Breve compianto di Vitellio sui compagni morti (1-6)
1Era del sol co’ suoi bei raggi ardenti
la nova luce a l’orizzonte uscita,
e dietro i lumi de la notte spenti
il pianeta d’amor facea partita,
e già dato Narsete a le sue genti
avea l’ultimo onor dopo la vita,
et al digiun de gli animal ascose
avea le membra amiche e sanguinose.
2Ma i gran guerrier ch’a morte acerba e ria
sospinse guerreggiando aspro destino
altieramente in vèr la chiesa invia
che ci fa sacro il monte di Cassino:
vuol che sia loco ove la gente pia
per loro prieghi al gran favor divino,
et ove l’om peregrinando possa
mirar le tombe e riverir quell’ossa.
3I duci de le squadre e i cavallieri
già lor compagni in più felice sorte,
deposti i fregi e gli ornamenti altieri
escono appresso ad onorarli in morte,
e l’amico Vitellio infra i primieri
apre per gli occhi al suo martir le porte,
e dimostra ne gli atti il gran dolore
e la pietate ond’ha ripieno il core.
4Così movea con doloroso pianto
la mansueta compagnia pietosa
e, per la via, già trappassati alquanto
eran quei vepri e quella macchia ombrosa
ove a fornir lo scelerato vanto
stava l’alta bellezza insidiosa.
Or qui Vitellio, che tornar volea,
co’ duci al capitan così dicea:
5«Diletto Armodio, e voi che ’l mio cor ama
seco disciolte in cielo alme compagne,
che pur sì ricche de l’eterna fama
Italia qui debitamente piagne,
me la guerra medesma indietro chiama
di novo a funestar l’ampie campagne,
né vuol ch’a gli onor vostri io sia presente
l’empio furor de la nimica gente.
6Or mentre, lasso, a liberar io sono
la nobil Roma da le forze strane,
voi ch’appresso di Dio fate soggiorno
pregate aita a le possanze umane».
Così licenza di pietate adorno
la schiera et ei co i duci si rimane,
et indi move a gli steccati il passo
di passione addolorato e lasso.
Irene si fa trovare da Vitellio e gli racconta una falsa storia (7-29)
7E già venìa da presso al vil confine
ove era chiusa di selvaggio orrore
quando da i duri sterpi e da le spine
apparse Irene e dimostrossi fuori,
e tal di sue bellezze alme e divine
ivi repente fiammeggiò splendore,
e tal sua forma folgorò d’intorno
che fece a i rai del sol vergogna e scorno.
8Oltra l’altiero don de la natura
onde a tutte bellezze andava inanti,
ella di più valer tenta e procura
con l’arte de le grazie e coi sembianti.
Era sua vesta tenebrosa e scura
pur come afflitta si vivesse in pianti,
né volle aver, salvo che vile e bruna,
intorno cosa da fregiarsi alcuna.
9Ma qual appar co’ suoi be’ rai lucenti
candida luna entro i notturni orrori,
tal vibrava ne i veli atri e dolenti
il bellissimo viso i suoi splendori,
e su per quei più de l’usato ardenti
le bionde chiome inannellavan gli ori,
ch’in mille nodi avea disciolte e sparte
le dure spine in quei cespugli e l’arte.
10E ’l giovinetto seno, in cui celate
eran bianchezze non vedute in pria,
a mostrar le bellezze disiate
picciolo spazio infra le vesti apria,
e su quella amorosa oscuritate
la bianchissima man spesso apparia:
e gli occhi armati di celesti rai
spargevan fiamma da non spegner mai.
11Al tempo forse de le gran contese
simil bellezza in Venere splendea
a l’or che colta giù dal ciel discese
a la sentenza de la valle idea.
Così fatta la donna a i piè si stese
del cavallier che straziar volea,
né pria disciolse a le parole il freno
ch’ella bagnasse lacrimando il seno.
12In rimirar Vitellio e i cavallieri
stupidi stan de la beltà infinita.
Han meraviglia dei sembianti altieri
e meraviglia ond’hanno fatto uscita.
Ella come fra l’armi e fra i guerrieri
chinò lo sguardo quasi sbigottita,
e ’n su la guancia le vermiglie rose
fiorirono ostro che i be’ gigli ascose.
13Poi dove scorto ella ha che riguardando
nel pianto stanno che nel sen le piove,
alza la voce e grida sospirando:
«Fia mai che pace a la mia vita io trove?
o pur, sì come de la patria in bando
contrade io corro peregrine e nove,
così provar non men acerbi e rei
debbo gli altrui che i cittadini miei?
14O cavallier, che la più verde etate
pietosamente in guerreggiar spendete,
e che tra ’l rischio de le schiere armate
pur solamente per onor vivete,
se di gloria vi cal, se di pietate
l’anima altiera a’ prieghi miei volgete,
né consentite che di suoi martiri
vergine indarno a’ vostri piè sospiri».
15A sì mentite lacrime pietose
Vitellio in verso lei porse la mano,
e mansuetamente le rispose,
fattala prima sollevar dal piano:
«Vadano omai le voci dolorose,
vergine bella, dal tuo cor lontano,
né pianto più ti bagne il viso adorno,
né più teco timor faccia soggiorno.
16Cessi Dio che la fama unqua dispieghi
mia tanta colpa infra i guerrier gentili,
ch’appresso me di verginetta i prieghi
stati sian vani e le miserie vili.
Ma tu fa’, perché tosto m’impieghi,
palese il fin de le querele umili,
e queta lascia che comporta poi
mia spada il premio a gli inimici toi».
17Da la risposta che benigna intende
scorto principio a’ suoi disir felice,
più d’ardimento e di baldanza prende
la bella e giovinetta ingannatrice,
e per letizia le bellezze accende
più vivamente, indi soggiunge e dice,
e coprir cerca ne i mentiti accenti
esca onde tragga alte faville ardenti:
18«A spiegare il mio duol da tutte bande
saria soverchia e troppo longa istoria,
ma dicendo di quel che mi domande
succintamente io ne farò memoria.
Poi ch’ebbe avuto Bellisario il grande
signor de i Goti l’ultima vittoria,
il dominio d’Idrunto per mercede
al bon Macario genitor mio diede.
19Ma poco di goder gli fu concesso
il dolce frutto de le sue fatiche,
però che i vinti poco tempo appresso
rinovellaro le discordie antiche,
e l’alto regno de l’Italia oppresso
divenne preda de le man nemiche,
senza forze rimaso e senza aita
da poi che Bellisario fe’ partita.
20Allora e poca fede e gran spavento
tutte fe’ ribellar queste contrade,
e gettarono a terra in un momento
la dianzi racquistata libertade.
Solo il mio genitor prese ardimento
contra il furor de le nemiche spade,
e per l’Imperio conservar volea
il don ch’avuto da l’Imperio avea.
21Ma lo stuol cittadin poco fedele
e poco incontra a le minaccie forte,
prima contra il signor fece querele
et indi aprio de la città le porte.
Dentro venuto il barbaro crudele
subito trasse il nostro padre a morte,
et aspramente a ricercar si diede
per così far di ciascun altro erede.
22Di lui dui solamente eramo in vita,
Afranio giovinetto et io donzella:
Afranio poi ch’ebbe del padre udita
e de i nostri pericoli novella,
me celata ripose e custodita
con sacre donne in solitaria cella,
et ei co ’l suo valore in vari modi
schernì l’insidie e le nemiche frodi.
23Così fu ciaschedun tristo e dolente
io chiusa priggioniera, ei peregrino,
ma poi ch’a pro de la meschina gente
trascorse qui vostro valor divino,
ei risvegliò la generosa mente
cercando in arme alcun miglior destino,
e se ’n venne a la patria e fece ogni opra
per torle il giogo barbaro di sopra.
24I cittadin non gli prestaro aiuto,
presero i Goti le dure arme in mano,
a tal ch’abbandonato e combattuto
tinse la patria ch’ei diffese in vano.
Io, visto ucciso il genitor canuto,
et indi appresso il giovine germano
mi presi fuga da la patria ingrata
ch’era del sangue mio tutta bagnata.
25E tratta a pena da quei muri infidi
m’avean dui fedelissimi scudieri
che dietro udì le voci e correr vidi
a ritenermi gli aversari fieri.
A l’or senza aspettar ch’altri mi guidi
batto per gli selvetici S | solevatici sentieri,
e qui trascorsa con la notte ombrosa
fra queste spine mi son stata ascosa.
26Fu mio pensiero a questo campo trarmi
ch’andar famoso di pietade udia,
e quivi abbandonata procacciarmi
qualche contrasto a la fortuna ria.
Or io non so, guerrier, se le vostre armi
si verran manco a la speranza mia,
e se i cortesi vostri cori avranno
qualche pietate di cotanto affanno.
27Io più non veggio, se di ciò son priva,
di che far scampo a la mia verde etate;
del sangue mio nulla persona è viva,
la patria serva d’altrui potestate;
andar peregrinando fuggitiva
no ’l mi consente legge di onestate,
e s’io men fuggo che sentier, che via
rimane aperta a la salute mia?
28Oggi l’Italia e tutto ’l bel paese
fatto è selvaggio da la guerra ardente,
e tutto è pien de l’inimiche offese
né priego o voce di pietà si sente.
E poi s’io non ritrovo alma cortese
qui dove è ’l fior de la romana gente,
misera, con qual modo e con qual arte
ricercando l’andrò per altra parte?
29Deh signor mio, se ’l tuo valor discioglia
Roma da l’empia e dura servitute,
e ’n lei s’appenda gloriosa spoglia
in testimonio de la tua virtute,
me cotesta tua destra anco raccoglia
onde raccoglie Italia sua salute,
e ti sovegna che de i cor gentili
proprio costume è sollevar gli umili».
Vitellio la rassicura, lei se ne innamora (30-38)
30Così parla e col fin de le parole
di novo a piè del cavallier s’inchina,
e sparge mentre ivi si lagna e duole,
un fiumicel di pioggia cristallina;
ma più rischiara de’ begli occhi il sole
entro quel pianto e sue bellezze affina,
e ’n mezzo de l’affanno e del dolore
dispensa i guardi a penetrarli il core.
31Ma quantunque a scaldar gli altrui disiri
spiega l’alte sue grazie in vari modi,
non è però che volentier non miri
e seco stessa il cavallier non lodi,
e se bene ad estremi empi martiri
tirarlo vuol con l’amorose frodi,
confessa pur che men crudele e ria
donna a tanta beltate esser dovria.
32Non pur a la fatica, a la fortezza
le membra di Vitellio il Ciel compose,
che tutto ’l fior de l’immortal bellezza
la benigna natura in lui ripose.
Quel che più ch’altro in vagheggiar s’apprezza
fra noi qua giù, latte, alabastro e rose,
alteramente e fuor del mortal uso
in su la bella guancia era confuso.
33E su l’estremo di quell’ostro adorno
e de la neve amorosetta e viva
s’accampava leggiadra intorno intorno
un’ombra d’oro che serpendo usciva;
e ’l crin, ch’a i rai del sol potea far scorno,
scendea su ’l collo e ’n parte il ricopriva,
e chiudeva tra spessi avolgimenti
l’altiera fronte con le fila ardenti.
34E forse ben da la pietate offeso
stava in sembiante grazioso e lieto,
e sfavillava dal bel guardo acceso
non so che di guerriero e mansueto.
Certo di lui quanto ha nel campo inteso
ora afferma la donna in suo secreto,
e nel profondo core altro le sembra
quella sembianza che terrene membra.
35Né giamai gli occhi disiosi toglie
da quel bel viso ch’impiagar dovea,
e da le voci che da lui raccoglie
si fa conserva dilettosa e rea.
A consolar quelle sue finte doglie
molte cose Vitellio le dicea,
e del fratello e del parente morto
prometteva vendetta a suo conforto:
36«O quanto accorto fue vostro pensiero,
affaticata e nobil giovinetta,
ch’inverso noi vi fe’ pigliar sentiero
non volendo a’ nimici esser suggetta.
Fra noi de i Goti e de l’ingiusto impero
si va tessendo general vendetta,
e s’è la mente mia certa indovina
ella velocemente or s’avicina.
37A l’or sopra la vostra dignitate
e sopra il sangue de la vostra gente,
e sopra il fior di così verde etate
il gran Narsete volgerà la mente.
In questo mezzo tra le schiere armate
potrete dimorar sicuramente:
nobil donna è priggion, ella vi fia
onesta e graziosa compagnia».
38Irene, rasciugando i freschi pianti,
umilissimamante lui ringrazia,
ma pur con gli occhi timidi e tremanti
su per le membra giovinette spazia,
né del bel viso, né de’ bei sembianti
né de’ begli atti rimirar si sazia,
ma non però rifiuta il rio pensiero
di trarre a dura morte il gran guerriero.
Irene è data in compagnia a Idalia, alla quale confida il proprio piano (39-51)
39Or con procella di pensier sì ria
che dal cor le disgombra ogni quiete
giungono al campo, e ’l cavallier s’invia
co gli altri a rivederne il gran Narsete;
ma lei manda a trovar sua compagnia
a le parti del campo più secrete,
ove si stia fin ch’al soprano duca
dopo gli altri negozi ei la conduca.
40Tosto che là fra la compagna gente
a quella prigionera alza la faccia
quanto è possibil più celatamente
segno le fa che la secondi e taccia,
e poscia con amor leggiadramente
porge i primi saluti, indi l’abbraccia,
e con modi dolcissimi e gentili
forniscon l’accoglienze feminili.
41Poi che da tutti scompagnate e sole
d’aperto ragionarsi hanno potere,
dice la prigioniera: «Or che si vole
da te sì giovinetta in queste schiere?
Comincia a favellar ciò che ti duole,
ciò che ti è di piacer no ’l mi tacere.
Nove disavventure et infelici
ti conducono forse infra i nimici?».
42Irene le risponde: «Idalia mia,
la Dio mercé, nullo martir m’offende,
nulla fortuna ingiuriosa o ria
ardita mi trasporta in queste tende;
il re mi vi sospigne, egli m’invia
che nova strada a la vittoria prende,
et io per adempir l’alta vaghezza
arrischio volentier mia giovinezza».
43Quinci le frodi e le mentite imprese
tutte rivela e le speranze ascose,
Idalia, poi ch’ebbe le voci intese,
lieta sovra essa lor così rispose:
«O magnanima giovine cortese
de la tua vita in perigliose cose,
o quanto è riprovar le nobili arti
a tempo il re ti manda in queste parti!
44Certo amico destin per qualche via
gli ha fatto in parte manifesto e piano
ciò che veracemente e per bugia
si sente qui del cavallier sovrano;
né creder tu, ch’unque possibil sia,
di superar l’essercito romano
mentre ch’in sua diffesa e ’n sua salute
questi vorrà provar l’alta virtute.
45Ei colà da Toscan quinci remoto
l’altro ier venne in su l’ora matutina,
canta la fama, conceduto in voto
a liberar la region latina,
talmente che l’essercito devoto
il reputa qua giù cosa divina,
e poco reputar puossi altramente
s’a i gran fatti di lui volgiam la mente.
46Ciò ch’ei sa farsi infra le schiere armate
a nostra vista in questi campi stessi
il sangue de le genti sfortunate
con eterna memoria se ’l confessi;
ma come di virtute e di bontate
di sé ci lasci alti vestigi impressi,
io, quantunque durissima nimica,
esser però non può che no ’l ridica.
47Io ne la pugna sanguinosa e fiera
ebbi dianzi mestier di sua mercede,
è l’ebbi indarno, ch’a la mia preghiera
benigna orecchia e graziosa ei diede,
et or qui di lui vinta e priggioniera
in van nulla per me gli si richiede,
e gir mi lascia e dimorarmi sola
sol custodita da la mia parola.
48A qualche amico, ch’è fra noi distretto,
vol ei far prezzo de la mia persona,
però contrariando al suo diletto
se tosto in libertà non m’abbandona;
né lontana o diversa dal mio detto
alcuna voce di mortal qui suona,
né v’ha cor che no ’l pregi e non l’onori
e in lui non spenda i soi più caldi amori.
49Certo tanto valor, tanta fortezza,
tanta bontà sì poche volte udita,
e tanto lume d’immortal bellezza
degno sarebbe di più longa vita,
ma poi che per scampar da sua fierezza
altra il re nostro non ritrova aita,
Irene, in procurar nostra salute
poco ne caglia de l’altrui virtute».
50Sì dice Idalia, et ascoltando Irene
pur in quei vanti volentier s’appaga,
e ne l’ossa nudrisce e ne le vene,
non s’accorgendo, l’amorosa piaga.
Già con molta fatica ella sostiene
di lui tacer, sì di sentirne è vaga.
or incomincia, ora di dir pentita
rinchiude le parole in su l’uscita.
51Talor fa forza e ricercarne vole
e vien spiando or questa cosa or quella,
sì che pur solo è ne le lor parole
Vitellio, e di Vitellio è lor favella.
Ma poi ch’in cielo è disparito il sole
e Espero v’accende ogni fiammella,
cercano su le piume alcuna posa
per lo silenzio de la notte ombrosa.