Il duello tra Argante e Germando è interrotto da Carlo nel suo momento più crudo (1-17,4)
1Intanto i duo guerrieri d’ogn’intorno
cinti son d’arme le robuste membra;
lampeggian quelle, e ’l ciel di stelle adorno
la seta e l’or de l’armatura sembra.
Di Turno e del troian pietoso il giorno
Carlo, i due re mirando, si rimembra,
quando mortal duello con ispeme
d’acquistarsi Lavinia ebbero insieme.
2Ognun de i due padrini ignuda in mano
del suo combattitor la spada tiene,
e piegar le ginocchia sopra il piano
fallo, et orar a Dio quanto conviene.
L’araldo a i riguardanti, e non in vano,
la voce e ’l moto intanto a vietar viene;
dir poi s’ode con alti e chiari accenti:
«Lasciate andar i forti combattenti».
3Queste parole istesse, a cui precede
col suon la tromba, replicar si sente;
surgono allora i due guerrieri in piede,
a’ quai si dan le spade immantinente,
e nel porgerle lor, chi lor le diede,
perché abbiano al ferirsi il cor più ardente
simili usando generosi detti
raccende al fiero Marte ambo i lor petti:
4«Con questa spada o vincere, o con quella
morir del tuo nemico t’è mestiero,
ché se perder ti dà contraria stella,
vivendo vivi in sommo vitupero.
Tu per l’onor combatti e per la bella
regina; tu sei re, sei cavaliero;
quel dunque fa ch’al grado tuo conviensi,
s’acquistar sì gran donna e gloria pensi».
5Ma già la terza volta il regio araldo
grida che l’uno e l’altro andar si lassi.
S’infiamma a voce tal di viril caldo
la faccia a molti, alcun pallido fassi.
Tosto i due re con viso ardito e saldo
muovon l’un contra l’altro altieri passi,
già s’affrontan col ferro, e quasi colto
n’è sotto il mento l’un, l’altro nel volto.
6Perché i primi lor colpi ivi son dritti
ma l’urtarsi le spade gli fa vani,
raddoppian le percosse i regi invitti,
né quanto è lungo il ferro stan lontani.
Sempre ne l’altrui spada han gli occhi fitti,
sempre tengono in moto e piedi e mani;
quanta han forza e saper pongono in opra,
per còr l’un l’altro, e indarno ognun l’adopra.
7Quel sì avanti la man lunge da i piedi
spinge al ferir, ch’in aere par sospeso;
questo ritrarsi a dietro in guisa vedi,
che non sia dal nimico ferro offeso,
e quando l’un quasi atterrato credi,
risorto a ferir l’altro è tutto inteso.
Sembran le spade lor fulmini, e mille
spargon lampi incontrandosi e faville.
8Non sì gravi, sì spessi e rimbombanti
furono i colpi de gli etnei martelli,
quando per fulminar gli empi giganti
fe’ ’l gran Giove sudar Bronte e i fratelli,
come gravi, frequenti e risonanti
de le barbare spade allor son quelli,
le spade che son lor martelli e incudi,
per ferirsi adoprandole e per scudi.
9Meravigliasi ognun, che ripararsi
possan col brando da percosse tante.
Ecco che ’l troppo l’un ne l’altro urtarsi,
quello spezzar fa del feroce Argante,
ma quegli, senza punto sgomentarsi,
fuora il pugnal traendo in un istante,
col rotto ferro suo cuopre la faccia
e ratto al suo rival sotto si caccia,
10al suo rivale, che ben da sé discosto
con una punta lui tener potea,
ma ne l’onore avendo il suo fin posto
senza vantaggio alcun vincer volea.
Però venir lo lascia, e ’l pugnal tosto
trae contra lui, ch’in mano il suo tenea,
ma pria la spada ne la manca ha presa,
sì come ha l’altro e ciò sol per difesa.
11Con la destra il pugnal, con l’altra mano
tengon la spada, un rotta e l’altro intiera,
e quanto quel da questo è men lontano
tanto è la pugna lor più aspra e fiera;
e ben che renda ogni lor colpo vano
la spada, che difesa a ciascun era,
pur tra gli elzi di quella del rivale
ficca il feroce Argante il suo pugnale.
12Dal ferro acuto è ne la man percosso
Germando, et ei che si sentì ferire,
e di sangue si vide il pugno rosso,
di furor colmo, con rabbioso ardire,
tosto al suo feritor si stringe addosso,
fermo o di vendicarsi o di morire,
e ’l ferro suo drizzandogli nel volto
lo fier nel mento; ei ne la guancia è colto.
13Ma non pria de’ lor colpi altrui fa fede
il sangue che le barbe lor dipinge
che Carlo, a cui ciò mesta Ullania chiede,
col cenno a Orlando a dipartirgli spinge.
Tosto l’eroe tra loro entrar si vede,
et a lasciar la zuffa ambi costringe;
da Grifon l’uno, e dal figliuol d’Uggiero
tirato a dietro è l’altro cavaliero.
14Son tratti a dietro; è tronca la lor pugna
non con forza minor, non altrimenti
ch’aspra ostinata zuffa si disgiugna
tra due fieri mastin di rabbia ardenti,
mentre che ’l dente insanguinando e l’ugna
son ambo ad atterrar l’un l’altro intenti,
perché il cor de i due re si accendon l’ire
che di sangue e non d’altro hanno desire.
15Ma lor mal grado uscir dello steccato
da le forze d’altrui costretti sono.
Ognun dal suo padrino è accompagnato,
e da molti altri avanti al real trono;
dal gran Carlo egual laude ad ambi è dato;
va intanto al ciel di trombe un lieto suono.
Sparsa Ullania di lagrime la faccia,
fraternamente i cavalieri abbraccia.
16Indi con ambidueS | com’ambidue, che trionfanti
son condotti a le tende, il passo move;
con alto onor ve gli accompagnan quanti
fan chiari il sangue, il grado o nobil prove.
Con Carlo i vecchi sol restan fra tanti;
entrano i re ne’ padiglioni, dove
fan medicargli i lor padrini, e insieme
la dama a cui il lor mal sì forte preme.
17Intanto il campo risonar fa il vario
parlar che de i due regi ivi si sente:
qual giudicio è concorde e qual contrario,
chi pari ambo gli fa, chi l’un vincente.
Ma già il maggior celeste luminarioDesiderio chiede e ottiene un mese di tregua dalla guerra da Carlo (17,5-41,6)
spegner parea nel mar la faccia ardente;
allora i Franchi, accesi d’ogni intorno
festivi fuochi, rinovaro il giorno.
18Queste sì liete fiamme ch’a le stelle
salian, di tema gl’inimici empiero,
perché quanto allegraron le novelle
venute Carlo et ogni suo guerriero,
tanto attristaron e spaventaron’elle
i Longobardi tutti e Desidero;
le novelle che dianzi avean narrato
de’ Sassoni l’orgoglio esser frenato.
19Per questo la mestizia e lo spavento
nell’empio re de’ Longobardi crebbe,
privo di quanta speme et ardimento
già per l’armi germane il suo cor ebbe.
Già lo trafigge amaro pentimento,
già digiun di sua impresa esser vorrebbe;
pargli veder, se più ostinato dura,
ardere e ruinar le regie mura.
20Ben allora si duol ch’al suo cugino
Asprando creder mai non ha voluto,
Asprando che di Siena ebbe il domino
e giustissimo e saggio era tenuto.
Ei, che de’ buoni ognior seguì ’l camino,
non avendo ad alcun giamai nociuto,
l’empio re suo cugin sempre riprese
di tante fatte al Papa ingiuste offese.
21Ei sempre consigliollo a non opporsi
per sì ingiusta cagione al Magno Carlo,
però, passando i Franchi gli aspri dorsi
de l’Alpi contra lui, non volse aitarlo,
per non nimica la giustizia torsi.
Ben ne l’assedio poi n’andò a trovarlo,
ma più per lui soccorrer col consiglio
che con la spada in tanto suo periglio.
22Estremo è il suo periglio, senza speme
d’alcun soccorso o prossimo o lontano,
non l’ha ne gli stranieri e de’ suoi teme.
O nostro dominar fugace e vano:
ecco or quanta costui miseria preme,
e parea dianzi aver l’Italia in mano!
Onde per men suo male al vincitore
manda il giorno seguente ambasciatore.
23Mandalo a Carlo il misero, sperando
che da lui pace, o tregua almen s’ottegna;
questo oratore è il suo cugino Asprando,
e seco ha compagnia nobile e degna.
Entrato in campo il segue ognun, bramando
saper ciò che per lui di nuovo avvegna.
Et egli poi ch’avanti al re s’offerse,
umile a così dir le labra aperse:
24«Il re de’ Longobardi Desidero,
a te, campion de la cristiana fede,
e insieme al sacro successor di Piero,
perpetua pace et amicizia chiede,
perché Cristo contrario al nostro impero
di giust’ira infiammato esser s’avvede;
e ciò crede avvenir per qualche offesa
fatta da quello a la romana Chiesa.
25Ond’egli per placar di Dio lo sdegno
e perché a tutti noi propizio sia,
obligar vòl per legge il nostro regno
che col romano sempre unito stia,
e che debba depor, come re indegno,
non pur quel che molestia a Roma dia,
ma quello ancora che per lei la spada
non cinga ognior ch’in sua difesa accada.
26E perché seco affermi un così santo
decreto ogni altro longobardo duca,
tregua un mese dimanda, acciò che intanto
il general consiglio suo riduca,
e tutti i duci ad osservarti quanto
con la mia lingua or ti promette induca,
sperando allor da Cristo esser gradito,
ch’ei sia col suo vicario e teco unito».
27Ciò detto Asprando, il re con grave aspetto,
e con ardita voce gli rispose:
«Piaccia a Dio che ’l tuo dir sortisca effetto,
né ’l rendan vano l’opre insidiose,
come che avvenga ancor mi dan sospetto
tante dal tuo re fatte inique cose,
avendo a Cristo e la romana sede
tre volte rotta la giurata fede.
28Ma perché Dio ci esorta amar la pace,
né intiero ben gustar si può senz’essa,
benché il tuo re sia perfido e mendace
dal Pastore e da me gli sia concessa.
Consentirgli la tregua anco ci piace,
e sia la condizione in noi rimessa.
Or questa santa impresa favorisca
il Re celeste, onde buon fin sortisca».
29Così risposto, scriver fa ch’un mese
di tregua a Desidero è conceduto,
sì che ’l lombardo in campo, et il francese
sicur ne la città sia ricevuto,
ma che alcun, né in secreto, né in palese
porga a Pavia con vittuvaglie aiuto.
Poi sottoscritta da la real mano
la carta, è data al buon duce toscano.
30Egli grazie rende al magno Carlo;
da lui, con gli altri suoi, commiato prende.
Fa il re da i suoi baroni accompagnarlo
per tutto il campo infin fuor de le tende.
Entra in Pavia già il duca, e ad incontrarlo
va il popol, che sospeso ivi lo attende,
e per saper se pace o tregua apporte
seguita lui fin a le regie porte.
31Entrato al re, del tutto lo ragguaglia,
ma poco a quello è tal accordo grato,
poi che armar la città di vittuvaglia
e d’altre munizioni gli è vietato,
perch’ei vorria poter, quando non vaglia
la pace a conservargli il regio stato,
talmente assicurarsi entro le mura
che non potesse alcun fargli paura.
32Ma poi che la fortuna a ciò lo spinge,
egli a soffrir del vincitor la legge
se stesso con forte animo costringe,
ché il savio il minor mal per bene elegge,
e ben che mesto sia lieto si finge,
mentre che de la tregua i patti legge;
la qual fa tosto da gli araldi poi
manifestar a i cittadini suoi.
33Oh quanta loda Dio, quanto riceve
piacer da ciò la plebe, oh quanto è lieta,
sperando aver la pace in tempo breve,
onde ne viva comoda e quieta!
Ma bene a molti in campo è amara e greve
la tregua poi che ’l guadagnar lor vieta,
perch’essi temon ch’abbia fin la guerra
senza predar la quasi vinta terra.
34S’apron le porte a l’assediate mura,
e a cinque e a sette e a diece e a venti insieme
uscirne fuora il popol s’assicura,
ma però in qualche parte ancora teme,
perché non può se non aver paura
s’ove ei versò già il sangue il piè suo preme,
o s’armati riscontra, o vede il campo
nimico fiammeggiar di ferreo lampo,
35com’uom che per piacer torni ne l’onde
ov’ei fu per sommergersi talora,
che benché allor sian placide e seconde,
rimembrando il periglio, teme ancora.
Van le campagne lor, già sì feconde,
poi riveggendo, inculte e rozze allora;
sospira alcuno, e non con occhi asciutti:
«Corrò mai» dice «in voi gli usati frutti?».
36A schiera a schiera ancor, da l’altra parte,
ne la città nimica entrano i Franchi;
mirano altri le mura a parte a parte,
l’alte lor torri e i lor gagliardi fianchi,
pensando con qual forza e con qual arte
l’espugnin, quando pur l’accordo manchi;
altri, che d’ogni cosa ivi rimira
gran copia, la sua perdita sospira,
37ché, non seguendo pace, guadagnate
la spada lor tante ricchezze avria.
Maravigliasi alcun ch’ivi a private
faccendeS | Facende il popol tutto intento sia.
Circondano i nimici la cittate,
et ogni piazza, ogni corrente via,
di voci e di persone ferve e freme,
che mercan molte e varie cose insieme.
38Quivi oprano gli artefici e i mercanti;
Pavia d’ogni esercizio in somma è piena,
né pur de gli ordinari, ma di quanti
seco a pompa la pace in giro mena.
Qua fan la mostraS | nostra ben armati i fanti,
là feroci cavalli e chi gli frena.
Solcano il fiume i legni da battaglia,
e colma gli altri varie vittuvagliaS | vituvaglia.
39Queste, et altre in Pavia vedute cose,
a Carlo riferiscono i soldati,
parendo al più di lor maravigliose
a vederle in città d’assediati.
Ride egli, al qual de’ Longobardi ascose
non son l’astuzie, e i loro inganni usati:
ben sa che per aver con miglior patti
pace da lui questi apparecchi han fatti.
40Né vano è il suo saper, perché di quanto
fassi in Pavia cagione è Desidero,
che a i Franchi mostrar vuol di poter tanto
che né lor temer dèe, né ’l roman clero;
ma che per ben comune, e sol da santo
volere spinto a Cristo cede e a Piero,
cercando con tal finta intenzione
racquistar la real reputazione.
41Noto fa Desidero ad ogni duca,
ch’ubidienza a sua corona rende,
che ne la città regia si riduca,
perché trattar col lor consiglio intende,
che a pace Carlo e ’l buon Pastor s’induca,
poi che con l’arme indarno si contende.
Ma intanto Argante, e l’altro cavalieroCarlo dirime la controversia dei re: ad Argante va lo scudo, a Germando la regina d’Islanda (42,7-53,2)
guarìr de le ferite, che si diero.
42Ben guarìr quelle ch’ebber da le spade,
ma quelle no del garzon cieco e nudo,
onde la dama a Carlo persuade
che la sentenza dia de l’aureo scudo.
Già vaghi di saper sopra cui cade
la sorte, e cui sia Amor pietoso o crudo,
co i re insieme si radunan quanti
baroni ha il campo al Magno Carlo avanti.
43Assiso Carlo in mezzo a la sua corte
e, sedendogli a fronte i due rivali,
con lieta faccia e con maniere accorte
usa verso ambidue parole tali:
«Ambi acquistata la real consorte
vi avete, ambi in tal merto or siete eguali;
ma non dovendo possederla ognuno,
convien che possessor ne sia sol uno.
44Né però voglio ch’a quell’un sì bella
regina da la sorte si conceda,
ma prego quel cui meno Amor flagella
ch’al suo compagno in cortesia la ceda,
perché colui che acceso è più per quella
forse morrà quando altri la possieda,
e potrà chi men l’ama, ancor che privo
di lei rimanga, conservarsi vivo.
45Ben so che come re e cavaliero,
o valoroso re de la Norveggia,
dovendo esser veridico, tu il vero
confesserai quand’io te ne richieggiaS | ricchieggia,
che non d’aver tal donna il desidero
fatto ha che tu sì bella impresa eleggia,
ma voglia di sfogar un amoroso
sdegno, e di farti al mondo glorioso.
46Gloria ad ambi acquistata ha questa impresa,
tu già sfogato hai l’amoroso sdegno
che per la prussiana dama, accesa
del tuo amor, nacque da sospetto indegno.
E che la suspizion da te già presa
sia stata vana appare a più d’un segno,
perch’ella ha poi tutti i piacer fuggiti
e tanti offerti a lei degni mariti.
47Merta sì intera fé, sì lungo affanno
che col tornar a lei le dia conforto.
Sposala dunque, accetta il ducal scannoS | scamno
di Prussia, e non le far omai più torto;
lascia al compagno l’altra e giugneranno
d’ambi le voglie al desiato porto.
Or questa al fine è la sentenza mia,
che sua la donna, e tuo lo scudo fia»,
48disse Carlo, e la dama con licenza
de i due re ch’avea a canto e lui, rispose:
«Non si potea, signor, la cui prudenza
giudica e regge tante e sì gran cose,
con più giusta e più grata altra sentenza
quetar queste d’onor liti amorose.
E quando s’udì mai ch’altri facesse
giudicio ch’ad alcun non dispiacesse?
49Questo che nel tuo core ha posto Dio
a tutti è grato et a nessun discaro:
fia grato a la regina cui serv’io,
ma di Prussia a la dama assai più caro;
quanto un giudizio tal queti il desio
di questi re, ti faranno essi chiaro;
e certa sono ancor ch’ognun che m’ode
n’è lieto, e darne a te deve alta lode.
50Ma perch’io acqueti la regina mia,
piacciati scritta la sentenza darmi,
acciò se stessa e l’aureo scudo dia
a questi re che denno accompagnarmi.
Poi ne l’Islanda un, l’altro in Prussìa,
lasciando riposare alquanto l’armi,
prendan ne’ seni de le mogli loro
di tanti affanni al fin degno ristoro».
51Detto così, con ambidue gli amanti
baciar l’invitte mani a Carlo volse;
egli no ’l consentì, ma con sembianti
grati, abbracciando ognun, lieto gli accolse.
Ringraziaro essi lui, che allor di tanti
e sì lunghi travagli ambo gli sciolse,
e i regni loro e le lor vite ancora
offerser pronti a’ suoi servigi ogniora.
52Argante non negò d’amar la erede
di Prussia; anzi, di quanto n’avea detto
Ullania fece la sua lingua fede,
e mostrò dello scudo alto diletto.
A conoscer non men Germando diede
con le parole il gaudio del suo petto,
giurando esser maggior, per tal sentenza,
che s’a lui desse il mondo ubidienza.
53Indi da tutti i suoi baroni foro
abbracciati ambi, in segno d’allegrezza;
a’ quai si mostrò poi lo scudo d’oro,I paladini guardano le figure scolpite sullo scudo, Carlo con una profezia annuncia la vittoria di Carlo V sull’eresia tedesca (53,3-80)
perché avea di vederlo ognun vaghezza.
Sculto avea in mezzo con gentil lavoro,
una gran donna di viril bellezza,
Roma era questa, con le spoglie antiche,
ma non con l’armi a lei già tanto amiche.
54Perché una mitra d’or di gemme ornata,
con tre corone avea per elmo in testa,
due chiavi, argentea l’una e l’altra aurata
per spada, e per corazza un’aurea vesta.
Così sol d’oro e sol d’argento armata,
onde spesso altrui ferro oggi l’infesta,
parea da cinque suoi nimici offesa
e da altretanti amici esser difesa.
55Fiamme stan sopra a lei moleste e gravi,
e par che d’esserne arsa si spavente,
ma versando sopr’esse acqueS | aque soavi,
con bocca una fanciulla, erano spente.
Roma non più ma Gotia ti nomavi
s’era Placidia allor meno eloquente,
v’è scritto, e inteser molti questa istoria
perché molti n’avean fresca memoria.
56Che ’l re de’ Goti Atulfo con ingiusti
decreti, con sentenza iniqua e rea
per tòrre a Roma il nome et a gli Augusti
lei Gotia, Atulfi lor nomar volea.
Ma con sembianti placidi e venusti,
Placidia, che da i Cesari scendea,
in sì secondo dir la lingua sciolse
che sì crudel pensier dal cor gli tolse.
57Dal destro lato de la regia sede
di lei, cui tre corone ornan le tempie,
un re crudel con fiero aspetto siede,
che d’immenso terrore ogni cor empie.
Ivi un leon con umiltà si vede
troncar l’imprese sue malvagie et empie:
sol questo umil leon commove e piega
l’iniquo, che le grazie a ciascun niega.
58Mostra bassa statura il re feroce,
largo petto, gran testa, fitti in drento
i piccoli occhi suoi, lo sguardo atroce,
schiacciato il naso e rari peli al mento.
Con un flagel che punge, incende e cuoce
fa larga strage, e a lei porge spavento;
è la sferza terribil di pungenti
sanguigni ferri e di facelle ardenti.
59Ma il buon leon del re superbo e rio
frena il furor, ripara in parte al danno.
De’ popoli terror, flagel di Dio
scritto avea sopra il manto il gran tiranno;
ben vide ognun, che ’l leon santo e pio,
mentre cerca accordar l’istoria e l’anno,
era Leone il successor di Pietro
ch’a Mantova il crudel tornar fe’ indietro.
60Contra l’istessa donna, che di Roma
tien la sembianza, e cui ricca e lucente
mitra circonda l’onorata chioma,
movesi ancora un orrido serpente,
che con tre corna avendo vinta e doma
già la parte maggior de l’Oriente,
con terribil furor corre vèr quella
per ferir la sinistra sua mammella.
61Ma da un guerrier di gemme il crine adorno,
e di ferro le membra e d’onor cinto,
con un martello gli è rotto ogni corno
et è il terren del sangue suo dipinto.
Stan queste lettere al vincitor d’intorno:
Sol nel nome fatal di Carlo vinto
sarà il mostro crudel, sol fia difesa
in questo nome la Romana Chiesa.
62Per questi versi ancora altri s’avide
il fier dragon di tre gran corna armato
esser Maumetto, che sue leggi infide
sopra tre altre leggi avea fondato,
e quel che col martel quasi l’uccide,
Carlo Martello il principe onorato,
che già in Guascogna, un dì che ’l ciel gli arrise
trecento milia saracini uccise.
63Di lunga barba un uom vestito il volto
del dritto fianco a la regina stava,
raso avea ’l capo a tergo, e di non molto
crin diviso in due parti il viso ornava;
era di lino in ampia veste avvolto
cui ricamo, e color vario fregiava;
tien la sua destra un’asta, e l’altra mano
un giogo, ch’a lei por voluto ha in vano.
64Perché asta e giogo ha tronco, e lui ferito
una spada real cinta d’alloro,
la quale il pomo e ’l manico scolpito
mostra in azzurro smalto a gigli d’oro.
Un’Aquila è sopr’essa a cui fiorito
tai gigli il capo han con le foglie loro;
Spada del Magno Carlo, primo impero
de’ Carli ha scritto a i piè l’augello altiero.
65L’abito, il crin, la barba e ’l volto fiero
conoscer fece a chi vi volse il ciglio
ch’era il re longobardo Desidero,
che già temea de l’ultimo periglio.
Si conobbe anco a più d’un segno vero
che la spada ov’impresso è l’aureo Giglio,
e già la forza longobarda ha vinta,
quella stessa è che Carlo al fianco ha cinta.
66Pur l’Aquila romana e ’l motto scritto,
che indizio fean d’imperiale onore,
fèr dubbio ognun, poi che ’l re magno e invitto
Carlo non era ancora imperatore;
ma giudicossi al fin ch’a lui prescritto
dal Cielo esser dovea tanto favore,
onde fu noto al principe prudente
ch’egli l’imperio avria de l’Occidente.
67Dal sinistro di lei fianco una donna
sta, che con ferro e fuoco la minaccia;
d’una Croce a se stessa fa colonna,
religiosa è d’abito e di faccia,
ma serpentine membra ha sotto gonna.
Armate contra lei move le braccia
un cavalier di grato e degno aspetto,
che d’un bel vello d’or s’adorna il petto.
68Diadema imperial gli orna la chioma,
sta la Religïon sempre con esso,
e da lui l’empia donna è vinta e doma.
Ha il magnanimo eroe tai versi appresso:
Distrutta rimanea la nobil Roma
se ʼl furor di costei non era oppresso,
e qual altr’uomo opprimerlo o frenarlo
potea se non il quinto invitto Carlo?
69La donna che la Croce ha per insegna,
e che con ferro e fuoco dà spavento
a quella real donna illustre e degna,
che l’una chiave ha d’or, l’altra d’argento,
perché non par che punto si convegna
a chi fa ne la Croce il fondamento
il far altrui con ferro e fuoco danno,
riconoscer tra lor chi sia non sanno.
70Né men chi sia quel glorioso Augusto
conoscon che la fère e che l’atterra,
e tronca il passo al suo voler ingiusto
con forte, saggia e cristiana guerra.
Ma il franco re religioso e giusto,
che i secreti del Ciel nel petto serra,
conobbe d’ogni imagin dello sculto
fatale scudo il senso a molti occulto.
71Queste imagini egregie, in cui natura
posta, e non l’arte aver parea la mano,
la Sibilla Cumea fe’ con gran cura
scolpir a Bronte, a Sterope e a Vulcano,
quando a Silvestro le romane mura
cedette il primo imperator cristiano;
scolpir le fe’ per raffrenar alquanto
allora il tuo gran duol, Roma, e ’l tuo pianto.
72Piangesti, lassa, i tuoi futuri mali,
quando da Constantin lasciata fusti,
perché in Papi cangiando e in cardinali
i magnanimi duci e i forti Augusti,
ti predisse ella quanti danni e quali
gl’inumani ti dier barbari ingiusti,
ch’or Goti, or Longobardi, or Mori, or gli empi
Vandali han di te fatto orrendi scempi.
73Tal che mossa da pietà de’ dolor tuoi
la fatal donna, per conforto darti,
scolpiti parte de gli illustri eroi
che salvarti dovean, volse mostrarti.
Ti tolser tale scudo i Goti, poi
ch’ebber forza dal Ciel di soggiogarti;
e lo mandàr ne l’aspre lor contrade,
dopo l’usata in te gran crudeltade.
74Stette gran tempo in Gotia, il cui signore
solea di quel, pugnando, armarsi il petto;
ma Galealto il Brun, di Marte onore,
dal qual già de l’Islanda il fren fu retto,
sendo d’un re de’ Goti vincitore
gli tolse a forza l’aureo scudo eletto.
Lo portò nel suo regno, ove poi stato
molti e molti anni, a Carlo fu mandato.
75Scritto in quello era il tempo che aver questi
cinque Roma dovea danni e spaventi,
onde il gallico re che de i celesti
corpi sapea gli influssi e i movimenti,
e forse altronde gli eran manifesti
gli effetti andati, i futuri e i presenti,
per far altrui queste istorie note,
allora udir si fece in queste note:
76«Ah, quanto fia contraria al divin culto
costei che tiene in man la Croce e l’armi!
Quanto causar dèe marzial tumulto!
Torrà al cristian, non che i colori e i marmi
che i santi avranno, e Dio dipinto e sculto,
non sol l’ore sacrate e i sacri carmi,
né pur la santa confession vocale,
ma l’adorar nel pan Cristo immortale.
77Di Luter la pestifera Eresia
questa sarà, dal cui velen gran parte
de la Germania attossicata fia,
col mostrar ella in false voci e carte,
vera la sua, mendace ogni altra via;
e se non ch’or la forza usando, or l’arte,
le s’opporrà l’eroe dal qual fia doma,
de’ Papi il regno estinguerebbe e Roma.
78Perché le leggi sue false e profane
condannando il roman sommo Pastore,
moverà contra lui l’arme germane,
e contra il quinto Carlo imperatore.
Ma da l’invitto Cesare far vane
veggio l’imprese del suo gran furore;
ei, cui celeste spada favorisce,
di lei le forze vince e disunisce.
79Ma di Sassonia il duca e d’Assia il fero
Langravio, capi di sì ingiusta impresa,
fuggiti a i regni lor, contra l’impero
nuova bellica fiamma han già raccesa.
Poi resta in guerra l’un suo prigioniero,
l’altro in man se gli dà senza contesa,
onde, o gran vincitor, prostrarti a’ piedi
l’empia Eresia, la gran Germania vedi.
80Tu a gli altri tuoi trionfi l’alemano
aggiungi, e imponi al vinto onesta legge.
O fortissimo eroe, l’invitta mano
del qual ancor gli Antipodi corregge,
veggo un del seme tuo che, l’ottomano
furor vinto, la terra in pace regge,
vedo ch’ogni mortal per re l’onora
e che sol Cristo il mondo tutto onora».