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L’amor di Marfisa

di Danese Cataneo

Canto V

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 2.03.15 12:25

Carlo congeda con ricchi doni i due re boreali e Ullania, che partono dalla corte (1-5)

1Così elevata al ciel Carlo la mente
scuopre l’occulte cose a i duci suoi,
parendogli che allor gli sia presente
quel ch’esser dèe settecento anni poi.
Essi chiaman beata quella gente
cui fruir tanto ben si dia tra noi,
e sopra tutto voglion che il re loro
tosto l’Aquila aggiunga a i Gigli d’oro.

2Oh quanto che sia lor tal senso aperto
a quei due regi, et a la dama è grato!
Ma perché l’aureo scudo è più del merto
de’ Carli che d’altri uomini intagliato,
dal re norveggio a Carlo in dono è offerto,
e da lui con lieto animo accettato;
ma vuol che ’l donator lo porti pria
seco in Norveggia, Islanda et in Prussìa,

3perch’ei con sì bel premio i merti sui
divulghi a quelle e ad altre nazioni.
Ma con la dama andarsene ambidui
volendo a le lor patrie regioni,
chieggion licenza a Carlo, e son da lui
tutti onorati d’eccellenti doni;
date son lor tre preziose anella,
due a gli amanti et uno a la donzella.

4L’un perché a lei ne sian le mani ornate,
le due perché ne sposin le lor donne,
a le quai manda ancor due ricamate
tutte di gigli d’oro azzurre gonne,
di preziose pietre eran fregiate,
et un’altra ad Ullania anco dononne.
Poi diede a i re due scettri di gran pregio
per molte gemme, e per lavoro egregio.

5Due destrier lor dona anco a l’arme e al corso
attissimi, e una candida chinea:
a questa premer la donzella il dorso,
quei la coppia real frenar dovea.
D’argento ognun di lor le staffe e ’l morso,
e d’oro ogni altro guarnimento avea.
Indi tutti e tre lieti al nuovo raggio
del sol partendo, andaro al lor viaggio.

Marfisa sfoga la propria infelicità con un lamento lirico (6-22)

6Passato avea del sol l’alma sorella
già la metà del suo camin veloce,
dal dì che l’amorose auree quadrella
trafisser di Marfisa il cor feroce.
Da nuovi avvisi intanto a la donzella
fu mitigato in parte il duolo atroce;
gli avvisi fur che quasi risanato
era il campion da lei cotanto amato.

7Mitigata fu in lei la doglia acerba
che del periglio di Guidon prendea,
non l’altra, la cui causa occulta serba,
ch’è l’amorosa interna piaga rea,
sdegnandosi la vergine superba
ch’alcun sapesse che ’n tal fiamma ardea.
Ma più cresce l’ardor quanto più ’l chiude
e più le pene sue diventan crude.

8S’incrudiscon più sempre i suoi tormenti,
bramando quel che posseder non vuole,
né sfogargli osa a pena con gli ardenti
sospiri e con le tacite parole.
Pur anco in basse voci alti lamenti
quando è sola formar tal volta suole,
e più che altrove nel bel prato adorno
ov’usa il dì soletta far soggiorno:

9«Fu mai, misera me (dice), né fia,
o puote esser in terra o ne l’inferno,
pena sì smisurata e così ria
ch’agguagliar possa il mio tormento interno?
Non ne trovo una che minor non sia,
mentre le gravi altrui pene discerno.
Patir a forza il mal, bramar il bene,
e no’ l poter fruir, son l’altrui pene.

10Chi è tra noi che senza biasmo e danno
quel ch’ama ottener possa, e no ’l consenta?
Porge l’esserne privo a gli altri affanno,
ma il non voler quel ch’i’ desio tormenta.
Qual alma crucia l’infernal tiranno,
qual uom, qual donna è qui che pene senta,
e non di pena e non di crucio uscire
voglia, potendo e avendone desire?

11Altri il suo duol finir brama e non puote,
bram’io finir il mio, posso e non voglio:
non voglio per non far mie fiamme note,
bramol per non patir tanto cordoglio.
Posso, scoprendom’io con chiare note
a Bradamante mia, cui sempre soglio
scoprir tutti i secreti del mio core,
finir senza vergogna il mio dolore.

12Ella, che quando Amor già per Ruggiero
la tormentò, solea sfogarsi meco,
so che s’io le scoprissi il mio pensiero
e ’l fuoco onde m’infiamma il desir cieco,
mi pregheria che, amando il cavaliero,
con nodo marital m’unissi seco.
So che di nozze tai non pur da lei,
ma richiesta da Carlo anco sarei,

13perch’egli, amando il giovane pregiato
e me, vederci unir diletto avrebbe.
Et a chi più che a Bradamante grato
vedermi sposa del fratel sarebbe?
So che gioia a Rinaldo, a l’onorato
cugin di lui questa union darebbe;
e in somma, fuor che Gan nostro nimico,
n’avria piacer ognun, ch’ognun c’è amico.

14Così senza disnor l’amato oggetto
godendo, finirei l’aspro tormento,
ma da la Secretezza m’è disdetto,
dal cui molto poter sforzar mi sento.
Ella l’incendio che m’abbrucia il petto
non vuol ch’io scopra, e al suo voler consento,
perché oltraggio al mio onor mai non si faccia,
onde convien che ardendo io mora e taccia.

15Ben potria morte di tormento trarmi,
ma troppo amaro e grave mi saria,
send’io sempre vissuta in mezzo a l’armi,
sì vilmente finir la vita mia.
Sì alto core il ciel non dovea darmi,
se far sì basso fin mi convenia;
ma farà mai che per servar intiera
l’onestà virginal Marfisa pèra?

16Fia mai che il ben oprar m’apporti male?
Non vuol l’onor che tal desio si taccia?
Non è virtù ch’una donzella, tale
opri che ’l senso a la ragion soggiaccia,
quando legarsi a nodo maritale
a la grandezza del suo cor non piaccia?
Conserva in me, Tu, Regnator del cielo,
d’onore e castità sì santo zelo.

17Che ubidire e servir debba al marito
la donna, voglion le divine leggi;
ma non però da quelle è consentito,
ch’ella comandi a lui, né ’l signoreggi;
se ad uomo il mio volere avessi unito
con un tal nodo Tu che ’l tutto reggi,
umilmente adempir vorrei, con quanta
forza in me fusse, la tua legge santa.

18Per dominar, per comandar altrui,
per reggere e frenar popoli e regni
qui, tua mercé Signor, produtta fui,
e per i miei servar virginei pegni.
L’aver, fanciulla, ucciso già colui
che stuprar mi volea mostronne i segni,
e l’aver io ne i diciotto anni sette
reami vinti e le lor genti rette.

19Ben sarei di dominio indegna allora
che altrui di me dominio e imperio dessi.
Viltà troppo userei, se avendo ogniora
verginità servata, or la perdessi.
S’oltra la libertà, tanti altri ancora
privilegi a le vergini hai concessi,
sarò dunque io, col perder l’onestade,
priva e di quelli e de la libertade?

20Morir vo’ pria, ch’ad uomo alcun mai serva,
e ’l verginal candor macchi o molesti,
poi ch’imitar ne l’onestà Minerva,
ne la milizia e nel regnar mi desti.
E benché donna i’ sia, per me si serva
virilità ne l’abito e ne’ gesti.
Se l’opre ho d’uomo e ’l cor, s’a gli uomini io
comando, or fia lor servo il corpo mio?

21Non mai, da che la libertà tra quante
donne illustri fur mai, può farmi chiara.
Fu già Semiramìs, or Bradamante
è nel reggere e in arme egregia e rara;
ma però, vinte Amor lor forze tante,
poco tal libertà fece lor cara,
perché ambe, non volendo sì dannose
voglie per freno, a l’uom le sottopose.

22Io dunque di più gloria d’ambedue
sarò vincendo il van nuovo desire;
e ’l vincerò, che già da l’armi tue
mi sento in tal battaglia favorire,
dandomi forza, ch’io le fiamme sue
coprendo, possa ogni dolor soffrire».
Con tali accenti scopre al chiuso loco
la dama i pensier suoi, sfoga il suo fuoco.

Giungono a corte dieci dame armate in cerca di Marfisa (23-38)

23Intanto tra le franche armate schiere
giungon diece a cavallo egregie dame,
non già con l’ago in mano use a sedere,
non a torcer col fuso il mollo stame,
ma col ferro a seguir duci e bandiere
al suon del marzïal concavo rame.
Tira a sé gli occhi altrui la beltà loro,
l’arme e ’l vestir di gemme ornato e d’oro.

24Seta di vari, lucidi colori
veste le membra lor leggiadre e belle;
d’argento e d’or per tutto a vaghi fiori
trappunta, a verdi rami, a chiare stelle.
Le gonne, ricche per sì bei lavori,
giungono a mezzo le lor gambe snelle,
c’hanno di verde cuoio i calza menti,
di perle adorni e di rubini ardenti.

25Le sopraveste che ondeggiar fa il vento
sopra gli omeri affibbian con due nodi,
di seta anch’esse e d’or, con ornamento
mirabile, gemmate in vari modi.
Ma le corazze lor tela d’argento
cuopre, sparsa per tutto d’aurei chiodi,
da quai confitte son le ferree lame,
composte come serpentine squame.

26Son le corazze ne la guisa fatte,
che portar solea Pallade in battaglia;
di tali in marmi antichi esser ritratte
vediamo, e in quello ancor ch’oggi s’intaglia.
Di queste dame le robuste et atte
braccia veste d’acciar minuta maglia,
e d’acciaro han gli scudi, u’ de l’ardita
Bellona appar l’imagine scolpita.

27Tengon cinque di lor le lance in mano,
cinque altre gli archi e le faretre allato;
d’avorio le faretre, e d’indiano
lucido corno ogni arco han d’oro ornato.
Gli elmi han simìli a quel che da Vulcano
fu per Minerva in Etna fabricato;
sopr’essi azzurre penne, bianche e rosse,
soavemente son da l’aura mosse.

28Movono l’aure ancor del lor crin d’oro
le cime intorno a’ lor bei colli sparte.
Tutte han le spade al fianco, di lavoro
d’argento e d’or guarnite con grand’arte.
Ma chi de l’armi e ricchi abiti loro
gli ornamenti e ’l valor, se non in parte,
chi de le membra lor la leggiadria
e la bellezza a pien narrar potria?

29La lor beltate e leggiadria rassembra
quella di Cinzia e di Tritonia altera:
leggiadre e graziose hanno le membra,
con donnesca e viril vaga maniera.
De l’Amazoni antiche si rimembra,
chi questa vede generosa schiera
frenar forti cavalli, il guarnimento
de’ quali adornan gemme, oro et argento.

30De’ più leggiadri e de’ più graziosi
giannetti, che mai di Spagna abbia produtti,
tengon forma i cavai lor generosi
a l’arme, al corso, a’ salti, a’ lanci, a tutti
gli effetti più stupendi e perigliosi
che far possan destrieri, usi et istrutti.
Mover con degnità questo e quel piede
con gran piacer l’esercito gli vede.

31Ma sopra ogni altra cosa ognun le ciglia
affisa in uno stran polledro altero,
cui in mezzo a tutti a man trae per la briglia
un servo, il qual cavalca altro destriero.
Ne la coda e ne’ piè leon simiglia,
nel pel, nel ventre e nello sguardo fiero,
di folti e lunghi velli ornato ha ’l petto,
forma nel resto ha di cavallo eletto.

32Di fin oro ha le staffe, d’oro il freno,
d’azzurra seta e d’or redini e sella,
e ciò ch’altro ha d’intorno è sparso e pieno
di bei diamanti in questa parte e in quella.
Sembra il bel guarnimento il ciel sereno
mentre ch’in lui fiammeggia ogni sua stella.
Gli ondeggian bianche penne al capo intorno,
ch’escon d’un cerchio d’or di perle adorno.

33Il polledro superbo che saltando
ne vien, la testa e i folti crini scuote,
gonfia le nari, ardor vivo spirando,
su due piè s’alza, né quetar si puote.
Rugge, anitrisce, or prende un lancio, e quando
con calci orrendi in van l’aria percuote;
piazza intorno gli fan, loco gli danno
e i Francesi e i destrier che seco vanno.

34Solo il suo valoroso conduttore
lo maneggia, lo aggira ardito e spigne,
sol con un grido infiamma il suo furore,
indi gli scuote il fren, lo allenta e strigne;
poi quando è in maggior moto, a gran stupore
movendo altrui, fermarsi lo costrigne.
Ad un sol cenno rende mansueta
la fiera belva, e la sua furia acqueta.

35Un bel drappo d’argento a perle intorno
trapunto veste il servo e ’l suo cavallo.
Di sì leggiadro stuol l’abito adorno,
e ’l color verde, rosso, azzurro e giallo
fa il sol più bel, che asceso a mezzo il giorno
fiede le gemme e ’l bel vario metallo.
Esser condutta ove Marfisa sia
chiede la generosa compagnia.

36Del regnator de’ Franchi al padiglione
tosto guidate son le dame altiere,
perché tra questo, e quel nobil barone
stavasi anch’essa allor quivi a sedere,
mentre discorso con grave sermone
Carlo facea di cose non leggiere.
Al subito apparir de le donzelle
gli occhi ogni duce e ’l re volge vèr quelle.

37Riconosciuta a l’armi, a la presenza
fiera è da lor la vergine superba,
la qual da tutte quante, e non già senza
stupor, ne la memoria ancor si serba,
e innanzi a lei con somma riverenza
scese de i lor destrier prima in su l’erba,
ciascuna il capo e le ginocchia inchina,
non come a cosa umana, ma divina.

38Ma da la cortesia di lei sforzate
tutte a risurger son subito in piede.
Allora una di lor, di più beltate
de l’altre, che tre lustri non eccede,
con guance di rossor vago infiammate,
come a modesta vergin si richiede,
gli occhi prima abbassando e alzando poi,
così parlò tra i franchi illustri eroi:

Una delle dieci donzelle racconta la vicenda di conversione al cristianesimo del paese delle «femine omicide» e offre a Marfisa lo scettro del regno (39-74)

39«O del femineo sesso onor supremo,
splendor de l’arme, folgore di guerra,
il cui gran nome il mezzo et ogni estremo
ha pieno omai de l’universa terra,
a te venute fin dal lido semo
che ’l mar, l’Eufrate e ’l Tauro eccelso serra,
dal lido ove han le femine l’impero,
che adoran oggi Cristo uomo e Dio vero.

40Due anni, o poco men, già scorsi sono,
che tu co’ tuoi compagni arditi e forti,
(né senza grave orror questo ragiono)
per fortuna giungesti a’ nostri porti,
quando lo spaventoso orribil suono
cagion di tante diè ruine e morti,
spingendo a precipizio altre ne l’onde,
altre da’ tetti e palchi, et altre altronde.

41Ma poi che s’acquetò ’l terribil corno
e frenammo la fuga e la paura,
poi che l’altre che allor vive restorno
dier lagrime a le morte e sepoltura,
essendo già di sì infelice giorno
partito il lume e fatta l’aria oscura,
trovammo ascosto in luogo aspro e remoto
un uom, che l’esser tuo fe’ in parte noto.

42Costui, che un navigante esser dicea,
di quei che ’l vostro legno ivi condusse,
ci narrò ch’eri donna, e ch’ei credea
ch’ogni compagno tuo cristiano fusse,
ma ch’altra conoscenza non ne avea;
onde il nostro consiglio si ridusse,
e benché non ne avessimo altri indici,
facemmo sopra quel vari giudici.

43Chi disse ch’erano Angeli mandati
da lo Dio de’ cristiani a punir noi,
che tanti uccisi, e in servitù legati
abbiam tanti anni de’ seguaci suoi;
chi esser cavalier deliberati
di trar quindi Guidon, come fèr poi,
e che ’l fèr con incanti, non potendo
con l’armi, e ch’era incanto il suono orrendo;

44chi giudicò che tu Bellona scesa
dal cielo a castigarci armata fossi,
per la crudeltà nostra, d’ira accesa,
che a torto abbiam tanti uomini percossi,
e che i compagni tuoi, ch’in nostra offesa
eran del tuo furor guidati e mossi,
fusser l’Impeto cieco, lo Spavento,
lo Strepito di Marte e l’Ardimento.

45Quest’ultimo giudicio nel consiglio
nostro allor si prepose a gli altri due,
e per placar la dea, sì che in periglio
non ci ponesser più l’alte ire sue,
l’altar de la Vendetta, già vermiglio
d’umano sangue, ruinato fue,
et un ne alzammo a lei, vittime e lumi
e incensi offrendo a i suoi non veri numi.

46Fur fatte ancora assai lievi e pietose
le leggi nostre, già crudeli e gravi,
con terminar che non ingiuriose
fussimo più con le straniere navi,
predando le lor care e preziose
merci, e gli uomini lor facendo schiavi,
ma ch’anzi nel mar nostro assicurate
fussero, e in porto accolte e ristorate.

47Questi ordini seguiti, senza oltraggio
più far a gli altrui legni, un anno intiero,
sei de le mogli di Guidon Selvaggio,
che odiavan l’onorato cavaliero,
perché ad Aleria nel suo amor vantaggio
mostrò da lor, lasciando il nostro impero,
non potendone far seco vendetta,
la fèro al fin con quei de la sua setta.

48Non la fèr prima, perché ancor ci dava
terror l’avuto già danno e spavento,
ma sendo poi il timor che raffrenava
l’inique voglie lor dal tempo spento,
sommersero un naviglio, in quel ch’entrava
nel nostro porto, spintovi dal vento;
e fèr con una armata lor galea
le scelerate un’opera sì rea.

49PeregriniS | Peregrini cristiani in tal naviglio
venian dal loco ove Giesù fu morto,
che scampati per mar da gran periglio,
perir si vider poi, miseri, in porto.
Ben fur l’empie accusate, ma il consiglio
nostro le assolse con giudicio torto,
dicendo il cristian legno, a forza mosso
da vento fier, nel nostro aver percosso.

50La malvagia sentenza, l’impunite
colpe e l’ingiuriate alme innocenti
innanzi al tribunal di Dio salite,
mosserlo a castigar le delinquenti,
sì ch’egli a l’acque istesse, onde inghiottite
fur le membra cristiane, et a quei venti
che quivi spinser l’infelice nave,
punirci comandò d’un mal sì grave.

51Tosto nel nostro mar due venti avversi
voltàr sozzopra orribilmente l’onde,
ci spezzaro i navigli, e fur sommersi
tutti ne le gonfiate acque profonde,
che asceser poi (né pria poté avvedersi
alcun di ciò) non pur sopra le sponde
ma quasi ancor de’ nostri tetti a paro,
sì che di noi gran numero affogaro.

52Ne affogàr molte in grave sonno oppresse
perché improvviso le assalìr la notte,
come, improvviso, il dì quell’acque istesse
le navi ci inghiottìr da i venti rotte.
Già l’alba (acciò ’l pericol si scernesse,
che omai presso al morir ci avea condotte)
del suo candor la negra aria spargendo
a noi veder fe’ ’l gran diluvio orrendo.

53Ah che spettacol di spavento pieno
s’offerse con l’aurora a gli occhi nostri!
Copria ’l mar d’ogni intorno ivi il terreno,
mostrando alzarsi a gli stellati chiostri.
Erravan morti e vivi a l’onde in seno,
gli umani corpi tra i marini mostri,
e tra pecore e buoi, cani e destrieri,
tra capri e cervi et animai più fieri,

54perché le loro stalle e le lor tane
coprendo il mar, tra i pesci ivan notando,
e tra lor tutti, con querele vane,
l’afflitte dame in atto miserando.
De le fere il muggir, le strida umane
e ’l fremer d’acque intorno rimbombando
facevan tremar noi, che ascese in alto
fuggimmo allor de l’onde il fiero assalto.

55Ma non alcuna eccelsa o casa o torre,
sopra il sommo di cui salìr per sorte
nosco molt’altre ancor, ci potea tòrre
la temuta da noi vicina morte
se Dio, che spesso a i miseri soccorre,
non ci apria di pietà le sante porte,
mostrando a la di noi regina in sogno
del mal nostro il rimedio in tal bisogno.

56Mostrolle, mentre ’l sonno lei premeva,
di bianco abito adorno un giovinetto,
che l’uno omero e l’altro alato aveva,
cinto d’almo splendor, con grave aspetto.
Un gran vaso, onde in copia acqua surgeva,
con la man manca tenea presso al petto,
e con la destra un piccol vaso, in cui
era acqua similmente, e disse a nui:

57- Cristo vero uomo e Dio, che ’l tutto regge,
perché i credenti suoi qui summergeste,
né poi contra i colpevoli la legge
servar de la giustizia ancor voleste,
parte affoga di voi, parte correggeS | correge
con l’acque entro le quali altri uccideste.
Ieri le vostre navi in lor sommerse
et or vi siete voi morte e disperse.

58Dio con l’acque oltraggiaste, ei vi punisce
con l’acque, e vuol con l’acque anco salvarvi:
quella d’esso gran vaso che inghiottisceS | ingiottisce
tante di voi, può tutte a morte trarvi;
vita questa del piccol v’offerisce,
creder volendo in Cristo e battezzarvi.
Tal don v’è fatto perché pur ancora
è qui tra voi chi in lui crede e l’adora.

59Lo adorar tu, regina, il vero Dio
e l’amar lui con ferma e viva fede,
benché in secreto, or lo fa largo e pio
teco, e col popol tuo che non gli crede,
onde se del battesmo avrà desio,
di poter battezzarlo a te concede,
e che battezzi te tua figlia, poi
che sacerdote alcun non è tra voi -.

60Destossi in quel tremando la regina,
ché così detto sparve l’Angel santo,
e vedendo a l’irata onda marina
disfar la sua città con furor tanto,
scoprì l’avuta vision divina
a noi piene d’orror, molli di pianto.
Indi ci persuase a battezzarci,
mostrando che ciò sol potea salvarci.

61Tosto ognuna di noi con pronto core,
con pronta voce al suo voler s’offerse.
Ella pregando il sommo Redentore
che lavar le nostre alme a lui converse
volesse d’ogni macchia e d’ogni orrore,
a tutte d’acqua il nudo capo asperse,
e nomò ’l divin Padre, il Figlio, e ’l sacro
Spirto in sì salutifero lavacro.

62Battezzar fece poi se stessa ancora;
videsi intanto, o maraviglia estrema,
il gonfio mar, ch’ir sopra allora allora
minacciava a l’altezza ivi suprema,
sì abbassar l’onde in men d’un quarto d’ora
e l’accresciuta furia aver sì scema
che umile e queto allo schiarir del giorno,
dentro a gli alberghi suoi fece ritorno.

63Per tal successo il senso a noi più chiaro
fu de l’apparsa vision celeste,
cui la regina a quante ne camparo
narrò per consolar l’alme lor meste;
e che, perché con lei si battezzaro
le dame sue, cessàr l’aspre tempeste,
ond’esse ancor bagnarsi del cristiano
santo liquor fèr tutte di sua mano.

64Avea già la regina da Guidone,
ch’era genero a quella, a me cognato,
de la cristiana pia religione
il fondamento e l’ordine imparato,
e consentito al nobile campione
che da Aleria Giesù fusse adorato;
ma in secreto però, sì come ogniora,
fin che si battezzò, fece ella ancora.

65Sì che da lei ben esser introdutte
potemmo allor ne l’Evangelo in parte,
infin che a pieno in quel fussimo istrutte
poi da i più dotti ne le sacre carte.
Tosto ne’ tempi fur da noi distrutte
l’imagini e di Pallade e di Marte,
e ’l dì stesso dipingervi in lor vece
quella di Cristo e di Maria si fece.

66Indi ogni morta dama seppellita
da noi lo stesso dì fu lungo il mare,
e in marmo oggi con lettere scolpita
quivi del morir lor la causa appare.
Ma la cristiana legge stabilita
con riti sacri e voci sante e chiare
da i sacerdoti d’Antiochia poi
in pochi giorni fu fra tutte noi,

67perché in quella (a la nostra assai vicina
cittade), ov’ebbe seggio il divin Piero,
a richieder mandogli la regina,
per guide a tutte del cristian sentiero.
Per cui sicura ognuna oggi camina:
già di vergini è quivi un monistero,
e ’l tempio già di Pallade a Maria
sacrammo, e quel di Marte al gran Messia.

68Quivi perpetuo onor, continua lode
a Dio si rende, al prossimo si giova,
onde ogni nave ch’a le nostre prode
giunga da noi gran beneficio prova;
né meno il viandante anco ne gode,
ché aiuto e grato albergo ognior vi trova.
E quanto empie fur l’altre e ingiuriose,
tanto siam noi giovevoli e pietose.

69Né diece mesi andar, da che con l’acque
del suo battesmo Dio salvar ci volse,
che ’l terren visitammo, ov’egli nacque,
visse, ebbe morte, e poi vita ritolse.
Là palesarci a Sansonetto piacque,
il qual, reggendo il loco, ivi ci accolse,
quali i cinque guerrieri illustri sono
che nocquer tanto a noi col fiero suono.

70Onde saputo la regina allora
ch’eri tu quella che non pur diè morte
a i nove nostri cavalier, ma ancora
il decimo stancasti assai più forte,
volgendo il core a servir Cristo ogniora,
terminò poi ne la real sua corte
a te mandar lo scettro e la corona,
et a Maria sacrar la sua persona.

71E benché il piccol nostro regno sia
minimo dono al tuo supremo merto,
per lo qual convenevole saria
ti fusse quel de l’universo offerto,
pure speriamo che aver la signoria
d’un popol feminil ne l’armi esperto,
più ch’altro impero a te debba esser caro
per porre il tuo del viril sesso a paro.

72Perché, se reggi tu, le nostre schiere
non cederan d’Achille a’ Mirmidoni,
non d’Alessandro a le falangi altiere,
né di Roma a l’invitte legioni,
ma spinger vincitrici le bandiere
di te per l’universe regioni
speriam, se tu ci guidi, e far acquisto
di tutto l’uman seme a Giesù Cristo.

73A Dio, a la tua fama et al tuo sesso,
tal gloria accrescer dunque non ti spiaccia:
del regno feminil prendi possesso,
perché sì glorios’opra si faccia.
Tòr questo padiglion in don con esso
e questo destrier nostro anco ti piaccia,
l’un da man dotta intesto e figurato,
di leon l’altro e di giumenta nato.

74Nacque ei di tai due specie dentro al nostro
barco real già quasi un lustro è scorso;
quivi del padre suo più forze ha mostro,
vinti i pardi ha ne’ salti e i cervi al corso.
Chiamasi Ippolione il fiero mostro,
e sol porgli questo uom può sella e morso,
onde aver lui convienti a la sua cura,
ch’altri accostarti a quel non s’assicura».