commenti
riassunti
font
AA+
Chiudi

L’amor di Marfisa

di Danese Cataneo

Canto I

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 24.02.15 12:33

Proemio (1-5)

1Cantar vorrei gli occulti aspri tormenti
che già Marfisa per amor sofferse
quando le longobarde altiere genti
dal Magno Carlo fur vinte e disperse;
ma quelli, e i fuochi suoi, tanto più ardenti
quanto ella sempre altrui più gli coperse,
come dirò se non gli manifesti
a me tu, Musa, che ’l suo cor vedesti?

2Dunque la fiamma nel suo petto ascosa,
cantar meco t’aggradi, o santa diva,
sì che l’alta di lei cura amorosa
tra le spade e ’l furor di Marte io scriva,
che fèr sì orribilmente sanguinosa
del Tesino e del Po la manca riva
quando il re longobardo Desidero
opprimer volle il successor di Piero.

3Egli, a cui tutto quasi era suggetto
quanto il mar Adrian cinge e ’l Tirreno,
tentò, per saziar l’ingordo petto,
al Pontefice sacro porre il freno;
ma Carlo, al qual sedea cristiano affetto
e pia religion nel real seno,
salvò col ferro la romana Chiesa
e punì il reo di sì nefanda impresa.

4Così da la tua spada fur puniti,
invitto Carlo, i principi germani
che contra Pavol terzo e te sì arditi
armàr le lingue e le non giuste mani.
Stolti!, non san che sempre ha custoditi
Dio stesso i Papi e i Cesari cristiani?
Non san ch’a lor sol l’ubidirgli è dato,
e il giudicargli a lui sol riserbato?

5Ma mentre al volo altier del trïonfale
tuo augello allargan gli Angeli il sentiero,
perché tosto circondin le sue ale
questo e quel de la terra ampio emispero,
onde seco mirando ogni mortale
de la giustizia il Sol confessi il vero,
mentre a darti tributo move Dio
le genti, i versi miei t’offrisco anch’io.

Giunge notizia al campo francese attendato fuori Pavia che Guidone Selvaggio è stato fatto prigioniero in Guascogna: Marfisa si dispera (6-23,4)

6Già il difensor de la romana Chiesa
Carlo la terra avea di sangue tinta
per trarre a fin la longobarda impresa,
e Pavia col suo re d’assedio cinta,
né potendo ella omai far più difesa
dal terror quasi a rendersi era spinta,
perché a lei mostrava esser vicina
con faccia orrenda l’ultima ruina.

7Era durato quasi un anno intiero
l’assedio, quando fu nel campo udito
esser fatto in Guascogna prigioniero
Guidon Selvaggio, e a morte anco ferito;
ché in quel paese il nobil cavaliero
contra i fieri Guasconi avea servito
più mesi e con la spada e col consiglio
del gran rettor de’ Franchi il maggior figlio.

8Ebbe Carlo tre figli, il primo nato
non de la moglie sua, Carlo fu detto,
benché da suoi primi anni ognior chiamato
fin a gli ultimi poi fusse Carletto;
ma il secondo et il terzo generato
avea nel marital pudico letto:
l’un si nomò Pipino, e l’altro il Pio
Luigi che fu grato al mondo e a Dio.

9Già ribellati s’erano i Guasconi
di nuovo a Carlo, come fèr più volte,
e a danno de le franche legioni
ch’eran tra lor le spade avean già tolte.
Né men fur da gli indomiti Sassòni
contra i bei Gigli d’or l’armi rivolte,
perché speràr che la lombarda mano
sfrondasse quelli, ma speraro invano;

10ché avendo i Franchi rotto nel Piemonte
il re nimico e già d’assedio cinto,
per far vendetta poi de le fresche onte
Pipin dal padre fu in Sassonia spinto,
et a i Guasconi andò CarlettoS | Carleto a fronte
perché restasse il lor orgoglio estinto;
seco andaro Ulivier, Guidon Selvaggio,
e co i figli il buon Namo, esperto e saggio.

11Questi duci a Tolosa, allor reale
città de la Guascogna, s’accamporno,
facendo a quella ogni possibil male,
e le mura assalendo notte e giorno.
Ma l’assaliano in van, tant’era e tale
l’altezza lor, tant’acque aveano intorno,
così d’uomini e d’arme eran munite,
e sì da lor difese e custodite.

12Anzi il re de’ Guasconi ad ora ad ora
gran danno al franco esercito facea,
e i suoi guerrieri un dì mandando fuora
le squadre assalser che Guidon reggea;
lo qual l’impeto lor non pur allora
sostenne ma fugò la turba rea,
e seguendola ancora fin su le porte
tra quella misto anch’egli entrovvi a sorte.

13Con altri cavalier ne la cittade,
per prender quella imprigionò se stesso.
Quivi, ferendol mille lance e spade,
vide i compagni suoi cadersi appresso;
quivi, mentre infinita quantitade
di dardi e pietre ognior piovea sopr’esso,
mentre molti uccidea sé difendendo,
grave sasso ’l ferì d’un colpo orrendo.

14Percossa ne la fronte ebbe sì fiera
ch’ei cadde in terra d’ogni senso uscito,
onde prigion de la nimica schiera
restò, di piaghe asprissime ferito.
Morto lo avrian se dal lor re non era
il farlo a lor furia proibito.
E ben, con assaltar le mura, il campo
tentò, ma in van, del cavalier lo scampo.

15Di tal successo miserando il grido
ratto al gran Carlo ne l’Italia corse,
al qual, per l’empio caso d’un sì fido
suo amico, aspro dolor l’anima morse;
né fuor che Gano, d’ogni vizio nido,
cui piacque il mal ch’al paladino occorse,
fu nel campo pur uno a cui ferita
grave non fusse la novella udita.

16Ma più d’ogni altro è di Marfisa il core
trafitto dall’annunzio crudo e fiero,
ch’ella Guidon per l’alto suo valore
amava al par del suo fratel Ruggiero.
«Ohimè, dunque morrà» dicea «nel fiore
de gli anni suoi sì nobil cavaliero?
Tolta a gli amici suoi sì tosto fia,
dunque, la sua sì dolce compagnia?

17Quando amico o compagno a me sì grato,
se pur lui perdo, ohimè, troverò io?
Lui da me quanto la mia vita amato,
e degnissimo ben de l’amor mio,
perch’oltre esser ne l’armi sì pregiato,
chi meco mai fu sì cortese e pio?
Chi sì pronto a salvarmi? E quale al mondo
più bel giovane vive e più facondo?

18Ancor ne la memoria il dir soave
mi suona, e gli atti e i modi graziosi
mi par vedere ond’ei più dì per nave
gli occhi e gli orecchi miei fe’ sì gioiosi.
Fisso in mente mi sta ’l periglio grave
nel qual per salvar me, co i valorosi
compagni miei, dove han le donne il regno,
si pose, e del suo amor diè sì gran segno.

19Qual pietos’opra a quella agguagliar puossi
che per farci sicuri usò con noi,
quand’io di tanti colpi lui percossi
e uccisi pria tutti i compagni suoi?
Che, perch’io da le femine non fossi
con gli altri morta quella notte poi,
ci condusse al suo albergo, e pur sapea
ch’io d’ammazzarlo il dì tentar dovea.

20E che dirò de l’alta cortesia
con la qual ci onorò dentro al suo tetto?,
che de la forza e de l’ardir, che pria
mostrò ’l suo braccio a noi, mostrò ’l suo petto?
Ahi dolcissimo amico, adunque fia
dal Ciel per la tua morte a me disdetto
far parte almen di quel ch’io debbo teco
per tanti e sì gran meriti c’hai meco?

21Felice la tua Aleria a cui mostrarti
diè il ciel quale il suo amor sia stato e quanto,
col lasciar la sua patria e seguitarti
per tutto e col morirti in guerra a canto.
Deh, perché non ancor lo accompagnarti
a me fu dato in un periglio tanto,
che o te salvando, o per te sendo uccisa,
t’avria il cor mostro ancor la tua Marfisa?

22Ma chi, se tu pur muori, chi vietarmi
potrà ’l far di tua morte almen vendetta?
Non puoi, non puoi Guascogna empia scamparmi
ch’a ferro, a sangue e a fuoco non ti metta;
non contra quei ch’al ciel già volser l’armi,
sì orribil fu di Giove la saetta
come fia ’l mio furor, fia questa spada
contra i tuoi figli et ogni tua contrada».

23Queste, et altre parole, di grand’ira,
d’alta pietate e doglia il core accesa,
dice la fiera vergine, e sospira
e mugge poi che tal novella ha intesa,
quando Amor, che dal ciel questo rimira,Amore decide di punire Marfisa per la sua ritrosia facendola innamorare (23,5-35,6)
vistasi occasion d’una alta impresa,
s’accosta a la sua bella genitrice,
e con lieto sembiante così dice:

24«Or ecco, madre graziosa et alma,
ecco che giunto è pur quel tempo al fine
ch’i’ acquisti omai la desiata palma
e ’l desiato allor mi cinga il crine;
ecco che la più fiera, indomita alma
pur domeran le mie forze divine.
Oggi quell’empia a me tributariaS | tributtaria
sarà, che tanto ognior mi fu contraria.

25Parlo de l’invittissimaS | invitissima guerriera
Marfisa, natural nostra nimica.
Deh, qual altra è vèr noi donna sì fiera
in questa etade, o mai fu nell’antica?
Quando, se non per vincer questa altera,
soffersi indarno mai tanta fatica?
Qual non spezzato omai cor d’adamante
avrian sì gravi mie percosse e tante?

26Almen da l’altre femine che a vita
casta si dier, verginità servando,
de’ maschi fu la pratica fuggita,
le chiuse celle o i boschi frequentando.
Né forza ebbero ancor ch’arsa e ferita
da me non fusse or questa or quella, quando
mi piacque, come d’Ilia, di Calisto,
e di tante altre vergini s’è visto.

27Et ella a questo e a quel giovane egregio
per sangue, per bellezza e per valore,
compagna stata ognior, sempre in dispregio
ebbe le mie saette, ebbe il mio ardore.
Ma tempo è ben ch’un tanto privilegio
non goda più questo efferato core,
ben tempo è omai ch’io la ferisca et arda,
poi che sì contra me non è gagliarda.

28È contra me il suo core assai men forte,
perché da forza altrui debole è reso,
ch’è la pietate e ’l duol c’ha de la sorte
del Selvaggio Guidon ferito e preso.
A lei, che del baron teme la morte,
dal fuoco di pietà sì il petto è acceso,
sì da i morsi del duol l’alma è traffitta
ch’or lieve il vincer m’è sua forza invitta.

29Sicuramente or arderla e ferirla
ben poss’io, senza tema latra di lei;
ma perché pur indugio ad assalirla?
Ché tardo a vendicar gli oltraggi miei,
se me del divin nome, in non punirla,
stiman quasi non degno uomini e dèi?
Ma il ciel mi nieghi il nettare, e la terra
gl’incensi se ’l mio braccio or non l’atterra».

30Ciò detto, baci a lui soavi dando
Venere, seco mostra alto diletto,
e ’l suo desir magnanimo lodando
lieta l’esorta a dargli tosto effetto.
Ei de le braccia sue parte, lasciando
del bel Tauro celeste il chiaro tetto,
la faretra d’argento al collo appesa
tiene, e in man l’arco e la facella accesa.

31Già spiega l’ale, e drizza le lucenti
sue penne in vèr l’italico terreno;
fende e scaccia col volo e nubi e venti,
lasciando ovunque ei passa il ciel sereno.
Suonan gli strali suoi, saetta ardenti
faville la sua face a molti in seno,
mille aurei lampi a lui splendono intorno,
e dove ei vola par la notte giorno,

32ché, mentre il manto suo la notte stende,
et invita al riposo ogni mortale,
Amor si appressa a le francesche tende,
e, sopra quelle giunto, adegua l’ale.
Non a predar sì ratto in terra scende
falcon dal ciel cui dura fame assale
come a far preda d’un sì nobil core
ratto sopra ’l Tesin s’avventa Amore.

33Sceso sul fiume in su la sponda manca,
l’ale a gli omeri suoi stringe e compone;
si ferma alquanto, onde il vigor rinfranca;
più tende l’arco, indi uno stral vi pone
et entra altiero tra la gente franca,
passa quello e quell’altro padiglione
e de la ferocissima regina
a l’albergo, invisibil, s’avvicina.

34Quivi, traffitta il cor da doglia fiera,
sopra le piume lei desta ritrova.
Trema al feroce aspetto de l’altiera
vergine, e non però gli è cosa nuova,
perché a tremarne non pur solito era,
sempre ch’in van di vincerla fe’ prova,
ma ad essergli anco addosso i propri strali
da lei spezzati e spennacchiate l’ali.

35Qual uom cui più desir di vendicarsi
che ardir contra il nimico mova il piede,
che, vedendolo poi, teme affrontarsi
con esso, e per soccorso a dietro riede,
tal per tema ad Amor convien ritrarsi
da lei, fin che d’aiuto si provede.
Né già bisogna a provederne fuoraSfrutta il Sonno per inviarle una visione notturna, per mezzo della quale la fa innamorare di Guidone Selvaggio (35,7-47)
gir de la tenda, ov’era il Sonno allora.

36Chiuse allor di Marfisa a una donzella
le luci il Sonno dolcemente avea,
e chiuderle anco a lei volea, mentr’ella
sospira di Guidon la sorte rea,
onde, pensato Amor di ferir quella
nel sonno, poi che desta la temea,
pian piano a lui s’accosta, e con parole
basse, gli scopre quel che da lui vuole.

37Vuol ch’à lei Guidon mostri, non con l’empie
sue piaghe, ma con forme vaghe e liete;
ond’ei ratto le bagna ambo le tempie
col ramo sparso de l’umor di Lete.
Già le aggrava le ciglia, e i sensi l’empie
del suo dolce sopor, già la quiete
sparsale a poco a poco dentro a l’ossa
gli occhi le chiude e lega ogni sua possa.

38Dorme l’altiera e te, Pallade, sembra,
qualor de’ sostenuti affanni in guerra
stanca le belle tue robuste membra,
il sonno gli occhi tuoi lucenti serra,
come avertegli chiusi ti rimembra
dopo il cader de i figli de la terra.
Intanto il Sonno, che l’umana forma
prende, in Guidon Selvaggio si trasforma.

39Si trasforma in Guidon, né piglia quella
sembianza ch’avea allora orrida e trista,
ma la più lieta, la più vaga e bella
ch’in lui si fusse in alcun tempo vista.
Tale in sogno apparisce a la donzella,
mentre dogliosa il cor, languida in vista,
starsi in un prato u’ soglia diportarsi
le pare, e quivi al ciel mesta lagnarsi.

40Parle il cielo accusar, le stelle e ’l fato
per l’empio caso del barone egregio,
e ch’egli d’arme e d’aureo manto ornato,
che di rose e di mirti ha ricco fregio,
le giunga sopra, e dica in modo grato:
«Salviti il cielo, o de le donne pregio,
ecco il tuo amico, il tuo Guidon qui teco,
or lascia il duolo, e ti rallegra seco.

41Non più biasmar il ciel, poi che celeste
forza m’ha tolto a le nimiche squadre.
Venere mi salvò, Venere queste
insegne mi donò, ricche e leggiadre.
Ella mi fe’, dopo sì rie tempeste,
te veder prima che i fratelli e ’l padre».
Così parlar Guidone; et in tal guisa
risponder lieta a lui parea Marfisa:

42«O gloria de gli eroi, fido e diletto
compagno mio, qual grazia in questo affanno
ti rende a me, quando era in più sospetto
di perderti, con tanto e tal mio danno?
Sempre chi t’ha salvato e m’ha il tuo aspetto
or mostro le mie voci loderanno.
Ma chi prima di me dovea vederti,
quando chi t’ama più da te più il merti?».S | Quando chi th’ama più da tel piu il merti?

43Par che così parlando ad abbracciarsi
corrano, liete lagrime spargendo,
e che d’onesti baci ambi saziarsi
non possano, il desir sempre accrescendo.
Ahi donzella infelice, che ingannarsi
lascia, il vero d’Amor tosco bevendo,
mentr’ella, a cibo tal non anco avvezza,
gusta del sogno suo finta dolcezza.

44Ah misera, non sente il fuoco acceso
ch’entro al suo petto per le labra scende?
Tosto Cupido, che con l’arco teso,
con palpitante cor ferirla attende,
scocca l’ardente strale, e ’l non più offeso
cor da tal arme le trapassa e accende.
Scuote dal sonno lei quel colpo orrendo,
dal suo petto un sospir grave traendo.

45Apre attonita gli occhi, e quasi uscita
fuor di se stessa, dubbia col pensiero
se la gioia che dianzi avea sentita
sia vera o falsa, o pur nunzia del vero.
Le resta sì ne l’anima scolpita
la sognata beltà, l’abito altero,
sì nel cor fissi ha i finti detti e baci
che stati al punto le parean veraci.

46Pur, non vedendo lui col qual gustati
ha tai diletti, sogni esser gli crede;
ma che ben di futuri effetti grati
ad ambi lor le faccian forse fede.
Le spiace ch’esser veri e non sognati
que’ baci amica sorte a lei non diede,
e ch’almen, così finti, lungo spazio
gustandogli, il desir non ne fu sazio.

47Indi riprende sé, ch’un van piacere
da lei proposto a l’onestate vegna;
né pur vero non più ’l brama godere,
ma d’averlo sognato anco si sdegna,
ché il desiar lascivie o finte o vere
d’un virtuoso petto è cosa indegna,
perché le par che non abbatter l’alto
suo cor dèe questo né più fiero assalto.

Amore torna dalla madre e viene festeggiato per il suo successo (48-60)

48Or vedutosi Amor vittorioso
nel trapassar quel petto d’adamante,
non sì l’ebreo garzon, com’ei, sì gioioso
fu nel cader del filisteo gigante,
né il vincer Giove e Apollo sì orgoglioso
lo rese, né il far Marte e Alcide amante.
Di tanto orgoglio e di tal gioia pieno,
torna ove fa la madre il ciel sereno.

49E le guance baciandole ambedue,
con quel piacer, con quella allegra faccia
con cui racconta altrui le prove sue
chi il feroce leon ferito ha in caccia,
le narra qual la sua vittoria fue,
né gli è cosa avvenuta ch’ei le taccia,
da che tremando vide la donzella
feroce, fin ch’in sonno accese quella.

50Questi vittoriosi, allegri effetti
superbamente le racconta Amore.
Ella, colma di nuovi alti diletti,
abbraccia lui, lodando il suo valore.
E i piccioli amorosi fanciulletti,
che per udir l’altero vincitore
lasciàr gli scherzi a’ quali erano intenti,
tutti circondan lui lieti e ridenti.

51Qual pipillando a chi pascer gli suole
corrono intorno gli avidi pulcini,
si che alcun sopra quel ne salti e vóle,
acciò che primo a l’esca s’avvicini,
tal de gli Amori ognun primo esser vòle
che accolga il suo fratel, che se gli inchini,
che gli baci le man vittoriose,
che ’l crin gli cinga di mirti e di rose.

52«Viva d’uomini e dèi, viva del mondo
l’egregio vincitor! Tu sol trionfi
dal sommo Olimpo al centro più profondo
de l’altrui forze e de gli altrui trionfi»:
così i fanciulli in suon dolce e giocondo
cantan del nuovo onor superbi e gonfi,
e cantan altre ancor sue chiare lode,
e lieta in replicarle Ecco si gode.

53Poi che ’l cantar de i pargoletti Amori
chetò di lor la bella genitrice,
rasciugando lietissima i sudori
dal volto di Cupido, così dice:
«Or non fia già chi più ti disonori
s’hai doma una sì gran spregiatrice;
non sarà già chi a fronte più ti stia,
vinta sì forte tua nimica e mia.

54Ben esserti ogni grave altra contesa,
avuto in questa onor, può lieve omai,
che non Delia da te tanta difesa,
quanta ha fatta costei fece giamai.
Ben hai tu a pien mostrato in questa impresa
ch’ogni altro il tuo poter vince d’assai,
ma non fatto però la tua saetta
ha intieramente ancor nostra vendetta.

55Perché sì grande è l’onta che costei
ci ha fatta, che ’l tuo stral, la tua facella,
benché tutto arda e impiaghi il cor di lei,
farle offesa non può che agguagli quella.
Dunque, come del Sonno ora ti sei
servito in vincer sì gran tua ribella,
come fu la Pietà teco a ferirla,
così t’aiuti ancora altri a punirla.

56Nessun meglio a punir questa superba
può che la Gelosia soccorso darti;
ella il castigo debito le serba,
ella a pien contra a lei dèe vendicarti,
dandole pena tanta e così acerba
ch’ognun tremar farà ch’osi sprezzarti.
Falle il suo ghiaccio por dunque nel core,
come v’hai dianzi tu posto il tuo ardore.

57Quinci gli aspri tormenti e ’l grave affanno,
quinci le pene estreme uscir vedremo,
onde agguagliate almen l’onte saranno
che tanti anni da lei sofferte avemo.
Così gli uomini più non ardiranno
sprezzarti, e più temuti ognior saremo;
così, tanta vendetta a tal vittoria
congiunta, sopra i cieli andrà tua gloria».

58E così detto, con sereno ciglio
di nuovo il bacia, e lo si strigne al petto.
Egli, qual suole obediente figlio
a madre, loda umile ogni suo detto,
e confermando il saggio suo consiglio
lieto promette dargli tosto effetto.
Poi, stanco per l’acquisto faticoso,
le chier licenza di pigliar riposo.

59Tosto de suoi fratelli il lieto coro
prontissimo a servirlo tutto attende:
chi de la face, chi de l’arco d’oro
le man disarma, e chi gli alluoga e appende;
de la faretra argentea altri di loro
sgravan gli omeri, e ’l collo onde gli pende.
Molti di gigli, di viole e rose
fanno odorato letto ov’ei ripose.

60Tra sì bei fiori sopra il destro fianco
si corcan le sue belle ignude membra.
Statua d’avorio sopra azzurro e bianco,
giallo e vermiglio suol distesa sembra.
Posto a giacereS | ghiacere il suo bel corpo stanco,
d’ogni antico suo acquisto si rimembra;
gli agguaglia al nuovo, e mentre qual preceda
misura, lascia gli occhi al sonno preda.