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Delle guerre de’ Goti

di Gabriello Chiabrera

Canto V

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 26.09.15 8:52

Vitellio espone il proprio disegno di sortita notturna a Narsete (1-13)

1Ma non Vitellio a riposar consente
l’alma di indugio disdegnosa e schiva,
anzi in vari pensier volge la mente
vago di trar l’alto destino a riva.
Ei, di metallo e d’or forte e lucente,
su per gli oppressi campi errando giva,
e le moli nimiche affisa e mira
con occhio altier, pien di minaccia e d’ira.

2Va seco Armodio, il cui bel nome onora
l’antica Atene; a lui si volge e dice:
«Ecco fin oggi in così vil dimora
quasi già domo il popolo infelice;
ma s’io non erro omai vicina è l’ora
de gli oltraggi e del duol vendicatrice,
ove non torri o più sottil inganno
ma l’armi invitte il vincitor faranno.

3Io, perché longo tempo al chiuso stuolo
non sia l’uscita al guerreggiar contesa,
trarrò quel forte di muraglia al suolo
che sta su ’l varco minacciando offesa.
Tu dove l’ombra più ricopra il polo
moverai meco a l’onorata impresa.
Fornisci intanto i cavallieri toi
d’aste e di fiamme, io chiamerotti poi».

4«Oh,» risponde ei «come de l’alto invito
son fatto altier sol per virtù d’amore!
Sia cotanto nel cielo anco gradito
che tuoi pregi non manchi il mio valore,
ma se guerrier ne’ duri assalti ardito
può tra ’l sangue trovar merto d’onore,
m’onoreran pria che risorga il die
o l’altrui certo o le percosse mie».

5Parte ciò detto, et a le squadre ei riede,
perché sian preste a secondar sue voglie,
ma l’altro move in quella parte il piede
ove allor molti il sommo duce accoglie.
Al suo venir leva da l’aurea sede
e ’l fatal cavallier lieto raccoglie
Narsete, et ogni lume in lui si volse;
Vitellio umil così la lingua sciolse:

6«Signor, che Roma a strane man ritolta
sorgere hai fatto il Vaticano altiero,
e da l’onde barbariche sepolta
or traggi Ausonia al suo valor primiero,
dammi l’orecchia e grazioso ascolta
a qual opre è rivolto il mio pensiero,
e s’abbracciar o se schivar si denno
sia poi sentenza del divin tuo senno.

7Poi son l’amiche genti peregrine
poste al nostro chiamar troppo lontane,
e le superbe region vicine
son per noi fatte barbaresche e strane,
forse fia ben trar la vittoria al fine
con la gente che ’n arme ti rimane,
non più di fossa e di muraglia cinti
sembianza far di combattuti e vinti.

8E se pur sembra audacia oltra misura
mia mente e voglia giovinetta in guerra,
or che la turba ostil fatta sicura
con torri il passo ne traversa e serra,
io qui prometto ne la notte oscura
pria torrà l’ombra al volto de la terra
che ’l rischio onde il tuo cor s’affanna e teme
e l’erte moli caderanno insieme».

9Narsete in viso alta letizia tigne
le note udendo coraggiose e pronte,
e tra le braccia il cavalliero strigne
e fige baci a l’onorata fronte,
e dice: «Infino a qui stelle maligne
han potuto versarne oltraggi et onte,
e noi, se ben con lama ardita e forte,
ceduto abbiam a l’inimica sorte,

10ma come or fia ch’ogni timor repente
non fugga al tuo valor rapido e lieve,
e che l’altiera destra, a cui consente
il Ciel secondo, superar non deve?
O viva fiamma di virtute ardente,
che la speme di Roma alta solleve,
dal qual a i duri oltraggi aspra vendetta
Italia e ’n don sua libertate aspetta,

11va’, gloria, va’, chiaro de’ tuoi splendore,
e par ventura a tuo valor ti guidi,
e tuona omai de l’immortal furore
folgore invitto su quei cori infidi.
Possa tanto tua man che da queste ore
cominci istoria di mirabil gridi
l’eterna fama, ch’apparecchia e tesse
corona a te di tue bell’opre istesse».

12«E se ben largo lodator mi sei,»
giunge Vitellio con umil sembianza,
«pur entro i casi fortunosi e rei
prenda per me vigor vostra speranza,
né cresca gloria a’ coraggiosi miei
pensier, ma cresca a l’immortal possanza,
che giunta a Roma trar fuor di periglio
mia pronta destra al tuo divin consiglio.

13Ma s’averrà che ’l rio nimico al piano
spinga sue genti a contrastar l’impresa,
sia commessa lor morte a nostra mano
s’avran picciole forze a la difesa.
Tu frena i cor feroci e da lontano
fatti vagheggiator de la contesa,
né ti caglia provar per l’aria bruna
giudicio estremo di crudel fortuna».

Vitellio e Armodio incendiano le torri dei Goti e vengono a battaglia (14-39,4)

14Al fin de le parole il passo move
Narsete appresso e quella turba ardita,
e fra brev’ora colà vengon dove
vegghia la guardia a custodir l’uscita.
«Gente, che meco a coraggiose prove
alto valore e chiara gloria invita»,
dice Vitellio «odi in che modo or parmi
che oprar debbiate la virtute e l’armi.

15Sì come doppia mole in doppia parte
a’ nostri danni il barbaro sostiene,
a noi seguendo del nimico l’arte,
anco due squadre numerar conviene;
però ne l’ombra e nel furor di Marte
altri me segua, altri il guerrier d’Atene,
ma chi trae dardi abbia da lunge il loco
e sia d’appresso chi ministra il foco.

16Sì giungendo le forze a i cauti avisi
schiera compagna, a’ miei disiri amica,
farai co ’l sangue di nimici uccisi
fregio novello a la tua gloria antica,
e fian gli occhi a mirar poco divisi
e le voci a lodar l’alta fatica,
o ben seconda al tuo voler fortuna
ch’ora tante alme ad estimarlo aduna».

17A l’ora a i ferri et a le fiamme danno
le destre, involti d’atro nembo oscuro,
qual già versando a’ navicanti affanno
grandini spande il procelloso Arturo,
cotal per l’aria minacciosa vanno,
colpi di morte a l’inimico muro,
e da le torri a l’improvisa guerra
cascono spenti i diffensori a terra.

18Vibra Vitellio da la destra altiera,
ove il Ciel pon tanta vittoria in sorte,
ferrata trave, a cui la mole intiera
crolla già frale al ripercoter forte.
Non assalio più fier l’aspra chimera
Ercole allor che la costrinse a morte,
né spinse a terra nel selvaggio albergo
l’orribil mostro onde coperse il tergo.

19Ei lo scudo co ’l braccio alto a la testa
oppone incontra i ferri e ’n contra i sassi,
e quasi orrido monte a la tempesta
che tragge empio Aquilone immobil stassi,
né la man sempre vincitrice arresta,
né move a parte più sicura i passi
fin che l’odiosa machina non veda
a mille fiamme ruinosa preda.

20Così l’alte opre, onde già rei spaventi
Italia afflitta e suoi guerrier sofferse,
or in vil nebbia co ’l soffiar de i venti
fatte ombra e polve se ne van converse,
e fanno a morte risonar lamenti
ne gli arsi argini lor l’alme sommerse,
ch’anzi tenean l’armi nimiche a vile
come fortuna va cangiando stile.

21Già non ben certo ove in quel dì volgesse
Marte ne la battaglia il suo favore,
da prima il goto ampio soccorso elesse
chiarissimo di forza e di valore:
questi correano a liberar l’oppresse
schiere compagne dal nimico ardore,
ma giunsero, cadendo, a l’altrui gloria
lassi co ’l sangue lor doppia vittoria.

22Ché dove il guardo a quella parte ei stende
onde arme a scolta al novo assalto usciro,
ratto qual tuon se nuvola scoscende
corse Vitellio a vendicar l’ardire,
e contra in van a quel furor contende
la turba e ’n van prova le forze e l’ire,
che vinti i primi opposti entro si spinge
ivi altri occide, altri a fuggir costringe.

23Così il gran fiume che la negra arena
solca di Egitto, a cui sue fonti asconde,
se da canuti monti aura serena
di chiarissimo sol gli empie le sponde
minaccia a’ campi alto diluvio e mena,
orribile a veder, rapide l’onde,
e vinti i flutti e le prime acque amare
segna un longo sentier per entro ’l mare.

24Ma chi fu, dèe, che le memorie antiche
togliete al tempo che le copre e fura,
tra le genti barbariche nimiche
primera preda de la morte oscura?
Il duce fu che le campagna apriche
avea de l’Istria e la cittate in cura,
e che di lui che ’l gran soccorso or guida
donna produsse adultera et infida.

25Questi con varie piume in varie guise
d’ostro e di gemme alteramente adorno,
viste sue genti in fiero modo ancise
tinger la terra al vincitor d’intorno,
sospinto da disdegno oltra si mise
audace troppo a vendicar lo scorno,
e mal presago di sua sorte rea
l’aria d’oltraggi e di minaccie empiea:

26«Chi vi sgomenta? chi sì stran vi porge
timor?» dicea «chi v’ha d’orror confusi?
qual dio, qual Marte fra costor risorge
che steron dianzi per viltà rinchiusi?
Or lasciate il campo a chi vi scorge,
itene in fuga, o sempre a vendicar usi!,
che vostre infamie se n’andran men certe
da le notturne tenebre coperte.

27Han le machine eccelse a terra parse,
vostre lunghe fatiche, in picciol ora,
e vostre genti incenerite et arse
ch’entro a diffesa ivi facean dimora,
et or, lasso, non pur tepide e scarse
son le vendette ma fuggiamo ancora?
Oh che illustre corona, oh che mercede
v’appresta il re, che se l’ammira e vede!».

28Ma ’l bon Vitellio quelle penne altiere
scote da l’elmo e l’ingemmate spoglie,
indi nel fianco il ripercote e fère
il core a dentro e l’anima discioglie.
Lui sanguinoso de le amiche schiere
turba seguace ne le braccia accoglie,
l’altra da sdegno e da pietate accesa
sua forza aduna a consolar l’offesa.

29E chi longa asta e chi fa strider sasso
alpestre, e chi saetta venenosa,
ma nullo move a lui vicino il passo
che sostener tanto furor non osa.
Ei, rotando lo scudo ora alto or basso,
dileggia il vile assalto e mai non posa,
né, se ben di lei trema e da lui fugge,
men l’alta destra il suo nimico strugge.

30Mentre così la gente a Dio rubella
spegne Vitellio, dal destin sospinto,
vola al duce sovran l’empia novella
miser Boardo del figliol estinto.
A l’or cruccioso ei bestemmiò sua stella
dura et avversa da l’angoscia vinto,
e con occhi di lacrime dolenti
l’aria percosse d’odiosi accenti:

31«Tu,» dicea «che da’ giri alti e superni
stabile legge a l’universo imponi,
scorgi tu questo? o pur qua giù non scerni,
e preda al caso gli uomini abandoni?
O quanto indarno quei tuoi lampi eterni
trema la gente e i tuoi folgori e i toni,
e come folle al tuo valor sospira
ch’a sue basse fortune unqua non mira.

32Dunque dovea su la più verde etate
trovar sì dura e sì crudel mercede
un che tra ’l rischio de le genti armate
il suo valor fea conto e la sua fede?».
Così, colmo di rabbia e di pietate,
verso il nemico vien movendo il piede,
e con lui squadra alteramente move
famosa in arme per antiche prove.

33Splende fra gli altri Gargaro e Fileno,
coppia ch’amor di sua virtute imprime.
Essa in riva al Benaco almo e sereno
trasse i vagiti e le querele prime,
e quivi a i monti et a le selve in seno
crebbe predando le più alpestre cime,
né da l’acuto stral di sua faretra
piaga non aspra unqua animal impetra.

34Questa in sì dura forma anco da lunge,
scorto perir l’essercito infelice,
scelto quadrel che più feroce punge
piega il grand’arco disdegnosa e dice:
«Oh se colà vittorioso aggiunge
ove si manda questo stral felice,
a te sia gloria l’avversario morto,
fortuna, e solo a noi porga conforto».

35Tra queste voci doppio stral discioglie,
che l’aria nel volar stridulo fende:
uno Vitellio a le mammelle coglie,
ma finissima tempra ivi il diffende,
l’altro, non già come chiedean le voglie
del crudo arcier, né l’avversario offende,
anzi Vitellio oltra ogni rischio lassa
e te trova, Leonzio, e ’l cor ti passa.

36Sopra il baron disanimato a terra
duolsi Vitellio di pietate e piagne,
indi con tal furor doppia la guerra
che l’alto Egeo men adirato fragne.
Rabbiosa tigre che famelica erra
et empie di furor l’arse campagne
tal è a mirar ne gli affricani armenti
qual ei co ’l ferro intra l’armate genti.

37Spegne tra i primi, onde sen dolse il Varo,
suo patria, Ulmergo, e tra le labbia il tocca
e ’l minacciar ch’indi spargeva amaro
l’acuta punta gli rimette in bocca.
Scanna Pacoro, ei nel lucente acciaro
languido a terra e gelido trabocca,
e l’alma afflitta che volava a morte
sospirò sua famiglia e sua consorte.

38Urta fra molti al fin Boardo, ch’empie
sparge minaccie e sì consola il figlio,
e di dura percossa ambe le tempie
gli fère, e parte l’uno e l’altro ciglio.
A lui, cadendo, il petto inonda et empie
l’elmo ruscello tepido e vermiglio,
e dentro il ghiaccio del mortal orrore
spense l’ardir del disdegnoso core.

39Lui già di giel lascia Vitellio e caccia
gl’altri sì come di disdegno avampi,
che da l’aspro furor de le sue braccia
la fuga e ’l corso l’inimico scampi.
Fra tanto incendi è duro fin minacciaArmodio muore, i Romani tornano al campo vittoriosi (39,5-48)
con longo assalto di saette e lampi
sua torre Armodio, che d’intorno accesa
fumava oscura al ciel senza diffesa.

40La gente ch’ivi a la custodia eletta
dianzi tentò schifar l’alta ruina,
sprezzate l’armi or quella strage aspetta
che rimira certissima e vicina.
Così nocchier se già sdruscita accetta
sua navicella in sen l’onda marina
senza più por vele e timone in opra
attende il mar che tra le spume il copra.

41«O nati al gel, cui fredda notte oscura
tien» dice Armodio «eternamente involti,
i vostri dì, che ’l chiaro sol non cura,
ecco vedrete in tenebre sepolti.
Dunque, o duci, o guerrier de la ventura
ch’al tempo avverso non mostrate i volti,
credeste voi ch’a così vil furori
donasse Italia i suoi superbi onori?

42Dunque il Tarpeo che rilegate al tergo
vide le braccia e ’ncatenato il piede,
a tanti regi dovea farsi albergo,
gente vòta di onor, vòta di fede?
a che la dura piastra, a che l’usbergo
non s’opra ad acquistar tanta mercede?
Ammorzate l’ardor che vi sgomenta
e Roma ancella a vostre man diventa».

43Qui, tra l’ardor che ne le travi spesse
pascendo il muro divorò co ’l legno,
e tra ’l gran pondo de le genti istesse
che fiaccava co ’l motto il lor sostegno
cadde la mole, e ’ndegnamente oppresse
d’alta ruina il giovinetto sdegno
ch’intento a minacciar le genti infide
per l’aria cieca i rischi suoi non vide.

44Al caso rio con dolorosi accenti
fidi messaggi de l’interno affanno
le genti sue dando, le strida ai venti,
sovra ’l gran busto sospirando stanno;
or qui tornando da i nimici spenti
Vitellio intende il grave duolo e ’l danno,
e ripercosso da mestizia atroce
sfoga l’afflitto cor con simil voce:

45«O dura angoscia di tua patria altiera,
e di lei pregio e gloria unica e sola,
acerba morte a la staggion primiera
che ti diede a la guerra anco t’invola.
Pur l’alma tua de l’avversaria schiera
fatta vittoriosa al Ciel se ’n vola,
sì riede al campo sanguinoso e molle
che d’alta loda in fin al ciel n’estolle».

46Non altrimenti a la staggione antica
ora di Lerna or d’Erimanto vide
dopo il sudor de l’immortal fatica
Tebe gioiosa ritornar Alcide,
né con più gloria a la contrada amica
venner di Colco e da le rive infide
con la spoglia di Frisso e co ’l tesoro
gli Argivi erranti e ’l capitano loro.

47«Non fu» dicea Narsete «a l’or ch’espresso
ebbi per l’ombre a rimirar tua lode,
non fu da sogno o da fallace messo
larva composta vanamente e frode.
O dal Ciel alto cavallier promesso,
ch’in te del suo valor s’allegra e gode!
O versi altrove i soi veleni amari
o d’esser doma la malizia impari!

48Caschi l’orgoglio e ’l fiero ardir s’asconda,
che ’l bel volto d’Italia empiea d’orrore,
e te colà dove fremendo inonda
e più ribolle il mar d’alto furore,
te triemi dove notte atra e profonda
non chiama il sol da l’ocean mai fuore,
et in quei lidi sconosciuti e scuri
la sua viltate e ’l tuo valor misuri».