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Delle guerre de’ Goti

di Gabriello Chiabrera

Canto VII

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 26.09.15 8:56

Vitellio rovescia le sorti della battaglia e risparmia Idalia, facendola prigione (1-17)

1Qual il mostro ch’aver mirò Tessaglia
l’umane membra a le ferine inneste
pria che d’appresso l’inimico assaglia
fa co ’l corso tremar monti e foreste,
cotal a rinfrescar l’aspra battaglia
venìa correndo il cavallier celeste,
e volgendo la vista a i fier sembianti
stavan da lunge i barbari tremanti.

2Et ei dovunque i torbidi occhi gira
vede il campo d’Italia in fuga e vinto,
e pur d’appreso e sotto i piè si mira
del sangue amico ogni sentier dipinto.
A lor s’affretta, dal dolor, da l’ira
a la vendetta, a la vittoria spinto,
né prima il corso a gli inimici appressa
che la primiera gente in fuga è messa.

3Né, spinto in mezzo poi, forze nemiche
men caduche ritrova a’ suoi furori,
ché, qual fendendo le campagne apriche
parte l’aratro languidetti i fiori,
o qual troncar le biancheggianti spiche
suol mietitor sotto gli estivi ardori,
egli in vendetta de gli amici offese
partia l’umane membra e i duri arnesi.

4Il duce allor che l’infinita gente
imperioso a la battaglia guida,
tutto di sdegno e di vergogna ardente
crolla le tempie, alza le mani e grida:
«O pur or vincitor, come repente
è ch’un sol vi disperda, un sol v’uccida?
deh, qual altra vittoria unque sperate
s’a i colpi d’una destra in fuga andate?».

5Ciò detto il tergo segna al cavalliero
per averlo al ferir fuor di sospetto,
ma fatto accorto del villan pensiero
volge Vitellio e gli appresenta il petto,
e ’l ferro alzando al sommo del cimiero
fende il capo e la gola entro l’elmetto,
che con l’intiere tempie e con le gote
su ciascun fianco gelido percote.

6Or come al gran guerrier l’alma disciolta
vede fredda lasciar l’arme e la vita
sua salute la gente in fuga volta
commette al corso, pallida e smarrita,
né più la voce de le trombe ascolta,
ch’alto sonando a la battaglia invita,
né v’ha chi prenda scorno o si disdegne
senza diffese rimirar l’insegne.

7Gli elmi indorati e gli indorati scudi
temprati già con sommo studio e cura
gettansi a’ piedi, e se ne vanno ignudi
da viltate sospinti e da paura.
Sol tu, rivolta a’ feminili studi
et usa a l’arte di milizia dura
provasti, Flavia, in guerreggiar diletto,
vergine orrenda, e rivolgesti il petto.

8Costei là fra’ Sanniti, aspro paese,
nacque del Tronto a la gelata riva,
e gli anni molli in rigide opre spese
d’agi suavi e di delizie schiva.
Spiegò le reti e i lacci e l’arco tese,
né senza gloria cacciatrice ardiva
ch’entro le selve, spaventosa a l’orso,
lieve cervetta faticava in corso.

9Quivi assetata et arsa il fiume bebbe
e posò stanca in su la dura terra,
e l’alterezza de le spoglie l’ebbe
sola da le fere, che tra monti atterra.
Ma poi che ’l mondo odiò la pace e crebbe
l’ira et Italia surse armata in guerra,
volta a più chiare imprese il suo pensiero
l’arme vestì contra il romano Impero.

10Né fra i guerrier che ’l barbaro raccoglie
destra più certa o più crudel feria,
né fra cotante sanguinose voglie
ardeva voglia più superba e ria,
et or che ’n fuga il piede ogn’om discioglie
ella non già l’alta virtute oblia,
ma disdegnosa il cavallier disfida
e con orribil suon contra gli grida:

11«A che vil turba a la vil fuga avvezza
cacci, che vita e non la gloria brama?
dunque nel sangue di chi l’odia e sprezza
speri il merto trovar d’immortal fama?
Se cerchi vero onor di tua fierezza
rivolgi l’armi a chi t’attende e chiama».
Così dicendo al fiero assalto mosse
e con alto furor l’elmo percosse.

12Quel, come ferro entro la fiamma ardente,
mille chiare faville al cielo ha sparte.
Ella i colpi raddoppia e fieramente
batte l’aurato scudo e gliel diparte.
Ei, che dianzi le voci e pur or sente
l’opere altiere nel mestier di Marte,
sdegnoso che su ’l fine altri contende
la sua vittoria di furor s’accende.

13E là ’ve cerchio di metallo cigne
la gola e preme l’amorosa neve
la vincitrice spada immerge e spigne,
ch’entro ’l bel latte il puro sangue beve.
L’alma, cui dura angoscia assale e strigne,
vassene al quinto ciel rapida e lieve,
e morte rea la bella guancia oscura
che con tant’arte già formò natura.

14Presso ’l cader de la guerriera forte
una v’avea de le donzelle armate
che, seguita d’Arpalice la sorte,
spendeano in arme la fiorita etate;
costei scorgendo da vicin la morte
ebbe de gli anni suoi giusta pietate,
e ratta discendendo dal destriero
umilmente inchinossi al cavalliero.

15Vincea la neve il leggiadretto volto,
vincea la rosa di gentil colore,
e l’oro de la chioma iva disciolto
e gli occhi fiammeggiavano d’amore.
«Mira il campo» dice ella «in fuga volto,
o nobil cavallier, dal tuo valore:
omai poco di gloria aggiunger pòi,
co ’l sangue d’una donna a gli onor tuoi.

16Per la tua destra gloriosa, ardita,
pe ’l tuo valor, per la tua nobil fede,
per la vittoria ch’a pugnar t’invita
comparti ad una vergine mercede,
sospendi ’l braccio e mia giovenil vita
riponi, o cavallier, fra le tue prede,
e per umil tua serva mi destina
o chiedi gran tesor da mia regina».

17Così pregava, e i begli occhi tremanti
volgea pieni d’affanno e di tormento,
sì ch’ai detti suavi et ai sembianti
che a lei dettava l’ultimo spavento,
l’ira del cavallier non corse avanti
benché a le piaghe et a le morti intento,
ma sotto nobil guardia ei la commise,
indi spronò sopra le schiere ancise.

Getulio, vista prigioniera la sua amata, si ritira dalla pugna e incontra un cavaliero ferito, che gli parla di sé e gli svela l’identità di colui che ha imprigionato la sua donna (18-48)

18Benché di tanti popoli confuso
fumasse il campo d’ogni error funesto,
il caso di costei non però chiuso
fu colà dove esser dovea molesto,
che pronto amor, sì come ei tien per uso,
il fece ad un suo servo manifesto,
Getulio, che da lei gli occhi non torse
tutto rimira, di sua vita in forse.

19Ei ben lieto riman di sua salute
ma pur si duol che le bellezze amate
a’ suoi martiri, a’ suoi disir dovute
cieca fortuna in strana forza ha date,
né potendo sperar tanta virtute
e ne l’uccision tanta pietate
sopra l’altiera cortesia pensoso
a passo a passo ei ne divien geloso.

20E così quel mortifero veneno
amaramente gli circonda il core,
ch’in proffondo pensiero ei venìa meno,
vinto d’insopportabile dolore.
Pur al fin sprona et abbandona il freno
e volge in quella parte il corridore
per onde ei rimirò che menata era
la bella e disiata prigioniera.

21Ma il moto di quei popoli infinito
che discorreano in così spessi giri,
et ora un feritore, ora un ferito
diede tanto d’indugio a’ suoi disiri
ch’ei nulla scorge, da la pugna uscito,
come che si rivolga e che rimiri,
se ben loco non v’ha dove ei non spii
ove no ’l guardo, ove non l’occhio invii.

22Adunque ove destin non gli consente
la donna ritrovar, del suo dolore
più non gli cal, più non gli torna a mente
l’arme, la guerra o ’l barbaro signore.
Solo si vol, solo disia dolente
loco segreto a disfogar il core;
così sen va poco da lunge dove
tra l’ombra il fiume a lento corso move.

23Quivi discende, e mentre gira il piede
a cercar solitario ermo ricetto
tutto pensoso e disarmato vede
giovine d’anni un cavallier soletto;
egli su l’erba in riva al fiume siede
grave d’una percossa a mezzo ’l petto,
e con la man va procurando aita
e con l’onda corrente a la ferita.

24«O cavallier, che sia vaghezza e sia
destin, qui» dice «a guerreggiar sei giunto,
e ch’or, s’io guardo, empia fortuna e ria
t’have pur meco nel dolor congiunto.
Io, se l’opera mia grave non fia,
la ti prometto in fin da queste punte,
ma tu, se ’l favellar non è tormento,
di tua condizion fammi contento».

25E quei, le luci al cavallier converse,
tinto di passion ne’ soi sembianti,
tenne le labbra, e fin che non l’aperse
sparse fuore sospiri e sparse pianti.
Indi rispose: «Om di fortuna avverso
fortuna avversa t’ha condotto avanti,
e mal richiedi, se piacer non hai,
d’udir, guerrier, aspre miserie e guai.

26Ma se costume natural ti sprona
per diletto a spiar de l’altrui pene,
io pur dirò che quanto ne ragiona
tanto ne gode il cor che le sostiene.
Così l’alta beltà che le caggiona
volgesse qui le luci alme, serene,
e mirasse la pena che m’avanza
da l’ampia e sempre dura lontananza!

27Là dove il mar che da’ Tirreni prende
il nome Italia in su l’estremo inonda,
sotto l’altiero monte che diffende
il freddo borea a l’arenosa sponda,
Savona a l’acque angusta falda stende,
Savona sempre di beltà feconda
in quelle piagge, in quei bei liti adorni
ebb’io, signor, nascendo i primi giorni.

28A pena nato a’ duri miei tormenti
sorte volle adoprar di sua fierezza:
mi negò le lusinghe de i parenti,
mi pose in rissa, m’involò ricchezza.
Amore al fin con le sue fiamme ardenti
servo mi fe’ d’una crudel bellezza,
per modo che né forza né disio
ebbi poscia già mai d’esser più mio.

29Così dolente mi distrussi et arsi
tutto lo spazio de la verde etate.
Gridi, sospiri dal profondo sparsi,
ebbi le guancie pallide e bagnate,
e pur quegli occhi avaramente scarsi
mi negaron un sguardo di pietate,
né su la bella fronte altro mai lessi
che duri strazi e che tormenti espressi.

30Tanto peso di affanno e di martire,
tante sì longhe feritati estreme
non ben poteansi con ragion soffrire
senza alcun refrigerio e senza speme,
però la mia miseria e ’l mio disire
venne palese e la cagion insieme,
e tutto il mondo a riguardar si diede
la sua dura alterezza e la mia fede.

31Et ella, vergognando al suo bel volto
farsi palese un amator sì vile,
nel domestico albergo ebbe sepolto
l’almo splendor de la beltà gentile,
né pe ’l tempo a venir poco né molto
si fu pentita de l’appreso stile,
né già mai poscia io rimirar potei
pur disdegnoso il sol de gli occhi miei.

32Allor feci pensier, benché dolente,
d’abbandonar quelle dilette arene,
pensando sol ch’al ritornar la gente
gli occhi non avria volti a le mie pene.
Così mi mossi entro la fiamma ardente
traendo dietro pur ceppi e catene,
e con angoscia e con pensier di morte
in Tracia venni a la romana corte.

33Quivi è soverchio il dir del mio dolore
se per prova d’amor conosciuto hai,
ma se de le sue piaghe hai sano ’l core
che giova il dir?, no ’l crederai già mai.
L’estrema passion d’un che si more
quei rei sospir, quei rei martir, quei guai
e quella pena tormentosa e ria
m’erano al cor, che volentier soffria.

34Marte feroce indi discordia accese
vago de l’opre sanguinose e crude,
ciascun destossi a perigliose imprese
per trarne gloria e per mostrar virtude.
Io lieto me ne corsi al bel paese
ov’è la patria che ’l mio ben rinchiude,
sperando men da lunge al suo bel ciglio
passar men grave il doloroso esiglio.

35Ma dura sorte, che di trarre è vaga
a fin acerbo la mia vita rea,
vol che di Marte ancor senta la piaga
il cor che pur quella d’amor piangea.
Ma se ben di suo cibo or non l’appaga
la speme, che da presso mi pascea,
non però nel pensiero altro mai viene
fuor che Liguria e le paterne arene.

36Tal mi son peregrin et al ritorno
veggio che morte omai la via mi serra.
Ma tu chi se’, che pur con l’armi intorno
spendi in riposo l’ore de la guerra?».
Getulio il guardo di pietate adorno
sospirando piegò verso la terra,
e poi di novo nel guerriero il fisse
et a lui rispondendo così disse:

37«Perché tu sappia che con cor pietoso
sono stati raccolti i dolor tuoi,
saprai ch’i son nel carcere amoroso
e provo duri i reggimenti suoi;
ma perché nel mio stato aspro e noioso
alquanto di quiete arrecar puoi,
prego ch’a consolar l’empia mia doglia
pietosamente adoperar ti voglia.

38Dianzi pugnando ambo le genti armate
prigioniera n’andò la donna mia,
né ebbi di disciorla potestate
sì trovai nel venir chiusa la via.
Or s’io posso riporla in libertate,
chi più felice e fortunato fia?
Ma porla in libertate indarno io spero
se contezza non ho del cavalliero.

39Ei con moro destriero in guerra venne
che sol la fronte ha colorita in bianco;
sopra il cimiero ha tre purpuree penne
e d’ostro fascia l’un e l’altro fianco;
di cotanto valor che sol sostiene
le schiere avverse, coraggioso e franco,
né d’alcun’altra destra anco vedute
sono opre in arme di sì gran virtute.

40Tu che nel campo de’ latin fai nido
e con lor passi de l’essilio gli anni,
e saper devi i cavallier di grido
e ’l nome loro rinvenir a i panni,
deh mi noma costui, che s’io ’l disfido
trovarò il fin de gli amorosi affanni,
ché vincitor la donna mia disciolta,
vinto mia pena co ’l morir fia tolta».

41E quel latin, che ’l cavallier sovrano
avea raccolto a manifesto segno,
grida: «O che forte, o che feroce mano
t’invola, amico, il caro tuo sostegno!
Non ha ’l campo stranier, non ha ’l romano
di lui pugnando cavallier più degno,
et esser può che l’armi e la battaglia
seco vien men che ’l ripregar ti vaglia.

42Pur oggi al mondo il terzo dì risplende
ch’ei n’apparse solingo in su ’l mattino.
Ch’il mandasse fra noi nulla s’intende,
ma de l’Etruria ei mosse peregrino;
solo Narsete nel suo dir contende
ch’a noi discenda messaggier divino,
e quinci a lui commesso ha finalmente
il governo de l’armi e de la gente.

43Egli a fermar nostra fortuna avversa
promette alto destin di sua persona,
e che vostra possanza andrà dispersa
come di cosa certa altrui ragiona,
e certo se destin non s’attraversa
il bel regno d’Italia or v’abbandona,
e Roma nostra, in che fermaste albergo,
vinti vedravvi e con le braccia al tergo.

44E se ’l mio detto e la credenza è vera,
sian testimonio i toi medesmi lumi:
veduto hai folgorar la destra altiera,
n’hai rimirati i sanguinosi fiumi.
Questi si tien l’amata tua guerriera,
amico, per cui piagni e ti consumi,
e porti di morir sì grave some;
se ’l nome chiedi, ei di Vitellio ha ’l nome».

45Ei così gli rispose, e tenne alquanto
Getulio a terra il nubiloso ciglio;
indi soggiunse: «E verità sia quanto
del mio ragioni e del commun periglio:
pensi il re nostro a sue fortune, intanto
d’amore io solo prenderò consiglio,
ma la preghiera mia non ti sia greve
per la pietà ch’a gli amator si deve.

46Sì tosto come sei tornato in campo,
se pace, se conforto amor ti dia,
trova la donna del cui viso avampo,
se ben in sorte dispietata e ria,
e dille tu per me come al suo scampo
la fedel opra di Getulio fia,
e che la servitù non le rincresca
fin che co ’l novo dì l’alba se n’esca».

47Così detto riprende il suo destriero
rivolgendo la mente a la partita,
e ne porge la briglia al cavalliero
cui grato esser dovea per la ferita,
e dice: «Omai vien notte a l’emispero
e ’l sol partito a dipartir m’invita;
monta in arcion che sì piagato e lasso
difficilmente moveresti il passo.

48Et egli al fin, dopo ch’in van contese,
con bel parlar di gentilezza adorno,
pigliò ’l destrier del cavallier cortese
et al campo d’Italia fe’ ritorno.
Getulio, poi che da le stelle accese
mirò dal mondo omai bandirsi il giorno,
nulla co ’l ferro ei più curò provarsi
a pro de i Goti fuggitivi e sparsi.

Vitellio prosegue la strage, è fermato dalla notte (49-52)

49Ma non Vitellio il gran furore affrena,
se ben lo stuol avverso in fuga è volto,
e se ben cieca notte in giro mena
omai suo carro e ’l più vedere è tolto.
Già di gran tronchi la foresta è piena
e d’atro sangue è tutto ’l campo involto,
et ei pur su gli estinti e su i mal vivi
batte con l’arme il tergo a i fuggitivi.

50Qual il gran fiume dove ancor sospira
Febo su ’l caso di Fetonte indegno,
se per nevi disciolte unqua s’adira
e ’l freno usato ha de le rive a sdegno,
ondeggia altiero in gran diluvio e tira
seco a basso ogni sponda, ogni ritegno,
e selve e paschi e ciò che trova intorno
ne porta al mar sopra l’orribil corno,

51tal su lo stuol che gli fuggiva inanti
alto fremendo il gran guerrier correa,
e calpestando or cavallieri, or fanti
spegnea le gente scelerata e rea.
Sotto il fier ciglio e sotto i fier sembianti
il fiero sguardo minaccioso ardea,
e dal gran scudo e dal grand’elmo e fuore
da i grandi usberghi sfavillava orrore.

52Per entro ’l sangue che ne giva errando
eran soi fregi d’atre macchie offesi,
sangue gli spron, sangue vedeasi il brando
e sangue tutti distillar gli arnesi.
Se cieca notte da l’Ibero alzando
non ingombrava a l’or tutti i paesi
franca era Italia, ma pei ciechi orrori
interruppe Vitellio i soi fuori.