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Il Furio Camillo

di Ansaldo Cebà

Canto V

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 25.02.15 13:06

ARGOMENTO
Perché sia dittator Camillo eletto
Cominio sale il Campidoglio e scende,
e poi che dittator Camillo è detto
a ragunar le squadre e l’armi intende;
ma Fulvia gli lusinga il cor nel petto
ed ei fallace il suo pensier le rende,
ond’ella stretta il cor d’atroce pena,
per man di lui s’uccide e s’avvelena.

Cedizio supera gli sbarramenti dei Galli, raggiunge il Campidoglio e ottiene l’investitura di Camillo (1-17)

1Cedizio in tanto a rannodar le genti
che da la rotta d’Allia andàr disperse
raddoppiava, girando, i passi ardenti
e ne traea da region diverse.
Eran gravi i suoi detti ed eloquenti
e di soave mel le voci asperse,
e dispiegavan ognor novi stendardi
e cingea nove spade e novi dardi.

2Quindi d’ardita gente e numerosa
raccolte in varie parti elette schiere,
dove Furio non dorme e non riposa
conduce l’oste in Ardea e le bandiere,
e dell’inclito duce a la famosa
guida rassegna il fante e ’l cavaliere,
e chi fra lor la mente ha più confusa
così davanti a lui difende e scusa:

3«Questi guerrier ch’inanzi a te condotti
si son per la mia man da vari calli,
è ver che vinto appresso il Tebro e rotti
fur da al calca e dal furor de’ Galli,
ma i duci poco esperti e poco dotti
mostraro a lor fallir co i propri falli,
ond’or c’han per te scorta e capitano
prometton salda fronte e cor romano».

4«Tu supplisti, Cedizio, e presta e pronta
(risponde Furio) hai molta gente armata,
ma se nel Campidoglio alcun non monta
non sarà mai da la mia man guidata.
Benché sostenga ogni miseria ed onta
la maestà de’ Padri assediata,
ella però ne l’infortunio estremo
convien che chiami il Dittator supremo».

5«Giusto sei tu (Cedizio allor ripiglia),
Furio Camillo, e ’l nostro ardor correggi,
ma non saria però gran meraviglia
per salvar Roma il trasgredir le leggi».
«Pensa, Cedizio, meglio, e mi consiglia
(risponde Furio) sì che non vaneggi,
fin c’ha la legge a Roma imperio e loco
io non temo de’ Galli il ferro e ’l foco».

6Si leva a questi detti un cavaliero
ch’avea più che la stirpe il cor sublime,
e che di valoroso e gran guerriero
portato avea già lodi in fra le prime;
Cominio era il suo nome e ’l suo pensiero
non invaghìa l’amor che ’l volgo opprime,
e quel che la pietà nel cor gli scrisse
così propose inanzi a Furio e disse:

7«Tu sarai capitan se, come soglio,
sarò felice in quel che tento ed oso.
A me dà ’l cor salir nel Campidoglio
per solitaria parte e calle ascoso.
Ho piè da superar qualunque scoglio
più rapido s’inalzi e più pensoso;
sarò davanti i Padri e dal Senato
farò che dittator sarai chiamato».

8Loda Camillo il generoso e stringe,
che quanto affrettar po s’affretti e vada.
Ei si spoglia l’usbergo e si discinge
l’elmo tantosto e l’onorata spada,
ed entro ad una selva il piè sospinge
dove non manda il suol legume o biada
ma con gli abeti e con le querce e i pini
chiude ruvidamente i suoi confini.

9Quivi con presta e con tagliente scure
un suvero percote, e taglia e sega
la scorza, che notando altrui sicure
rende le membra ove la gente annega.
E di funi l’intreccia erranti e dure
e se la stringe intorno a i fianchi e lega,
e di costanza armato e di coraggio
prende volando a Roma il suo viaggio.

10Giunge sul Tebro e si dispoglia e volge
le vesti al capo et a la fronte intorno,
e si gitta ne l’acque e le travolge,
e rompe e passa in sul finir del giorno.
E dove men s’aggira e si rivolge
e men teme il nemico oltraggio e scorno,
senza sospender corde o levar scale
su la rupe Tarpea s’aggrappa e sale.

11Una man prende il sasso, un piè s’appoggia
e l’altro s’erge et a la man succede,
ed alternando a la medesma foggia
fa l’altra mano appresso e l’altro piede.
E tanto al fin s’avanza e tanto poggia
che ’l muro estremo omai col capo eccede;
corre la guardia ed egli il passo arresta,
e ’l nome e ’l volto suo le manifesta.

12Quindi dinanzi a i Senatori afflitti
dal rigor de la fame il piè conduce,
e dice: «Vengo a voi, Padri coscritti,
per chieder guida a liberarvi e duce.
L’avanzo de’ Roman che fur sconfitti
brama che ’l nome suo ritorni in luce,
e per portarvi cibo e dar vivanda
Camillo a voi per dittator dimanda».

13Miran l’un l’altro i Senatori e prende
gran maraviglia a ciascun d’essi il core,
come de’ Galli in fra le squadre orrende
salito sia l’audace ambasciatore.
Ei tutto narra, e nel Senato accende
verso la sua virtù sì caldo amore
che la lingua ciascun discioglie e snoda
e quanto po lodar ciascuno loda.

14E ’l Tribun militar propone appresso
ciò ch’a lui far del dittator convenga.
Pensano i Padri e quel che chiede il messo
dispongon che da lui tantosto ottenga.
«Camillo adunque il Campidoglio oppresso
dic’egli – a liberar s’affretti e venga.
Io ch’ubidir i Padri intendo e bramo
supremo Dittator di Roma il chiamo».

15Così dice Sulpicio, e ’l rimanente
che si trovò nel Campidoglio allora
col Tribuno e co i padri unitamente
de l’imperio sovran Camillo onora;
e parte ancor di quella stessa gente
che dal terren di Roma il cacciò fuora,
più che la furia a discacciar veloce
ebbe spedita a richiamar la voce.

16Si parte adunque il messaggiero e torna
per la medesma via ch’a venir tenne,
e nol ritien la tema e nol distorna
l’orror ch’avea già vinto allor che venne.
Smuccia col piè del sasso e non soggiorna
e varca il fiume e mette a i piè le penne,
e prima i muri d’Ardea appressa e tocca
ch’altri salito il creda il su la rocca.

17Ma ’l suo salir però tanto segreto
non fu che da la falda ov’egli ascese
passando un giorno un barbaro inquieto,
ch’avea bramoso il cor di nove imprese,
oltre l’usato modo e consueto
non vegga il terren mosso e l’erbe offese,
e da le parti basse a le sovrane
impresso il suol de le vestigie umane.

18Ond’ei comprende assai palese e chiaro
che quindi asceso è ne la rocca alcuno,
per provederla d’arte e di riparo
contro il rigor del ferro e del digiuno.
E pensa ancor fra sé ch’ove poggiaro
i piè romani a l’aer cieco e bruno,
con tutto che aspri ed erti calli,
possan condursi ancora i piè de’ Galli.

I Galli trovano la via usata da Cedizio e cercano di assaltare nottetempo il Campidoglio: sono smascherati dalle papere, che col loro rumore svegliano i difensori (18-29)

19Torna però verso la regia tenda
e ciò che vide al capitan ridice,
e mostra come là si saglia e scenda
e come stia la rupe e la pendice;
e, dove sia chi di seguirlo intenda
nel fosco d’una notte, afferma e dice
che la schiera de’ Padri oppressa e vinta,
presa la rocca e darà Roma estinta.

20Loda il barbaro re l’impresa audace
e «Poscia che ’l nemico a noi dimostra
come rendiamo il suo sperar fallace
facciam (soggiunge) e noi la parte nostra.
Egli n’ha messa inanzi una gran face
per far del valor nostro intera mostra,
miriamo in essa e con la sua dottrina
portiamo a noi vittoria, a lui ruina».

21Così dicendo al coraggioso Ergondo,
che gli ha scoperto a la salita il passo,
sceglie color ne popol suo fecondo
c’han le membra men gravi e ’l cor men basso.
Mov’ei con questi, e giunge al più profondo
di quella notte ove si leva il sasso,
per cui da vari segni avea compreso
che fosse un uom nel Campidoglio asceso.

22Quivi salendo il primo, a gli altri insegna
come la mano e ’l piè s’appigli ed erga,
e mostra come questo a quel sovegna
col capo a sostentarlo e con le terga.
L’un l’altro incalza e non s’adonta o sdegna
perché ’l piede di polve il crin gli asperga,
e tanto l’un de l’altro il capo estolle
che tutti al fin son giunti in cima al colle.

23Non senza mormorio la gente arriva
del Campidoglio in su le mura estreme,
ma la guardia, che fiso allor dormiva,
fa che senza periglio arriva e freme.
Spinge però con brama ardente e viva
se stesso Ergondo a la sua squadra insieme,
e là dove sguernito il muro apprende
per avventarsi il ferro e ’l piè sospende.

24Ma se dormìr color che la frontiera
dovean guardar de’ muri a lor commessi,
vegghiò per lor di paperi una schiera
e custodì la rocca in vece d’essi.
Questi, sentendo il suon de la guerriera
squadra, levàr sì forti gridi e spessi
ch’a riparar le mura immantenente
fu presto un cavalier con molta gente.

25Uscìa costui de la progenie antica
che diede i Manli a la città di Roma,
e con la spada in campo e la lorica
avea già molta gente oppressa e doma.
Regger sapea con lode a gran fatica
e sostentar con l’arme ogni gran soma;
avea feroce l’alma e ’l cor costante
e le membra d’atleta e di gigante.

26Costui del duce gallo il piede arresta
e d’una fier a punta il cor gli passa;
cade il misero in dietro e con la testa
scende a toccar la rupe estrema e bassa.
Porta ne gli altri Manlio egual tempesta
e scudi rompe ed elmi apre e fracassa,
e tutti al fin tra morti e tra feriti
rimanda al piè del sasso i Galli arditi.

27Il Tribun si risveglia e corre al loco
dov’era corso Manlio al gran periglio;
surgon le guardie ed han nel viso il foco
ch’abbatte per vergogna in terra il ciglio;
freme Sulpicio e breve spazio e poco
ragiona intorno al caso o tien consiglio,
ma fa che chi dormì senz’intervallo
discenda là dond’era asceso il Gallo.

28Quindi si volge a Manlio e la salute
da lui conosce ond’è la rocca in piede,
e loda quasi a par la sua virtute
di chi la vita e ’l nome a Roma diede.
Né le lingue de gli altri a dir son mute,
né son scarse le mani a dar mercede,
né son fredde con lui l’offerte o vane,
né si cura morir per dargli il pane.

29Oh che raggi di gloria a i primi tempi
de la virtù romana il sol non sparse!
Oh con che novi e con che rari essempi
maravigliosa e grande allor comparse!
Crudeli i Padri in se medesmi ed empi,
fiera la plebe oltre misura apparse,
mentre ciascun di fame omai moriva
e ’l proprio pan ciascuno a Manlio offriva.

Camillo riceve l’investitura, predispone l’esercito per la partenza (30-34)

30Ma presente avea Cominio in tanto
il decreto de’ Padri in Ardea, e detto
con che lode Camillo e con che vanto
avean per Dittator di Roma eletto;
ond’ei con generoso e nobil pianto,
palesando l’amor ch’avea nel petto,
«Vedrà (dice) la patria aperto segno
se con l’ingiuria sua mi mosse a sdegno».

31Scende poi ne le squadre e de’ guerrieri
dimanda i nomi e chiede l’arme e mira,
e i fanti riconosce e i cavalieri
e tutta l’oste sua circonda e gira.
Inchinan l’alto duce i condottieri
e ’l nobil Dittator la turba ammira,
ed egli assiso in sedia imperatrice
così le legion riscalda e dice:

32«La patria, o valorosi, in su l’estremo
sotto i barbari ferri è giunta omai,
e la sua gloria e ’l suo splendor supremo
ha smarrita la luce e spenti i rai;
ma noi però le spade e l’aste avemo
per liberarla ancor d’angosce e guai;
risvegliam dunque i nostri ardor nativi,
Roma non po morir se noi siam vivi».

33«E Roma viverà,» da varie voci
sì grida unitamente e si risponde,
«ed avrem le man pronte e i piè veloci
perché tu cinga il crin di nova fronde,
e sprezzerem de’ Galli i colpi atroci
per racquistar l’onor perduto altronde,
e domerem di Brenno il fiero orgoglio
perché sian salvi i Padri e ’l Campidoglio».

34Doge Camillo, e chiama insieme e manda
chi cerchi aiuti ancor girando intorno,
e di carri e d’arnesi e di vivanda
provvegga per viaggio e per soggiorno.
Quindi a i Legati et a i Tribun comanda
che stringan tutta l’oste a certo giorno,
ch’ei pensa dopo i voti e le rassegne
mover le squadre e dispiegar l’insegne.

Prima di partire si reca al convito di Fulvia: lei cerca di sedurlo ma lui la rifiuta, al che la donna si uccide (35-93)

35Ma l’infelice Fulvia, a cui nel core
l’amorosa facella in tanto ardea,
poi c’ha sentito il dì che ’l Dittatore
determinato a la partenza avea,
gli manda un paggio allor che ’l primo albore
da l’estremo Oriente in ciel parea,
e ciò ch’a le i davanti avea promesso
l’invita ad osservar quel giorno istesso.

36Teme Camillo e trema, e pur si mette
per attener quel che promise in via,
e s’arma contro i dardi e le saette
ch’antivedute in qualche parte ha pria.
Volge fra sé le stragi e le vendette
ch’a far per la sua patria il cor l’invia,
e dove sente il suo rigor men fermo
s’appresta a riparar con questo schermo.

37Giunge colà dove romita e sola
s’inalza e stende una gran selva ombrosa,
che nel suo grembo un bel palagio invola
e nel suo giro ha gran famiglia ascosa.
Qualunque augel per essa annida e vola
c’ha più chiara la stirpe e più famosa,
e qualunque animal vi scorre ed erra
ch’avviluppa la rete o ’l cane afferra.

38Quivi sorge la quercia annosa e dura
e si leva l’abete e drizza il faggio,
e ’l pin s’avolge intorno a l’alte mura
e cresce l’olmo in sul terren selvaggio.
Le piante fra le stesse han tal misura
che non fa l’una a l’altra alcun oltraggio,
e benché torte e dritte e folte e rare
spunta ciascuna in ogni parte e pare.

39Con esse da man dritta e da man manca
un bel sentier si stende e si dilata,
che con soverchio affanno il piè non stanca
per giunger del palagio in su l’entrata.
Quivi raro la nevi i rami imbianca
o di frondi la terra è seminata,
ma ’l furor d’Aquilon languisce e perde
e l’onor de le piante è sempre verde.

40Tra queste vien Camillo a l’aurea porta
del ricco albergo, e su per l’ampie scale,
dietro a colui che gli mandò per scorta
la bella donna, il piè sospende e sale.
Ma poco inanzi va che Fulvia, accorta
del suo venir, star salda omai non vale,
e benché troppo fosse ancor lontano
si move incontro al Dittator romano.

41Egli s’affretta e le compar davanti
prima che giunga a i primi gradi e scenda,
ella comincia a variar sembianti
prima che ’l volto o la parola intenda.
Serva Camillo i suoi pensier costanti,
discioglie Fulvia a’ suoi desir la benda;
saluta l’uno et ha al lingua audace,
s’inchina l’altra e si confonde e tace.

42E vengono amendue dove dipinta
splendida sala a mirar gli occhi invita,
e poco men che soperchiata e vinta
è la natura in lei da l’arte ardita.
Quivi de le tre dee la rissa è finta
che con la faccia ardente e colorita
il giudice, che pensa e non favella,
stringon che dia voce a la più bella.

43A l’atto de la man par che prometta
la lingua di Giunon tesori immensi,
e Pallade la gloria e la vendetta
contro gli stuoli impetuosi e densi.
Venere ride, e dolcemente alletta
con le delizie onde son vaghi i sensi,
e tutto ciò ch’a tutte il petto ingombra
manifesta un pennel col lume e l’ombra.

44Tien gli occhi il Dittator ne le figure
e commenda l’ingegno e loda l’arte,
ma da mirar l’istorie e le pitture
co’ suoi vivi color la donna il parte.
Tenea le voglie sue costanti e dure
il buon Camillo in tra i confin di Marte,
ma non poté mirar con gran rigore
ne’ begli occhi di Fulvia impresso Amore.

45Amor ne gli occhi avea la sventurata
e su le guance apria la rosa e ’l latte,
e l’amorosa chioma era dorata,
e le labbra di porpora avea fatte,
e la bocca parea di perle ornata,
e la gola coprian le nevi intatte,
e par che colto a tutte l’altre il tergo
avesser solo in lei le Grazie albergo.

46Le trecce con le perle eran confuse
nel modo cha mirarle è più gradito;
le membra ne le vesti eran rinchiuse
che l’oro con la seta han meglio ordito;
le gemme su le falde eran diffuse
dove più bella è l’apparenza e ’l sito,
ma non avea già tanti fregi o tali
ch’aprisser lumi al suo bel viso eguali.

47Così leggiadra adunque e così vaga
rimpetto al capitan Fulvia s’asside,
e gli occhi di mirarlo in prima appaga
e de la lingua poscia il nodo incide.
Ver è che, quasi del suo mal presaga,
sospira più che non favella o ride,
e con voce interrotta e con tremante
mostra c’ha ’l cor ferito e l’alma amante.

48Se n’avvede Camillo e s’apparecchia
a sostener gran guerra e gran battaglia.
Ella per l’occhio insieme e per l’orecchia
mill’amorosi dardi avventa e scaglia.
S’inganna l’infelice e non si specchia
per veder quel ch’amando in lei prevaglia;
la virtù che non mira amar si crede,
et ama quel che sente e quel che vede.

49Prende cagion dal pastorel troiano
che figurato l’arte avea sul muro,
e di lui chiede al capitan romano
s’ebbe l’ingegno a giudicar maturo.
«L’ebbe fallace oltre misura e vano»
risponde il Dittator costante e duro,
«mentre per conquistar prede amorose
sdegnò Tritonia e Citerea prepose».

50«E non è (dice Fulvia – una gran dea
quella che tanti amor ne’ petti accende?».
«E non è (segue Furio – iniqua e rea
quella che con gli amor tant’alme offende?».
«Ma come offeso è quei da Citerea
che per amore amor commuta e rende?».
«Ma come chi seconda i suoi motivi
non macchia l’alma al fin d’amor lascivi?».

51Così ripiglia Fulvia e le risponde
con fermo viso il capitan severo,
ond’ella si vergogna e si confonde
né discoprir s’attenta il suo pensiero.
Prende però nove cagioni altronde
per ammollirgli in parte il cor guerriero,
e distillando il mel de le parole
gli mette ancor davanti Alcide e Iole.

52Ode Camillo alcuna volta e dice,
ma sente ancora assai sovente e tace,
e da l’insidiosa invitatrice
rivolge in altra parte il cor fugace.
Ella, che ’l primo ardir poco felice
vede al destar de l’amorosa face,
tanto però non si sgomenta o teme
che perda del secondo ancor la speme.

53Ed ecco in fronte a la superba sala
aprirsi un’alta e spaziosa porta,
che senza scender grado o salir scala
d’improviso giardin la vista apporta.
L’odor che d’esso in ogni parte essala
assalisce le nari e ’l cor conforta,
e lo scalco che trincia e che dispensa
dice che fuma il cibo in su la mensa.

54Si leva Fulvia e ’l valoroso duce,
tra l’erbe verdi e tra i purpurei fiori,
sotto una tenda a mano a man conduce
c’ha la testa di mirti e ’l piè d’allori.
Quivi penetra il sol con la sua luce
ma sta lontan co i rigorosi ardori,
né stride in essa il vento acerbo e grave,
ma soffia l’aura dolce e la soave.

55Intorno al padiglion di varie frondi
compar vestita or una or altra pianta,
che di nobili frutti e di fecondi
aggrava insieme i rami e ’l suolo ammanta.
I primi son maturi et i secondi
acerbi, e tutti in sì gran copia e tanta
che più d’un calle aperto a lor si lassa
perché ne goda alcun che vede e passa.

56Quinci spunta la rosa e la viola
e quindi s’apre il gelsomino e ’l giglio,
e copre il bel terren di varia stola
l’azzurro, il giallo, il bianco e ’l fior vermiglio.
L’augel di ramo in ramo ascende e vola
e forma in varie voci il suo bisbiglio;
ed ei col canto ed il terren col fiore
empion soavemente il ciel d’amore.

57Corre a piè de la tenda un fresco rivo
che mantien molle ognor l’erbetta e verde,
ed ha nel sen sì chiaro argento e vivo
ch’ogni cristallo a lui s’inchina e perde.
La fronda che languisce al sole estivo
col suo licor si drizza e si rinverde,
e l’acqua che dal ciel s’inalza e cresce
non fa ch’asconda mai la ghiaia o ’l pesce.

58Ma dentro al padiglion, d’elette e care
vivande oppressa orrevolmente e carca,
una splendida mensa a gli occhi appare,
che con novo stupor le ciglia inarca.
Quivi l’aria, la terra, il fiume e ’l mare
quant’ha di pellegrin depone e scarca,
e la biada più degna il pane abbonda
***

59Siede Camillo ove la donna impone
ed ella ove risponde il viso al viso,
l’un distende la man nel cibo e pone
e l’altra ha l’occhio in lui rivolto e fiso.
«Che fai (dice Camillo) e che cagione
sì nova hai tu di rimirarmi in viso?
Che cibo il volto mio presenta e spande,
che cangi con le sue le tue vivande?».

60«Un cibo ritrov’io sì dolce e caro
(risponde Fulvia) a rimirarti in volto,
ch’ogn’altro inanzi a lui mi sembra amaro,
e da la stessa ambrosia ho ’l cor distolto.
È ver che gli occhi miei ti rimiraro
già molte volte avidamente il volto,
ma troppo è pellegrino e troppo novo
quel che da sola a solo in te ritrovo».

61Ciò detto, il viso abbassa e di più viva
porpora vergognando il copre e tinge,
e la brama e la fiamma onde bolliva
qualche stilla da gli occhi ancor le spinge.
Sente il duce roman ch’ella languiva
d’amor per lui, ma di sentir s’infinge,
e s’arma a contrastar più che non suole,
e cangia e varia i detti e le parole.

62La misera si strugge e si dispera
che quel che scopre il Dittator non senta,
ed ei, con fronte rigida e severa,
di più scoprir la frena e la sgomenta.
L’alma però non ha sì forte o fiera
contra lo stral ch’ella piangendo avventa,
che, se nol punge amor co i rai de gli occhi,
con le lagrime almen pietà nol tocchi.

63Con queta adunque, ancor che saldo e grave
si mostri ognor ne le sembianze e gli atti,
per modo più che po dolce e soave
loda gli onor ch’a lui la donna ha fatti,
e vuol che d’ogni peso il cor sì grave
e più lieta con lui ragioni e tratti,
e mangi anch’ella e scherzi e rida e canti
e sommerga nel vin le doglie e i pianti.

64Stende la dita Fulvia al cibo allora,
e gli occhi, quanto po, compone al riso,
e le stille del pianto asciuga ancora
e finge d’ogni cura il cor diviso,
e di musica turba e di sonora
fa che percota il ciel canto improviso,
e tenta se po far con l’armonia
l’alma del Dittator più dolce e pia.

65Ma poi che l’uno e l’altra il cibo han preso
che temperato ardor tantosto appaga,
«Sgravato ho (dice Fulvia) in parte il peso
che mi rende talor di pianger vaga.
Ho mangiato, ho bevuto et ho difeso
che comparisca il duol che ’l cor m’impiaga,
resta che tocchi anch’io le corde alquanto
e col cibo e col vin congiunga il canto».

66Così dicendo una dorata cetra
prend’ella ancor soavemente in mano,
e col suon che più dolce il cor penetra
tocca l’orecchie al Dittator romano:
«Ben ebbe l’alma, o capitan, di pietra
e fuor d’ogni misura il cor villano
chi tanto iniquamente in te peccando
ti strinse andar de la tua patria in bando.

67Non era questa già la grazia e ’l merto
che la città di Roma a te dovea,
quando sconfitti il Dittator Tuderto
con la tua sola spada i Volsci avea,
né quel che poi da te fatto e sofferto
in tant’altre battaglie ancor sapea
contra virtù sì grande e sì pregiata
la dovea far sì cruda e sì spietata.

68Ma quando rammentar d’ogn’altra impresa
potuta non si fosse, a la veiente
città, da la tua man distrutta e presa,
potea pur fissa almen tener la mente.
E potea rimembrar che la contesa
ove perdé tant’anni e tanta gente,
tu sol con l’armi e l’arti tue divine
recata avevi in un momento a fine.

69È ver che per sì chiara e sì gran prova
scegliesti al carro tuo quattro destrieri
che soverchiata avrian la neve a prova
quando biancheggia più su i colli alteri,
ma se nel trionfar con forma nova
parver celesti a Roma i tuoi pensieri,
sì nova fu la tua vittoria e strana
che non chiedea splendor di pompa e umana.

70Chiedea ben ella, o capitan famoso,
che poiché fu da lei sì mal gradita
tu contrastando il re vittorioso
non le tornassi a dar riparo e vita,
né ti stringea la legge, onde pietoso
la patria il cittadin col sangue aita,
perché la patria tua fu sì maligna
che diventò di madre a te madrigna».

71«Ah che dicesti, Fulvia! Ancor che dura
la patria fosse a me (prorompe il duce)
la legge a sollevarla e la natura
mi stringe espressamente e mi conduce,
né comparrebbe mai ne la futura
gente del nome mio memoria o luce
se da cieco furor guidato e scorto
renduto avessi torto a lei per torto».

72«Ma torto rendi a me» né po tenersi
l’ardente donna allor che non esclami,
«c’ho gli occhi per tu’ amor di pianto aspersi
e tu partir da me t’affretti e brami.
Ma tu non vuoi sentir quel ch’io soffersi
poiché mi strinser l’alma i tuoi legami,
e per chi ti cacciò con tal rigore
tu lasci chi per te languisce e more.

73Io moro, o Dittator, se tu ti parti,
e del tuo caro cibo il cor mi privi,
né posso mantener, senza mirarti,
gli spirti che dan vita in me più vivi.
Io moro, imperador, per troppo amarti,
e tu mi sdegni, lassa, e tu mi schivi.
Io bramo, o duca, averti ognor davante
e tu mi togli il tuo gentil sembiante.

74La faccia che tu mostri è ’l mio tesoro,
e senza lei son misera e mendica;
la lingua che disciogli è ’l mio ristoro,
e senza lei respiro a gran fatica;
il nume che presenti è quel ch’adoro,
che vuoi che più ti scopra e più ti dica?
Se tu ti parti la mia vita è corta,
se tu mi lasci io son distrutta e morta».

75Appresso queste voci un gran torrente
versa da gli occhi amaramente in seno,
e di pallida nube e di dolente
copre de la sua guancia il bel sereno.
Sta saldo il Dittator, ma sì potente
non è però che non sospiri almeno,
e che, s’indura i rigorosi affetti,
non ammollisca almen la voce e i detti.

76«Non son sì fiero, Fulvia o sì spietato
ch’al tuo dolor non mi tormenti e doglia,
né petto avrò giamai cotanto ingrato
che non debba far mia de la tua voglia.
È ver che m’ha la patria mia chiamato
perché di servitù la scampi e toglia,
ma se m’ha nel tuo petto Amor scolpito
tu non potrai pensar ch’io sia partito.

77Attienti, o donna, a l’amorosa imago
che de la guancia mia ti resta impressa,
e rendi il tuo desir contento e pago
mirando in lei la mia sembianza espressa.
Io so che non hai cor bramoso e vago
di gioia men pudica e men concessa,
pasci però, dovunq’io vada e stia,
la mente tua con la memoria mia.

78Sarò con l’oste incontanente a Roma
e tenterò col senno e con la spada
che, superata al fin la Gallia e doma,
sotto la desta mia trabocchi e cada;
e s’avverrà però che con la chioma
cinta di lauro in Campidoglio vada,
io stimerò trionfo assai maggiore
l’averti del mi’ amor ferito il core».

79«Ma tu me l’hai ferito, o duca, in guisa
(ripiglia Fulvia allor) che s’allontani
da me la faccia tua, d’avermi uccisa
potrai contar fra i pregi tuoi sovrani.
Cotesta guancia tua, nol nego, incisa
m’ha ne la mente Amor con le sue mani,
ma ’l morto viso, lassa, è quel motivo
che mi fa desïar più forte il vivo».

80«Il vivo aver non puoi, ché troppo stringe
(risponde il Dittator) chi seco il tira».
«Ma posso ben morir se non mi cinge
l’aria (dic’ella) onde ’l mio cor respira».
«La pietà del tuo mal mi muove e spinge
(segue Camillo) e mi travolge e gira.
Ma mentre Fulvia punge e Roma assale
la pietà de la patria al fin prevale».

81«Prevaglia adunque, e m’abbandona e lassa
(dice la donna), e corri e vola e vinci;
ma se la mia miseria il cor ti passa
provedi a me pria ch’a morir cominci.
Io sento l’alma mia sì vinta e lassa
mentr’ella mi tragitta or quindi or quinci
che se la tua pietà non mi rinfranca
la luce m’abbandona e ’l piè mi manca.

82Un licor mi donò de le più chiuse
virtù de l’erbe un segretario esperto,
di cui per entro il vin due stille infuse
al cor ferito è gran rimedio e certo.
Ver è però che per cagioni astruse
convien che sia da quella mano offerto
onde colui che ne ricerca aita
ha ricevuto il colpo e la ferita.

83Se dunque mi vuoi viva, andar per esso
or mi consenti, acciò mel porghi e doni,
tu ch’a periglio e precipizio espresso
la vita mia col tuo partir mi poni».
«Va’ (dice Furio), e poich’a me concesso
non è sanarti il cor con le ragioni,
son presto a darti ancora i sughi e l’erbe
onde la vita a te si guardi e serbe».

84Si leva Fulvia, e va repente e viene
con un’ampolla; il Dittator la prende
e versa e mesce il vin come conviene
e la man con la coppa a lei distende.
Essa la vòta, e manda entro le vene
le stille onde sanarla il duca intende,
ma ’l bicchier da le labbra a pena ha tolto
ch’improviso pallor le copre il volto.

85E le treman le membra insieme e piega
e cade il capo or d’una or d’altra parte,
e le funeste insegne al fin dispiega
onde l’alma dal cor si scioglie e parte.
Se n’accorge Camillo e grida e prega
che gli dia di scamparla il modo e l’arte,
e la misera ch’ama e more insieme
risponde a lui queste parole estreme:

86«L’arte già di scamparmi io ti mostrai,
e perché la stimasti iniqua e torta
t’ho data l’arte ancora onde vedrai
cadermi a’ piedi tuoi gelata e morta.
Qualch’opra tua, per gloria mia, bramai
che fosse in me raffigurata e scorta,
e poiché chiesi a te la vita in vano
la morte volli almen da la tua mano.

87L’albergo che ti diedi, illustre e chiara,
non potea tanto in fra la gente alzarmi,
quanto maravigliosa al mondo e rara
la morte che mi dai potrà mostrarmi.
Va’ pur felice, e s’una dolce e cara
mercé nel caso estremo ancor vuoi farmi,
una lagrima almen cortese e pia
consoli al tuo partir la morte mia».

88Ma chiede l’infelice e s’abbandona
nel tempo stesso, e cade in terra estinta,
né si sente stillar su la persona
la pioggia del roman per gli occhi spinta.
Altra mercede il Dittator le dona
che’ella non s’era imaginata o finta:
una lagrima chiese, ed ei repente
le ne satolla il sen con un torrente.

89Né fu sì larga già né sì dogliosa
la fronte che l’arcier da gli occhi sparse,
quando la moglie in un cespuglio ascosa
morta da lui per una fiera apparse,
come grande fu l’onda et angosciosa
che su la guancia al Dittator comparse,
quando in sì nova e miserabil guisa
s’avvide aver la bella donna uccisa.

90«Ah Camillo (proruppe) è questo il vanto
che ritornando a Roma al fin tu porti?
Ucciso hai Fulvia, onde la voce e ’l canto
avria potuto dar la vita a i morti.
Morto hai colei che ti pregiò cotanto
ch’annoverar poté fra le sue sorti,
poiché ti vide volti a Roma i passi
che tu con la tua man l’avvelenassi.

91Fu grande, o generosa, e fu sovrana
la stima che di me facesti ognora,
fu rigorosa oltre misura e strana
la pena che per me prendesti ancora.
So che disdice a la virtù romana
il mandar pianto mai per gli occhi fuora,
ma fin che non mi sia lo spirto tolto
avrò sempre per te bagnato il volto».

92Così si duol Camillo e si lamenta,
ma provede però che ’l corpo estinto
si seppelisca insieme e non si senta
la cagion vera ond’a morir fu spinto.
Infinito è ’l dolor che lo tormenta,
gravi le pene ond’è sommerso e vinto,
ma fra le pene e fra l’angosce estreme
la servitù di Roma il punge e preme.

93Torna però dove s’aduna e stringe
sotto gl’imperi suoi la gente armata,
ma mentre intorno a lei s’aggira e spinge
gli sta dinanzi ognor l’avvelenata.
Oh che non persuade e non costringe
la pietà de la patria ancor ch’ingrata!
Per Roma uccise Fulvia il Dittatore,
e di sudar per Roma ha spirto e core.