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Il Furio Camillo

di Ansaldo Cebà

Canto VI

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 25.02.15 14:03

ARGOMENTO
Uscir di Roma Brenno al fin dispone,
d’una gran soma d’oro oppresso e carco.
Rassegna Furio l’oste a la tenzone
e trova duro a tragittarla il varco;
ma pur s’avanza e giunge, e di Brinone
reprime il fiero ed orgoglioso incarco,
e con la destra sua felice e forte
sconfigge i Galli e mette il duce a morte.

I Romani decidono di pagare Brenno perché interrompa l’assedio (1-14)

1Or mentre d’Ardea in su le porte ardea
il furor de le squadre e de’ soldati,
la fame a Roma in su l’estremo avea
i Romani et i Galli omai recati;
e questi, a la sua furia atroce e rea
i pertinaci orgogli avean piegati,
e quei, quantunque ognor saldi e costanti,
già si vedean però la morte avanti.

2Fu non di men fra lor tanto coraggio
che ’l pan ch’a lor falliva altrui gittaro,
e per significar ch’avean vantaggio
sul capo de’ nemici il traboccaro.
Quindi parlò di pace alcun più saggio,
e ’l suo parlar fu sì gradito e caro
che i Galli incontanente et i Romani
mandàr per divisarla i capitani.

3Scende Sulpicio, il militar Tribuno,
che fra i Padri di Roma ha ’l primo loco,
e se ben macerato è dal digiuno
vibra da gli occhi in generoso foco.
Incontro a lui, con fiero volto e bruno,
s’avanza il re de’ Galli a poco a poco,
e com’han da vicin fermato il piede
il re dimanda al senator che chiede.

4«Io chieggo (rispond’ei) che tu ti parta
da la città di Roma». «Ed io son presto
(dice Brinon), ma vo’ che tu comparta
tant’oro a me quanto mi sembra onesto».
«Cotanta gente adunque hai spenta e sparta
(segue ’l Tribun) né stai contento a questo?».
«Io sarei (dice il fiero re) contento
se tutto il nome vostro avessi spento».

5«Cotesta brama già non empierai
(Sulpicio disdegnando allor risponde),
ma l’oro che tu vuoi da Roma avrai,
perch’ella i suoi tesor ricerca altronde».
Quindi ne chiede il re più peso assai
ch’egli non sa come trovargli o donde,
ma, tutto che con pena e con cordoglio,
promette darlo e torna in Campidoglio.

6Quivi chiamando i Padri a lor propone
ciò che col re de’ Galli ha stabilito,
e chiede da che tempio o che magione
possa il promesso peso esser supplito.
Altri mostra le statue e le corone
onde ’l tempio di Giove era guernito,
ed altri, a cui sì fiero ardir non piace,
e non sa che recar, sospira e tace.

7Ma le nobili dame e generose
che si trovàr nel Campidoglio allora,
non così tosto udìr ciò che propose
Sulpicio che tra lor parlaro ancora,
e di belle matrone e valorose
una squadra s’armò senza dimora,
ch’ove mancava a i Padri ogni ricorso
entrò subitamente a dar soccorso.

8E come scintillar l’onda marina
fa Cinzia allor che più lucente e bella
su i campi d’Amfitrite i raggi inchina
e caccia l’ombra in questa parte e quella,
così la schiera eletta e pellegrina
di cui sembra ogni volto una facella,
la nube ch’al Senato i lumi adombra
con sproveduti rai dissolve e sgombra.

9Priscilla, che di stirpe antica e chiara
tien sovra l’altre dame i primi onori,
e che con la beltà suprema e rara
ferisce più che ciascun’altra i cori,
«Non è,» comincia «o Padri, a noi sì cara
la pompa che traiam di gemme e d’ori
che più per adornar la nostra faccia
la libertà di Roma a noi non piaccia.

10Per questa fulminar con l’asta in mano,
poiché non si concede al nostro sesso,
perché si parta il re superbo e strano
noi suppliam l’or ch’avete a lui promesso.
Viva ’l Senato e ’l popolo romano
e torni ’n piede il nostro imperio oppresso,
e sol che franche sian le nostre genti
gittin le dame i fregi e gli ornamenti».

11Così costei dicendo un gran monile,
ond’avea cinto orrevolmente il collo,
pur come fosse un basso arnese vile
scote a piè del Tribun con nobil crollo.
Secondan l’altre il suo pensier virile
perché sia Roma franca e ’l re satollo,
e quasi rotta fosse un’aurea vena
di splendido torrente il suol balena.

12L’una prima che l’altra offrir s’ingegna
quel che rapisce a se medesma e toglie,
e la più nobil sempre e la più degna
più prodiga a donar la man discioglie.
Non è tra lor chi si riserbi e tegna,
non è chi non si privi e non si spoglie,
ed ha ciascuna d’esse il cor sì grande
che le gemme con l’or confonde e spande.

13Il Senato stupisce, e grazie e lodi
a la schiera gentil raddoppia e rende,
e tra l’altre mercedi e gli altri modi
onde bramoso ad onorarla intende,
vuol che si pianga a la sua morte e lodi
qualunque dama o fra pudiche bende
la propria casa, o ne’ comun perigli
la patria avanzerà co’ suoi consigli.

14Quindi Sulpicio a la misura e ’l peso
riduce l’or da le matrone offerto,
che, benché prima avesse al re conteso,
pur di prometter poscia avea sofferto,
e, di nobile fiamma in volto acceso,
«Noi riceviam (dic’egli) oltraggio aperto,
ma forse non andran lunghi intervalli
che pagheran per l’oro il sangue i Galli».

Camillo inanimisce i suoi uomini, punisce con la pena capitale un soldato che si offriva di combattere per dargli la corona (15-23)

15Da l’altra parte una campagna immensa
sceglie Camillo, e in alta sede assiso
ordina l’aste e i gradi in lei dispensa
e tutti chiama e tutti guarda in viso.
A chi promette premio e ricompensa
et a chi rasserena il cor col riso;
sostenta la virtù che cade o langue,
e riscalda l’età c’ha freddo il sangue.

16Passa dinanzi a lui la squadra afflitta
che combattendo al fiume d’Allia intorno
fu dal barbaro re sparsa e sconfitta
né stette a l’un né resse a l’altro corno.
La fronte per vergogna in terra ha fitta
e par ch’odi la luce e fugga il giorno,
ma mostra ben quant’è bramosa e pronta
tòrsi dal voto il vituperio e l’onta.

17«Coraggio (dice il Dittator), commune
ben sappian noi che ne le zuffe è Marte,
e che de i capitan l’arti importune
han nel turbar de l’osti ancor gran parte.
Son diverse le sorti e le fortune
quando del guerreggiar diversa è l’arte,
e l’arte onde Camillo in voi si noma
non fe’, cred’io, giamai vergogna a Roma».

18«Né noi (risponde unitamente e grida
tutto lo stuol) vergogna a te faremo,
e mentre che sarai la nostra guida
combatterem fin al sospiro estremo».
«Et io la spada mia tagliente e fida
per farti a Roma imperador supremo
rivolgerò (prorompe un capitano)
contro ’l Senato e ’l popolo romano».

19Trema Camillo al suon di questa voce
e vuol che sia la prima e la sezzaia,
e chiama e cita il capitan feroce
e fa spedir le verghe e la mannaia.
Stordisce il reo che la sentenza atroce
sente quasi intonar pria che compaia,
stringe Camillo e rimprocciando il fallo
«Sei tu Roman (gli dice), Elvezio o Gallo?».

20«Son più Roman (risponde il delinquente)
che quei che te di Roma allor cacciaro,
che tu più generoso e più fervente
rendevi il nome lor famoso e chiaro».
«E se la plebe o i Padri ingiustamente
(segue Camillo) incontro a me s’armaro,
ti par però giusta vendetta o pia
ch’io m’armi a soggiogar la patria mia?

21Non fu romana già questa parola,
e tu, che la dicesti, in fra Romani
non vo’ che possi aprir dottrina e scola
ond’altri chiami a Roma i re sovrani;
che tra noi regga una persona sola
son pensier troppo novi e troppo strani,
e che viva colui che gli ebbe in core
non saria spirto mai da dittatore».

22Ciò detto accenna, e ’l manigoldo afferra
l’infelice nel collo e spada e scudo
gli strappa, e l’elmo e la corazza in terra
gli gitta, e disarmato il mostra e nudo;
e prima con le verghe in lui si sferra
e batte e straccia infellonito e crudo,
e poscia con la scure un più robusto
colpo solleva e toglie il capo al busto.

23Rigida parve al primo aspetto e dura
del misero guerrier la pena atroce,
ma la ragion prevalse a la natura
e tutti la lodàr con piena voce.
«Io mi reco, o soldati, a gran sciagura
(disse Camillo) il diventar feroce,
ma quand’odo parlar di regio impero
non posso esser roman se non son fiero».

Passa in rassegna l’oste (24-36)

24Succede in tanto a la rassegna il Tosco
che, benché da i Roman confuso e vinto,
ha però raddolcito in parte il tosco
mentr’egli ancor da i Galli intorno è cinto.
De’ più gran cerri ha dispogliato il bosco
e ponderose lance in ciel sospinto,
e per coprir di ferro il petto e ’l crine
ha stancate l’incudi e le fucine.

25Dispiega poscia a l’aria una bandiera
che finge i muri e le magion troiane,
col cor superbo e con la fronte altera
l’audace stuol de le reliquie albane,
e veste e porta l’arme a la maniera
che le portò più degne e più sovrane
il fior di Troia allor ch’al Xanto in riva
discese a contrastar la furia argiva.

26Da le ceneri d’Ilio ancor rimaso
vivo si gonfia oltre misura e vanta,
né d’Alba il duro e doloroso occaso
gli ha la superbia ancor confusa o franta.
Risiede là dove ’l tragitta il caso
e nove mura ognor solleva e spianta,
amor con Roma mai nol lega o giunge,
ma ’l periglio comun per essa il punge.

27Appresso a lui, feroce e spaventosa,
s’avanza de’ Sabin la gente eletta,
che benché ridondante e numerosa
sta però folta a maraviglia e stretta.
Tien molta forza in poco spazio ascosa
e quasi un corpo sol la vista alletta;
orso o leon ch’ad assalir s’accinge
con tanto orror non si raccoglie e stringe.

28Questo costume, onde le schiere orrende
l’orgoglioso Sabin condensa e lega,
da l’antico spartan conserva e prende
che de la gente sua per tronco allega.
Con questo rompe in fiera guisa e fende
le squadre opposte, e non vacilla o piega,
se ben sì forte ognor non le percosse
che tributario a Roma anch’ei non fosse.

29Segue del Lazio poi confusa e mista,
ma però scelta ancor, molt’altra gente,
e vigoroso ognun si scopre in vista
e ciascun sembra a la battaglia ardente.
Ma lode sopra tutti e grazia acquista
lo stuol che comparisce ultimamente,
e che volando anch’ei per lunghi calli
vien per soccorrer Roma incontro i Galli.

30I volti di costor riarsi e neri
mostran che ’l sol gli tocca e le tempeste,
e ’l maneggiar de l’aste e de’ brocchieri
che l’arti militari han pronte e preste.
Non splendon d’auree penne i lor cimieri,
né fascia l’armi lor purpurea veste,
ma quel ch’in essi appar lucente e chiaro
è de le nude piastre il solo acciaro.

31Giunge la squadra ove s’inalza e siede
il capitan, ch’elegge e che rifiuta,
e colui che la guida arresta il piede,
e riverente il Dittator saluta.
Piega Camillo anch’egli il capo e chiede
dond’è la nova gente a lui venuta,
e quei, che troppo più le man faconde
che la lingua non ha, così risponde:

32«Beltram mi domand’io, le rupi alpestre
del ligustico suol son le nutrici,
che col suo cibo e col suo pan silvestre
fomentan l’arti mie guerreggiatrici.
Armate la mia patria ha queste destre
per seguir te contro i comun nemici;
la libertà che l’Alpi nostre onora,
fa che libera Roma amiamo ancora».

33Così dic’egli, e stupefatto e preso
de la virtù di quella gente incolta,
risponde il Dittator: «Con Roma impreso
a gareggiar Liguria ha i questa volta;
magnanimo desir t’ha il petto acceso,
gloriosa bandiera in cielo hai sciolta,
e se ’l mio sangue a Roma avrà mai luogo
tu non porterai mai sul collo il giogo».

34Quindi provede e sì gran loco assegna
al ligustico stuol fra l’altre genti,
che Troilo il duce alban s’adira e sdegna
e Licurgo il sabin digrigna i denti;
e la mostra si turba e la rassegna
e si sciolgon le lingue e gli ardimenti,
e si sfodran le spade e le coltella,
e s’avventano i dardi e le quadrella.

35Ma Camillo si leva e gira un guardo
con tanta maestà repente intorno
che ripone ciascun la spada e ’l dardo
e tutti fan nel luogo suo ritorno.
«Io non prepongo mai schiera o stendardo
che possa far (dic’egli) ingiuria o scorno;
sian pur le spade a fulminar sublimi
ch’elle dan sole i luoghi estremi o i primi».

36Così dicendo a la rassegna il fine
col terminar del dì Camillo impone,
e fra genti romane e peregrine
con venti mila usberghi andar dispone.
Manda però ch’al comparir del crine
che l’alba in ciel porporeggiando espone,
s’altro nol move a variar sentenza,
sia tutta l’oste pronta a la partenza.

I demoni infernali tentano di disturbare l’avanzata ma falliscono (37-54)

37Ma quei ch’a distornar la bella impresa
mandati avea Satan da i laghi stigi,
ancorch’avesser Fulvia indarno accesa
e suscitate in van furie e litigi,
non lascian però l’arti a la contesa
né segnan Dite ancor de’ lor vestigi,
ma batton tuttavia per l’aria i vanni
e tentan nove frodi e novi inganni.

38Onde, quando comparsa in Oriente
l’alba, Camillo al dipartir s’accinge,
con diversi prodigi orribilmente
la famiglia infernal l’assedia e stringe.
Ei desta a i sacrifici il foco ardente
et ella versa in lui la pioggia e spinge,
ei provede co i tetti e co i ripari
ed essa toglie l’ostia in su gli altari.

39Teme la turba e grida alcun che Giove
il soccorso di Roma a lui contrasta,
ma ’l Dittator però non si commove
né si spoglia l’usbergo o gitta l’asta.
«Il ciel (dic’egli) incontro a me non piove
né l’ostia turba i miei consigli o guasta:
felice augurio intendo a me che sia,
ch’io vo’ per liberar la patria mia».

40E de le trombe insieme e de’ tamburi
comanda che si levi in aria il suono,
e lascia Ardea arditamente i muri
e sprezza e sdegna il tristo augurio e ’l buono.
Ma si ravvolge il ciel di veli oscuri
e comparisce il lampo e rompe il tuono,
e tempestar da folte nubi e tetre
comincian d’ogni man macigni e pietre.

41L’essercito si turba e si scompiglia
né sa ritrovar schermo o veder scampo,
e dovunque si volge ha su le ciglia
da rotta nube or uno or altro lampo;
e comunque s’aiuta o si consiglia
il tuon percote in ogni parte il campo,
e se sale e se scende e se dimora
l’orribil pioggia ha su le tempie ognora.

42«Che farem (dice il condottiero albano)
contra il ciel che ne sgrida e ne minaccia?».
«Andrem (risponde il capitan romano)
contro il re che d’Italia omai ne caccia».
«Noi fatichiamo (il sabin dice) in vano
se non ne mira la fortuna in faccia»;
e «La fortuna (il Dittator risponde)
con la virtù si vince e si confonde».

43Così procede al suo viaggio e cessa
la fiera pioggia, e si raccheta il cielo,
ma comparisce tosto in vece d’essa
novo prodigio onde s’arriccia il pelo.
In tre parti del ciel la luna istessa
rompe de l’aria il tenebroso velo,
e di tre lune il portentoso argento
empie d’orror le turbe e di spavento.

44Ride Camillo e «De la dea triforme
(dice) non è straniera usanza o nova
se triplicar nel ciel le stesse forme,
mentre s’asconde il sol, si studia e prova».
Riprende cor ciascun, ma vista enorme
lo spavento ne’ petti ancor rinova,
mentre co i feri e con le lance opposte
discende contro a lor per l’aria un oste,

45e quinci brandir l’aste i cavalieri
e quindi raggirar le spade i fanti,
e questi alzar sul capo i lor brocchieri
e quei precipitar col ferro avanti.
Gli aspetti lor son minacciosi e fieri,
le membra di colossi e di giganti,
le braccia per ferir robuste e salde,
le lingue per gridar feroci e calde.

46«Che fai, Camillo? (allor la plebe esclama)
Vorrai tu dunque indizio aver più certo?
Non vedi omai che perché ’l Ciel non brama
che t’armi, d’arme tutto appar coperto?».
«Anzi vegg’io ch’a l’arme il Ciel mi chiama
(risponde il Dittator) con segno aperto,
mentre de l’aria ancor per entro i campi
presenta a gli occhi miei de l’arme i lampi.

47Venite meco pur, che le percosse
che sembra minacciar l’aereo stuolo
non son per arrestar le nostre mosse,
né per vòtarne il sangue in questo suolo.
Lasciate che Pluton con le sue posse
sollevi contro a noi tartareo volo,
che per confonder lui con le sue squadre
il dio de le battaglie è nostro padre».

48Con questi detti tocca il suo cavallo,
più che non fece pria, d’acuti sproni,
e tengon dietro a lui senz’intervallo
le torme de gli equestri e de’ pedoni.
Ma Torvellin, che compariti in fallo
vede ne l’aria i campi e gli squadroni,
con la guancia di Fulvia e col sembiante
si rappresenta al Dittator davante.

49Ricopre il volto suo con quel pallore
che ne’ più duri cor pietà ritrova,
e bagna il suo pallor con quell’umore
che non po scaturir che non commova.
Riscalda gli occhi suoi con quell’ardore
che per ferir trapassa ogn’altra prova,
apre la bocca impallidita e bella
e ’l Dittator con queste voci appella:

50«Ah Camillo, Camillo, a Roma il piede
affrettar puoi tu dunque in questa guisa
senza pagar a Fulvia altra mercede
che di tua propria man averla uccisa?
L’albergo che pietosa ella ti diede
l’alma ch’ell’ebbe teco ognor divisa
non richiedean che d’Ardea in sul terreno
tu le sacrificassi un’ostia almeno?

51Deh torna, generoso, al proprio loco
dove ti caddi a i piè trafitta e morta,
e questo spirto errante almen col foco
di qualche sacrificio ivi conforta.
O, se le voci mie tu prendi a gioco,
va’ pur, crudel, là dove il piè ti porta,
ma sappi ancor però ch’ovunque andrai
la faccia mia dinanzi a gli occhi avrai».

52Tutti gli altri prodigi il duce invitto
con vigoroso cor sofferti avea,
ma la voce di Fulvia e ’l viso afflitto
fu sopra a quel che tolerar potea,
onde, da fiero e gran dolor trafitto,
le membra a pena in sul destrier reggea,
e volea pur mostrar quel che sentiva
e la parola in bocca a lui moriva.

53Ma con pietà più salda e più verace
la patria al suo dover l’invita al fine,
e se colei s’affligge e si disface
gridan di Roma i danni e le ruine,
ond’ei risponde: «O donna, a Dio non piace
ch’io più riponga il piè nel tuo confine,
ma per l’ostia ch’offerta in lui t’avrei
t’offrirò l’acque ognor de gli occhi miei».

54Ciò dice, e sprona, e contro l’armi e l’arti
de la schiera infernal s’aita e scampa;
ond’ella al fin, ché tesi indarno e sparti
ritrova i lacci suoi, di rabbia avampa,
e gira in cento lati e cento parti
e morti e furie, e fiamme informa e stampa.
Ma tutto forma e tutto stampa in vano
e passa e vince il Dittator romano.

Camillo giunge a tempo per interrompere gli accordi con Brenno, e entra nelle mura del Campidoglio (55-64)

55Sulpicio in tanto e l’onorata schiera
che tenean chiusa i Galli in Campidoglio,
scendon colà dove con fronte altiera
solleva il fier Brinon purpureo soglio.
Pende davanti ad esso una stadera
che cresce a lui superbia, a lor cordoglio,
e dentro ad esso è caricato un peso
ch’avanza que c’han patteggiando inteso.

56Se n’accorge Sulpicio e la bilancia
grida che non ha ’l peso a l’oro uguale.
Si sdegna Brenno ed entro ancor vi lancia
la spada, e l’ira a la ragion prevale.
Chiede il Tribun, col foco in su la guancia,
«Che legge hai tu per tanta ingiuria o quale?».
«La legge (il re risponde) e la ragione
che tutte le miserie a i vinti impone».

57Ardon di giusto e generoso sdegno
al barbaro pensier di Roma i figli,
né posson tolerar l’oltraggio indegno,
e rinovan proposte e fan consigli.
Non ha la furia e l’ira in lor ritegno,
e gridan che si rompa e si scompigli,
e se fra tanti alcun reprime e frena
o che si caccia o che si sente a pena.

58Cresce l’orgoglio al re nemico in tanto,
e minaccia al Tribun rovine estreme,
ei gli rammenta il sacro patto e santo
protesta, invoca e maledice e freme.
Ma poich’avuta ha la vittoria e ’l vanto
di tante larve e tanti mostri insieme,
giunge Camillo ove con volto acerbo
grida il tribuno e stride il re superbo.

59Come cessa la rabbia e la tempesta
che l’onda fra le nubi alzata aveva
quando, contrario a quel che l’avea desta,
il vento aquilonar si scioglie e leva,
così la furia e l’ira ancor s’arresta
che nel Gallo e ’l Roman sì forte ardeva,
quando cinto di stuol feroce e folto
percote in lor del gran Camillo il volto.

60Gela il sangue a Brinon, che sì gran duce
fra se medesmo sempre avea temuto;
sembra a’ Romani al fin veder la luce
per racquistar l’onor ch’avean perduto.
Il Dittator comanda a chi conduce
che si ritorni l’or dond’è venuto,
s’avventan cento braccia e l’oro è preso,
ed abbattuta è la bilancia e ’l peso.

61Il barbaro si scote e si lamenta
che ’l Dittator roman gli rompe i patti;
ed ei la fronte increspa e gli rammenta
che senza il Dittator non fur ben fatti.
E con voce che punge e che spaventa,
«Io legherò ben (dice) altri contratti,
e Roma mia, se non vaneggio ed erro,
vedrò se scampa l’oro o salva il ferro».

62Non po frenarsi tanto il re feroce
che, rivolgendo a’ suoi repente il ciglio,
non mova cento man senz’altra voce
a l’armi temerarie a dar di piglio.
E sfodra anch’egli il suo coltello atroce,
e sprezza l’altrui danno e ’l suo periglio;
ma sì grand’uom però si vide a fronte
che frena l’ire impetuose e pronte.

63E stringe l’oste e con pensier più saggio
mentre ch’a poco a poco il ciel s’imbruna,
si move là con essa a far passaggio
dov’ella stia più sana e men digiuna.
Guida felicemente il suo viaggio
la guancia che palesa in ciel la luna,
e pria che l’aureo raggio il sol raccenda
sovra i campi Gabin le schiere attenda.

64Riman Camillo a Roma e sente e vede
da le lingue de’ Padri in cielo alzarsi,
e germe e sangue e valoroso erede
de lo stesso Quirin da lor chiamarsi.
«La vostra lode il nostro merto eccede
(interromp’egli) incontro a Roma armarsi,
po tuttavia la barbara procella
se noi posiam gli usberghi e le coltella».

La mattina si dispongono gli eserciti: arringhe dei capitani (65-72)

65Sì dice, e prima ancor ch’in Oriente
cominci a lampeggiar la nova aurora,
s’avanza e spinge là con la sua gente
dove ’l nemico ha preso a far dimora.
E punge e giunge a lui così repente
che non s’è riparato intorno ancora;
stupisce il re, ma non stordisce o langue,
né manca in esso il cor se gela il sangue.

66Stringe Camillo et a la pugna il chiama
bench’abbia assai men forze e men guerrieri;
ei non ricusa, e portar pensa e brama
de l’italico fior trïonfi interi,
e l’infamia di Roma e la sua fama
gli volge intorno al cor sì gran pensieri
che, benché l’avversario ammiri e tema,
si move incontro a lui con forza estrema.

67L’arte però con che dispone e spiega
le punte in mezzo e i fianchi a la battaglia,
non è quella che stringe un duce e lega
che più cauto ripari e forte assaglia.
Ben s’aggira per l’oste e punge e prega
che del gallico onor le pesi e caglia,
e de’ guerrier men pronti e men feroci
percote e sprona il cor con queste voci:

68«Che temi, o nobil gente e valorosa,
che vinta già sul Tebro hai Roma e sparsa,
e che con fiera strage e dolorosa
l’hai ne le sedie sue distrutta ed arsa?
Di tre cotanti almen più numerosa
ti veggo in campo incontro a lei comparsa,
e sembra che tu tema e che paventi,
e par che mova i piè dubbiosi e lenti.

69Non fa bisogno a noi d’ingegno o d’arte
per ordinar battaglie o mover schiere,
il numero ne basta, e siamo in parte
ch’ei più che dentro a Roma ha da valere.
Coraggio, o Galli, e s’abbattute e sparte
voi non vedete or or quelle bandiere
non ricus’io che fra i più grandi e scelti
chiamate in vece vostra un re de’ Celti».

70Da l’altra parte il Dittator sagace
dispon le squadre sue con altra cura,
e con l’arti romane il petto audace
de’ suoi conferma e la costanza indura.
Accoppia col più lento il più vivace
e giunge l’alma vil con la sicura,
acciò che chi non tien la legge a freno
tenga l’essempio e la vergogna almeno.

71Il destro corno assegna al duce albano
e dà ’l sinistro al capitan sabino,
ei tien fra questo e quel lo stuol mezzano
e servo ha ’l fior del bel terren latino.
Il ligure Beltram con la sua mano
impon che non si mova e stia vicino,
ma ch’ove soperchiar ritrovi i Galli
percota in lor co i fanti e co i cavalli.

72Quindi a ben far con vive voci invita
e con la lingua aguzza il ferro e l’asta:
«La guerra, o valorosi, ancor finita
non è, ma gran periglio ancor sovrasta.
Veduto avete Roma incenerita,
vedrete Italia ancor distrutta e guasta
se da le vostre spade oppressa e vinta
non cade qui tutta la Gallia estinta».

Si viene a battaglia: Camillo uccide Brenno, i Galli sono rotti (73-87)

73Si leva appresso a questi detti in cielo
il romor de le trombe e de’ tamburi.
Copre la guancia il regnator di Delo
che preveduti ha già gli orror futuri.
Move Camillo e lancia il primo telo,
entra Brinon con colpi acerbi e duri,
e più che mai feroci e dispietate
prorompon d’ogni man le schiere armate.

74S’apron nel cominciar profonde piaghe
e caggion quinci e quindi orgogli e teste,
e l’armi di ferir bramose e vaghe
copron tantosto il suol d’orribil veste.
Non son contente l’aste e non son paghe
che rompan su i brocchier le lor tempeste,
ma si satollan solo i lor dispetti
se passan co i brocchier le gole e i petti.

75Contr’un Latin però tre Galli uniti
son ne la mischia impetuosa e fiera,
onde ’l cader de’ morti e de’ feriti
non torna egual ne l’una e l’altra schiera.
Ma ’l franco Dittator con novi inviti
mostra di pareggiar la forma intera,
mentre Terondo, Arondo e Fereclide
con tre fendenti in tre momenti uccide.

76Eran costor fra i capitan più degni
che ’l re stranier ne le sue squadre avesse,
onde con nove furie e novi sdegni
corron le spade là veloci e spesse.
Mostra Camillo a manifesti segni
che Roma in lui stupendo duce elesse,
e ripara e percote e rompe e gira,
e braccia e gambe e teste a piè si mira.

77Brinon da l’altra man co i più feroci
che stan dinanzi a lui col ferro in mano,
distendon sul terren con piaghe atroci
chi salvar tenta il Dittator romano,
e ferman di Marcello i piè veloci
e frenan la pietà del buon Sillano,
e d’Aulo e d’Appio e d’Arrio e di Popito
gittan tre morti in terra et un ferito.

78Ma ’l ligure Beltram, che tempo e luogo
vede di sublimarsi in fra i Latini,
«Io moio (grida allor) se non mi sfogo
contro chi vuol far servi i cittadini,
e veggo a Roma già sul collo il giogo
s’avien che ’l Dittator la testa inchini
e temo che nol vinca il gran soperchio
se noi non gli rompiam de’ Galli il cerchio».

79Ciò dice, e quanto po rannoda e stringe
la squadra che conduce, e fiero e forte
contra color s’avventa e si sospinge
che tenta di condur Camillo a morte;
e ’l ferro ne’ lor petti asconde e tinge,
ed apre a l’alme lor purpuree porte,
e rompe e passa e giunge ove tremendo
sostien l’egregio duce un stuolo orrendo.

80S’arresta allor la furia e si dilegua
ch’avea contra Camillo i Galli accesi,
ma l’ira non ha già riposo o tregua
ond’ei con l’asta a disertar gli ha presi.
Per lei tantosto il disegual s’adegua
e batte un ferro sol su cento arnesi,
e come fra i Troian comparve Achille
fra i Galli il Dittator compar per mille.

81L’Alban dinanzi a lui divien più fiero,
torna il Sabin più forte e più possente,
fa meraviglie il ligure guerriero,
cresce ’l valor di tutta l’alta gente.
Inonda il suol d’orrido sangue e nero,
impedisce la strage il piè corrente,
e i membri tronchi e le ferite acerbe
fecondan d’ogni man le glebe e l’erbe.

82Brinon fa ciò che po, riprende e grida:
«Ah che vegg’io! Sì poca gente
avete, o Galli, e sarà mai che rida
di voi Camillo e i danni miei racconte?».
Quindi s’avanza, e freme e preme e sfida,
e manda varia plebea ad Acheronte,
ma fra la plebe ove la spada immerge
col sangue di Ceson la polve asperge.

83Vede Camillo, e corre alla vendetta,
e l’omicida a la battaglia appella,
Brinon l’invito arditamente accetta
e rota il ferro in questa parte e quella,
ma ’l Dittator le piaghe e i colpi affretta
a le vene, a le fibre, a le cervella,
e rompe scudo ed elmo e piastra e maglia
e giunge e punge e passa e squarcia e taglia.

84Sente Brinon da la nemica spada
la gola, il capo e ’l petto insanguinarsi,;
ode ’l Roman che dice: «E così vada,
chiunque ardisce incontro a Roma armarsi»;
vede che morto omai convien che cada,
né trova schermo o scampo onde salvarsi,
e pur tanto coraggio ancor gli resta
che ’l Dittator con novi colpi infesta.

85Ma mentre tuttavia percote e more,
«Assai (Camillo esclama), o generoso,
hai palesato in campo il tuo valore;
Roma ti vince, acqueta il cor bramoso».
«Roma non m’avria vinto, o Dittatore,
se tu stavi (dic’egli) in Ardea ascoso.
Ma cedo e cado almen col cor tranquillo
poi che moio per man del gran Camillo».

86Così dicendo in su la polve immonda
trabocca il duce, e da le piaghe un fiume
per tanti rivi incontanente inonda
che versa insieme l’alma e perde il lume.
Il pianto al Dittator su gli occhi abonda,
che dar nobil guerriero ha per costume,
quando ’l nemico, ancor che cada in campo,
mostra la sua virtù con qualche lampo.

87Ma non sì tosto è ’l re de’ Galli ucciso
che l’oste de’ Latin seconda e caccia,
e fa voltar de l’avversaria il viso
e coppe e nuche e terghi offende e straccia;
ed è sparso ed è vinto ed è conquiso
e non resta di lui vestigio o faccia
lo stuol ch’avea con temeraria offesa
disonorata Italia e Roma accesa.

Ingresso di Camillo a Roma e rifiuto di ogni onore personale (88-95)

88Raccoglie il Dittator le squadre e loda
secondo il merto e ricompensa e dona,
e le tempie e le chiome a quei non froda
che meritata avea più gran corona.
Ma del ligure duce al collo annoda
un monil che l’invidia accende e sprona,
e dice: «A te, Beltram, rend’io l’onore
d’aver salva la vita al Dittatore».

89Quindi si move, e con le spoglie e l’armi
del barbaro nemico a Roma arriva,
e sente celebrar con vari carmi
la virtù del suo petto ardente e viva,
e di trionfi e di memorie e marmi
s’avvede che l’invidia ancor nol priva,
e padre de la patria e gloria e fama
ode che tutta Roma il grida e chiama.

90S’abbassa il generoso e si deprime
e le statue e gli onor ricusa e sdegna,
e dice: «Assai son grande e son sublime
s’io vivo dove solo un uom non regna,
né riportate ho queste spoglie opime
perché più chiaro il nome a me divegna,
ma perch’estinto in tutto il regio orgoglio
divenga franca Roma e ’l Campidoglio.

91Il mio trionfo parve a voi superbo
quando tornai da la città veiente,
e pur questa ch’or tengo e che riserbo
è con quella d’allor la stessa mente.
Per trionfar sostenni essilio acerbo,
ancor ch’io fossi puro ed innocente,
e per non trionfar farò che sia
più manifesta a voi la virtù mia».

92Non senza sospirar la plebe e i Padri
del nobil Dittator le voci udiro,
e con più degni fregi e più leggiadri
la pompa del trionfo insuperbiro.
E quelle stesse dame e quelle madri
che l’oro a liberar la patria offriro,
per far più grande il suo trionfo e chiaro
tututte a prova ancor gliele recaro.

93Resse più che poté costante e forte
il buon Camillo al glorioso invito,
e dimandò di Roma in fra le porte
col proprio arnese entrar che n’era uscito;
ma poiché mille e mille lingue in lui ritorte
gli mostràr contra il popol tutto unito,
«Trionferò (diss’ei) ma saran neri,
poiché v’offeser, bianchi i miei destrieri.

94Sarà ben sempre candida e tenace
la fé che debbo a la mia patria amata,
e l’amor mio più saldo e più vivace
che l’ira sua fervente o dispietata;
né sì giusta cagion né sì verace
mi terrà mai d’addimandarla ingrata,
che col desir ch’in nobil cor non langue
non spenda per su’amor la vita e ’l sangue».

95Così conchiude, e le purpuree vesti
e le perle e le gemme e l’or rifiuta,
e d’esse in vece ei suoi famosi gesti
sul carro trionfal dispiega e muta.
Gli abiti fur civili e fur modesti,
la pompa negligente e disparuta,
ma quei ch’entrò col lauro in su la chioma
il più gran cittadin che fosse a Roma.