Ircano e Ismaro, preoccupati da una visione notturna, escono per cercare Sereno e lo trovano morto, ne mandano notizia al re e si ritirano dalla guerra (1-37,4)
1A pena alzava in Oriente il lume
la donna di Titon fra l’ombre oscure
che tolto Ircano a le notturne piume
si veste l’armi travagliose e dure,
e pur paventa oltra ogni suo costume
de l’amico Sereno aspre venture,
ché de l’affanno e del vicin dolore
nel petto afflitto è già presago il core.
2Così in tema e ’n dolor move a le tende
d’Ismaro, e colà giunto indi favella:
«O tu, cui meco in vèr Sereno accende
e suo valore et amorosa stella,
me sovra lui strana temenza prende
e n’aspetto ad ognor dura novella,
né perché alletti e le speranze io desti
schermo ritrovo da pensier funesti.
3Sempre de i rischi ond’avanzarsi egli è uso
mio core il tenne vincitor espresso,
et or partendo timido e confuso
d’orrore il piansi inusitato oppresso.
Deh, sono io forse in mio temer deluso,
o me già preme il mal ch’abbiam d’appresso,
e ferendone il cor pria che l’orecchia
a’ gravi assalti il Ciel l’alme apparecchia?».
4Mentre così l’un cavallier ragiona,
grida l’altro: «O de’ tuoi scampo e riparo,
tu colà gisti ove valor ti sprona
a far noi più sicuri e te più chiaro,
ma l’alta tua virtù forse abbandona
ora destin di nostri pianti avaro,
che, scoprendo con larve i tuoi martiri,
per strane guise a paventar ne tiri?».
5Così dicendo fa d’amari pianti
gli occhi e le guancie molli e rugiadose,
indi soggiunge: «Poco tempo inanti
ch’erano in grand’onor tutte le cose,
ombra che di Sereno avea sembianti
con volto afflitto e membra sanguinose
apparse a gli occhi miei nel sonno spenti
e disciolse la lingua in tali accenti:
6- O de l’armi seguace e de gli errori,
dolce a me tra’ più cari e più diletti,
tu pur il Ciel per mia salute adori
ma lasso indarno il mio ritorno aspetti:
stelle, di guai ministri e di dolori,
hanno oggi i vostri e i voti miei negletti,
e qual mi scorgi in atro sangue tinto
tal ancor stillo indegnamente estinto.
7L’opra che dianzi il mio signor commise
sorte ha conteso ingiuriosa e ria,
e fian mia scusa le mie membra uccise
ch’in pena del mio error tingon la via.
Te, se in vita da me nulla divise,
né terrà Lete a la memoria mia,
ma s’ove io giaccio unqua tu fermi ’l piede
adopra in me ciò che pietà richiede -.
8Ciò detto sparse e dileguossi a volo
per l’atra notte, e me lasciò doglioso,
ch’in verso lui stesi le braccia e solo
con esse strinsi l’aere cieco ombroso.
Or tolto al sonno in angoscioso duolo
vivo di lui sollecito e pensoso».
Così vien raccontando i timor suoi
Ismaro; Ircano si soggiunge poi:
9«Deh, se l’ombre notturne e i rei spaventi
son pur messaggi di destin nemico,
ove noi chiama il Ciel tristi e dolenti,
privi di dolce e sì fedele amico?
Che fia del campo e de l’armate genti
ch’avran perduto il lor sostegno antico?».
Ei così grida e fa di tepide onde
umidi gli occhi, a cui l’altro risponde:
10«Di quanto oprasi in Ciel temenza e speme
per lieve sogno può turbarci in vano,
ma l’oscuro timor ch’ambi noi preme
il dì vicin farà palese e piano,
ché s’è giunto Sereno a l’ore estreme
ne sonerà il rumor presso e lontano,
e di tanto guerrier tanta sventura
udrà il sol dove nasce e dove oscura.
11«Or fia mai non indarno» Ircan soggiunge,
«freno ad un cor se pur ardente egli ama?
Se ’l Ciel percosso n’ha quindi e non lunge
suo colpo, usciamo ad incontrar la fama».
Sì vinti da l’amor che gli arde e punge
sen van là ’ve destin gli spinge e chiama,
e fuor movendo de l’armate tende
pensoso Ircano a ragionar si prende:
12«Com’entro a piaggia or sì d’ogni om deserta
aura di fama investigar potrassi?
e dove in parte d’ogni intorno aperta
se non in dubbio affretteremo i passi?».
Quivi per tanto e con la mente incerta
la fedel coppia e taciturna stassi,
indi piglia il sentier per quella arena
ch’al doloroso ponticel la mena.
13Ma pur a rio pensier sempre volto hanno
l’oppresso cor da timido tormento,
e muti il corso raddoppiando vanno
co ’l viso chin, d’ogni letizia spento,
come ’l pastor cui sanguinoso danno
fiero leon fe’ ne l’amato armento,
ch’al caro albergo vien movendo il passo
tutto ne gli atti addolorato e lasso.
14E poi che men lontan scorgono espresso
l’insegne in arme da l’amico oprate,
e poscia fatti pienamente appresso
l’ancor tumide piaghe insanguinate,
stette ciascun sì fortemente oppresso
di cordoglio, di orrore e di pietate
che quasi selce dentro uman sembianti
durò senza querele e senza pianti.
15Cotal percossa da destin perverso
fedel essempio d’amorosa pena,
fosti a mirar il tuo signor sommerso,
orba Alcione, in su la greca arena,
tal sotto il gelo or d’atro sangue asperso
stillar con empia e copiosa vena
e per misero error condursi a morte
mirasti, o Tisbe, il tuo fedel consorte.
16Ma poi che da l’angoscia e dal martiro
ebbero al fine a favellar valore,
comincia Ircano: «E pur veraci usciro
sogni et ombre a predir tanto dolore?
e con gli occhi, o Sereno, io pur rimiro
quel che di te già paventava il core?».
E co ’l compagno a rasciugargli è volto
l’aspra percossa et a baciarli il volto.
17E su ’l pensier come sinistra stella
l’altiera destra in lui conversa avea,
apparse al guardo suo morte novella
che ’n mezzo ’l sangue di beltà splendea.
A ciascun tosto l’accusò donzella
il crin che longo di fin or parea,
e ravisò la vergine latina
che fe’ già di Sereno alta rapina.
18Subito allor de l’uno e l’altro amante,
come se stati al suo fallir presenti,
l’amorosa tragedia ebbero avanti
e gl’infelici suoi casi dolenti,
e furo a doppio le lor piaghe piante
e sospirati i lor gravi tormenti.
Al fin Ircano alzò le mani e fisse
in lui le luci, e sospirando disse:
19«Deh, perché uscendo a la bella opra altiera
festi de i cari tuoi tanto rifiuto?
che s’al cor teco in quelle tenebre era
contra il destin potea donarti aiuto;
ma poi non piace a la mia sorte fiera
ch’abbia da me qualche soccorso avuto,
di pianto almen fonte amoroso avrai
cui nulla al mondo stagnerà già mai.
20E se raccolti in gloriosa sede
dei vostri ardori il guiderdon cogliete,
e ’l cor pascendo d’immortal mercede
de i sofferti martir lieti godete,
faccia del nostro amor laudabil fede
il duol ch’in noi di colà su scorgete,
e rimembrando questa fragil vita
sia l’umana mestizia in Ciel gradita».
21Qui larga pioggia di doglioso umore
pensando a l’aspro fin del suo diletto
e pietosa procella di dolore
chiuser le voci ne l’afflitto petto.
Né con fiume di lacrime minore
né men vinto di doglia ne l’aspetto
sospirando le labbia Ismaro aperse
e le voci trovò nel duol sommerse:
22«Qual» dicea «fra mortali a viver fia
alma sì vaga de l’altrui dolore
che non ritorni mansueta e pia
s’a questo pinto unqua rivolge il core?
Ahi che ventura lacrimosa e ria,
misera coppia, ti prescrisse amore,
s’indegna morte quella man vi diede
ch’esser dovea tra voi pegno di fede?
23Ma s’egli è fisso in Ciel, ch’amara sorte
ne dian queste armi et ogni strazio indegno,
vo’ che l’empio dolor di tanta morte
sia de l’alte minaccie ultimo segno.
Forse quinci lontan sarà men forte
vèr noi l’asprezza del celeste sdegno,
e tolto a’ rischi de l’armate genti
piagner potremo i nostri rei tormenti».
24Risponde Ircan: «Solo il morir possente
sarebbe a consolar tanta sventura,
ma da questo pensier volge la mente
verace amor ch’oltra la morte dura,
ché da la nostra man sue membra spente
chiamano altiera e degna sepoltura
sotto la mole che richiude e serra
l’ossa de’ suoi già gloriosi in terra,
25sì che la patria a cui sue glorie sparte
a i venti han stelle sanguinose e fiere,
consoli il danno e la sua doglia in parte
co ’l mesto pregio de le spoglie altiere,
e chi lo scorse al gran mestier di Marte
mover invitto le seguaci schiere
di sua man propria ora percosso ’l miri
et a lui dia suoi baci e suoi sospiri.
26Ben mi dice il pensier ch’un tal ritorno
porria scemar di nostra fede il merto,
dapoi che ’l re, c’ha tanti rischi intorno,
lasciamo in dubbio e di suo stato incerto.
Ma santo amor d’alta virtute adorno
per cui teco ogni affanno abbiam sofferto,
Sereno, omai l’armi apparecchi e prenda
e la nostra pietà copra e difenda».
27E mentre a superar del Cielo i rai
fanno di frondi opaca loggia adorna,
Ircano, volto a soi scudier: «Andrai,
Seleuco,» disse «ove il signor soggiorna,
e di’ che morte d’amorosi guai
è caggion che Sereno a lui non torna,
e che da l’armi noi facciam partita,
fedeli in morte a lui, cui fummo in vita.
28Fiero destin, ch’ogni piacer ne tolse,
or qui più dimorar non ne concede».
Ciò detto il guardo a gli steccati ei volse
e suon di doglia sospirando diede.
Seleuco i freni al corridor disciolse
e ’n fuga pon l’essercitato piede;
muovono gli altri per diversa via,
tra’ quali alcun così lagnarsi udia:
29«Dunque ad un cor che al suo voler si rende
sorte prescrive amor tanto crudele?
e cotal premio da sua man s’attende?
e sì si piega per altrui querele,
che tormenti riserba a chi l’offende
se gradisce con morte un suo fedele?
né sazio de l’umor che stillan gli occhi
vuol che di sangue l’amator trabocchi?».
30Cotal sen van dolenti, e tranno appresso
la cara soma del commun dolore,
e di che duol sia per cadere oppresso
l’antico padre loro anunzia il core,
e già la fama oscuramente espresso
avea d’incerti guai longo rumore,
et indistinti minacciando i mali
intorno al campo già battendo l’ali,
31tal che la turba numerosa e folta
qual api in bando de gli amati nidi
s’avolge, e mentre parla e mentre ascolta
confonde l’aria di continui gridi,
con quel rumor che risonar tal volta
fa l’aspro mar l’onde superbe e i lidi
s’a’ venti il fiero dio che gli governa
apre le porte de la gran caverna.
32Ma l’alto suon che di discordie estreme
usciva sparso in questa parte e ’n quella,
tutto in un loco si raccoglie insieme
tosto c’han visto il messaggiero in sella,
e l’un con l’altro si rispinge e preme
a lui traendo per udir novella,
ma quegli poco a lor vaghezza attende
e pur s’affretta a le regali tende.
33E poi c’han vinti de le turbe impronte
i longhi indugi, al gran signor vicino
con suono umile e riverente fronte
ragiona lasso infino a terra chino,
e gli fa note pienamente e conte
l’aspre percosse del crudel destino,
e rotto ciò che ’l cavalliero impose
con mesti accenti lacrimando espose.
34Qual suol per l’ombre divenir sovente
tra duri sogni l’anima smarrita,
tal il re stette a ripensar dolente
sovra il tenor de la sventura udita.
indi, rivolta l’affannata mente
de i tre perduti a la famosa aita,
et a i sospetti ch’ei nudriva in core
disse in voce d’affanno e di dolore:
35«Amore, ond’io per morte il cor non scioglio,
piagne ecco, amici, i vostri gran martiri,
ma fia lieve la pena ond’or mi doglio
s’avvien ch’in più dolor non vi sospiri».
Quivi ei chiuse le lacrime e ’l cordoglio
entro la tenda perché alcun no ’l miri;
ma l’ampio stuol ch’al messaggier doglioso
diede l’orecchia, si riman pensoso.
36E come avvien che su le placide onde
a l’or che ’l cielo e l’aure amiche ei gode
legno se ’n vola e nel volar confonde
di varie voci le sonanti prode,
ma se l’irato mar batte le sponde
null’altro a l’or ch’alto silenzio s’ode,
et a la vista del mortal periglio
solo s’attende dal nocchier consiglio,
37non men la turba strepitosa e vaga
subito cessa ogni rumor primiero,
e cercando rimedio a l’alta piaga
consola nel tiranno il suo pensiero.
Ma chi, dolente Arpalice, t’appagaArpalice, constata la morte di Sereno, si finisce (37,5-44)
il caso udendo sventurato e fiero?
e, disperato il fin d’ogni diletto,
che senso ebbe ei l’innamorato petto?
38Ella nel cor nato guerriero e forte
mette un pensier di terminar sua vita,
e per andar senza contrasto a morte
cerca riva più chiusa e più romita.
Quivi, pensando a l’infelice sorte
de l’amorosa sua crudel ferita,
interrotta da pianti e da sospiri
sciolse tai voci sovra i suoi martiri:
39«Qual meraviglia s’ad ognor costante
fusti di ghiaccio a le mie fiamme ardenti?
e se ’l tuo cor d’altra bellezza amante
dava miei prieghi e mie querele a i venti?
Quinci sdegnoso il tuo gentil sembiante,
Sereno, e scuri i begli occhi lucenti,
quinci tua voglia ognor più cruda e ria
negò pietate a l’alta pena mia.
40Et io, lassa, con ira ognor chiedea
de la vendetta umilemente amore,
e mentre afflitto ei duramente ardea
qualche favilla io ti pregava al core.
Ahi di che longa infamia a te son rea
se pur n’ha macchia il tuo leggiadro onore,
e come ingrato i’ ti chiamava a torto
se per soverchio amor te stesso hai morto!
41Ché se donna d’un cor doppia bellezza
esser non può ne l’amoroso regno,
fu sventura di me, non tua durezza
l’alta virtù ch’io nominai disdegno.
E pur a l’or ch’a le querele avvezza
piansi lo strazio e ’l mio martire indegno,
fiamma d’amor ne’ tuoi begli occhi apparse
che dolcemente mi distrusse et arse.
42Ma lassa, or di che loco a’ miei martiri
alcuna parte di conforto aspetto?
e dove il guardo converrà ch’io giri
per aver come in te pace e diletto?
Ahi, ch’a l’ora ogni ben de i miei disiri
se ’n gio con l’alma che t’uscì dal petto,
e sol martir mi s’apparecchia e duolo
se teco al ciel non mi sospingo a volo.
43Ove se ’l ben de la celeste sede
cessa il venen de la gelosa cura,
lei che con alta e memorabil fede
aperse il varco a nostra ria ventura,
non fia rubella a contrastar mercede
mossa a pietà de la mia pena dura,
ond’io senza attristar le fiamme sue
me faccia un sol de le bellezze tue.
44E tu nel sangue che a tutti altri ascondo
prova vedrai d’ogni mio mal sofferto,
e se di lui già non ti calse al mondo
in ciel fia premio a l’amoroso merto».
Qui strinse il ferro e giù dal cor profondo
l’anima volò fuor del bel fianco aperto,
e vinta da cordoglio acerbo et empio
fuggio le membra e l’amoroso scempio.
Nicandro fa animo a Teia, dubbioso sulla sorte del conflitto (45-53)
45A pena avea la vergine amorosa
chiusi in eterno i begli occhi infelici
che voce udendo risonar dogliosa
v’accorse stuol di cavallieri amici,
usati, a l’or che da gli assalti han posa,
turbar le fere a le natie pendici,
questi levaro la gentil donzella
e diero mesto al re l’empia novella.
46Ei, che Sereno e la compagna eletta
e de gli affanni suoi teme e sospira,
in piagner or l’amazona diletta
sente novo dolor che lo martira,
ché scempio sì crudel stima vendetta
del Ciel, che prenda sue vittorie in ira.
Al fin chiama Nicandro e seco insieme
apre il pensier che lo sgomenta e preme.
47Nicandro in fin da la più verde etate
seguito avea tra l’armi il popol goto,
e ne l’imprese or meste or fortunate
fu di cor sempre a’ suoi signor devoto.
Per l’alto senno ne le guerre andate
e per fierezza a Totila fu noto;
or, già canuto, a Teia era diletto,
a costui parla e sì disfoga il petto:
48«Che sorte il varco a mie vittorie or serra»
dice ei «con semi di dolor indegni?
e turba il fin di fortunata guerra
con grave orror di sfortunati segni?
Ecco funesta omai suda la terra
pe ’l sangue, ohimè, de’ cavallier più degni,
che da l’altrui valor già mai non vinti
or di propio voler giacciono estinti.
49Deh, che più tento a mia difesa o spero
s’incontra ho forza di crudel pianeta?».
«Spera,» ei risponde «e nel real pensiero
ogni temenza, ogni sospetto acqueta:
fortuna in guerra ov’ha ’l maggior impero
volge sua vista ora turbata or lieta,
ma dove arde virtute ha per costume
al fin posar l’instabili sue piume.
50Se ’l rio nimico a fabricar inganno,
omai destrutto, il vile ingegno adopra,
onde noi prema et egli schifi il danno,
non fia che fama longo tempo ’l copra.
Son chiusi intanto i suoi steccati e stanno
l’arme temendo che moviam lor sopra,
e mal suo grado ci apriremo al fine
ampio sentier entro le lor ruine.
51E se gli amici onde ti piagne il core,
ha spenti acerbamente empia ventura,
non dèe, sì come ad arrecar dolore,
esser ciò forte ad arrecar paura:
splende fra tanti tuoi tanto valore
che può tua speme rimaner sicura,
poi che sta teco d’ogni rischio a parte
gente non vile al gran mestier di Marte.
52E perché ’l duol che t’ha percosso e vinto
quasi empio augurio a paventar ti guida,
dimmi, è sì stran ch’altri rimanga estinto
fra l’armi o ch’altro per amor s’ancida?
Strano e me par che di dure arme cinto
sotto l’arbitrio di fortuna infida
pensi guerrier fuor che le pugne e i ferri
non ch’ei preso d’amor vaneggi et erri».
53Tal con sembianza e con favella ardita
spegnea la tema de i futuri mali,
ben che nel cor a sospettar l’invita
tuo stil, fortuna, onde i felici assali.
E già la notte a l’alto ciel salita
chiamava al sonno i miseri mortali,
e gìa scotendo da le penne oscure
giocondo oblio su le noiose cure.