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Delle guerre de’ Goti

di Gabriello Chiabrera

Canto XV

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 26.09.15 9:16

Vitellio uccide Settimio (1-9)

1Così dicendo co i sospiri in bocca
e con tepidi pianti intorno i lumi,
di gir a morte disiderio il tocca
pria che di duol si strugga e si consumi,
e vassene colà dive trabocca
la gente gota sanguinosi fiumi,
ov’arme e membra il cavallier diparte
e mostra di battaglia orribil arte.

2Vede ei che la vittoria omai s’appressa
e che son del destin l’ore vicine,
ove Dio vòl la bella Italia oppressa
liberar de l’antiche alte ruine,
quinci feroce e rapido non cessa
di strugger l’empie genti peregrine,
e guazzando pe ’l sangue si raggira
e nel volto e ne gli occhi avampa d’ira.

3Qual s’a punir le scellerate genti
trabocca irato il ciel pioggie profonde,
a l’or fremendo scendono i torrenti,
a l’or vincono i fiumi argini e sponde,
e i lieti solchi e i numerosi armenti
sommersi e guasti se ne portan l’onde,
e ’l mesto villanel, che le campagne
mira perir, se ne sospira e piagne,

4a cotale sembianza in su quel piano
scorrea del cavallier l’alto furore,
e sotto l’alta e vincitrice mano
cadean le schiere in sanguinoso orrore.
Così l’Italia e ’l bel nome romano
traea con l’armi al suo primiero onore,
e mentre irato gli inimici ancide
Settimio afflitto da lontano il vide.

5E ’l destrier punge e verso lui s’invia
e grida, lasso ma con voce ardita:
«Ecco l’uom nato per mia sorte ria
e per cui spero ella sarà fornita.
Ei la diletta e cara donna mia
dianzi m’ha tolto, or mi torrà la vita».
Indi alza un braccio, e coraggioso e franco
aventa un dardo e gli percote il fianco.

6Il ferro su le piastre sen trascorse
né dentro il sangue del guerrier si tinse.
Tosto Settimio a lui da presso corse
e con la man la dura spada strinse.
Il cavallier, che di costui s’accorse,
contra la fiera punta gli sospinse,
e trovò ’l core e riversollo in terra
e corse avanti a terminar la guerra.

7Come tallora in mezzo i campi erbosi
un verde tronco di leggiadra oliva
ch’ai trascorsi de l’aure rugiadosi,
al mormorar del rio lieto fioriva,
se tempesta di venti impetuosi
mai la dibatte in su la dura riva
lascia le frondi e si dispoglia i fiori,
e par che pianga i suoi perduti onori,

8così cadd’egli, e fra l’amica gente
morte di nebbia eterna il ricoperse,
et ei la chioma di fin’or lucente
e le spoglie di sangue in terra asperse;
le spoglie che conteste altieramente
per la memoria del suo amor gli offerse
la bella Irene, a l’or ch’a poco a poco
seco struggea ne l’amoroso foco.

9Fra tanto mira da’ guerrier suoi cinto
in mezzo l’armi il barbaro tiranno,
come gli avanzi del gran campo estinto
pur a la fuga et a la morte vanno,
e dal cordoglio e dal disdegno vinto
e dal timore in parte e da l’affanno,
venuto segno di nimica sorte
consiglia di sua vita e di sua morte.

Vitellio dà la caccia a Teia e lo uccide (10-24)

10- Deh, che mi deggio far? (seco favella)
per viver anco e per guardarmi il regno?
stringo la spada e mi riprovo in sella,
e faccio star l’empio nimico a segno?
ma che voglio io provar? Sorte rubella
è per condurmi a qualche caso indegno,
ché questo tempo e questo giorno parmi
troppo duro et avverso a le nostre armi.

11Or adunque cedendo al fier destino
mitigherò fuggendo il suo furore,
e per contrade ignote peregrino
riserberommi a la staggion migliore.
Ma come andrò fra ’l popolo latino
e l’ira schernirò del vincitore?
oh non con ogni forza e con ogni arte
perseguendo m’andran per ogni parte?

12Deh, che rivolgo in cor? deh che dico io?
onde mi vien l’insolito spavento?
or così adunque mia fortuna oblio,
e ’l titolo real non mi rammento?
Tutto altro è indarno, oggi l’imperio mio
terrò con l’armi o morirò contento -.
Così dicendo disdegnoso e fiero
spinge verso Vitellio il bon destriero.

13Con l’istesso furor spingono a paro
pur precorrendo il suo signor Timarco
e Pilade fremendo et Ademaro,
e ’l giovinetto e vedovel Clemarco.
Così vanno i pastor che rimiraro
da l’alto il lupo che gli attende al varco,
e di pali e di sassi arman le mani
e contra lui vanno infiammando i cani.

14Mentre costor se ne venian armati
e parte con l’essempio e con la voce
traean di quella gente che su i prati
isbigotita se ne gìa veloce,
Vitellio il re scorgendo a i segni usati
ratto a lui contra se ne vien feroce,
e con lo scudo si ricopre il dosso
da la rabbia de i dardi ond’è percosso.

15Come leon che dal digiun costretto
mira giù tra i villan grossa pastura,
pieno di feritate e di diletto
sen vola alto ruggendo a la pianura,
e tra bifolci a chi disbrana il petto,
a chi dà morte sanguinosa e dura,
né cessa fin che i duri artigli e i denti
ei non incarne nei lanosi armenti,

16così Vitellio, a cui fatal disire
l’anima avea contra il tiranno accesa,
a percoter comincia te a ferire
contra la schiera ond’egli avea diffesa,
et al furor di quell’orribil ire
tosto per terra se va distesa.
Primo è Timarco, a cui la vita invola
empia percossa in mezzo de la gola.

17Indi fremendo a Pilade s’aventa
e ’l fianco gli trapassa e pria l’acciaro
e la punta durissima appresenta
e l’immerge nel petto ad Ademaro.
Subito in viso pallido diventa
e gli occhi per la morte si gelaro,
e lascia del destrier libero il freno,
che fuggendo lo scote in su ’l terreno.

18Mentre cadeano, il barbaro che mira
di quei suoi più fedeli il pian vermiglio,
per pietate di lor parte sospira
e parte pensa al suo vicin periglio;
e giù nel cor diverse cose aggira,
al fin si pente del primier consiglio,
volta il cavallo e per l’aperto campo
cerca fuggendo procurar suo scampo.

19Il cavallier, che si credea fornita
già la battaglia e via fuggir si vede
fuggirsene via quel ne la cui vita
tutta la guerra e la vittoria sède,
lascia la turba vinta e sbigottita
e dietro il fuggitivo affretta il piede,
e sì lo strano corridore ei spigne
ch’in breve spazio l’inimico strigne.

20Qual paventando insidiosi oltraggi
in riva al fiume dal nimico arciero
vassene a’ suoi ricetti ermi e selvaggi
il cervo velocissimo e leggiero,
e qual premendo i lievi suoi viaggi
dietro s’affretta il cacciator levriero,
e già l’appressa e già ne’ fianchi il tocca
e ’n van talor fa risonar la bocca,

21così temendo il barbaro fuggia,
così Vitellio gli seguiva al fianco,
e si vedea la polverosa via
fra lor ad or ad or venir a manco,
quando fu quei che rapido se ’n gìa
abbandonato dal destrier suo stanco,
che ben spronato al traversar d’un fosso
cadde nel salto, e gli rimase addosso.

22A l’or di sella il cavallier discende
e con la spada l’inimico assale.
Così il cielo talor l’aquila fende
e vien su l’angue dibattendo l’ale,
che s’una volta negli artigli il prende
oltra suo tosco e suo strisciar non vale,
e ’ndarno egli si scote e s’affatica
e con suoi nodi le dure unghie intrica.

23S’affanna il rio tiranno e si riprova
pur per uscire al cavallier di mano,
ma nulla forza e nulla astuzia giova
e si distorce e si dibatte in vano.
Quegli per trarre a fin l’ultima prova
e liberar l’essercito romano
la vincitrice spada immerge e spigne
e nel rio petto e nel rio cor la tigne,

24e gl’intona di sopra: «Ecco fellone
ove t’adduce di regnar disio,
Tu non credevi, o barbaro ladrone,
cader giamai sotto la man di Dio?».
Così lieto rimonta in su l’arcione
e lascia in terra l’inimico rio
a bagnar de la piaga acerba e rea
l’almo paese in che regnar volea.

Narsete loda Vitellio, il quale non chiede premi (25-35)

25E già nel mondo venìa manco il giorno
che tuffava ne l’onde il suo splendore,
e l’alto ciel de l’alme stelle adorno
già dispiegava il tenebroso orrore
quando il guerriero con le sue genti intorno
lieto se ne tornava e vincitore,
e poi ch’appresso il gran Narsete ei vede
gli move incontra e reverente a piede.

26Il gran Narsete rinfrescando il volto
di lacrime che stilla alta allegrezza,
abbraccia molto il cavalliero e molto
il bacia e strigne e con onor l’apprezza;
indi dice altamente a’ suoi rivolto:
«Questo dì che disperse ogni tristezza
provi a Roma in eterno, o popol mio,
quanto sia cara a la pietà di Dio.

27A noi guerrier de la sua libertate
ministri e servi del Romano Impero
sotto queste armi crude e scellerate,
paventosi di caso acerbo e fiero,
ha per sua providenza e per pietate
mandato il così nobil cavalliero:
è lui fra noi di tal valor fornito,
che de i nimici ha ricoperto il lito,

28né fian di Dio per la romana gente
la forza a’ cavallieri unqua minori.
Ei là fra sette colli eternamente
ha stabilito albergo a’ suoi pastori,
vuol che da tutte parti umilemente
si riverisca il loco e che s’adori,
e ciò ch’ivi risuona il mondo intenda
e ch’indi il modo del regnar s’apprenda.

29Ma qual a i merti di sì nobil mano,
di così chiara e così longa fede
potrebbe mai l’imperator romano
dar se non scarsa e disugual mercede?
O de gli alti guerrier sommo e sovrano
fra quanto ragirando il sol ne vede,
cui faran fé d’una possanza invitta
le tante piaghe ond’era Italia afflitta,

30parmi veder, sì n’è presago il core,
ch’ogni barbara gente in ogni parte
già venuta di ghiaccio al tuo valore
il modo apprenda del servire e l’arte,
né fia che pianga de l’antico onore
i suoi gran pregi il popolo di Marte,
che fatto altier de la presente gloria
ei può tuffarne il Lete ogni memoria».

31Così il gran duce al cavallier dicea,
e dicendo di lacrime gioiose
tutta la guancia e tutto ’l seno empiea;
e lieto il bon Vitellio indi rispose:
«Vero è, signor, questa battaglia rea
e queste gran campagne or sanguinose
fian testimonio, come Dio gradisca,
che Roma si sublimi e riverisca.

32Certo è stato di Dio chiuso consiglio
il tempo che pugnavi afflitto e mesto
et ei chiuse le luci al tuo periglio
per fare il suo favor più manifesto,
ora se ’l campo rimiriam vermiglio
e di cotanti popoli funesto,
indarno la vittoria o la vendetta
da la mia mano o da l’altrui s’accetta.

33Or, padre, il guiderdon che tu riprieghi
a’ miei perigli et a le mie fatiche
sarà per me che ’l mio signor m’impieghi
a guerreggiar le region nimiche.
A me par disonor che non si spieghi
il sacro Imperio oltra le mete antiche,
e che ’l sol miri in questa parte e ’n quella
a l’alto Vatican gente rubella.

34Tu, che per merto di tua nobil fede
sovra tutti i guerrier t’alzi d’onore,
accendi a pro de la romana sede
del nostro Augusto il generoso core.
A me, s’i guardo ben, non si concede
consigliar per ufficio il mio signore,
ma con l’opre de l’armi e de la spada
non fia ch’a me dianzi alcun se ’n vada».

35Così diceva il cavalliero altiero
e parte da’ begli occhi e da le ciglia
si traluceva il nobile pensiero
ch’era a vederlo gaudio e meraviglia.
Indi presso Narsete il suo sentiero
con tutto ’l campo in vèr le tende piglia,
quivi ogni destra de la gente amica
a lui servir s’ingegna e s’affatica.

Nicandro chiede e ottiene un salvacondotto per i Goti superstiti (26-49)

36Narsete istesso di stupor conquiso
lieto d’intorno al cavallier travaglia,
chi li spron discioglie, chi disarma il viso,
chi le membra affannate gli dismaglia;
e tutti nel bel volto miran fiso
che dianzi folgorò ne la battaglia
et ora, tranquillato ogni furore,
par che sfavilli sol foco d’amore.

37Mentre che si disarma e si riposa
accolto in mezzo i cavallieri armati,
ecco che con sembianza dolorosa
Nicandro il vecchio a lor si fa davanti,
e prima ch’ei ragioni alcuna cosa
versa da gli occhi fuor fiumi di pianti,
et a’ lor piedi in terra si distende
et umilmente a favellar poi prende:

38«O bon Narsete, o cavallier romani,
umil vi porgo» egli dicea «preghiera
che non vi faccia i cor superbi e strani
verso i meschini la vittoria altiera.
A voi sovegnan gli accidenti umani
e la fortuna ora benigna or fiera,
e sì nel suo favor non vi fidate
che siate pigri in adoprar pietate.

39Mentre che ’l campo numeroso e forte
il regno de l’Italia contendea,
fu per dritta raggion la nostra morte,
che legge di milizia il richiedea;
addesso, vinti ne l’estrema sorte,
perché dannarci a la sentenza rea?
perché continuar l’aspro disdegno
se fornita è la guerra e vostro è ’l regno?

40Il re, caduto d’ogni sua possanza,
giace là su la terra sanguinosa,
e poca parte in questi campi avanza
di sua gente già tanto numerosa;
questa, cercando peregrina stanza,
andrassi in terra al vostro imperio ascosa,
et io vegno a pregar ch’a la partita
perdoni il vostro ferro a la lor vita.

41Basti Narsete a te, basti la gloria
d’aver distrutte nostre genti armate,
e conti il tempo così gran vittoria
partita affatto da la crudeltate.
lascia ch’al mondo possan fra memoria
queste reliquie de la tua pietate,
e che ’l suo campo e che la sua salute
sia testimonio de la tua virtute».

42Così pregava il bon vecchio dolente,
spargendo gli occhi lacrimoso umore,
a salute impetrar per la sua gente
da la sanguigna man del vincitore.
Narsete intanto rivolgeva in mente
de la fortuna il mobile tenore,
e quanto in prova son caduche e frali
le speranze de gli omini mortali.

43E vinto da pietosa cortesia
dispone di quei lassi aver mercede,
pur che veloci e per lontana via
si sappiano trovar novella sede.
E con sembianza mansueta e pia
da terra il vecchio egli soleva in piede,
e gli porge la destra e gli si accosta
indi in questo tenor gli fa risposta:

44«Ora, o bon vecchio, ci bagniamo il seno
e riversiamo lacrime e sospiri,
et ogni cosa ramentiamo a pieno
che può schivarne il peso de i martiri,
ma quando era mestier tener a freno
l’ambiziose voglie e i rei disiri
a le prede correste, a le rapine
senza pensar di quella ingiuria il fine.

45Dite: qual voglia se non cruda e rea,
qual legitima scusa o qual ragione
al dominio d’Italia vi traea,
che i regni ne cercaste e le corone?
I’ mi vo poi tacer se si dovea
a quel modo assalir la regione
e distrugger templi, arder le mura,
e cosa alcuna non lasciar sicura.

46Quante fiate la gran Roma istessa
è rimasta diserta e senza genti?
e da vostre armi e vostre fiamme oppressa
al cielo ha rivoltati i fondamenti?
se ’l fato in forza ve l’avea concessa,
non vi dovea provar men violenti?
e s’a l’or obliaste la pietate
perché adesso con noi la ricercate’

47Veracemente il vostro empio furore,
che non sa raffrenarsi ad alcun segno,
saria possente ad infiammar il core
di lontana vendetta e di disdegno.
Ma sia punito l’infinito errore
pur con la morte del tiranno indegno,
e la nostra vittoria ora non nieghi
copiosa pietate a i vostri prieghi.

48Vivete, ma lontani e peregrini
da queste ora per voi sanguigne rive,
né di vostre arme a i populi latini
per alcun tempo più memoria arrive,
e se mai de l’Italia a’ bei confini
tornarn le vostre genti or fuggitive
lassino la speranza in abbandono
di mai più ritrovar pace o perdono».

49Così disse Narsete, e ’l messaggiero
ritornò de’ suoi pochi a la presenza,
e fece piana dal Romano Impero
la conceduta al dipartir licenza,
poi dove sorse il sole a l’emispero
s’affrettarono mesti a la partenza,
piangendo il danno e ’l lor sofferto scorno
né pe ’l tempo a venir feron ritorno.