ARGOMENTO
Manda Satan chi di Camillo affreni
l’ardor, perché non porti a Roma aita,
e la fame e la peste i suoi veleni
contro i Romani e contro i Galli incita.
Due fratelli, de l’odio ingombri e pieni,
ch’ad aprir piaghe e sparger sangue invita,
in vece di ferir chi stabiliro
l’un a l’altro le vene e i petti apriro.
Satana convoca un concilio per impedire i piani dei Romani (1-6)
1Era il cerchio di Roma amato e caro
al superno Rettor che ’l Ciel governa,
sì come dove eletto avea riparo
per la sua fé con providenza eterna;
era però lo stesso cerchio amaro
al capitan de la milizia inferna,
perch’adorar con più verace zelo
temea doversi in esso il dio del Cielo.
2Onde, sentendo il gran Camillo armarsi
per sottrar Roma a le ruine estreme,
raccoglie i suoi ministri erranti e sparsi
per contrastar quel che paventa e teme.
Vengon costor co i volti accesi ed arsi
e col dente che morde e ’l cor che freme,
leva la coda e scote oltre la nuca
e scioglie l’ali a la parola il duca:
3«Una volta tentai seder nel soglio
di quel ch’onnipotente il mondo appella,
ma ’l suo perverso e dispettoso orgoglio
contrastò la mia brama ardente e bella.
Or tenta riparar che ’l Campidoglio
non trabocchi de’ Galli a la procella,
ma se gl’ingegni in voi saran vivaci
non sarà rocca mai de’ suoi seguaci.
4Voli però tra voi chi pronta ha l’arte
di distornar consigli e cangiar voglie,
e torca il piè di Furio in altra parte
che per soccorrer Roma omai si scioglie.
Porti Brinon de la città di Marte
l’estreme inanzi e le supreme spoglie,
che mover squadra o dispiegar vessillo
possa per guarentirla il gran Camillo».
5Così comanda, e Torvellin, che torte
a poggia ed orza avea già molte vele,
«Se vuoi (dice), o Satan, che tocchi in sorte
l’onor di quest’impresa al tuo fedele,
de l’oste di Camillo a la consorte
porrò sì dolce in su le labbra il mele
che l’alma del roman convinta e doma
si scorderà per lei se stessa e Roma».
6«Tocchi (Satan risponde) a te lontano
Furio tener da la città perduta
fin ch’abbia Brenno il Campidoglio in mano
e vegga tutta Roma in lui caduta.
Ma scorra ciascun altro il monte e ’l piano
e dove trattar arme intende e fiuta
e con gli urli e co i mostri e co i portenti
de le squadre romane il corso allenti».
Il demone Torvellin aumenta la passione di Fulvia per Camillo (7-24)
7Ciò dice, e Torvellin del carco imposto
gongola tutto, e fischia e ringhia e salta,
e senza indugio ad esseguir disposto
da le stigie caverne il volo essalta;
né dietro ad esso a secondar men tosto
è l’altro stuol, che spaventando assalta,
e per accender fiamma e spegner foco
stan tutti attenti a coglier tempo e loco.
8Avea Camillo in Ardea un oste antico
che ne le case sue l’accolse allora
che con rigido sdegno e con nemico
chi men dovea di Roma il cacciò fuora;
questi, come padrone e com’amico
l’invitò prima e ’l tenne poscia ognora;
Sergio avea nome e per antica gente
e per moderne lodi era lucente.
9È ver però che tra le faci e i lumi
che ’l facean più d’ogn’altro illustre e chiaro,
de la giovane Fulvia i bei costumi
eran nome per lui famoso e raro.
Questa, de l’oro in fra le vene e i fiumi,
che le stelle benigne a lui donaro,
donàrgli ancor, perché con degni eredi
la sua stirpe gentil tenesse in piedi.
10Ella, per far de i cor soave acquisto
scopria sì bianco il volto e sì vermiglio
ch’inanzi a lei perduto avrebbe il misto
onde si stringe in un la rosa e ’l giglio,
d’amorose dolcezze avea provisto
per tirar l’alme a la sua rete il ciglio,
e di candide perle e di cinabri
per pascer gli occhi avea guerniti i labri.
11Ma troppo più che con le perle e gli ostri
feria la bocca sua con l’eloquenza,
che se fosse comparsa ancor su i rostri
di Roma avria passata ogni eccellenza;
né distendea men valorosi inchiostri
per prender l’alme ancor con violenza,
né percotea men vigorosa cetra
per ritornar di carne i cor di pietra.
12Ma quel ch’eccelso a maraviglia e grande
rendea fra tante doti a Fulvia il core
era che, per l’eccelse imprese e venerande
virtù, del buon Camillo ardea d’amore
E pascer sì grand’uom le sue vivande
e i tetti suoi coprir sì gran signore,
più che i lumi del volto o de l’ingegno
tenea de’ suoi tesor gran lume e degno.
13Né pace avea giamai se nol vedea,
né potea riposar se non l’udiva,
e s’altro che ’l suo nome in mente avea
com’a suo proprio oggetto a lui fuggiva.
Languia senza saper ciò che voleva,
volea senza cercar perché languiva,
vedeva, udia, pensava a suo talento
e non avea mai tutto il cor contento.
14Erano i suoi desir pudici e casti,
né contro a quel ch’a nobil cor disdice
avea bisogno armarsi a gran contrasti
per conservarsi monda e vincitrice.
Ma i suoi piacer però turbati e guasti
e la sua sorte iniqua ed infelice
a lei pareva, allor che l’era tolto
d’udir Camillo e di mirarlo in volto.
15Onde quando sentì ch’avea fermato
di dar soccorso a la sua patria afflitta,
sentì di nova tema il cor gelato,
e di pungente duol l’alma trafitta.
Ahi come meglio, Fulvia, avresti amato
se la virtù di Furio in te descritta
tenuto in lei t’avesse il cor sì fiso
ch’avessi men di lui bramato il viso!
16Non po soffrir la tempestosa amante
ch’a la partenza il suo signor s’appreste,
e che di stargli ovunque vada avante
non possa ritrovar cagioni oneste.
Sa che susciterà col suo sembiante
ne l’avversario stuol sì gran tempeste
che volterà Brinon repente il tergo
ed ei cangerà d’Ardea a Roma albergo.
17Fomenta Torvellin, ch’intorno ad essa
raggirando andava, il suo sospetto,
e bocca a bocca immantenente appressa
e le diffonde il suo velen nel petto,
e fa ch’ella rivolge in fra se stessa
come vivrà senza l’amato aspetto,
e le stampa nel cor profondo e fiso
che non vedrà mai più Camillo in viso.
18Questo pensier di sì pungente dardo
penetra l’alma a l’infelice e passa
che dov’entrar non po straniero sguardo
cader sul pavimento al fin si lassa;
e con lo spirto or frettoloso or tardo
e con la voce or vigorosa or bassa
del fiero amor che la riscalda e gela
così seco si sfoga e si querela:
19- Misera, che tumulto è quel ch’io sento
quando men l’aspettava il cor turbarmi?
E che martirio, lassa, e che tormento,
Amor, vegg’io che tu cominci a darmi?
Dov’è de la mia Musa il bel concento,
dove fuggita è l’eloquenza e i carmi?
Ah ch’io non posso più quel che potei
perché mi lascia il sol de gli occhi miei.
20Camillo è ’l sol che luminosa e chiara
mi facea l’alma sì co i raggi suoi,
che tra la gente era gradita e cara
e gloriosa fra i più degni eroi.
Ma tu, Camillo, ancor di pioggia amara
mentre t’accingi a dipartir da noi
rompi da gli occhi miei sì viva fonte
che non è lume in me che non tramonte.
21Che farò senza te che legge e norma
mi davi a l’opre avventurose e belle?
Che dirò senza te ch’essempio e forma
m’eri per sollevarmi in fra le stelle?
De le femine vili entro la torma
m’asconderò co i lumi e le facelle,
che non mi sarei mai veduta intorno
se la tua luce a me non facea giorno.
22Luce de gli occhi miei, chi mi contrasta
che dov’andar ti veggo anch’io non vada,
e non maneggi anch’io lo scudo e l’asta
e non mi cinga anch’io di ferro e spada?
Son donna, è ver, ma son pudica e casta,
ma non ho cor che sbigottisca e cada,
ma sento sì costanti i miei pensieri
che comparir non temo in fra i guerrieri -.
23Ciò detto tace, e loda insieme e danna
e si sommerge in un pensier profondo;
ma poi ripiglia e se medesma inganna
e fa più seren volto e più giocondo:
– Perché la mente mia tanto s’affanna?
perché di sì gran pianto il petto inondo?
Ancorché sia Camillo in sul partire
nol posso a la partenza intepidire?
24Sì, posso e sì, farò, se non mia manca
de la facondia mia l’usata vena,
che bench’afflitta a sì gran colpo e stanca
ha di parlar nova materia e piena.
E la mia faccia impallidita e bianca
e la mia grave intolerabil pena
quantunque avesse ancor di marmo il core
faran di me pietoso il mio signore -.
Fulvia invita Camillo a convito con lo scopo di sedurlo (25-32)
25Non era Sergio in Ardea allor che fece
la bella donna sua questo pensiero,
ond’ella quasi del marito in vece
così ragiona un dì col suo straniero:
«Tu te ne vai, Camillo, e non mi lece
dar nel tuo dipartir l’ufficio intero,
ch’io so ch’esseguirebbe il mio consorte
se di trovarsi in Ardea avesse sorte.
26Per quel che Sergio dunque avria supplito,
tu questo almen da me benigno accetta,
ch’io ti possa onorar con un convito
prima che con le squadre in via ti metta.
In solitario loco ed in romito
ho per condurti una magione eletta,
che benché tu con noi sia stato ognora
io so però che non vedesti ancora.
27Là, quando tempo fia, chi ti conduca
manderò, se nol vieti, e se ’l consenti
farai che quell’albergo ancor riluca
de lo splendor che spargi e che presenti.
Et io mi pregierò che ’l più gran duca,
ché fosse mai tra le romane genti
per tutte le mie case umili e basse
girar tal volta il piè non disdegnasse».
28Rende Camillo a la cortese offerta
quanto più po corsi grazie e grandi,
e dice: «O donna, il mio valor non merta
cotesti onor, ch’in me tu spargi e spandi,
ma generosa è ben la tua proferta
mentre donando a me par che dimandi.
Et io riputerò per gloria immensa
il seder teco ovunqu’imponghi a mensa».
29Così Furio da Fulvia allor si parte,
ma così franco già non si mantiene
che, benché bolla in lui l’ardor di Marte,
non senta un altro foco entro le vene.
De l’amorosa donna a parte a parte
notate avea già l’armi e le catene,
ma con gli schermi e le ragioni ardite
l’avea costantemente ognor fuggite.
30Mentre però chiamar da solo a sola
si sente in chiuso e solitario albergo,
teme che ’l suo bel volto e la parola
non rompa a la ragion qualunque usbergo.
Ode ’l rigor de la pudica scola
che dar gl’insegna al gran periglio il tergo,
ma non sa con che volto e con che piede
fuggir l’invito ove la donna il chiede.
31- Andrò (dic’ei fra se medesmo al fine)
dov’ella d’invitarmi ha già disposto,
e i lacci mirerò del suo bel crine
e mi vedrò de gli occhi il dardo opposto;
ma de la patria mia l’alte ruine
terranno in esse il mio pensier riposto,
e contr’ogni desir fallace e vano
mostrerò che son franco e son Romano -.
32Così conchiude, e come e quando armarsi
contro il barbaro re divisa in tanto,
e de i tetti di Roma accesi ed arsi
rinfresca la memoria ognor col pianto.
Brama la destra e l’asta insanguinarsi
più che non fece Achille in riva al Xanto,
e fin che non si vede i Galli intorno
geme la notte e si lamenta il giorno.
I Romani sono alle prese con la peste: domina l’individualismo nel campo (33-43)
33Ma ’l fervido Brinon, che dal suo messo
la risposta di Furio intesa avea,
e fuor de la sua speme udito espresso
che vestir l’arme incontro a lui volea,
con gli occhi in terra e col pensiero oppresso
da troppo più timor che non solea
veder comincia incontro a’ suoi desiri
voltarsi al fin de la fortuna i giri.
34E ’l capitan che contro a lui s’accinge
gli percote la mente e gli commove,
e la fame che già l’assedia e stringe
frena de l’oste sua l’audaci prove.
Ma la peste crudel ch’intorno il cinge
fa che desia di ritrovarsi altrove,
e fra sì gravi angustie e gran perigli
non sa quel che si faccia o si consigli.
35Fra i corpi morti e fra le membra incise
eran le tende sue confuse e sparse,
e su i carboni e su la polve assise
de le pareti incenerite ed arse,
onde ’l vapor che quindi in ciel si mise
di sì fiero velen l’aria cosparse,
ch’oppresso il cor da pestilente salma
la gente avea l’aura, e rendea l’alma.
36E ’l sito ove giacean, palustre e basso,
e la stagion più calda e più fervente,
non ricreava il corpo afflitto e lasso,
né dava refrigerio al cor languente.
Quindi cadean le turbe a ciascun passo,
né virtù per levarle era possente,
ed era in men che da l’Occaso a l’Orto
il corpo che cadea caduto e morto.
37Di chi languia ne l’oste e chi moriva
s’ebbe pietà da gli altri in prima e cura,
ma la pietà divenne allor men viva
che passò la miseria ogni misura;
né più gl’infermi corpi alcun serviva,
né dava a i morti alcun più sepoltura,
e senza accompagnar querele o pianti
ciascun sentia languir gli agonizzanti.
38Colui che più vivace e colorito
comparve poco inanzi in campo armato,
col viso orribilmente impallidito
cader tantosto in terra era mirato,
e quei che più veloce e più spedito
fuggì dond’altri in terra era cascato,
sentendo poco dopo anch’ei languirsi
come fuggito avea vedea fuggirsi.
39D’inestinguibil fiamma e furiosa
ardean le vene a questa gente e quella,
e putrida materia e velenosa
s’ergea su l’anguinaie e le ditella.
Il capo avea la doglia impetuosa,
la lingua venia meno a la favella,
il volto ardea di formidabil foco,
la mente abbandonava il proprio loco.
40Ma non fu l’aria già cotanto infetta
che non restasse ancor riparo e schermo,
onde chi guardia usò sagace e stretta
de la febbre mortal non cadde infermo.
Quindi ciascun che speme avea concetta
di trionfar di lei, costante e fermo,
per non provar de la sua fiamma il morso,
negava a i propri amici ancor soccorso.
41Amico era di Gondro un cavaliero
che conducea fra i Galli eletto stuolo,
ma steso non per tanto in sul sentiero
soffrì lasciarlo abbandonato e solo;
«Pietà» chiedea l’infermo, e ’l condottiero
chiudea le nari e trapassava a volo.
«Amico i’ t’era pur» colui seguia,
e questi: «Amica è più la vita mia».
42Levava l’uno in ciel le voci estreme,
e l’altro, a i gridi suoi non dando orecchio,
e del sepolcro e le l’essequie estreme
negogli ancor la pompa e l’apparecchio.
O de la stolta e de l’errante speme
de’ miseri mortali essempio e specchio!
Vive de l’amicizia il nome antico
ma raro è quel che sia verace amico.
43Rigida fu la sferza e furibonda
che de’ Galli feria le teste altere
e, come su la messe aurata e bionda
la falce suol, rompea le squadre intere.
L’angoscia de le turbe era profonda,
i voti numerosi e le preghiere,
e quel che non facean per altro zelo
la tema rivolgea le fronti in cielo.
I Romani sono attanagliati dalla fame: nonostante questo si sacrificano l’uno per la salute dell’altro (44-57,4)
44Ma se dal fiero dardo e pestilente
le barbare falangi eran percosse,
dal difetto del cibo atrocemente
le romane reliquie eran commosse;
e le squallide membra e macilente
e l’alme afflitte oltre misura e scosse
facean che de la fame e del digiuno
più che del ferro omai temea ciascuno.
45Con rigida misura e giusto peso
la vivanda egualmente era divisa,
né dignità guardata o nome atteso,
né data mai più colma o più recisa.
Né nobil fu che si tenesse offeso
per gir col volgo in una stessa guisa,
né fu plebeo che ne la fame atroce
levasse mai sediziosa voce.
46Fu ben Regillo, a cui spuntava a pena
da la splendida guancia i primi fiori,
che del suo genitor l’estrema pena
sofferse medicar con novi amori.
Tolta la fame al padre avea la lena
ed era presso l’alma a venir fuori,
quando con generoso alto consiglio
si fece incontro a rattenerla il figlio.
47Il figlio, che di fame anch’ei moriva,
e ch’avea sol per sostentarsi un pane,
al padre, che già tutto impallidiva,
l’offrì, con voci inusitate e strane:
«Prendi (gli disse), o padre, e mantien viva
la tua virtù per le ragion romane,
né guardar se m’uccido o se m’offendo
mentre che vita a te per vita rendo».
48Solleva gli occhi al suo figliuolo in viso
l’abbandonato padre e moribondo,
e poiché l’ha mirato intento e fiso
prorompe a dir con un sospir profondo:
«Perché da la mia man tu fossi ucciso
io non ti presentai, Regillo, al mondo;
guarda la vita, o se di darla intendi
sol per la patria tua la dona e spendi».
49«La patria (dice il figlio) ha te per padre,
e senza il nome tuo riman pupilla».
«La patria (il genitor risponde) è madre
che più del tuo che del mi’ amor sfavilla».
«Chi moverà (l’un dice) a noi le squadre
perché ritorni Roma ancor tranquilla?».
«Chi vibrerà (risponde l’altro) i dardi
perch’abbatta la Gallia i suoi stendardi?».
50Quindi l’un porge il pane, e piange e prega,
e l’altro il risospinge et il rifiuta.
Il figlio di mangiar ricusa e nega,
il padre non si move e non si muta.
Ma l’alma omai de l’un si scioglie e slega
e la lingua de l’altro è fredda e muta,
e la fame che stringe e ’l duol che preme
uccide il padre et il figliuolo insieme.
51Stordiscon gli altri al miserabil caso
e sceman le speranze e gli ardimenti,
ma ’l Tribun ch’a guidarli era rimaso
scioglie le voci e le parole ardenti:
«Costor, se nol sentite, han persuaso
a chi più ne la gloria ha gli occhi intenti
ch’esser non po giamai tormento o morte
per cui vacilli un uom costante e forte.
52La fame a lor la carità non tolse
che deve il figlio al padre e ’l padre al figlio,
ma morir prima e l’uno e l’altro volse
che cangiar mente o variar consiglio.
Quella virtù però ch’in lor s’accolse
in noi si stringa a così gran periglio,
e più che ’l ferro o che ’l nemico orgoglio
vinca la fame i Padri e ’l Campidoglio».
53Così dic’egli, e ripigliando aggiunge
che più la peste assai percote i Galli
che la fame i Roman non preme e punge,
e pien di morta gente addita i calli,
e, quasi antivedendo, al fin soggiunge
che saran brevi i giorni e gl’intervalli,
onde, quantunque omai caduta e morta,
vedran le genti Roma in piè risorta.
54Rinforzan queste voci i petti infermi
de’ miseri Romani, e tutti a prova
prometton contro i Galli offese e schermi
e mostra in volto ognun costanza nova.
Ma benché tutti saldi e tutti fermi
di vincer resistendo al fin si prova,
la fame che si stende e che s’avanza
ribatte in lor la forza e la baldanza.
55Il volto sembra in essi incenerito,
le membra son cadenti e macerate,
il ciglio è fieramente inorridito,
le braccia in nova guisa abbandonate;
il cibo per nodrirgli è sminuito,
la brame di mangiar son raddoppiate,
il dente corre a le lambrusche acerbe,
li morso vola a le radici e l’erbe.
56Sta non per tanto in piè la nobil rocca,
che per Roma facea la forza estrema,
e se ben morto in essa alcun trabocca,
l’ardir però ne gli altri e ’l cor non scema.
L’arcier languisce e mette in su la cocca
lo stral donde ’l nemico agghiacci e tema;
toglie la fame omai l’aspetto umano
e tutti han l’arme indosso e l’aste in mano.
57O che non po ne’ generosi petti
l’amor ch’a sostentar la patria accende!
Ma che non move ancor la voce e i detti
di chi ne le miserie il cor non rende!
Brenno rincuora e suoi e tenta un assalto, che viene respinto(57,5-66)
Non teme il re de’ Galli a i fieri aspetti
onde le squadre sue la peste offende,
ma gira fra le stragi e fra le morti,
ma doppia ’l suon de’ preghi e de’ conforti.
58«La peste cesserà (dic’egli) al fine,
e rimarrà di noi la maggior parte;
mirate pur se con le sue rapine
le nostre forze ha dissipate e sparte.
A le prede lontane e le vicine
la nostra gente, gente ognor comparte,
e per un che fra noi la peste atterri
compaion cento man con cento ferri.
59Noi ritroviam di cibo e di vivanda
qualche soccorso in qualche parte almeno,
et al nemico, ove si sparge e spanda,
per ricercarne ogni sentier vien meno.
Quindi lo stende orribil fame e manda
senza che ’l percotiamo in sul terreno,
et un che cada in essi o che vacille
è più ch’in noi non sarian cento o mille».
60Così Brinon de la sua gente afflitta
conforta le miserie e ’l mal solleva,
e le percosse e i morsi ond’è trafitta
quanto più po dal cor le toglie e leva.
E così l’una e l’altra gente invitta
cade in un tempo stesso e si rileva,
né langue l’una a la fatica impresa
né s’abbandona l’altra a la difesa.
61Anzi s’avanza il Gallo un dì cotanto
che ’l Campidoglio orribilmente assalta,
e con veloce e temerario vanto
su la scoscesa pietra ardisce e salta;
e tanto stringe e s’affatica tanto
che quasi il capo in su le mura essalta,
e già si ferma in su le piante ardite
e già la spada impugna a le ferite.
62Corron tantosto e mostran faccia a faccia
co i ferri e l’aste i difensor romani,
ma posson poco a i colpi alzar le braccia
e senza forza i lor desir son vani.
lo sdegno accende il cor, la fame agghiaccia
le membra, e trema il ferro infra le mani,
e par che poco sforzo e breve guerra
bisogni omai per traboccarli in terra.
63Ma caso avien che forse a creder duro
sarà, bench’apparisse espresso e chiaro:
i barbari ch’avean salito il muro
la peste infetti avea di tosco amaro,
ma com’a suon di tromba o di tamburo
al primo ardor febbril si concitaro,
e la furia che gli arse e gli distorse
portogli ancor sul Campidoglio e scorse.
64Quando però su le sue mura apparsi
pensan rotar le braccia e le coltella,
cessa la rabbia, e vacillanti e scarsi
muovono i passi a l’alta impresa e bella,
e ’l viso in lor comincia a tramutarsi,
e venir men la voce e la favella,
e i membri a diventar pesanti e tardi
e gli occhi ad ammorzar faville e guardi.
65Stupiscono i Roman, ch’avean creduto
vedergli incontro a lor feroci e forti,
et a la guancia et al color perduto
gli trovan quasi abbandonati e morti.
E tace il Gallo ed il Romano è muto,
e l’uno e l’altro ha le medesme sorti,
e la peste e la fame a due nemici
lega le mani a le percosse ultrici.
66Stringe la peste al fin più che la fame,
e i Galli, che la rupe avean salita,
pagan l’ardenti e le pungenti brame
col prezzo de lo spirto e de la vita.
Teme Brinon che contro il suo reame
senta la peste oltre misura ardita,
ma tien però rinchiuso il suo timore
e mostra, quanto po, costanza e core.
Il romano Spurio offre la testa di Camillo in cambio del trono di Roma: Brenno accetta (67-75)
67Il cor però, che finge, e la costanza
ritorna nel suo petto ancor verace,
mentre risorge in esso una speranza
ch’al suo desir si piega e si conface:
un dì, che chiuso in solitaria stanza
sopra i perigli suoi ripensa e tace,
per via segreta il suo portier Diclide
gli mena inanzi un uom che mai non vide.
68Torva la fronte e spaventosi e fieri
ha costui gli occhi e scolorito il volto,
rabbuffata la chioma, i capei neri,
rozza la toga e ’l vestimento incolto;
ma di feroci brame e gran pensieri
mostra però palesi segni in volto,
e con ruvida voce e viso acerbo
così favella inanzi al re superbo:
69«Roman son io, tra le più grandi e degne
da la famiglia Cassia in luce uscito.
Spiegàr gli antichi miei sì chiare insegne
ch’aver ne po la Gallia il grido udito.
Roman però chiamarsi ch’io mi sdegne
e ch’abbia in odio il ciel che m’ha nodrito,
un fulmine che Roma iniqua e ria
percosse già ne la progenie mia.
70Spurio fu quegli, a cui la vita e ’l nome
soffrì di fulminar la patria ingrata,
quand’ei con nobil fronda in su le chiome
l’avea splendidamente in ciel levata.
Spurio son io, che bench’afflitte e dome
senta le forze a la vendetta armata,
non ebbi altrove mai la voglia intenta
ch’a veder Roma sterminata e spenta.
71Ond’or che veggio te, di quel ch’i’ bramo
per onesta cagion bramoso ancora,
vengo da te perch’amendue facciamo
quel che lieve a ciascun per sé non fora.
Camillo, solo il bel pensier, ch’abbiamo,
è troppo forte a contrastarne ognora:
Camillo dunque in breve spazio e corto
io ti prometto dar ferito e morto.
72Tu stringerai l’assedio, e quel che resta
de la città di Roma in Campidoglio
poich’abbattuta udrà la nobil testa
onde nodriva il suo perverso orgoglio,
vedrai venir da quella parte e questa
ad inchinarsi al tuo superbo soglio,
e potrai romper fibre e votar vene
e stringer ceppi e circondar catene.
73Io non dimando a te che tu mi doni,
di quel che resterà, dominio intero;
vo’ ben ch’a sostener le tue ragioni
mi lasci a Roma almen con regio impero.
E vo’ che fra le prede e fra i prigioni
che pervenirti in man confido e spero
la stirpe di quegli empi a me tu renda
ch’ucciser l’avol mio con morte orrenda».
74Sente il barbaro re con maraviglia
ciò che ’l fiero roman promette e chiede,
ma pensa però poco o si consiglia
e tutto quel c’ha detto approva e crede.
«Ben mostri germogliar da gran famiglia
e d’esser d’alti e di gran spirti erede;
va’ pur felice, e se Camillo uccidi
Italia e Roma meco a par dividi».
75Così risponde Brenno, e vuol che vada
col traditor patrizio un suo fedele,
perché s’avien che l’uno uccida e cada
l’altro ritorni e ’l fatto a lui rivele.
S’arma l’empio roman di scudo e spada
per porre in opra il suo pensier crudele,
e Roma lascia e ’l Campidoglio a tergo
e là si drizza ov’ha Camillo albergo.
Tito, fratello di Spurio, offre a Camillo la testa di Brenno (76-82)
76Ma mentre ch’a l’impresa iniqua e rea
costui s’affretta avidamente e move
un suo german, che varia mente avea,
tenta contro a Brinon diverse prove.
Tito s’appella e d’altre fiamme ardea
che ’l suo fratello, e fu nodrito altrove;
colui d’esser tiranno avea talento,
costui di viver franco era contento.
77Ne le scole d’Atene avea cresciuti
de l’aurea libertà gli amor nativi,
e d’Aristogiton gli ardor bevuti
e gli spirti d’Armodio ardenti e vivi.
Stringea la gente in fra i Valeri e i Bruti
e questi sol credea di Roma i divi,
abborria l’empio e ’l temerario ingegno
per cui l’antico suo bramava il regno.
78E questa nel suo cor fu gran cagione
che, per lavar la macchia onde difforme
comparve il sangue suo lunga stagione,
tentò seguir di Muzio i passi e l’orme.
Quindi, come dal greco il piè ripone
su l’italico suol non posa o dorme,
ma si conduce là dove la fama
Camillo dittator previene e chiama.
79E ’l bel desir che contro al re nemico
a pro de la sua patria avea concetto,
per toglier l’ombra e ’l vituperio antico
così palesa inanzi al suo cospetto:
«Non ha Roma di me più grande amico,
benché ’l mio nome offenda al primo aspetto,
e se nol credi ascolta, o dittatore,
se rassomiglio il mio progenitore.
80A me dà ’l cor, fra le corazze e l’aste
ond’è cinto Brinon, volar repente,
e senza ch’ei ripugni o che contraste
gittarlo morto a terra incontinente.
Né che sian tronche a me le membra o guaste
intepidir mi po la brama ardente,
manda pur meco un uom che ti rapporte
s’io so morir per Roma e so dar morte».
81Stupisce al gran coraggio il buon Camillo,
e l’abbraccia e l’onora e gli risponde:
«Impresse Spurio Cassio un reo sigillo
ne l’opre onde le lodi avea feconde,
ma tu, seguendo, o Tito, altro vessillo
cerchi le glorie tue, ben veggio, altronde;
va’ pur dove de’ Galli il re s’attenda
e ’l biasmo altrui con la tua lode emenda.
82Io non son dittator chiamato ancora,
ma, benché ’l fossi, e s’avverrà che ’l sia,
cotesta tua virtù ch’Italia onora
invidiata mai da me non fia.
Viva pur Roma e si confonda e mora
chi la ferì con piaga iniqua e ria,
e la sua libertà da la tua mano
prenda il Senato e ’l popolo romano».
I due fratelli si incontrano per la strada, e si uccidono a vicenda (83-94)
83Così gli dice, e manda ancor con esso
chi tornar possa a raccontargli il fatto.
Tito si parte, e volge in fra se stesso
come possa esseguir veloce e ratto;
ma mentre inanzi va, passarsi appresso
tutto feroce e tutto atroce in atto
vede ’l fratel, ch’a l’alta impresa e rea
velocemente in piede anch’ei movea.
84S’arresta Tito e ’l chiama, e Spurio in dietro
si volge, e l’un de l’altro il collo abbraccia,
ma serba questi il volto acerbo e tetro,
ed ha colui serena ognor la faccia.
«Che grazia (dice Tito), o Giove, impetro,
che mentre de la morte io vado in traccia
prima che ’l cor mi passi empio coltello
vegga la guancia almen del mio fratello?».
85«Ma chi ti mena a volontaria morte?«
Spurio dimanda. «Il necessario amore
(risponde Tito) onde l’iniqua sorte
di Roma mia m’intenerisce il core:
vo per uccider Brenno, e franco e forte
mi sento il petto a riportarne onore.
ma sì felice colpo e sì stupendo
so ch’io non posso dar se non cadendo».
86«Tu per uccider Brenno dunque vai,»
ripiglia Spurio, e grida e vien facondo,
«e per amor di Roma accender mai
potesti in te desir sì furibondo?
Che cagion, che ragion mi porti ed hai
onde levar per lei ti vuoi dal mondo?
Roma dunque non fu che con sì fiera
piaga atterrò la tua progenie altera?».
87«Roma non fu (risponde Tito e freme)
che de la stirpe mia la luce offese,
ma fu colui che con superba speme
a soggiogarla iniquamente intese.
Io non posso negar che dal suo seme
non sian queste mie membra ancor discese,
ma ben vogl’io veracemente aprirti
ch’io nodrì sempre a lui contrari spirti».
88«Tu dunque (Spurio dice) il più famoso
condannar puoi che ’l nostro sangue avesse?
E ’l puoi stimar men giusto o men pietoso
perch’a speranze regie il capo ergesse?
Ah, che traligni e mi fai star dubbioso
se per fratel ti chiami e ti confesse,
e se chi t’ha concetto e partorito
sia stata ognor fedele al tuo marito?».
89«Io son, come sei tu, del cassio sangue,
ma l’alma (dice Tito) ho ben nemica
di chi per la sua patria agghiaccia e langue,
e per se stesso avampa e s’affatica».
«Tu chiudi (segue Spurio) il cor d’un angue
se t’è la stirpe tua sì poco amica,
ma port’io ben gran fregio in su la chioma
che vo per subissar Camillo e Roma».
90«Che dici (Tito esclama), o scelerato?
Tu vuoi Camillo morto e Roma estinta?».
«Sì voglio (Spurio grida), o sciagurato,
c’hai la famiglia mia macchiata e tinta».
«E ’l ferro tingerò nel tuo costato»
soggiunge Tito, e già la spada ha spinta;
«E ’l fianco t’aprirò con questa punta»
risponde Spurio, e già la pelle ha giunta.
91I primi colpi in parte andàr fallaci
ma i secondi furor le vene apriro,
e le cupide punte e pertinaci
del sangue de’ fratelli intepidiro.
L’ire crescean più calde e più vivaci,
davan le piaghe ognor più gran martiro,
le membra in varie parti eran ferite,
le guance in fiera guisa impallidite.
92Ma grida Tito al fin: «Del tuo rubello
io t’offro, o Roma, il sangue» e ripercote;
e ponta Spurio anch’egli il fier coltello,
ed offre a Cassio il cor del suo nepote.
Così trafigge l’un l’altro fratello
e stendon sul terren le membra immote,
ma cade Spurio iniquo e traditore
e Tito grande e glorioso more.
93Sente Brinon tantosto il caso atroce
e prende d’una parte alcun conforto
che spenta in Tito è la virtù feroce
ond’ei vicino è stato ad esser morto,
ma troppo ancor però gli pesa e noce
vedersi tronco il calle iniquo e torto
per cui con fiero colpo ed improviso
sperava di sentir Camillo ucciso.
94Camillo anch’egli il novo caso intende
né gode già la morte aver fuggita,
né doglia nel suo cor riceve o prende
che tolta al re stranier non sia la vita,
ma ben fuor di misura il cor gli offende,
ma gli apre ben nel cor mortal ferita,
ma porta mesto e lagrimoso il ciglio
ch’abbia perduto Roma un sì gran figlio.