto il tolosan poi rende
quanto il don ch’ei gli face in arme vaglia;
e con brevi parole a dirli prende
come poco avanzò seco in battaglia,
come pregollo a venir seco e come
depose de’ suoi sdegni egli le some.

96Fraterno amor, beltà, spirto guerriero
tutti in un punto in mente al re s’offriro;
l’abbraccia e «Come te, mio sangue vero,
qui salva» dice «entro a quest’arme miro?».
Corser gli altri due frati e con sincero
amor fraterno ad abbracciarlo giro.
Con virginal rispetto in sua ragione
Idetta lor la sua partita espone.

97Ma Rinaldo e Tancredi a la vicina
prigion tolti da lei trassersi inanti;
ciascun la sua liberatrice inchina,
e dalle anzi il fratel debiti vanti.
D’ostro un vivo color la bianca brina
le sparse, a l’or ch’ella si vide avanti
l’imagin che scolpita avea nel core;
ma scoprì cortesia, celò l’ardore.

Tancredi si pacifica con Erminia, poi si dirige al Sepolcro, dove Boemondo sta per sciogliere il proprio voto (98-110)

98Lieto il Buglion del conte e de la suora
verso il palagio dritto il camin tiene.
Cauto intanto Vaffrin senza dimora
a ritrovare il suo signor ne viene;
qui giunto il vede, ma commoda l’ora
attende che scoprirsi lui conviene,
pur com’uom che se sempre ivi soggiorno
e non che faccia altronde a lui ritorno.

99A lui viene opportuno e dice: «Ho meco
Erminia addotta dentro a queste mura,
tanto e non più de l’andar mio ti reco;
prendi del resto or tu, signor, la cura
tu vieni e vedi il vero e parla seco
e lei del viver tuo dubbia assicura.
S’altro poi sopra questo in mente avrai
meglio deliberar per te il potrai».

100Col servo dove misera e soletta
Erminia stassi il prencipe s’invia.
In volto afflitta, in abito negletta
trovolla, e proprio qual si convenia
a donna cui da dolor lungo astretta
novo altro ben breve speranza dia.
Tosto prosternar vuolsi a lei presente,
ma il generoso cor non gliel consente.

101Comincia poscia: «Io pur più ch’altra al mondo
bramar te salvo e procurar devea;
a te pregar felice, a te giocondo
viver tranquillo antico obligo avea;
contra l’obligo mio quasi nel fondo
di miseria ti spinsi: ecco la rea
mia folle colpa il tuo periglio tenta;
errai sol io, sol io la pena or senta.

102Non fu già furor mio ch’a far mi trasse
danno a te, fu soverchio ardire altrui
alma amante inesperta al ver sottrasse
furor d’amante, io l’ingannato fui.
Ch’io non credessi e che men altri osasse
era ben degno usar gli inganni sui;
usolli e mal sortiro e morte acerba
n’ebbe, e tal anco a me ragion la serba.

103Ché se di morte indegna a fieri artigli
preda troppo onorata in via ti vidi,
già non debb’io voler di quei consigli
cagion che de la vita altri m’affidi.
Questa man piglierà, se tu non pigli,
vendetta, ella farà, se non m’uccidi,
scempio del cor, che corse ove il desio
guidollo, e ’l calle al tuo periglio aprio.

104Tu conoscer almen del mio morire
dolor del corso tuo danno potrai,
il voler mio non fu del mio fallire
compagno, dal mio furto altro sperai.
A sfogar or le tue giustissime ire
pronta me contra me correr vedrai,
che fose a te vil segno il sen somiglia
di donna». Tace, egli il dir suo ripiglia:

105«Non ira, non vendetta e non del sangue
sete crudele contra te m’invoglia.
Poco fu l’error tuo, pestifer’angue
sovente avvien ch’in seno altri s’accoglia.
Chi procurò l’oltraggio or giace essangue,
questi ben volentier di vita spoglia
mia destra. I desir tuoi conosco: vivi;
degno è ch’i morti or sien di vita di privi.

106Io son fuor di periglio, in te non torni
di corso rischio incerto il certo danno;
colei ben degna fu finire i giorni
che diè principio al temerario inganno.
Pochi oltraggi patii, pochi gli scorni
furo, e mie man ben vendicati gli hanno;
te non fia ch’io men pregi o men di prima
onori et inalzi; altri gli afflitti opprima.

107Così piacesse al Ciel finire insieme
quella c’hai meco ancora al creder lite».
Tace, et ella, in cui già novella speme
sorge, risponde: «O donator di vite,
me de la mia, che sorte e dolor preme,
donator mille volte, a che m’invite?
a viver anco? E pur poi che mi viene
da te l’invito, io non rifiuto il bene.

108Te sempre almeno io serva, e questa sola
grazia fra tanti oltraggi il Ciel mi dia,
che da qui inanzi al creder suo s’invola
mia mente, il creder tuo suo creder fia».
Lieto a l’or de l’acquisto ei la consola,
e pensa come a la più dritta via
tosto ridur la debba; è qui presente
Vaffrino essecutor de la sua mente.

109Prima colui ciò che vuol far divisa,
e d’ogni suo consiglio a pien l’informa;
d’ogni indugio Vaffrin la via recisa
vanne, e non è che nel suo carco ei dorma.
Parte Tancredi ancora, e in questa guisa
lei lascia, e viene dove ancor la torma
di molti intorno al gran palagio aspetta,
qui pria concorsi per vedere Idetta.

110E perché ’l dì seguente è ’l dì che sciorre
vuol Boemondo a la gran romba il voto,
ordina il re la pompa e fa disporre
ciò che ’l può far per vero amico noto.
La suora ancor di lui seco discorre
quel dì segno mostrar del cor devoto.
Così ciascun de’ suoi che far ciò brama,
sé sveglia a pietà e ’l Ciel propizio chiama.