ARGOMENTO
Scende Brenno in Italia e Chiusi assale;
Roma ripara e manda a lui tre messi,
di cui, perché la lingua oprar non vale,
adopran contro a lui la spada anch’essi.
Ei si risente, e tanta strage e tale
fa fuor di Roma e dentro i muri istessi
che la gente dal ferro è spenta e sparsa
e la città dal foco accesa ed arsa.
Proemio (1-5)
1Poi che nel mar de la civil tempesta
frenar non posso altrui l’erranti voglie,
e che la spada in mano e l’elmo in testa
portar per la mia patria a me si toglie,
Musa, tu che per lei vivace e presta
sai come la favella ancor si scioglie,
mostrami un grande infra i romani eroi
ch’io possa dar per duce a i figli suoi.
2Assai di Paolo, assai di Porzio e Bruto
gridan le greche e le latine carte,
i Fabi da la fama han gran tributo,
i Deci ne l’istorie han nobil parte.
Tutti donàr prodigamente aiuto
in varie guise a la città di Marte,
ma per vestir l’usbergo e la lorica
ebbe però ciascun la patria amica.
3Camillo sol, che de la Furia gente
levò sì chiaro in Campidoglio il grido,
per la sua patria ingrata e sconoscente
oppose il petto innamorato e fido,
Camillo sol però ne la mia mente
la Musa impon che prenda albergo e nido,
onde la sua pietà co i nostri carmi
riscaldi ancor fra noi le toghe e l’armi.
4Voi dunque, o cittadin, ch’al suo governo
la mia patria ondeggiando incita e chiama,
e che potreste alzar con pregio eterno
ne le tempeste sue la vostra fama,
s’aver per amor suo la vita a scherno,
s’amar per essa ancor chi vi disama,
se vincer voi per lei tentate in vano
sentite quel che fece un uom pagano.
5Dentro le mura d’Ardea il buon Camillo
si stava, allor, de la sua patria in bando,
che d’un barbaro re l’aureo vessillo
andava intorno al Campidoglio errando,
e con l’alma serena e ’l cor tranquillo
de la sua grave ingiuria il duol frenando,
quanto più Roma in lui peccato avea
tanto più di morir per essa ardea.
Narrazione dell’antefatto: Brenno scende in Italia e assedia Chiusi, che chiede aiuto a Roma (6-18)
6Ma com’in suo favor la destra invitta
s’armò da capo e novi spirti accese
dir non poss’io, se come Roma afflitta
non prendo a dir fu dal valor francese.
Spuntò da l’Alpi, e per via torta e dritta
una gente inondò veloce e scese,
che d’improviso acciar vibrando i lampi
coperse in un balen d’Etruria i campi.
7Dal celtico terren nel suol latino
venne a cercar più spaziosi alberghi,
e de le viti ausonie il nobil vino
vestir le fece ingiuriosi usberghi.
Non calpestò co i piedi il ghiaccio alpino
ma misurollo in vece lor co i terghi,
né fur le membra sue mai stanche o vinte,
né cadder mai le sue speranze estinte.
8Il duce, che la scorse al gran viaggio,
stringea con regia man de’ Galli il freno,
e più ch’avesser gli altri avea coraggio
per levar prede e conquistar terreno;
la legge che ’l guidava era l’oltraggio,
onde non fu giamai contento a pieno.
Brenno chiamossi in su la sedia aurata,
Brinon si disse in fra la gente armata.
9Dal piè de’ monti a l’una e l’altra sponda
del mar che cinge intorno Italia altera
fece costui tremar la terra e l’onda,
dinanzi al tuon de la sua man guerriera,
né spada fu, né fu saetta o fionda,
né surse incontro a lui sì forte schiera
ch’ovunque fulminàr le sue percosse
inferma e lenta a contrastar non fosse.
10Guastò le ville, i borghi e le castella,
arse le biade e depredò gli armenti,
sbigottì con le lance e le coltella,
spaventò con le furie e gli ardimenti.
Scendea l’orribil stuol come procella,
rompean gli atroci piè come tormenti,
correan l’insegne inanzi e gli stendardi,
salian le squadre i muri e i bellevardi.
11Una sola città nel primo assalto
non cadde come l’altre a lor davante,
o ch’ella avesse il sito alpestre ed alto
o ’l difensor più forte e più costante.
Ma non le cinse il cor sì duro smalto
che, stretta poi da tante schiere e tante,
per non sentir de’ Galli anch’ella il morso
non dimandasse a Roma al fin soccorso.
12Chiusi fu questa, onde per strade occulte
chiuso le membra in panni oscuri et adri,
con gravi sensi e con parole inculte
comparve un messaggier dinanzi i Padri:
«Prima che contro a te la Gallia insulte
e cresca i figli tuoi con le tue madri,
provedi, o Roma, a le città vicine,
o temi con l’altrui le tue ruine».
13Tanto bastò per dir chi fosse e donde
e che chiedesse a i senator romani,
perch’essi avean del rimanente altronde
sentiti già gli acerbi casi e strani.
Sciolser però le lingue lor faconde,
giusta ’l desir de’ cittadin toscani,
e per frenar quel re di sangue avaro
tre gravi e gran patrizi a lui mandaro.
14Nacquer costor de la progenie altera
che diè soccorso a la sua patria afflitta
mentre ch’armò per sostener Cremera
di tanti figli suoi la destra invitta.
Tre Fabi fur, che de l’atroce e fiera
gente che tanta gente avea sconfitta,
venuti inanzi al capitan sovrano
così tentàr di raffrenarlo in vano:
15«Che legge, o re, ti fu conforto e guida
perché con nove e temerarie offese
di barbarica gente e d’omicida
inondassi d’Italia il bel paese?
O pur chi ti promette e chi t’affida
che recar possi a fin sì grandi imprese,
mentre tu sai ch’ogni superbia è doma
quando la spada in man si prende Roma?
16La gente che guerreggi è nostr’amica,
il popol che combatti è nostro sangue,
la progenie di Marte a la fatica
de l’arme mai non sbigottisce o langue.
Gitta, Brinon, la spada e la lorica,
pria che tu cada a i colpi nostri esangue,
e ritorcendo in dietro il piè fugace
rimonta l’Alpe e lascia Italia in pace».
17Queste parole il re superbo a pena,
quantunque fosser brevi, udir sofferse,
e con più scarsa e più feroce vena
l’orgoglio del suo petto a i Fabi aperse:
«La legge che mi scorge e che mi mena
è quella che sì giusta a voi s’offerse,
che ’l popol vostro mai non fu satollo
di porre ad ogni gente il giogo al collo.
18Io fo quel che voi fate, e ’l vostro orgoglio
non mi farà depor le scale e l’armi,
sì che, se non fo men di quel che soglio,
voi non veggiate in su quei muri alzarmi.
Guardate pur che contro il Campidoglio
non mi venga talento ancor d’armarmi,
e che, d’altri desir commosso ed ebro,
non vi faccia spumar di sangue il Tebro».
Gli ambasciatori romani, contro il diritto delle genti, assaltano nottetempo il campo di Brenno (19-24)
19Così risponde, e più con gli occhi ancora
che con la lingua il re minaccia e freme,
onde gli ambasciador senza dimora
gli fan sentir quel ch’ei non pensa o teme:
si gittan dentro a Chiusi, e n’escon fuora
quando già ’l sonno i Galli assalta e preme,
e con un stuol di battaglieri eletti
percoton capi e taglian gole e petti.
20S’alza Brinon repente e come pote
le sue squadre girando accende e desta,
e grida: «A l’armi», e spinge e stringe e scote,
e regge ancor senz’armi la tempesta.
Attende il Tosco a forar tempie e gote,
intende il Gallo a metter l’elmo in testa,
e mentre l’un ripara e l’altro assale
non è la pugna o la fortuna eguale.
21Ma come allor che di tranquille e quete
inalza l’onde il mar spumanti e nere,
le prore che ’l fendean superbe e liete
cercan tantosto i porti e le riviere,
così cacciato il sonno e la quiete
e prese l’armi i Galli e le bandiere,
volge repente il piè la squadra tosca
e torna a la città per l’aria fosca.
22Tornar però così nascosto in essa
non sa de’ tre messaggi il più robusto,
che chiaro il volto e la sembianza espressa
non comparisca in lui di Fabio Ambusto;
e col suo testimon la luna istessa
par che, contrariando a l’atto ingiusto,
quasi di palesarlo altrui bramosa
scendesse in terra allor più luminosa.
23Vide Brinon dovunque il piè movea
moltiplicar costui piaghe e percosse,
e che di sangue il suol coperto avea
e l’erbe verdi avea cangiate in rosse.
Un folgore gli parve, e non sapea
donde caduto in capo a lui si fosse,
ma ’l seppe poi, ch’a la città rivolto
si trasse l’elmo e mostrò Fabio il volto.
24Chi ’l seguitò più presso al più lontano
mostrollo a dito, e con turbata voce
gridò: «Quest’è l’ambasciador romano,
che mosse contro a noi la schiera atroce».
Secondàr gli altri poi di mano in mano
fin che l’intese il capitan feroce,
e come di perfidia e tradimento
ne sparse i gridi e le querele al vento.
Brenno manda ambasciatori a Roma, le sue richieste vengono bocciate: i Romani gli mandano contro un esercito (25-35)
25Volea seguir, volea ferir, ma tenne
il gallico furor cotanto a freno
ch’al popolo roman di quel ch’avenne
mandar propose a querelarsi a pieno.
Un messo andò, ch’inanzi i Padri ottenne
sfogar del suo signor l’ira e ’l veleno,
e giusta quel che Brenno a lui prescrisse,
così gridò ferocemente e disse:
26«Le ragion de le genti han violata
gli ambasciador ch’al nostro re mandaste,
e, fatti capitan di gente armata,
han volte contro a noi le spade e l’aste.
La lor persona dunque a lui sia data
se pur con essa ancor voi non peccaste,
o, se scusate i suoi, co i vostri falli,
rendete Roma al regnator de’ Galli».
27Quando rompe talor la nube il tuono
non scorron l’aria mai tanti romori,
quanti furor de l’aspra voce al suono
romoreggiàr nel petto a’ senatori.
I Tribun si levàr da l’aureo trono
e l’ire ch’avean dentro espresser fuori,
e più che mai con fieri volti et adri
furibonde sentenze apriro i Padri.
28Chi dispiegar l’insegne e mover l’aste
volea repente incontro al re superbo,
e chi, le leggi e le ragion posposte,
sfogar nel messaggier lo sdegno acerbo;
altri volean mostrar le lance opposte
perché tremasse il re di Roma al verbo;
e tutti al fin, con novi sensi e strani,
cieca la mente e pronte avean le mani.
29Un fu però che, dopo aver sofferta
de gli altri senator la furia ardente,
non sbigottì, con resistenza aperta,
di contrastar de l’ire al fier torrente.
La lingua avea per lunga usanza esperta,
l’alma di gloria e di virtù lucente,
il nome Muzio, e rinascente e viva
la costanza di Muzio in lui s’apriva.
30«Non fu ragion (diss’ei) che i nostri messi
trattasser l’armi de le lingue in vece,
e quel che non fariano i Galli istessi
a la virtù romana usar non lece.
È ben ragion, cred’io, che si confessi
la colpa e s’armin l’ire in chi la fece,
e che di ferro cinti e di catena
mandiamo i Fabi a dimandar la pena».
31«I Fabi,» allor tutto il senato esclama
«saran d’un barbar’uom trionfo e preda?».
«I Fabi (rispond’ei) non cercan fama
che de’ confin plebei la fama accesa;
s’a lui non van con volontaria brama
senza che voi mandiate o ch’ei richieda,
né senton ciò che sia roman valore
se più che Roma han se medesmi a core.
32Et io, che gli ammonisco e che gl’invito,
non sarei lento a prevenirgli e tardo
s’avessi contro ad ogni legge ardito
vibrar la lancia indegnamente e ’l dardo;
né prender mi parria novo partito
se ne la stirpe mia fisando il guardo
la man che percotendo avesse errato
porgessi ignuda al mio nemico armato».
33Lodò questa sentenza alcun severo,
ma la biasmaro i senator men forti:
più saggio parve in lor chi fu più fero,
più molle chi dannò l’ingiurie e i torti;
tornossi adunque dietro il messaggiero
e minacciar s’udì rovine e morti.
Ma ’l popolo roman senz’intervallo
aggiunse un’altra colpa al primo fallo:
34armò le squadre e per guidarle elesse
quei che per castigar Brinon chiedea,
e i Fabi rivestì de l’armi istesse
onde commiser l’opra iniqua e rea.
Il Senato l’arbitrio a lui rimesse
perché, se ben color lodati avea,
vide però che con la destra armata
la ragion de le genti avean turbata.
35E volse tanto in lui l’amor del dritto
che, non volendo dargli il re feroce,
non consentì però che fosse scritto
ch’avuta al giusto avea contraria voce;
ma pensò che se punto o se trafitto
fosse per tal cagion da lingua atroce,
risposto avria che quel ch’ei non propose
senza guardar ragion la turba impose.
Brenno sbaraglia i Romani sul fiume Allia (36-51)
36Da l’altra parte il re de’ Galli, intesa
la superbia romana e ’l novo oltraggio,
e di giusto furor la mente accesa
per quel ch’avea veduto il suo messaggio,
lascia per vendicarsi ogn’altra impresa
e, rivolgendo a Roma il suo viaggio,
dove l’Allia nel Tebro il nome asconde
ferma le squadre in su l’erbose sponde.
37Quivi l’oste romano anch’ella apparsa
vede repente, ed orgogliosa e fiera
gli sembra assai, ma scompigliata e sparsa,
come chi poco teme e molto spera.
Sente però ch’a gli occhi altrui disparsa
si stringe dietro un poggio occulta schiera,
perché quand’egli oltr’esso avrà sospinto
da tergo almen sia soperchiato e vinto.
38Schernisce l’arte e manda il re, volando,
de le sue genti un valoroso stuolo,
che là s’avventa ov’è l’agguato e quando
men sel credea gli porta angoscia e duolo.
Circonda il colle, e fieri gridi alzando
copre di morti e di feriti il suolo.
Resiste e grida il capitan romano,
ma grida a vòto e si difende in vano.
39Era costui di quella parte eletta
che l’audacia de’ Fabi avea dannata,
quando di biasmo in vece e di vendetta
lode fra i Padri e gloria a lor fu data;
ma se ben la sua voce avea disdetta
dove fu da l’altrui l’ingiuria ornata,
dove si difendea l’ingiuria e ’l torto
non ricusò d’esser ferito e morto.
40«Che fai, Rutilio?» un suo scudier gli grida,
ché ’l vede fars’incontro a cento spade.
«Io fo (risponde) quello a che mi guida
l’amor de la mia patria e la pietade.
Non ha costante il petto o l’alma fida
chi per la patria ingiusta ancor non cade».
Tanto gli dice, e tanto a pena ha detto
che vede a cento ferri aprirsi il petto.
41Al cader di costui percote e taglia
quel che de la sua squadra era rimaso
il duce ch’a tentar quella battaglia
dal barbaro signor fu persuaso.
L’essercito roman di piastra e maglia
s’arma tantosto al discoprir del caso,
e, più che la ragion servendo a l’ira,
le spade impugna e stringe i dardi e tira.
42Non ricusa Brinon, ma più composte
le sue squadre però sospinge e move,
e par che l’una venga e che l’altr’oste
compaia in campo allor con forme nove.
Le schiere de’ Latin son mal disposte,
le barbare nol fur mai meglio altrove,
e par che i Galli allora e che i Romani
cangiasser l’un con l’altro ingegni e mani.
43Combatton gli uni abbandonati e sparsi,
percoton gli altri incatenati e folti.
Non sa ’l Roman ferir né sa pararsi
e ’l Gallo ha le man pronte e i piè disciolti,
ne l’un davanti a l’altro osa fermarsi,
ma mostran quei le spalle e questi i volti,
e forse per punir di Roma il fallo
Roman diventa in quella zuffa il Gallo.
44Correr di sangue orribilmente intanto
comincian l’erbe, e i vincitor feroci
levan superbo ingiurioso canto
nel tempestar de le percosse atroci.
Brinon trionfa e si dà lode vanto
che fa del Tebro insanguinar le foci,
e dove gira ’l piè sgrida e minaccia
e dove rota il ferro uccide e caccia.
45Il popolo di Marte, o fugga o resti,
o ribatta o ripari e ripercota
d’instupidita gente esprime i gesti
e di chi stretto ha ’l cor da forza ignota.
Scorge però tra quei codardi e questi
l’ardente re quel Fabio Ambusto, e nota
che con audacia ingiuriosa e rea
la spada per la lingua usato avea,
46e com’al soperchiar de’ suoi ripari
s’avventa il Po subitamente e bagna
dove sparso di semi eletti e cari
era più lunge il fin de la campagna,
così nel ravvisar fra’ suoi contrari
quel di cui sovra gli altri re si lagna,
quantunque da lui fosse assai distante
gli scorre in men che non balena avante.
47Arresta Fabio il piè; «Cotesto sangue»
minacciando gli grida «a me tu devi:
mal qui per te si sbigottisce e langue,
ne’ campi etruschi a lasciar l’arme avevi».
Era già quasi il roman duce esangue,
e fuggian l’ore sue veloci e lievi,
ma pur si ricordò che disparire
potea far la sua colpa un bel morire.
48«E su i campi d’Etruria e su i Romani
(risponde dunque) io sarò Fabio Ambusto,
e sprezzerò ’l furor de le tue mani
ancor ch’io sia languente e tu robusto.
Trecento del mio sangue eroi sovrani
mi rendon di morir soave il gusto;
fa pur quel che tu sai, ché far non puoi
cader la gloria mia co i colpi tuoi».
49Ciò detto, stringe il ferro, e forza e lena
da le languide membra ancor traendo,
porta al barbaro duce angoscia e pena
e ne la stessa morte appar tremendo.
Il piè col piè gli risospinge e frena,
e mira e sprezza il suo sembiante orrendo,
la spada e ’l braccio a tempestar non cede,
la targa e l’occhio a riparar provede.
50Ma l’avversario suo, con forza estrema,
dove già d’atri tagli ha l’elmo inciso,
quando men par che ne sospetti o tema
gli drizza un colpo e fende il capo e ’l viso.
Trabocca Fabio e non paventa o trema,
ma par ch’insulti a l’uccisor l’ucciso.
Trascorre il re gridando: «E così vada
chi sfiderà Brinon da spada a spada».
51E quinci e quindi a le reliquie sparse
de la gente romana il tergo assalta,
e le vie da scampar le rende scarse,
e del suo sangue il suol dipinge e smalta.
Di quei però ch’al suo furor sottrarse
potèr per via precipitosa ed alta,
altri di Veio i bastion sicuri,
ed altri guadagnar di Roma i muri.
I Galli giugono alle porte di Roma, la trovano deserta e la devastano (52-59)
52Rimase il duce gallo e le sue schiere
sì lente al novo caso e sì stordite
ch’in vece di seguir con le bandiere
ristetter su l’aringo instupidite.
Un sogno parve a lor che le più fiere
genti ch’avesse mai per fama udite
de le galliche sponde al primo lampo
avesser di sgombrar sofferto il campo.
53E pur fu ver, ché ’l campo allor non solo
quasi senza dar colpo abbandonaro,
ma che con nova angoscia e novo duolo
precipitosamente in Roma entraro.
E com’avesser dietro ognor lo stuolo
dinanzi a cui fuggendo il piè voltaro,
più che le porte a la nemica gente
chiuder se stessi a lor rimase in mente.
54La città si commosse e si confuse,
i guerrier sbigottiro al gran periglio,
la plebe contro i Fabi armò l’accuse,
i Padri venner meno a dar consiglio,
le donne per le strade eran diffuse,
i fanciulli nel Foro in iscompiglio,
i vecchi la parola avean perduta,
l’eredità di Marte era scaduta.
55Ma l’oste vincitrice, a cui ripressa
fu da novo stupor la furia atroce,
veduta poi la sua vittoria espressa
rivolse contro a Roma il piè feroce;
ma non sì tosto a la città s’appressa
che le torna a fallir consiglio e voce,
mentre trova le mura in lei deserte,
spariti i difensor, le porte aperte.
56Teme d’agguato il duce e non s’attenta
spinger le squadre in fra le mura ignote,
chiama il consiglio e inanzi a lui presenta
il timor che l’affrena e che ’l percote.
La gioventù feroce e turbolenta
grida che s’entri, e dimorar non pote,
ma ’l più saggio parer vuol che si stia
fin che discopra il ver sagace spia.
57Questi si prende, e va spedito e lieve
chi nota il tutto immantenente e torna,
e ’l terror de’ nemici esprime in breve
e ’l valor de la preda accresce ed orna.
Lieto l’annunzio il capitan riceve,
né più ritien l’insegne o più soggiorna,
ma le piazze di Roma e le contrade
ingombra in un balen di lance e spade.
58Fugge il volgo infelice e si ripara
dove prima s’abbatte e geme e stride,
e la gente più nota e la più chiara
si sgomenta, si turba e si divide.
Scorrono i Galli e l’un de l’altro a gara
percote, ingiuria, oltraggia, arde ed uccide,
e senza guardar tempio o simulacro
copron di sangue il suol profano e ’l sacro.
59Alzan le donne i gridi, e le donzelle
si straccian d’ogni parte il volto e i crini,
e le più gran matrone e le più belle
sazian del vincitor gli amor ferini.
Scorre il barbaro stuol da queste a quelle
e le mostra per scherno a’ cittadini,
e su i rivi del sangue e su i torrenti
sfoga le brame e le lascivie ardenti.
La moglie di Fabio Ambusto trova la morte cercando di uccidere il re gallo (60-76)
60Una però fra le più gran consorti
che propagasser mai di Roma i figli,
scaldar fra l’ignominie e fra le morti
seppe la guancia ed infocarsi i cigli,
e de le voglie sue costanti e forti
seguendo i generosi e bei consigli,
spinse tra i ferri e l’aste il piè leggero
e si piantò dinanzi al re straniero.
61Era costei de l’infelice Ambusto
che fu dal re miseramente ucciso,
sposa infelice, e d’alto affanno e giusto
avea l’alma percossa e ’l cor conquiso.
Nacque di fiero padre e di robusto,
ma le rose de l’alba avea sul viso;
conservò l’alma a gli altri colpi invitta,
ma de l’amor di Fabio era trafitta.
62Onde, poiché di lui l’atroce e dura
novella udì, col crin disciolto e sparso
si gittò fuor de le paterne mura
e fe’ palese il cor ferito ed arso.
E non sì tosto in fra la gente impura
vide da lunge il fiero re comparso
che, sospingendo ad esso i piè veloci,
ferì l’orecchie sue con queste voci:
63«Fa quel che resta, o duca: ucciso in tutto
non hai tu Fabio, ei vive in me gran parte.
Settimia son, che senza ancor dar frutto
consorte fui del gran figliuol di Marte.
Distruggi il ventre mio se vòi distrutto
chi po de la corona un dì privarte:
un figlio ascondo in lui, che se nol doma
la spada tua renderà Fabio a Roma».
64Così perché morir per quella mano
brama costei che morto Fabio avea,
di sposa ch’era a pena al capitano
moglie si finge e gonfia il ventre e leva.
Ed ei, frenando al novo caso e strano
la man che i petti apriva e i tetti ardeva,
da qualunqu’altra cura il cor disciolto
ferma le piante e la rimira in volto.
65Ma non sì tosto in lui percote il lampo
de gli occhi suoi che quella furia estinta,
onde correa ferocemente il campo,
si sente l’alma incatenata e vinta;
né schermo vede a ripararsi o scampo,
né virtù sente a guarentirlo accinta,
né terga oppone al colpo acerbo e crudo,
né spada stringe incontro un volto ignudo.
66Anzi la spada a i piè cader si lassa,
e poco men che seco ancor non cade,
e sprovvedutamente il cor gli passa
lo stral che tempra Amor con la pietade.
La valorosa donna allor s’abbassa,
e benché fra cent’aste e cento spade,
prende il coltel che gli è caduto in terra
e per ferirlo incontro a lui si serra.
67Ma prima che ferirlo, «O Fabio,» esclama
«di questa destra il sacrificio accetta,
che con focosa e con pietosa brama
t’offre la sposa tua per tua vendetta».
Quindi di Marte il nome invoca e chiama
ed alza il braccio e la percossa affretta,
ma colpo che scendea veloce e fiero
ripara il re de’ Galli il suo scudiero.
68E ’l barbaro scudier, dove scoperta
vede la neve a lei de le mammelle,
avventa un dardo, onde la punta esperta
taglia le vene innamorate e belle.
Cade la donna, e da la piaga aperta
versa col sangue ancor fiamme e facelle,
et or di sdegno ardendo et or d’amore
Brinon bestemmia e Fabio appella, e more.
69Ma ’l re, che torna a risentirsi in tanto,
e vede ch’ella è giunta a l’ore estreme,
e sente il feritor che si dà vanto
d’aver distrutto in lei di Fabio il seme,
prorompe prima a le querele e ’l pianto,
s’adira poscia orribilmente e freme,
e da giusto dolor commosso e stretto
passa d’un colpo al suo scudiero il petto.
70L’ucciditor trabocca in su l’uccisa,
e versa il sangue vil sul generoso;
il principe de’ Galli in lei s’affisa,
e gela e trema e tace e sta pensoso.
Non seppe mai che fosse aver divisa
l’alma per saettar d’occhio amoroso,
e sente nondimen ch’un volto essangue
gli turba i sensi e gli confonde il sangue.
71Barbaro fu di patria e di costumi,
né fu pietà giamai che ’l cor gli aprisse,
ma sparse allor però due vivi fiumi
su l’amorose membra e così disse:
«Ben chiusi con un colpo, o donna, i lumi
a chi t’aperse il petto e tel trafisse;
ma perché lume a te dar non potrei
non vedran lume mai quest’occhi miei».
72Ciò dice, e scorre; e quasi ognun che vede
avesse aperta in lei l’atroce piaga,
avampa, assale, oltraggia, offende e fiede
e di confuso sangue il suolo allaga.
Il volgo al suo furor paventa e cede
et ei de l’altrui colpa in lui si paga;
la turba non contende e non contrasta
ed ei satolla in lei la spada e l’asta.
73Fu maraviglia in lui che si spogliasse
del barbaro furor cotanto il petto
che d’un nemico suo la moglie amasse
quando ne vide a pena il primo aspetto;
ma non già fu stupor ch’ei ritornasse
ne la barbarie sua con tal diletto
che de l’amata donna il patrio loco
mettesse a ferro avidamente e foco.
74Il ferro apriva i petti, il foco i muri,
le trombe empiean d’orror la terra e ’l cielo,
i dèi su i propri altar non fur sicuri,
i cor non penetrò pietade o zelo.
Lodava il re color ch’eran più duri,
schernia quei che movean più lento il telo,
rinfacciava a i Roman l’ingiurie e i torti,
spronava i Galli al sangue et a le morti.
75Quindi non fu sentier che non corresse
l’impetuosa gente e furibonda,
né strada calpestò che non facesse
correr di sanguinosa e fervid’onda,
né porta o muro fu che le togliesse
cercar da l’alta parte a la profonda,
né ricercò le case e le ruine
che non crescesse l’onte e le rapine.
76Ma ’l sol, che stimolando i suoi destrieri
precipitava già ne l’Occidente,
consiglia il duce gallo e i suoi guerrieri
a consumar le stragi il dì seguente.
Drizzan le tende i fanti e i cavalieri,
e stendon mense e letti immantenente,
e su i guanciali ond’han vòtato i tempi
lusingan sonni ingiuriosi ed empi.