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L’amor di Marfisa

di Danese Cataneo

Canto VI

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 2.03.15 12:27

Ecfrasi del padiglione donato a Marfisa (1-27)

1Condotto a fine il suo lungo sermone
non anco avea la bella messaggiera,
quando fu sciolto il nobil padiglione
ch’ivi a Marfisa in don mandato s’era,
onde il re gli occhi et ogni suo barone
voltovvi e la magnanima guerriera;
e ferì lo splendor del lucid’oro
e de l’argento suo le viste loro.

2Quivi tosto si spiega e tende, in guisa
ch’ognun veder lo possa entro e d’intorno;
s’accosta allora a quel Carlo e Marfisa,
Orlando e quanti in corte fan soggiorno.
Gli occhi con gran piacer ciascuno affisa
ne l’imagini varie ond’egli è adorno,
che sembran, sì il testor ben l’ha dipinte,
di forma e di color vere e non finte.

3Quivi il ciel di rossor di fiamme acceso
appare, e di sanguigne nubi asperso.
Par ch’in terra un gran carro indi sia sceso,
tutto di fino acciar lucido e terso,
e due destrier feroci il ferreo peso
tirar di tal quadriga un rosso, un perso,
c’han l’ale a i piè, d’alto furor son pieni,
e spiran fuoco tal ch’accende i freni.

4Regge Minerva il fren di fiammeggiante
acciar de l’asta sua, del tremebondo
Gorgone armata, e al campo ir fulminante
si vede a suon di trombe alto e profondo.
Le sta l’Ardir Magnanimo davante,
con guardo altier, con volto rubicondo;
è massiccia, nerbosa e di grand’ossa
la Forza, salda ad ogni incontro e scossa.

5V’è l’Eloquenza d’alma gravitade
piena, e l’escon di bocca auree catene,
con che d’uomini ognior gran quantitade
trae per l’orecchie a fare male or bene;
segue la militar Celeritade,
ch’a spalle, a mani e piè le penne tiene.
La Speme v’è di verdi panni ornata
che di larghe promesse a tutti è grata.

6Di corpo la Destrezza agile e snello,
con lievi salti e passi e preste ruote
cinge al nimico or questo fianco or quello,
e sempre sé schermendo altri percuote.
Cuopre a l’Insidia l’arme atro mantello,
e muove e sta più tacita che puote.
La Vigilanza, che con lei ne viene,
tese l’orecchie, e aperti gli occhi tiene.

7L’Ordine militar v’è, pronto e desto
al bellicoso accennar, suono e rimbombo.
Lo stuol move in quel lato e ’l ferma in questo,
col passo or ratto et or col piè di piombo.
A fargli a tempo cangiar forma è presto,
or a forbici or quadra, in cuneo e in rombo,
e in più guise or pugnar, or dentro al vallo
munirsi, or disloggiar or marciar fallo.

8La Providenza in guisa di matrona
va con altiera e venerabil faccia,
e tien sopra l’armata sua persona
purpureo manto ch’aurea fibbia allaccia;
ducal bastone ha in man, co i detti sprona
l’armato stuol ch’egregie cose faccia.
Seco è il Consiglio che togato e vecchio,
le mostra il bene e ’l male entro uno specchio.

9Ei la venente Occasion le addita,
e accenna che nel crin le ponga mano
pria che volta la parte non crinita,
mossi gli alati piè, fugga lontano.
Seco è la Pena e ’l Premio: questi invita
ogni egregio soldato e capitano
con lieto volto, in abito reale,
a l’oro, a i gradi, al lauro trionfale;

10quella, con vista fiera e spaventosa,
tinta di sangue il brun vestito orrendo,
con la destra una spada sanguinosa,
laccio e rasor con l’altra man tenendo,
morte e infamia minaccia a chi vil cosa
tenti, la militar legge rompendo.
Onde l’Ubbidienza, fida e accorta,
ad esequirla ogni guerriero esorta.

11Ch’anch’essa è quivi, alata e mani e piedi,
benché di piombo scarpe e guanti tegna,
che porsi e trarsi a tempo allor le vedi,
che oprar in fretta o tardi le convegna.
Te, diva che di Marte auriga siedi,
seguon costoro, e la tua altiera insegna,
cui porta in man l’armata Sicurtade
da mille cinta amiche lancie e spade.

12O quanto terribile e focoso
in faccia è il crudel Marte, e in ciascun atto:
folgor sembra il suo sguardo e ’l luminoso
ferro che l’arma, da Vulcan già fatto.
Seco è il Terror, d’aspetto spaventoso,
onde riman chi ’l vede esterrefatto;
v’è l’Ira, accesa il volto in fiamme ardenti,
col ferro in man, che sbuffa e arruota i denti.

13V’è il Furor cieco, al qual non mura o fosse
tengon, né fiumi il gir tra mille spade.
De l’altrui sangue orribilmente rosse
vi son l’Uccisïon, la Crudeltade:
questo e quel sempre a l’aspre lor percosse
tronco, fesso, traffitto o infranto cade.
Seco tener la pallida Paura,
né la Fuga precipite non cura,

14perch’egli già tra le nimiche schiere
spinger l’ha fatte al bellico Terrore.
Oh, quanto porgon le sembianze fiere
de l’imagini egregie altrui stupore,
finte essendo sì simili a le vere,
che pon l’occhio ingannar, mover il core:
perché non pur gli esteriori effetti
mostran di lor, ma ancor gli interni affetti.

15Sì vero il ferir finto si comprende
de l’armi, e ’l darsi a molte trombe il fiato,
e l’atto del formar le grida orrende
che ’l ciel par rimbombarne in ciascun lato,
tal che di pugna a fier desio s’accende,
ciò rimirando, ogni guerrier pregiato
e i furibondi vari movimenti
che appaion veri in finti combattenti.

16Ché quanti moti fan ne’ corpi nostri
l’Ardire, il Caso, l’Impeto, lo Scampo,
lo Schermo, la Paura e ’l Corso mostri
sono in quel marzial dipinto campo.
Gli occhi abbarbaglia, e col sol par che giostri
de le finte armi il finto orribil lampo;
gli acciai, che mille in ciel forman baleni,
quasi specchi d’imagini son pieni.

17Ne le lucide appar finte armature
l’imagine del sol quivi contesto
e le reflesse in lor varie figure,
che stupir fan quel riguardante e questo.
Stupor non sol sì nobili pitture
e desir di battaglia in molti han desto,
e le viste schernite et abbagliate,
ma i cori anco ad orror mossi e pietate.

18Perché sì vero il finto orribil sangue
sparso dal ferro ch’altrui fora e smembra,
sì ver questo e quel finto corpo esangue,
sì vero il finger de le tronche membra
e quel di chi spirando l’alma langue,
e chi cade a l’altrui vista sembra,
ch’ancor la mente inganna, onde assalita
da orror n’è l’alma e da pietà ferita.

19Ne l’aere di focoso e di sanguigno
color, quasi mortal prodigio, tinto
di solar lume e di splendor ferrigno,
e di nubi di polvere dipinto,
sta la Vittoria armata e con benigno
ciglio perdona al suo nimico vinto;
d’ostro è vestita, ignude ha gambe e braccia,
le membra snelle, altiera e viril faccia.

20Le avvolge un nodo semplice a la testa
l’inculto crine, ond’esce alto splendore;
tien verde palma in quella mano, e in questa
le ricche spoglie tolte al perditore.
Sparsa le membra e la succinta vesta
di polvere, di sangue e di sudore,
drizza, con l’ale aperte, il volo e ’l volto
verso un bel tempio, che non lunge è molto.

21L’alma Religion, ch’è presso a lei,
mostrandole con mano il tempio santo,
la guida a consacrar l’arme e i trofei,
e render grazie a Dio d’acquisto tanto.
Oh quanta maestà splende in costei!,
che azzurro e d’oro, e pien di stelle ha il manto,
e circondata da divina luce,
altrui mostra il camin che al ciel conduce.

22D’un bel porfido terso è il tempio altero,
di quadra forma, di più intagli adorno,
composto del bell’ordine ch’al fiero
Marte et a Giove i Dorici sacrorno.
D’archi e colonne d’alto magistero
su cinque gradi un portico ha d’intorno.
Ha quattro porte, e scritto è sopra loro:
Sacro a Dio vincitor con lettre d’oro.

23D’aurato rame è il suo convesso tetto,
col foro in mezzo, ond’entro il lume scende.
Da statue e da colonne è ornato e retto,
tante che a pena il numer si comprende.
Sta innanzi a quel, di bianco avorio eletto,
un carro trionfal che d’oro splende,
al qual, legati, il fren mordono altieri
quattro qual neve candidi corsieri.

24Quivi l’Onor superbamente siede,
con aurea veste e ’l crin cinto d’alloro,
di regio aspetto, e in man tener si vede
ghirlande altre di frondi et altre d’oro,
ch’a i trionfanti eroi dona e concede,
et a i più forti ancor seguaci loro.
La Gloria intorno al carro altiera vola,
di gemme ornata, e di purpurea stola.

25Stelle coronan lei chiare e lucenti,
splende qual sole, et è di lui più bella,
e sonando la tromba, mille ardenti
raggi sembran col suono uscir da quella.
Ivi la Poesia con alti accenti
cantando, ivi l’Istoria a lei sorella
con gravità scrivendo, far memoria
mostrano eterna dell’altrui vittoria.

26Vedesi ancor alquanto indi lontano,
aver legate a l’empia e sanguinosa
Guerra le braccia, e chiuso il tempio a Giano
la Pace, in vista placida e gioiosa.
Le cinge ulivo il crin, n’ha un ramo in mano,
gonna di gemme e d’or fa lei pomposa,
e tutte con la Copia colma il corno
di frutti, ha l’Arti e le Scienze intorno.

27Di sì nobil pittura, a cui poteva,
Pallade, il tesser tuo ceder di pregio,
il padiglion superbo risplendeva,
ornato intorno ancor di ricco fregio;
fregio d’arme e trofei, che a lui cingeva
l’estremità con artificio egregio,
e da le palme intrecciate con alloro,
contenuto era un sì gentil lavoro.

Marfisa rifiuta lo scettro e rimette a Carlo la questione matrimoniale delle due mogli di Guidone Selvaggio (28-38,4)

28Pasciuti con diletto e maraviglia
Carlo gli occhi in mirarlo, e gli altri eroi,
l’oratrice a Marfisa umil le ciglia
volge, e così fa udir gli accenti suoi:
«Poi che l’altezza tua lo scettro piglia
del regno offerto al tuo valor da noi,
piacciati ancor, qual nostro capo, udire
di queste due donzelle il bel desire.

29Questa e questa altra dama a me vicina
del Selvaggio Guidon già sposa fue,
e perché giudicar come regina
a te si convien noi, suddite tue,
elle, sapendo la legge divina
voler ch’una moglier s’abbia e non due,
ti pregan che da te sia definito
qual d’esse aver Guidon dèe per marito.

30Vive sol queste due di quelle diece
spose, ch’egli ebbe già, rimaste sono:
l’una precipitar, misera, fece
del corno l’incantato orribil suono;
sei ne affogò il diluvio allor che, in vece
di morte, Dio ci diè la vita in dono;
e l’altra, che fu Aleria (ah, lagrimoso
ricordo!) uccisa fu presso al suo sposo.

31Aleria, a me d’età maggior sorella,
del cui fine immaturo e miserando
sol mi scema il cordoglio l’esser ella
con gloria morta, e per Giesù pugnando.
Ma perché omai non più la mia favella
vada i tuoi fatti illustri ritardando,
mi taccio, e preghiam te che non t’annoi
servita e seguitata esser da noi».

32Allor Marfisa, ancora che turbata
l’avesser del Selvaggio le due spose
con farle tal dimanda, pur celata
del cor la doglia, al fin così rispose:
«Ben puote, egregie dame, esserci grata
l’alta novella de l’udite cose,
poi che sì apertamente ci dimostra
voi tutte seguitar la legge nostra.

33Che fatto don del vostro regno abbiate
a Cristo, lode a lui debite rendo,
e voi ringrazio ancora che m’offriate
di quel lo scettro, ma però no ’l prendo,
ottimamente voi rette e guidate
da la vostra regina esser potendo,
perciò che e il regger voi le fia concesso
e il servir Cristo ancora a un tempo stesso.

34E qual potria trovar guida migliore
il vostro armato stuolo, s’ella il conduce?
Chi vi puote acquistar gloria maggiore,
s’in lei religion tanta riluce?
De lo dio de gli eserciti il valore
è in lei: guidandovi ella, Dio v’è duce.
Lei dunque, e lei seguendo e in pace e in guerra
ridurrete a Giesù tutta la terra.

35Seguir con l’arme in sì onorata impresa
l’insegna sua real prometto anch’io,
tosto che aggiunto a la cristiana Chiesa
da me sia l’indiano impero mio;
e gir ne l’India a farlo, poi che presa
Pavia sarà, giurato ho innanzi a Dio.
Dal qual così mi si conceda, come
bramo esaltar del nostro sesso il nome.

36Il mostro e ’l padiglion, dono ben degno
de la donna real che a me l’invia,
ricever voglio, perché un chiaro segno
tra noi de l’amicizia nostra sia.
Ma d’aver voi Guidon vano è il disegno
per or, bench’io sentenza anco ne dia,
però che ’l valoroso cavaliero
or del re di Guascogna è prigioniero.

37Rendergli pria convien la libertade
che del consorzio suo goder possiate.
Intanto, non tornando a le contrade
natie, quando restar tra noi vogliate,
parmi che del mio re la maestade,
come serv’io, non me servir dobbiate,
ch’egli a tempo farà giudicio saggio
qual di voi merti più Guidon Selvaggio».

38Così disse, né poté finire
senza un grave sospir gli ultimi accenti,
sdegnosa che cercasse altri fruire
gli da lei non voluti abbracciamenti.
Le dame al fin del suo cortese direLe donzelle vengono ricevute dalla corte; storia dell’amore di Gisuarte per una di loro (38,5-47)
le s’inchinàr con modi riverenti,
indi al gran Carlo, il qual lieto le accolse,
baciar le mani invitte ognuna volse.

39Grate accoglienze ancor da’ suoi baroni
l’onorate donzelle ricevero;
ma il pio Luigi, e i nobili garzoni
ch’ivi erano seco, a quelle alto onor fèro:
essi le accompagnaro a i padiglioni
de l’invitta sorella di Ruggiero,
ove albergaro; e conoscenza a parte
di quelle ivi di sé diede Gisuarte.

40Era in Gierusalemme il giovinetto
quando elle andàr con la regina loro
a visitar quel marmo benedetto,
ove chiuse di Dio le membra foro:
e fin d’allora Amor gli accese il petto,
co i vaghi lumi e con le chiome d’oro
de la fanciulla che con dir sì grato
a Marfisa per tutte avea parlato.

41Ben riconobbe lei Gisuarte e tosto
che comparir la vide a Carlo avanti,
e mentre ella dicea, chi l’occhio posto
avesse ne’ di lui moti e sembianti,
veduto avrebbe quanto mal nascosto
l’interno affetto lor tengon gli amanti,
perché or vermiglio or pallido divenne,
né mai con mani e piè fermezza tenne.

42Con quella immensa gioia e maraviglia
rivide la donzella graziosa
con che, senza aspettarlo, alcun le ciglia
alza a bramata e non sperata cosa,
ché dover tal regina ivi la figlia
mandar per via sì lunga e faticosa
non mai credea, né rivederla meno,
s’ito non fusse al suo natio terreno.

43Anzi, per dato aver cibo sì poco
la speme a l’amoroso desidero,
già intepidito in lui s’era quel fuoco,
onde l’accese il garzon cieco e fiero:
per questo al bel desir nuovo diè loco,
quando giostrò per l’aureo scudo altero,
perché goder almen, s’egli vincea,
l’obietto del desir sperar potea.

44Ma se ’l non aver fatto de la bella
regina acquisto a lui fu dianzi amaro,
oh quanto l’esser perditor di quella
rimasto gli fu poi più dolce e caro!,
ché s’ei vincea de l’altra damigella
poter nulla sperar vedeva chiaro;
e la speme che allor di lei gli dava
Amor, più che ’l goder l’altra stimava.

45Allora gli ne diè speranza Amore,
e ’l quasi spento in lui fuoco raccese,
facendoneS | Faccendone avvampar tutto il suo core,
che dover lei restar con Carlo intese,
perch’ei pensò ’l suo affetto e ’l suo valore
poter in modo tal farle palese,
e servirla così, mentr’ivi stesse,
che acquistar la sua grazia ne dovesse.

46Né van fu il suo pensier, né il suo desire,
che, fin d’allor, ne vide qualche segno,
perché a lui non mancò sermo od ardire
per porre in opra il suo nobil disegno,
onde, chiedendo che per lei servire,
d’esser suo cavalier lo fesse degno,
lo ringraziò la dama, e averle offerto,
disse, un favor più grande del suo merto.

47Oh di quanta dolcezza l’onorate
parole empiero il giovinetto amante!,
e ben con voci anch’egli non men grate
scoprilla, e con lietissimo sembiante.
Ma poi che fur due giorni in campo state
le dame, se ne andàr veggendo quante
cittadi eran più prossime a Pavia,
con molti cavalieri in compagnia.

Satana invia Megera a Gano per spronarlo a tradire Carlo Magno (48-62)

48S’erano intanto i principi onorati
che sosteneano il longobardo impero,
quasi tutti in persona appresentati
al cospetto real di Desidero.
Tra que’ ch’altri in lor vece avean mandati,
fur di Pisa il signor detto Raniero,
l’astuto Eudone, e ’l coraggiosoS | corraggioso Albino,
che d’Asti e di Milano ebber domino.

49Non fu tra i Longobardi uom più animoso
di questo di Milan duca, e più forte;
sicuro in ogni loco periglioso
gito saria senza temer la morte.
Era nomato Albino il coraggioso
e d’Eudon la sorella ebbe in consorte;
nacquene un figlio, et al cognato il diede,
che, non avendo figli, il fe’ suo erede.

50Poi che i lombardi capi ebbe ridutti
il lor signor ne la città reale,
tosto dal suo parlar furono indutti
a voler pace, per minor lor male;
e prontissimi a l’opra eran già tutti,
quando il superbo principe infernale
tosto voltò di Desidero il core
contra al gran Carlo et al roman Pastore.

51L’avversario di Dio, che già sospinto
giù ne l’abisso fu, veduto avea
che de’ Pavesi il re, sì come vinto
co’ nemici accordarsi omai volea,
e che de le francesche schiere estinto
il longobardo regno esser dovea;
onde cadrebbe lor l’Italia in mano
e saria Carlo imperator romano.

52E molto odiando il figlio di Pipino,
come nimico de’ seguaci sui,
tratto un muggito fier ch’ogni confino
fe’ muggire e tremar de’ regni bui,
«Dunque» diss’ei «d’Italia in gran domino
senza adoprar più l’armi avria costui?
Dunque i Lombardi a lui con tal viltade
soggiaceran senza più trar le spade?

53Or s’egli in guisa tal doma sì fiera
gente, chi più gli volgerà la fronte?
Che altro, ogni altro re, che ’l giogo spera,
s’aspettan ch’egli a tanta altezza monte?
Già già mi par ch’a lui la terra intiera
ceda, non l’aiutando armi più pronte.
Che giova a me, che oppostigli i Guasconi
i’ abbia, e i fieri indomiti Sassòni?

54Quel che giovommi che Agramante e insieme
Affrica e Spagna seco abbian conteso,
che quanto più abbassarlo ebbero speme,
tant’ei, vincendo, è poi più in alto loco asceso.
Da me dunque, da me il nimico seme
francese è sublimato, illustre è reso?
Io dunque occasion gli do che gloria
gli accresca, e impero ognior nuova vittoria?

55Ah, non fia questa almen senza alti affanni
di tutti lor, non senza sangue e morti.
Su tosto, empia Megera, ch’odii e inganni,
sanguigne guerre e incendi al mondo apporti,
va’ ne l’Italia, adopra a onte e danni
de’ Franchi la tua face e i serpi attorti,
e con tal armi a tradir Carlo induci
l’iniquo Gano e i longobardi duci.

56Assalgangli sprovisti, mentre dura
la tregua, con insidie da più lati.
Cuopran gli uccisi corpi la pianura,
e rosseggin di sangue e fiumi e prati.
Tu di dar morte a tuo poter procura
a Luigi e ’l compagno, perché i fati,
di lor succession, se vita avranno,
minaccian grave a noi vergogna e danno»,

57disse il rettor de la mal nata gente.
Ella, cinta di serpi il dorso e ’l crine,
la destra armata di facella ardente,
per procacciar a i Franchi alte ruine,
sale in Italia impetuosamente,
e dove albergan l’armi parigine
s’accosta a l’empio conte di Pontieri,
che allor giacevaS | ghiaceva astratto in gran pensieri.

58L’umida notte già con tenebroso
velo ingombrato il nostro aere aveva,
e porgea ’l sonno altrui dolce riposo,
ma ricever già Gan non lo poteva,
ché l’esser Carlo allor vittorioso
ogni quiete a l’alma sua toglieva;
e tanto più, quanto una tal vittoria
dava al nimico suo Rinaldo gloria.

59Tosto Megera a l’empio che sospira,
fier con un’aspe il cor di doglia pieno;
l’alito suo fetente indi gli spira
per bocca, e avvampa con la face il seno.
Scorre il sulfureo ardor mentr’ei s’adira,
scorre il putrido spirto e ’l rio veleno
per le sue membra, dentro a le midolle,
e insieme il tosco, il fiato e ’l fuoco bolle.

60Sì rabbioso furor l’occupa e tanto
che gli s’apre e gli scoppia il cor nel petto.
Pietra gli par la piuma, e tutto quanto
di qua, di là, muggendo scorre il letto.
Pargli che a Chiaramonte oda dar vento
che fatto ha CarloS | Che fatto a Carlo ha il mondo omai suggetto;
pargli Orlando e Rinaldo, col re loro,
già veder trïonfar cinti d’alloro.

61E pargli anco veder, con faccia mesta,
sprezzar et abbassar sé col suo seme.
Morde per rabbia or quella mano, or questa,
sembra il suo petto il mar quando più freme;
fan dentro a quello orribile tempesta
vari, odiosi pensier pugnando insieme,
né turba l’onde il vento con più orrore
di quel che turbi a lui Megera il core.

62Gli ondeggiano i pensieri entro la mente,
van per usate, e per novelle strade
cercando una tal fraude che la gente
franca dia in preda a le nimiche spade.
Instà co i serpi, e con la face ardente
Megera, e al tradimento il persuade,
e fanne ordir un tal che guai a Carlo,
guai a i Francesi se potean tramarlo.