ARGOMENTO
Si salva il fior di Roma in Campidoglio,
e due nobili dame e valorose
frenan di due guerrier l’iniquo orgoglio
con due splendidi morti e generose.
Uccide tre grand’alme un gran cordoglio
mentre muovon tra lor liti amorose,
e dove più percote il ferro e doma
s’offre Papirio in sacrificio a Roma.
Vicenda di Lucrezia, che riesce a far morire con sé il soldato che la voleva sforzare (1-19)
1Da l’altra parte i cittadin romani
che da la furia ostil guardò la notte,
pensan salvarsi, e i lor pensier son vani
e le speranze lor confuse e rotte.
Cingean per ogni parte i monti e i piani
le squadre o piene o sceme od interrotte,
e per quei che dormian sotto le tende
prendean le guardie gli altri e le vicende.
2Molti però che del consiglio in vece
la disperazion facea sicuri,
or uno or due fuggendo, or quattro or diece
credean scampar da’ suoi ne gli altrui muri,
ma che non ravvisò, ma che non fece
l’oste nemica ancor fra i lumi oscuri?
A pena avean lasciato il proprio albergo
che si sentian ferir da l’aste il tergo.
3Il fuggir non valea per chi fuggiva,
il restar non facea per chi restava,
ma ’l ferro i petti in ogni parte apriva,
ma l’ira il ferro ad ogni destra armava.
La donna che coprirsi il volto ardiva,
la vergine ch’in ciel le voci alzava,
quasi come d’ingiurie o di ferite
con le vergogne e l’onte eran punite.
4Gran petto a contrastar l’ardenti brame
de’ barbari guerrier ciascuna offerse,
ma comparì però tra l’altre dame
una che gli occhi a maggior gloria aperse.
È ver che fra la tela e fra lo stame
nel tempo addietro il suo valor coperse,
ma quando ne diffuse il primo lampo
una nuova Lucrezia apparve in campo.
5Costei, mentre fuggia dal proprio tetto,
ch’a man a man prendea la fiamma ostile,
non poté far che ’l suo leggiadro aspetto
non accendesse un uom d’amor servile;
un uom che pronto il ferro e fiero il petto
ma non avea già ’l cor tanto virile
che la ragion, che frena e che corregge,
tenesse contro a lui dominio e legge.
6Vede costui che scapigliata e scalza
fugge la bella donna, e le s’avventa.
Ella le voci e le querele inalza,
e d’impetrar mercé s’ingegna e tenta.
Egli la stringe intorno e la rincalza,
perché cedendo al suo voler consenta,
e se non pò col ver, con la menzogna
la minaccia d’infamia e di vergogna.
7«Anzi perché di morte (ella risponde)
non mi minacci tu, non mi punisci?
Perché la spada tua non mi s’asconde
nel cor che contradir tu non patisci?
Non ti coronerà mai degna fronde
per quanto vinci a Roma e quanto ardisci
se fra le tue vittorie e i tuoi trofei
comporran l’onte e i vituperi miei».
8«O lode o biasmo al fin che debban darmi
l’infamie tue (risponde il Gallo) e l’onte
hai tu fra questa gente a seguitarmi
e raffrenar le voci ardite e pronte».
«Non ho, signor (dic’ella), ingegni od armi
onde parar mi possa o starti a fronte,
e se l’avessi ancor non avrei core
di contrapormi a chi m’oppone Amore.
9Ma dentro a queste lance e questi stocchi
non han che far d’amor concordie e paci,
e sotto il testimon di cotant’occhi
non si porian scaldar lusinghe e baci.
Prima però che cada e che trabocchi
l’albergo ond’io rivolsi i piè fugaci,
torniam repente in esso a far soggiorno
fin che faccia l’aurora in ciel ritorno».
10Così fingendo invita, e ’l caldo amante
senza pensar si move, e sol con sola
là si conduce ove la fiamma errante
da l’uno a l’altro muro ascende e vola.
Saglion le scale e mentre ancor distante
l’orribil lampo a gli occhi lor s’invola,
nel fosco sen d’una riposta cella
si chiude col guerrier la damigella.
11Volge la chiave e la nasconde in loco
dove colui non guarda, e fin ch’arrivi
ne le pareti, ove son chiusi, il foco
così raffrena i suoi furor lascivi:
«Rattienti, o cavalier; fugace il gioco,
breve la gioia è de gli amor furtivi
se pria che tranghiottirlo o che gustarla
non si divisa in fra gli amanti e parla.
12Io ti ragionerò di quegli amori
ch’accenderan più dolce il tuo desio,
e tu mi conterai di quegli ardori
ch’infiammeran più vivamente il mio».
Così costei s’infinge e, tutto fuori
di quel che pensa il cieco amante e rio,
fin che la fiamma ancor non comparisce
diverse fila e varie tele ordisce.
13Comincia a dir del cigno ove s’ascose
Giove per riposarsi in grembo a Leda,
segue de l’aurea nube in cui si pose
per far d’un altro amor conquisto e preda;
prolunga le parole insidiose
fin che di raccorciarle il tempo veda,
e ’l barbaro guerrier, che brama et arde,
pasce con vere istorie e con bugiarde.
14Ma quando già feroce e furibondo
sente Vulcan che stride e s’avvicina,
scoprendo la virtù del cor profondo
così la terge al foco e la raffina:
«Una Lucrezia già comparve al mondo
con fronte sì pudica e pellegrina,
che per pagar l’error che non commise
con rigorosa man se stessa uccise,
15un’altra or ne vedrai, che le tue braccia
temendo più che queste fiamme ardenti,
riguarderà tra lor la morte in faccia
e sosterrà ridendo i tuoi tormenti.
Vien dunq’inanzi e ’l nostro collo allaccia,
e sfoga e rendi i tuoi desir contenti.
Che fai, codardo? hai tu per soggiogarmi
dimenticate già le furie e l’armi?».
16Non restò mai sì vinto e sì stordito,
quand’intento a la voce et al sembiante
de la sirena andar pensava al lito
e ruppe fra li scogli il navigante;
così rimase stupido e smarrito
e giacque e tacque il doloroso amante,
quando del ragionar soave e scorto
chiuso si vide entro le fiamme e morto.
17Tanto vigor però racquista e prende
che corre a l’uscio e tenta aprirlo e scote,
ma l’uscio a man a man la fiamma accende
sì che scampar per esso il piè non pote.
Si volge a le fenestre e già comprende
che le riscalda il foco e le percote;
ricerca i muri e si ravvolge e gira
ma trova incendi in ogni parte e mira.
18Esclama al fin: «Che strazio e che vendetta
fai tu, crudel, d’un che ti pregia e t’ama!».
«Io fo (dic’ella) a te quel che mi detta
ch’io faccia a me l’amor de la mia fama».
Ma ’l foco i lampi e le percosse affretta,
e ne le membra lor s’avventa e sbrama;
avampa il Gallo e si tormenta e stride,
arde Lucrezia e non si turba e ride.
19Ma mentr’ancor l’amante il suol non tocca,
divien l’amata in lui tanto cortese
ch’ov’appressar negò la bella bocca,
sospinge il petto e le mammelle accese.
Vibra se stessa orribilmente e scocca
del suo nemico in su le membra offese,
e rinforzando l’un con l’altro ardore
l’atterra e strugge, e con lui cade e more.
Su consiglio di Papirio, i Romani decidono di asserragliarsi in Campidoglio e mandare un esercito di vecchi e infermi a tamponare l’avanzata dei Galli (20-31)
20La morte lor però non fu sì chiusa
che da chi la mirò d’eccelso loco
non fosse tosto in fra i Roman diffusa,
e sparsi i detti e palesato il foco;
né ritrovò costui tanto confusa
la gente o ravvisò vigor sì poco
che ’l novo essempio e ’l caso acerbo e strano
non ritornasse a Roma il cor romano.
21Il sangue di Settimia avea commossa
a non curar del suo la nobil gente,
l’incendio di Lucrezia ebbe gran possa
per rinfrancar gli spirti al rimanente,
e par che l’aria ancor che fu percossa
da l’una e l’altra lingua arditamente
la brama de la gloria ardente e viva
ripercotesse al cor di chi languiva.
22Quindi né di scampar né di ritrarsi
si parla più fra i cittadin bramosi,
e quando rannodati e quando sparsi
assaltan ne le tende i sonnacchiosi.
ma i petti han più di sdegno accesi ed arsi
che fortunati i colpi o poderosi,
mentre per un Roman ch’assale e stringe
un torrente di Galli inonda e cinge.
23Di morir pria che di servir disposti,
seguon per tutto ciò le brami audaci,
e contro a cento e cento ferri opposti
non è tra lor chi volga i piè fugaci.
I petti a le ferite e i tetti esposti
sono a le fiamme rapide e voraci,
e nel furor che Roma opprime e guasta
par che gareggi insieme il foco e l’asta.
24Ma ’l Tribun militar, che ’l primo soglio
nel Senato roman fra gli altri avea,
ristringe i Padri sparsi in Campidoglio
mentre la luna in cielo ancor splendea,
e, condannando il temerario orgoglio
ch’intempestivamente i petti ardea,
per temperar le furie a chi trasanda,
così correndo i Senator dimanda:
25«Arde Roma, o Romani, e noi siam folli
che senza riserbar pensiero o speme
di ristorarle ancor le mura e i colli
esterminiam con essa il nostro seme?
Io non voglio i Roman codardi e molli,
ma vo’ serbarli a le speranze estreme;
dica però ciascun s’a quel ch’io penso
vede per altra via miglior compenso».
26«Che speri più, Sulpicio (ad alta voce
Claudio risponde) o che vaneggi e sogni?
Ripugna il foco ardente e ’l ferro atroce
a quel ch’a pro di Roma indarno agogni;
baciar del re de’ Galli il piè feroce
più sembra a me ragion che ti vergogni
che de la patria a la rovina espressa
volar tra i ferri e traboccar con essa».
27«Ah che sent’io?» soggiunse Attilio allora,
«quella che per dar legge a l’universo
spuntò da i lombi al proprio Marte fuora
vedrà del tutto il seme suo disperso?
Ah non vedrà, se noi sapremo ancora
parar lo scudo incontro al fato avverso,
e se, perch’ella il mondo al fin governi,
noi sosterrem fuggendo obbrobri e scherni».
28«Fuggir» Papirio segue «è contro a l’arte
ch’insegna a’ nostri petti il ciel di Roma,
e star dove comun sì poco è Marte
darà la nostra gente estinta e doma.
Ma non fuggir del tutto e star in parte,
né po di nobil fronde ornar la chioma,
se parte discoperti e parte ascosi
ci mostrerem costanti e generosi.
29Chiudansi dunque a questa rocca in seno
chi tra i Romani è più robusto e forte,
e tenga i Galli il Campidoglio a freno
e speme ancor fra le miserie apporte.
Caccisi chi più grava e chi po meno,
né mova il padre il figlio o la consorte,
ma siam crudeli ancor, perché non manchi
tantosto il cibo a i campion più franchi.
30Da l’altra parte, in sacra veste avvolto,
chi più fra noi s’appressa al giorno estremo,
mostri la fronte a l’inimico e ’l volto,
et a la patria sua l’amor supremo;
levi le mani, e verso il ciel rivolto
(ardisco dir quel che di far non temo)
perché non cada Roma e non s’atterri
presenti ’l petto a le percosse e i ferri».
31Queste parole a pena avea finite
il franco senator, che tutti i Padri
con l’alme insieme e con le lingue unite
seguon con l’opra i suoi pensier leggiadri.
Corre la voce e da la rocca uscite
compaion d’ogni man figliuole e madri,
e dove s’erge il Campidoglio e cinge
de la romana gente il fior si stringe.
Flaminia muore a vedere il padre vestire le armi: muoiono di dolore anche il marito e il padre stesso (32-43)
32Ver’è che seco aver le proprie mogli
ai senator si dona e si concede,
onde fra l’onte e fra i lascivi orgogli
move Flaminia ov’è Metello il piede.
Ma come chi non ruppe in tra gli scogli
e l’onda poscia incontro armar si vede,
così costei, ch’avea fuggito un danno,
non si poté schermir d’un altro affanno.
33Incontra il padre suo, ch’ardente e lieto
a morir per la patria i passi affretta,
e che del buon Papirio il bel decreto
con l’opra più che con la lingua accetta.
Stordisce l’infelice e d’inquieto
dolor si sente l’alma oppressa e stretta,
né sa se col marito a viver vada
o col suo genitor ritorni e cada.
34«Va’, Flaminia (dic’egli) e per ristoro
del bel nome roman sostienti e vivi».
«E com’andrò (risponde) in fra coloro,
padre, che tu con la tua morte avvivi?».
«Ah come poco (dice) al bel tesoro
che la mia morte acquista, o figlia, arrivi!».
«Ahi come nulla, mentre ad esso intendi,
padre (risponde), il mio dolor comprendi!».
35Quindi lo stringe e gli circonda il collo
con le tenere braccia, e piange e prega,
ed ei con rigoroso e nobil crollo
da lei si scioglie e contradice e nega.
«Io vissi, o figlia, assai, già son satollo
e male il corpo a l’alma omai si lega,
tu poco ancor vivesti: or vivi e sia
essempio al viver tuo la morte mia».
36A pena ha detto ciò che sopraggiunge
da l’alto de la rocca il buon Metello,
che scorto in qualche modo avea da lunge
de la figlia e del padre il bel duello.
Questi la donna sua conforta e punge
che scampi da la fiamma e dal coltello,
e le segna col dito un pargoletto
che le chiede la poppa e cerca il petto.
37S’arresta la dolente, e quinci ascolta
il marito che prega, e quindi mira
il genitor, che stringe e si rivolta
da l’uno a l’altro e si tormenta e gira.
Ma tutta finalmente in sé racccolta
sì profondo sospir da l’alma tira
che l’alma col sospir venendo fuore
cade tra ’l padre e tra ’l marito e more.
38Prorompe il vecchio allor: «Che vita omai
donar potrò per sacrificio a Roma
se tolta, figlia mia, la vita m’hai
mentr’hai la tua persona estinta e doma?».
Esclama il senator: «Che far giamai
saprò di quel che più si pregia e noma
se tu, che m’eri ognor consiglio e scorta,
mi giaci inanzi impallidita e morta?».
39Così dicendo in lei s’affisa e pensa,
e ’l padre in essa ancor riguarda e tace;
e questi ha stretto il cor d’angoscia immensa
e quei s’affligge in nova guisa e sface.
Ma l’una e l’altra doglia è tanto intensa
che senza più sperarne o tregua o pace,
sul caro petto ond’è lo spirto uscito
trabocca il morto padre et il marito.
40Si sente il caso in Campidoglio e scende
chi raccoglie le membra oneste e belle,
e da fervida vena il pianto ascende
e cade e rompe in queste guance e quelle.
Un marmo la memoria ancor ne stende
e ne rinfresca altrui queste novelle:
Di tre grand’alme i corpi in sen nascondo,
che senza spada uccise un duol profondo.
41Ma senza sollevar querela o pianto
fra cento venerande e nobil teste,
scende nel Foro il buon Papirio in tanto,
e di porpora e d’or si fregia e veste.
Corron le turbe e nel purpureo manto
ferman le ciglia addolorate e meste,
ei s’asside, tra gli altri il più sovrano,
e tien d’avorio una gran verga in mano.
42Quindi solleva il dito e le parole
il Pontefice scioglie, e forma il voto,
e rigido a mirar più che non suole
de’ magnanimi vecchi il cor fa noto:
«Perché Roma non cada e la sua prole
de le galliche squadre al fier tremuoto,
di questa gente il sangue onesto e chiaro
t’offriam, Pluton, per schermo e per riparo».
43Seconda il voto e la promessa orrenda
con pronto mormorio la schiera eletta,
e ’l vigor di Papirio ognun commenda
e ’l furor di Brinon ciascuno aspetta.
Ma poco a rischiarar l’oscura benda
di quella notte l’alba i passi affretta,
e par ch’a discorprir sì gran ruine
non sappia sollevar da l’onda il crine.
La vestale Servilia si sacrifica ma riesce a portare sul Campidoglio il fuoco sacro (44-69)
44Avria ben ella il suo splendor scoperto
e ricondotto il sol su l’Oriente,
s’inanzi al suo pensier si fosse offerto
il caso che successe immantinente,
il caso che mirarsi a cielo aperto
dovea da numerosa e nobil gente,
e che se ’l sol pensato avesse ancora
avria precorsa in ciel la stessa aurora.
45Una vergine donna, a cui nel volto
pungea la rosa e compariva il giglio,
e che d’ogn’altra cura il cor disciolto
de la benda vestal copriva il ciglio,
per un sentier di Galli armato e folto,
senza temer di scorno o di periglio,
più rinchiuso che po nel seno interno
porta nel Campidoglio il foco eterno.
46S’avanza il capitan di quella squadra
e l’assalta repente e la richiede;
nega la bella vergine leggiadra
e spinge disdegnosa inanzi il piede.
La notte è fosca in quella parte et adra
ma scorge non per tanto il Gallo e vede,
e la fiamma che quivi accende un tetto
gli manda di costei la fiamma al petto.
47Spinge però de la sua gente armata
perché passar inanzi o far ritorno
non possa la donzella assediata
e la costringa seco a far soggiorno.
Quindi la destra incotanente alzata,
tenta girarla al suo bel collo intorno,
e seguendo il desir che ’l cor gli sprona
si scaglia incontro ad essa e s’abbandona.
48Ma non vien mai sì forte o par sì fiera
l’amica de l’augel che canta e desta
quando de’ suoi pulcin l’amata schiera
nemico piè le rompe e le calpesta,
come divenne intrepida e guerriera
dinanzi al cavalier la donna onesta
quand’assalir con furibonda brama
quel fior si vide ond’avea gloria e fama.
49Spira fiamma da gli occhi, e da le braccia
del barbaro guerrier si scote e scioglie,
avampa et arde orribilmente in faccia
e s’accinge e si stringe e si raccoglie.
Il sangue gallo entro le vene agghiaccia,
e sente intepidir l’ardenti voglie.
Prorompe la Romana, e punge e tocca
con l’armi ancor de la purpurea bocca:
50«Abbassa il volto, o temerario, e trema,
non hai tu fronte a la mia fronte eguale.
Servilia son, che di virtù suprema
mi cingo il crin ne la magion vestale.
La verginal bellezza è ’l mio diadema
che per disciormi il tuo furor non vale,
la dea che degna a’ suoi misteri alzarmi
mi fa sicura in fra le squadre e l’armi».
51Il tuon che rompe l’aria e che percote
là dove star si pensa un uom sicuro
non rende tanto a lui le membra immote
quantunque più che lui ferisca il muro,
come di senso intepidite e vote
al fervido guerrier le membra furo
quando col volto acceso e gli occhi ardenti
folgoreggiò costei gli arditi accenti.
52Ella però s’avanza e fra lo stuolo
ch’era con lui rimaso instupidito
con vigoroso piè calpesta il suolo
per gir dove da prima ha stabilito;
ma si risente intanto e corre a volo
dietro la preda il predator schernito,
e con lo stuol che segue e che seconda
la stringe d’ogni parte e la circonda.
53Si volge allor Servilia e ’l foco eterno
che dentro a splendid’urna in sen chiudeva,
prendendo l’arme e le ferite a scherno
con queste franche voci in ciel solleva:
«Accresci in me le forze, o re superno,
e le confondi a questa gente e leva
sì ch’io reprima il suo feroce orgoglio
e scampi con quest’urna in Campidoglio».
54Ciò dice, e freme e se medesma avventa
con nova furia al capitan nel petto,
e più grande e più fiera assai diventa
che possa sofferir terreno aspetto.
Il barbaro si turba e si sgomenta
et a cader dal duro colpo è stretto;
la vergine s’inchina e ’l petto ignudo
s’arma con la sua spada e col suo scudo.
55Ma corron d’ogni parte i masnadieri
che veggon steso il capitan per terra,
e batton con le spade in su i brocchieri
e tentan novi assalti e nova guerra.
Volge la valorosa i piè leggieri,
e para e fiede e si raccoglie e serra,
e per guardar le membra intatte e caste
sostien d’un stuolo inter le spade e l’aste.
56Né fur sì franche già le due reine
ond’una diè soccorsi al re troiano
e l’altra rinforzò l’armi latine
per cui già Turno avea lo stocco in mano
come costei, senz’elmo ancor sul crine,
ma senza fulminar la spada invano
là dove tanta furia in lei discende
ripara e copre, e fora insieme e fende.
57Si leva in tanto il fiero duce e grida:
«Una femina dunque un campo abbatte?
E sotto la mia scorta e la mia guida
così si pugna, o Galli, e si combatte?
Che braccio è quello ove costei si fida?
che man che l’armi a me di mano ha tratte?
che spirto incontro al mio valor congiura?
che legge cangia il corso a la natura?
58Ritragga il piè ciascun, di scudo e spada
s’armi da capo a me la destra e ’l braccio,
e prova, o donna tu, se più t’aggrada
del capitan Piron la fiamma o ’l ghiaccio».
S’apre lo stuol repente e si dirada,
ei rompe del timor la rete e ’l laccio
e va col ferro altrui, veloce e forte,
per riportar dal suo vergogna e morte.
59Si turba la sua squadra e si scompiglia,
né sa ciò che si dica o che si faccia;
instupidisce i cor la meraviglia
e ’l ferro ne le man la tema agghiaccia.
Miran la guancia candida e vermiglia
e ’l volto che lusinga e che minaccia,
e de la spada al tuon, de gli occhi al lampo
sembran veder la dea de l’arme in campo.
60Non son però sì lenti e sì storditi
che lascin franco a la guerriera il passo
sì ch’ov’ella drizzava i piè spediti
possa salir del Campidoglio il sasso,
ma con ferventi e con pungenti inviti
l’un desta a l’altro il cor sopito e lasso,
e rattenendo il corso a la donzella
le son co i gridi intorno e le coltella.
61Ed un col taglio in essa, e con la punta
un altro in lei s’avventa e s’abbandona,
e questi d’una parte assale e spunta
e quei d’un’altra inferocisce e tona;
ma quando pensan tutti averla giunta
intatta a tutti appar la sua persona,
né san comprender l’arte occulta e rara
ond’ella spiega e fugge e copre e para.
62San ben sentir de le ferite atroci
ch’apre la spada sua gli estremi affanni,
e san veder de le sue man feroci
nel sangue lor le violenze e i danni.
Levan contr’essa in van l’ardite voci,
tentano indarno i militari inganni,
ed ella fra cent’aste e cento stocchi
vince col fil del ferro e i rai de gli occhi.
63Non è chi di mirarla ardisca in volto,
non è chi d’assalirla omai s’attenti,
e chi fu più de gli altri audace e stolto
votò le vene insieme e gli ardimenti.
Trema lo stuol che fu sì fiero e folto,
gelan le lingue e le parole ardenti,
e resta sul terren di sangue infuso
chi ferito, chi morto e chi confuso.
64Spinge la vincitrice a l’alta rocca
fra le galliche stragi il piede allora,
ma le vene da lunge al fin le tocca
chi da presso l’avea fallite ognora:
un barbaro sì dritto un stral discocca
che le penetra il manco lato e fora,
e ’l bianco lin che la circonda e stringe
col minio del suo sangue adorna e tinge.
65Sente la donna intorno al cor lo strale,
ma rigando però la polve e l’erba
salta sul colle, agonizzando sale,
che ’l Senato roman ripara e serba.
Quivi de la sua piaga aspra e mortale
consola in arrivar l’angoscia acerba
e, bench’omai con occhi oscuri et adri,
così favella a pena inanzi i Padri:
66«Per conservar quest’urna a me commessa
fra le ruine onde la patria cade
mirai nel volto ancor la morte istessa
e contrastai con una a cento spade.
È ver che m’ha questa saetta oppressa
e tronco il fil de la mia verde etade,
ma non mi cingo il crin d’ignobil palma
mentre vi rendo insieme e l’urna e l’alma».
67Queste voci da i labbri e da la piaga
prorompe tutto a la donzella il sangue,
e più che tosto fosse mai leggiadra e vaga
de l’estremo color si tinge e langue.
La sua ferita il cor de’ Padri impiaga,
il suo pallor fa l’altrui guancia essangue,
e lo spirto che sparge a l’aure erranti
scioglie le lingue a le querele e i pianti.
68Ma ben ch’afflitto oltre misura e mesto
frena il Tribun de’ circostanti i gridi:
«Non è, Romani, il nostro pianto onesto
né suonano ben fra noi lamenti e stridi.
È ben ragion che questa donna e questo
miracol di virtù ne regga e guidi,
sì ch’al tentar de le speranze estreme
facciam con lei le meraviglie insieme».
69Così propone, e Lentulo e Marcello
e Fulvio e Flavio e ciascun altro approva,
ed è chiusa la donna in un avello
che la memoria sua desta e rinova.
Ver è che d’arte in esso e di scarpello
non fu chi far potesse allor gran prova,
ma prova fu che non sostenne agguaglio
del nome di Servilia il solo intaglio.