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L’amor di Marfisa

di Danese Cataneo

Canto VII

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 2.03.15 12:30

Gano propone a Desiderio un piano fraudolento per sconfiggere i Franchi, approfittando dell’assenza di molte squadre dal campo (1-32)

1Già del Montone il sol facea partita
spiegando sopra ’l Tauro il suo splendore;
erasi innanzi tempo rinverdita
la terra, pregna di soverchio umore;
di spesse frondi solo era vestita
la noce, e non dipinta d’alcun fiore,
onde la tema nel villan cresceva,
che ’l vicin verno in lui già posta aveva.

2Però che Noto, cintasi la fronte
di nubi e la sua barba, e ’l crin converso
in ampio mar di pioggia, il piano e ’l monte
ne gli italici lidi avea sommerso.
Non fu da l’ali tue rapide e pronte,
Borea, da l’aere mai nuvol disperso;
non dal freddo tuo fiato condensata
acqua nel ciel, né in terra anco indurata.

3Onde senza alcun ghiaccio e senza neve,
sendo quel verno tepido e pioggioso,
minacciava a l’Italia orrenda e greve
fame con volto oscuro e spaventoso.
Carlo, al qual per tai segni, in tempo breve
dover mancargli il vitto non fu ascoso,
mandò per comprar biade a i lidi intorno,
ma senz’esse i mandati fèr ritorno,

4però concluse col parer di Gano
mandarvi Orlando e molti combattenti.
Sopra ciò il maganzese empio e profano
piantò de la sua fraude i fondamenti,
la qual poi fabricò l’infernal mano
seco a ruina de le franche genti.
Composto il frodo al matutino lume
lascia il malvagio l’odiose piume.

5Tosto le stanche membra d’una sola
vesta coperte, a Desidero scrisse.
A lui dettò Megera ogni parola,
che la sua penna al longobardo disse:
– Io credeaS | credca – cominciò – che avessi scola
tu d’astuzie tenuta al greco Ulisse,
ma dirò, perdonando a i detti miei,
che sciocco or col re nostro e cieco sei.

6Or non è cecità, non è sciocchezza
a non considerare, a non vedere
ch’egli per por tre figli in somma altezza,
tutto vorrebbe il mondo possedere,
e lasciar, poi ch’ogni altra insegna avvezza
avesse a riverir le sue bandiere,
d’Affrica l’un, d’Europa l’altro erede,
e d’Asia al terzo dar la real fede?

7E crederai col dimandargli pace,
che te ne i duci tuoi dominar lassi?
Sappi ch’ei vuole, e al Papa così piace,
che sian del regno i Longobardi cassi.
Carlo, che alcun secreto a me non tace,
fermo è ch’in tutto il lor poter s’abbassi,
e re d’Italia far Pipin suo figlio,
ch’a Roma schifi il barbaro periglio.

8La risposta da lui data ad Asprando
non ha la mente sua quasi ch’espressa?
Ei te pergiuro e perfido chiamando,
dice doverti pace esser concessa,
ma però col voler del Papa, quando
la condizione accetti in lor rimessa:
la condizione è tal che di domino
tutti vi priva, e donalo a Pipino.

9Perché né più vuol la romana Chiesa
dover per voi chinar le franche spade,
né i Franchi voglion più, per sua difesa,
de l’Alpi ripassar l’orride strade,
tre volte avendo per la stessa impresa,
viste in pochi anni omai queste contrade,
le due col genitor di mio cognato,
l’altra con lui per torvi il regio stato.

10Or chi invilita ha sì la virtù vostra,
o Longobardi già sì illustri in guerra?
L’esser divisi, e non la spada nostra
le vostre forze indebolisce e atterra,
oltra il nuovo spavento ch’or vi mostra
dover a i Franchi ognun cedere in terra,
perché han vinti i Sassoni, quasi questa
vittoria al ciel di Carlo alzi la testa.

11Non gli ha tante altre volte ei rotti e vinti?
Non han poi sempre ancor l’armi riprese?
Così faranno ognior, s’affatto estinti
non son sì ch’abiti altri il lor paese.
Ma se vi armaste voi, lor tosto accinti
contra i Franchi vedreste a nuove imprese.
E così ancor gli intrepidi Guasconi
men temerian le franche legioni.

12Benché se pur di quelle hanno terrore,
che no ’l cred’io, volgendo essi le fronti
cagion n’è solo il vostro debol core,
non essendo tra voi chi Carlo affronti.
E chi veggendo voi, d’alto valore
stimati, il passo a noi ceder de’ monti,
rendersi parte e te dentro le mura
chiederci pace non ne avria paura?

13Ma come esser potrà, che ’l popol vostro,
ch’ebbe e regno maisempre e libertade,
et ha per questa e quel con l’arme mostro
tanto estremo valor sì lunga etade,
lo suo libero collo or sotto il nostro
giogo debba por mai con tal viltade,
e ch’in servil vergogne il regio onore
muti senza più trar le spade fuore?

14No ’l crederò giamai, ch’in tutto è stolto
chi, star potendo, al suo cader consente.
Anzi mi par che ’l vostro stuol raccolto
insieme, assalga già la nostra gente,
e vòle, pria che ’l regno sia lor tolto,
combattendo morir laudabilmente.
Già già lo veggio d’ostil sangue tinto
te far trionfator di Carlo vinto.

15E s’altrui il cielo occasion mai diede
di vincer facilmente il suo nimico,
or a te dalla, e d’alzar più tua fede
ch’alcun mai fesse precessor tuo antico.
E qual sia mostrerò, se di tua fede
mi fai sicuro, altro per or non dico,
ma s’a pien quel ch’i’ accenno vòi sapere,
scoprimi con la penna il tuo volere -.

16Ciò scritto il reo con una cifra ch’era
sol nota a Desidero et a lui stesso,
manda in Pavia la carta, e gir Megera
a guidar l’opra iniqua vuol col messo.
Copre quel d’una nube densa e nera,
sì che vederlo altrui non è concesso,
fuor ch’al re solo, al quale in propria mano
porge la lettra il messaggier di Gano.

17Poi gli dà loco, ancor che non si parta
da lui, che ’l core ha d’aspre cure cinto.
E mentre legge il re la scritta carta,
gli è nel sen da Megera il tosco spinto;
gli è la sua fiamma intorno al core sparta,
e da un de’ suoi serpi il collo avvinto;
non voler pace lo fa il serpe, e intento
a l’arme il fuoco, il tosco al tradimento.

18Rilegge il foglio acciò sia meglio inteso
da lui, ma più ch’ei legge più il desio
gli è d’usar fraude e di far guerra acceso,
più a l’accordo vien freddo e restio;
da pensier molti è gravemente offeso,
che fan contrasto nel suo petto rio,
pur da l’un de’ più forti, ch’è il peggiore,
tratto è al fin nel voler del traditore.

19E di sua man sopra l’avuta istessa
carta (oh malvagio effetto e di re indegno!)
d’ubidir Gano fa larga promessa,
quando sia riuscibile il disegno.
Indi rimanda il messagger con essa
a lui, che assicurato di tal pegno,
tosto per palesargli il nuovo frodo
a pieno, gli riscrive in cotal modo:

20- Or perché intenda ch’io prevedo il vero
di tua vittoria, pur che voglia armarti,
sappi che per più dritto altro sentiero
a vincer Carlo il ciel non può guidarti
ch’oggi ti guidi a gloria del tuo impero,
e quale egli si sia voglio mostrarti,
perché s’a questa occasion la mano
non porgi, un’altra tal n’aspetti in vano.

21Non farà il sol due volte a noi ritorno,
che scemo sia l’esercito francese:
girsene Orlando dèe quest’altro giorno
con ambo i figli d’Ulivier marchese,
per raccòr biade a Mantova d’intorno
e dove ara il bresciano e ’l cremonese,
onde la fame che la steril terra
minaccia a tutti, a noi non faccia guerra.

22Cinque mila guerrieri a gir con loro,
chi a cavallo, chi a piè, già eletti sono,
che aver voglion col ferro, se pur l’oro
tal biada ad ottener fusse men buono.
Ma che altra gente ancora, oltra costoro,
esca dal campo, il ciel ne farà dono,
quando da te non sia l’opra interrotta,
che il pisan duca a fin quasi ha condotta.

23Ranier duca di Pisa già fermata
col conte Ugo d’Arbenga ha la congiura
che i Franchi ond’ora è Genova guardata
sian morti o spinti almen fuor de le mura;
già per mare e per terra apparecchiata
sta gente che di vincere è sicura:
dicalo a te del pisan duca il figlio
venuto al nostro universal consiglio.

24Costor, poi ch’a far pace hai posto mano,
tralascieranno il cominciato effetto.
Fa saper dunque al principe pisano
che ’l tutto per seguir tenga in assetto,
e faccia de’ Francesi il capitano
ch’è in Genova di ciò porre in sospetto,
perch’egli scriverà subito a Carlo,
che mandi gente in là per aiutarlo.

25So che ’l mio re, che Genova e i suoi porti
tien cari, gli darà soccorso e tosto,
onde il più del suo stuolo e i suoi più forti
duci vedrem disgiunti e a lui discosto.
Allor fien leggiermente e vinti e morti
i Franchi, s’a pugnar sarai disposto.
Allora il regno, allor la libertade
perpetueran le longobarde spade.

26Lo avere Eudone e Albino a questa impresa
compagni, oltra il pisan duca ti basti;
so che l’occasion da lor fia presa,
perché son teco in fé sempre rimasti.
Dunque ad ambo il tuo cor tosto palesa,
e prometti Turino al duca d’Asti,
Como a quel di Milan, se come io spero
ti danno aiuto, e Genova a Raniero.

27E ben fia giusto che a color che sian tolti
gli stati, che vilmente altrui gli han cessi,
e dati a quei che racquistati e sciolti
gli avran dal giogo, onde ancor sono oppressi.
Sian tai maneggi a tutti gli altri occolti,
salvo a quei che ’l mio dir t’ha innanzi messi,
ché in quanto men persone è la congiura
ridotta e indugia meno è più sicura.

28E perché Eudone e Albino in tal trattato
di te e tu di lor sicuro stia,
lor per ostaggio un tuo figliuol sia dato
et Uberto lor figlio a te si dia.
Or da te con prudenza maneggiato
questo negozio e con prestezza sia:
prendi, se d’esser re, non servo hai cura,
mentre puoi sì opportuna alta ventura -.

29Queste et altre parole il maganzese
scrivendo a mover Desidero adopra,
con dirgli che s’aver le voglie accese
vedrallo a porre i suoi ricordi in opra,
faragli un facil modo anco palese,
col qual andando a i Franchi armato sopra
opprima quei ch’in campo rimarranno,
e gli altri ancor ch’a quel lunge saranno.

30Indi la carta subito gli manda,
e, leggendola il re, l’empia Megera
l’induce ad abbracciar l’opra nefanda,
perch’ella co’ suoi serpi addosso gli era.
Pur lo spaventa ancor da l’altra banda
l’impresa, e tanto teme quanto spera.
Colmo d’alto furor geme e sospira,
or seco stesso, or con altrui s’adira.

31S’adira con altrui perché, lasciando
lui, molti duci a Carlo hanno ceduto;
e seco stesso perché al giusto Asprando
credendo, chieder pace abbia voluto.
Passeggia or ratto or lento, or parla, e quando
s’appoggia, quando resta immoto, e muto;
or fiso in giù con aggruppate braccia
mira, et or gli occhi al cielo alza e minaccia.

32Fa contra al Papa il reo fermo pensiero,
se i Franchi vince, ch’ei gli ha spinto addosso,
di lasciargli quel sol ch’ebbe da Piero
sì che d’ogni possanza altra sia scosso.
Minaccia anco ogni duca del suo impero
punir ch’a darsi a Carlo è da sé mosso.
Mugge, bestemmia e chiama empie le stelle,
come d’ogni suo mal cagion sian quelle.

Desiderio e Gano coinvolgono nella congiura due duchi longobardi, Eudone e Albino: si preparano segretamente eserciti su tre differenti fronti (33-48,4)

33Or poi ch’in tal travaglio, in tal contesa
gran pezzo è il corpo suo stato e la mente,
parla ad Uberto, e ’l tutto gli palesa;
sola è Megera al suo parlar presente,
e infiamma l’empia il giovane a l’impresa
nefanda e rea, con la sua face ardente.
Ond’ei per gir a i padri, da Pavia
parte, e verso Asti il dì stesso s’invia.

34In Asti ambo i suo’ padri erano allora,
ch’ivi a trovar Eudone er’ito Albino;
là giunto il figlio, e l’empia Furia ancora,
la qual volse con lui far quel camino,
parla con ambidue senza dimora.
Ella a tradir il figlio di Pipino
co i serpi suoi gli induce, e col suo fuoco,
onde in lor tosto ha la congiura loco.

35E tanto il congiurar più ad ambi è caro
quanto più lor promesso è premio certo,
ond’essi con pronto animo accettaro
l’ordine a lor da Desidero offerto,
al quale il dì seguente rimandaro
con la conclusione il figlio Uberto.
Ella, del tosco e de l’ardor suo parte
lasciando in lor, col giovane si parte.

36Tosto con esso al re perfido riede,
che avea già scritto al principe pisano.
Oh con che gioia ritornar lo vede,
poi che i padri a trovar non ito è in vano!
Già la speme ripiglia, omai dà fede
a le parole scrittegli da Gano,
perché già con lo stuol, ch’ei disse, uscito
del campo è Orlando e in vèr Cremona gito.

37Or ben saper l’astuzie porre in opra,
ben saper finger gli bisogna e molto,
perché in privato e in publico ricuopra
a’ suoi duci il cor suo con lingua e volto;
ma perché non saprà, se in farlo adopra
la fraude, il cui favor mai non gli è tolto,
anzi s’ella medesma ogni suo detto,
ogni suo moto guida, ogni suo effetto?

38Dunque qual suo padrino armatol pria,
a la pugna del finger lo conduce,
e Megera, ch’ogniora ha in compagnia,
fa che in van sempre aduni ogni suo duce
quand’ei, coprendo la sua mente ria,
a general consiglio si riduce,
perch’essa pon tra lor con la sua face
discordia sempre a disturbar la pace.

39Così discordi e irrisoluti, in vano
si riducean i Longobardi insieme,
onde omai più Megera, omai più Gano
disturbo da la Pace aver non teme;
anzi la face a lei scossa di mano,
con la qual arder l’armi ella avea speme,
la spense entro a Cocìto, e l’alma oliva
tutta sfrondò, ch’a i Longobardi offriva.

40Ella de’ nostri danni sospirando,
avanti al suo fattor rivolò in cielo,
poi che la terra lei da sé scacciando,
cui Cristo le lasciò con tanto zelo,
l’empia avversaria sua giva abbracciando,
c’ha in man le fiamme, il giogo e ’l ferreo telo,
che fan l’uccisione e le rapine,
la servitù, gli incedi e le ruine.

41Megera, certa omai che sanguinose
dèe veder del Tesin l’acque e le prode,
apparecchiar fa l’armi bisognose
a porre in opra l’ordinata frode.
Mentre esser gare sì contenziose
ne’ longobardi consigli ella si gode,
armar Asti, Milan, Pisa e Pavia
fa in guisa che nascosto a i Franchi stia.

42Pon ne la sua milizia Desidero
la gioventù pavese atta a battaglia,
e dandole stipendio fa pensiero
ch’ella co’ suoi soldati il campo assaglia,
ma però mostra, nascondendo il vero,
convenir che de l’armi lor si vaglia
per poter con maggior riputazione
far pace e con miglior condizione.

43Per tal cagion voler armarsi figne
non perché d’altra guerra aggia sospetto,
e non voler pugnar, se no ’l costrigne
il non poter la pace avere effetto.
Tosto il duca di Pisa in un ristrigne
lo stuol, c’ha già per la sua impresa eletto;
rivede in fretta i legni tutti quanti,
che avea contra i Francesi armati avanti.

44Già innanzi avea per tòr Genova a Carlo,
per mar l’arme e per terra apparecchiate,
con ordin che il conte Ugo debbia farlo
tacitamente entrar ne la cittate,
le guardie de la qual, senza aspettarlo,
siano assalite, uccise o discacciate;
e che in sospetto del suo inganno ascosto,
Gualtier rettor di Genova sia posto.

45Reggea per Carlo il liguro confino
Gualtier di Monlion principe degno.
Genova prese il figlio di Pipino
quando andò contra il longobardo regno,
perch’essendo quel mar al suo vicino,
sicuro il navigasse ogni suo legno,
onde per quella via, quando occorresse,
da la Francia arme e biade aver potesse.

46Armar gli uomini Albin fa tutti quanti,
che tra l’Oglio, Adda e Po cingono spada,
e ’l duca d’Asti ancor cavalli e fanti
non men raduna in ogni sua contrada:
l’un perché a Carlo con insidie, avanti
che fine abbia la tregua, addosso vada,
e l’altro acciò che a l’improviso Orlando
di notte assaglia al campo ritornando.

47Ma non però di questo fraudolente
lor ordine ad alcun notizia danno,
anzi, dando le paghe ascosamente,
ch’ognun stia armato e cheto intender fanno.
E ciò successe, in guisa che a la gente
lor, non che a i Franchi, occulto è questo inganno:
pace aspettano i Franchi, mentre guerra
Megera a lor prepara in mare e in terra.

48Oh quanta l’empio Gan gioia riceve
di sì iniquo apparecchio a lui palese,
certo d’Orlando udir novella in breve
peggior che del Selvaggio non intese!,Marfisa riceve da Carlo l’incarico di recarsi con uno stuolo a Genova, dove i congiurati hanno apparecchiato una finta sommossa (48,5-68)
di cui pur dianzi il caso acerbo e greve,
fuor che ’l malvagio, il campo tutto offese,
quand’ebbe occasione e forza Amore
d’accender in Marfisa un tanto ardore.

49L’ardore, anzi l’incendio, ond’ha il cor pieno,
che notte e dì la strugge (et è la notte
men grave a lei del giorno, perché meno
son le sue solitudini interrotte);
ma già le chiuse a lei fiamme nel seno,
quasi a fin le sue membra avean ridotte,
quasi la mente sua di lume priva,
perché né questa o quelle più nutriva.

50Non più, misera, il cibo e ’l sonno usato
porgono al corpo il debito alimento,
non è più in arme e in caccie esercitato,
ma stassi in ozio vil languendo e lento.
L’intelletto non più pasce onorato
pensier, né grato altrui ragionamento,
ma cure odiose sol, concetti odiosi
l’ingombrano, e consigli furiosi.

51E ben le avrian contrari tali e tanti,
o tolto il senno o tronco il vital corso,
s’al misero suo stato gli occhi santi
rivolti Dio, non le piovea soccorso,
col porle un militar governo avanti
onde il corpo adoprasse, onde il discorso,
ch’a mente oppressa da grave pensiero
fan nuove cure il carco più leggiero.

52Così in Marfisa de la mente il peso
sgravato in parte fu dal novo carco,
dal qual con l’esercizio al corpo reso
fu il cibo e ’l sonno, ond’era pria sì parco.
Fu l’intelletto, dal pensier che offeso
l’avea, da quel de l’arme in parte scarco.
Fu per la compagnia, da la sua molta
solitudine, a forza anco distolta.

53L’è questa militar giovevol cura
contra la voglia sua data in tal guisa:
seppe Carlo in que’ giorni la congiura
de’ Genovesi e del signor di Pisa,
i quai la gente franca, che le mura
di Genova guardava, avriano uccisa,
quando a quella per lui non proveduto
tosto si fusse di gagliardo aiuto;

54egli per trarre i suoi fuor di periglio,
e Genova e’ suoi porti conservarsi,
con Gano avuto e con Turpin consiglio
di quanto in tale impresa potea farsi,
termina che Marfisa invitta e ’l figlio
d’Uggier debban tra i Liguri mandarsi,
e dar più stuolo il doppio ad ambidui
di quel ch’Orlando ne menò con lui.

55Da cinque milia armati fu d’Anglante
il generoso principe seguito;
undici volte apparso et altretante
il sole a gli occhi nostri era sparito,
dal dì che il paladino avea di tante
forze il campo di Carlo sminuito,
e già, tornando al re con l’adunate
biade, era lunge a lui sol due giornate.

56Due giornate di strada avea lontano
Carlo, e non più, il nipote e le sue schiere,
quando deliberò contra il pisano
duca mandar tant’altre sue bandiere,
che s’in campo il dì dopo un capitano
tale e ’l suo stuol dovea non riavere,
chi non sa che di principe imprudente
er’opra lo scemarlo d’altra gente?

57Però che il tanto indebilirlo esposto
lo avrebbe a manifesti e gran perigli,
ma l’esser poco il conte a lui discosto
fa ch’ardimento e sicurezza pigli,
onde a Marfisa et a Dudone è imposto
da lui quanto oprar den per gli aurei Gigli.
Ah, misera, né muor, né riman viva
la dama, udendo il carco ch’ei le offriva.

58Non può non l’ubidir, s’al proprio onore,
s’a la ragion disubidir non vuole:
ragion vuol che compiaccia al suo signore,
sì come sempre compiacer gli suole;
l’onor che accetti con ardito core
l’impresa, e con prontissime parole,
perché né lingua né pensier l’accusi
che per tema o pigrizia lo ricusi.

59Ma il cieco Amor, che a liberar l’amato
Guidon la spinge con acuto sprone,
vòl ch’ella schifi il carco che l’è dato,
benché scuse non abbia oneste o buone.
Da tal discordia il cor l’è travagliato,
mentre al valor di quella e di Dudone
commettendo il gran Carlo sì bell’opra,
con ambidue la saggia lingua adopra.

60Pur il men ragionevole al più onesto
desire, ubidir fa con forte petto,
e, mal grado d’Amor, l’animo presto
e ’l corpo aver dimostra al degno effetto:
lo mostra con parlar pronto e modesto,
come de l’onor suo chiede il rispetto.
Ma chi il duol potria dir grave e mortale
che ’l cor le affligge in far promessa tale?

61Come a vergine è grave a cui ferito
sia ’l cor d’occulto stimolo amoroso,
che, avendo ella tra sé già stabilito
dover solo il suo amante esserle sposo,
a tòr la induca il padre altro marito,
né osi ella a scoprirgli il fuoco ascoso,
ché il «Sì», cui l’onestà di bocca allora
le tragge, è un trarle il cor del petto fuora;

62così a Marfisa avvien, mentre costretta
da l’onor suo, compiace a l’altrui voglia.
Ma partita dal re, poi ch’è soletta,
converte in rabbia l’aspra interna dogliaS | doglia.
Oh quanto è bestemmiata e maledetta
da lei Genova e Pisa, che le toglia
la fraude lor, di poter tosto aiuto
dar a Guidon, sì come avria voluto!

63- Così dunque da me soccorso sia,
così salvato il nobil cavaliero?
Così dimostrerò quanto mi sia
caro un sì degno amico, fido e vero?
Ahi, che non già per la salute mia
sì pigro fu nel feminil impero,
come or son’io, non senza alta vergogna,
pigra a gir a soccorrerlo in Guascogna.

64Ma pur pur troppo del tuo scampo ardenti,
giovane illustre, sono i desir miei.
Così fuss’io senza altri impedimenti;
com’or per liberarti in via sarei!
Ma siami contra il ciel, se de le genti,
ch’or mi disvian da quel che far dovrei,
non fo sì sanguinosa orrenda strage,
ch’io paghi a doppio l’opre lor malvage -.

65Così d’ira e di rabbia accesa il seno,
tra sé Marfisa furibonda parla;
saettan gli occhi suoi fuoco e veleno,
né può, senza tremarne, uom guardarla.
Oh miseri color che colti sieno
da i colpi suoi, se sì nuoce mirarla!
Già l’ore anni le paion, che le mani
s’insanguini tra i Liguri e i Pisani.

66Perch’ella poter dir al tutto spera:
«Io venni, vidi, e vinsigli», sì come
già dir poté de la nimica schiera
quel gran roman ch’a i Cesari diè nome.
Indi un nuovo pensier, de l’alta e fiera
doglia alquanto le sgrava l’aspre some,
inducendo il conforto in lei con questo
parlar nel petto disperato e mesto:

67«A che, stolta, t’affliggi, a che t’adiri
per ch’or ne la Liguria andar t’accada?
Or non ti scema ciò se ben vi miri,
del gir ne la Guascogna e tempo e strada.
Non sai, se ’l tuo Guidon salvar desiri,
domi ch’abbia i nimici la tua spada
gir per mare a Marsilia, che lasciata
in governo ti fu da tua cognata?

68Non sai quindi per terra irtene poi
a dar soccorso al giovane diletto?
Qual altra occasion ritrovar puoi
miglior, perch’abbia il tuo desire effetto?».
Così dicendo, alquanto i dolor suoi
tempra et acqueta il tempestoso petto.
Indi ad apparecchiar ratta le cose
per la sua andata con Dudon si pose.