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Il Foresto

di Gabriello Chiabrera

Canto I

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 25.06.15 19:53

Per qual maniera si traesse a morteProemio (1-14)
Atila fiero e del mortal periglio
avesser schermo d’Aquilea le mura
oggi lungo il bello Arno a cantar prendo
5su nova cetra, né seguendo Euterpe
chieggo bugiardo onor da le sue note.
Diranno i versi miei del bon Foresto
veraci palme, italiano Ettorre
e sommo pregio de gli estensi eroi.
10Francesco, che di lui tanto ti pregi,
e pur co’ pregi tuoi tanto il pareggi,
dammi l’orecchio et udirai supremi
e di pietate e di fortezza essempi,
ne gli avi antichi te mirando espresso.
15Ei, come certe le novelle inteseDio osserva la guerra dall’alto e vede il pericolo per Roma se cade Aquileia (15-49)
del furor empio che metteva a terra
de gli italici scettri ogni salute,
lasciò la sede di Monsolce e ratto
e tutto ardente ad Aquilea sen corse;
20ivi col brando invitto e col sembiante
coraggiose tornò l’alme smarrite,
ma per quel tempo su noiose piume
languia cruccioso e sostenea con ira
non lieve angoscia di ferite acerbe,
25e non per tanto ne i celesti chiostri
l’eterno Regnator scelto l’avea
sommo campion de l’assalite mura.
Ei su ne l’alta region stellante
ove dà legge e tiene a freno il mondo,
30vèr Pietro suo fedel così dicea,
pure in guisa mortal con note eterne:
«Credesi il cor dei colà giù regnanti
che qui ne l’alto Ciel non sia chi regni,
e però sorge la malizia e quinci
35veggonsi fulminar nostri disdegni.
Provollo Acabbo e di colui lo scempio
che in Gelboè se stesso ancise, et era
essempio non vulgar né fia Menapo,
e seco l’unno al Vatican rubello.
40Ecco ei s’affretta minaccioso et arde
di porre in fiamma e dare in polve al vento
il tuo sacrato e venerabil tempio;
ma nol farà, via se ne vien veloce
e fassi da vicino il gran momento
45ove egli ha da saldar tanti suoi torti,
moverà giuste le bilance e tronchi
fian per lo scampo suo tutti i perdoni».
Sì disse, et a quel dir d’eterei lampi
tutti i campi del ciel furo cosparsi.
50Ma giù nel mondo ad Aquilea d’intornoMegera e Tisifone preparano un manto avvelenato per Menapo re di Aquileia e lo consegnano alla sua consorte (50-242)
fremeva Aletto, invenenata i crini
d’angui fischianti, e seco alto Megera
divampava da gli occhi incendio d’ira
e, cruda nei sembianti, empia diceva:
55«Omai l’anno secondo il sol rivolge
ch’Atila mosse da la patria sede
e qui fra l’armi e fra gli assalti ognora
via più superbo questo popol trova,
tenor di fama ad ascoltarsi indegno.
60Nulla può dunque l’infernal possanza?
a che più travagliar? tutte le palme
sono serbate al guerreggiar dei Cieli?
Che si frangano in pezzi, e sia conforto
lo struggimento lor de gli occhi miei».
65Tal bestemmiando fisse il ciglio in terra
e battendo le palme ella soggiunge:
«Di che paventa? e che sostien d’affanno
per esso noi questo Menapo? Ei sempre,
ei sempre a lato a la consorte amata
70gode di lei come in stagion quieta,
e con pompa adorando il fior de gli anni
sa rallegrar la principessa Agave,
sé dilettando in così nobil figlia;
et è chi lascia le natie contrade
75e veste usbergo et il morir disprezza
per difesa di lui, gran meraviglia!
Condotto ha di Schiavoni inclite spade
il fiero Adrasto, e qui l’Italia è corsa,
qui fiammeggia d’acciar popol di Marte,
80ma sol Foresto è chi mi tiene in forse
e chi mi toglie la speranza; stirpe
eccelsa, invitta, che virtute apprezza,
che d’ogni altiero pregio ascende in cima,
se non che troppo il Vaticano adora.
85Questi già de le piaghe onde è percosso
sano rifassi, e s’abbandona il letto
e veste l’armi. O regnator de gli Unni,
quanti trascorrerai fiumi di sangue!».
Così Megera; Aletto indi rispose:
90«Se bastasse il valor, se fosse assai
o forza avesse una preghiera ardente
a sotterra mandar popol nemico,
omai troncato a brano a brano, omai
spento Menapo e d’ogni male in fondo
95questi popoli suoi foran sommersi;
ma noi siamo ombre, a mio mal grado il dice,
e troppo è disarmato il nostro Inferno.
Però m’affliggo et oggimai non veggo
ch’Atila s’apra questi varchi e giunga
100con asta vincitrice in val di Tebro
et ivi strugga la magion di Piero.
Non però perdo l’alterezza: franco
fia mio cor ribellante al sommo Olimpo
sempre più d’or in or, portisi pena;
105infernale campion non sa pentirsi».
Mentre così diceva atra cosparge
ira da gli occhi e dibattendo l’ali
onde l’aria contrasta, ella discende
a le di Flegetonte orribili onde.
110Ivi trascorre, ivi imperversa, a nome
chiama i più forti de’ tartarei mostri.
Tesifone s’udì, ch’errando intorno
facea di Stige nei sulfurei campi
strazioS | statio de gli empi. «Onde sì fier latrati?
115qual ria novella per gl’imperi nostri?
Asia forse è commossa a cangiar sede
o corre Lilia ad adorar la croce?»,
tal Tesifone disse, e quivi Aletto
con occhi biechi e con terribil suono,
120«Dammi l’orecchio: il regnator degli Unni
i sette colli d’atterrar bramoso
è posto in corso, ma non ha fortezza,
a farsi aperte d’Aquilea le mura.
Menapo i preghi e le minaccia spregia
125e, franco per valor d’almi campioni,
mena in mezzo a gli acciar vita gioconda.
Ma non il campo nostro indietro torni
forse annoiato dall’indugio, o forse
datosi al disperar, prendo paura.
130Or chi farà divieto a’ nostri scorni?
chi l’antecesserà? da porre in opra
forza et ingegno non è questo il tempo?».
Allor traendo per furor muggiti
Tesifone gridò: «Non fia per certo»,
135né punto cessa, ma volando ascese
su negre piume a la città steccata,
e come ella si sfaccia a pensar prende,
qual non ricco pastor cui fa rapina
odioso lupo a vendicar si volge
140con sdegnoso pensier per vari modi,
et amerebbe di sbranar la belva
con spessissimi colpi, et a lei spenta
rimproverar le pecorelle ancise,
tale il mostro infernal tenta e ritenta
145le sue furie sbranar per varie strade,
né sa posar lo scelerato ingegno;
ma, quasi stanco in consigliar se stesso,
al fin disponsi essercitar le frodi.
Dunque sottil candido lino invola
150che camicia dal vulgo usa apellarsi,
et era ricco di Menapo arnese;
indi in val d’Acheronte egli sen vola
e dove ribombando atra foresta
Tartaro innonda tra sulfurei gorghi,
155ivi ben sette volte ella la bagna;
poi de l’orride piume il negro volo
tutto rivolge a le campagne apriche
del chiaro mondo, e dove erbette e fiori
smaltano de le valli il chiuso grembo,
160la più soave primavera miete
e l’appestata tela empie d’odori,
mortale inganno; indi trovava Areta,
de l’alto Cielo al gran Rettor diletta.
Viveva Areta in solitaria piaggia
165ma chiara molto, sì di ciò ch’invoglia
nostre vaghezze e che cotanto brama
il forsennato mondo ella era schiva.
Erano suoi conviti erba di prato,
i rivi il suo falerno, e se per l’alto
170Febo sferzava ad illustrare il Cancro
il cotanto di rai sparso Piroe,
o s’ei facea col Capricorno albergo
ella sul terren duro amava il sonno
dare a le stanche membra, et indi in pianti,
175indi in sospiri, indi in preghiere ardenti
facea vedersi a la bontate eterna
mercé chiedendo. Il di costei sembiante
prese lo spirto abitator di Stige,
et aspettò che la reina Elvira
180senza corte de’ suoi facesse chiusa
dimora dentro dal reale albergo;
allor fassi veder, ma bigio involve
manto sue membra, e disprezzati veli
tutta copriasi la scarmigliata chioma,
185ambo le guance di palore offese,
e sotto il ciglio rosseggiavan gli occhi
di molto lagrimar chiaro argomento.
Al suo venir la maestà d’Elvira
che de la santa donna avea contezza,
190rasserenossi, e per le labbra liete
fe’ dal petto volar queste parole:
«Oggi per qual cagion? molti son giorni
che non ti vidi, Areta, or come e dove
per te deggio adoprar nostra possanza?
195Dillo, del Cielo e del mio core ben cara».
Qui tacque Elvira, e l’infernal sembianza
dimessa il guardo e mansueta in voce
tal diè risposta: «O del Signore eccelso
sentenze oscure e de la mente eterna
200profondi impenetrabili decreti,
ecco il diluvio di schierate genti
innonda intorno e scelerati regi
fan paventarne i più temuti oltraggi;
ma l’aita del Ciel non sarà scarsa
205per nostro scampo se cangiando stile
ci volgerem del pentimento a l’arte.
Intanto a rischi di Menapo, intanto
a sua vita real fia proveduto,
con novo usbergo e su novella incude
210fatto temprar da non mortale ingegno.
Ecco il ti porge, ch’ei ne vesta il busto
sia tuo pensier. Non volerà quadrella,
spada non vibrerassi, asta ferrata
non potrà tanto che ne beva il sangue,
215mentre di questo arnese il trovi adorno,
e quanto possa il guerreggiar s’innaspri».
Qui tacque il mostro et offeriva il dono
a l’alta donna, che i tartarei lini
accettò da la man tesifonea,
220et indi chiara di bei raggi il guardo
fece sentir queste parole alate:
«S’alcuna in tanto duol pò lusingarmi
non vana speme e se gli spirti afflitti
osano ricercar qualche sostegno
225solo il sanno trovar nel franco petto
e ne l’alta virtù del gran Menapo.
Or se pegno sì caro a me conservi,
se mel difendi, io fin che miri il sole,
fin che l’anima mia meco soggiorna,
230non farò più di te che di me stessa?».
Sì disse Elvira, a cui rispose il mostro:
«Non ti dà la mia man alta ventura
che tanto apprezzi, et accettar non deggio
il tenor de le lodi onde m’onori;
235lodisi Dio». Nel così dir s’inchina,
segno di riverir l’altiera donna,
né più fa motto ma levossi e sparve;
sparve come talor nube di fumo
al trasvolar di boreal buffera.
240Ma d’Elvira i pensier furo sorpresi
da meraviglia, e le nudriro il petto
di non usata in core uman dolcezza.
Corsero poscia le dorate roteMenapo muore a causa del manto avvelenato, Elvira muore di dolore (243-419)
de l’almo Febo e si levaro in fondo
245delle del gran Nereo piaggie ondeggianti,
e diede bando a le cure aspre il mondo.
Ma quando apparve l’acidalia stella,
cara del giorno apportatrice,
si mosse Elvira, e ritrovò Menapo
250soletto in letto; ivi gli diè contezza
de la venuta vecchierella e come
lasciò lo scampo per la regia vita.
Al primo suon de la novella udita
scossesi il re giocondamente, e sorse
255a seder su le piume; indi circonda
tre volte il collo a la consorte amata
pur con le braccia e la copre di baci,
e presala per man fa d’ogni intorno
soave risonàr queste parole:
260«O de l’anima mia solo conforto,
solo diletto, o de le mie speranze
combattute da’ guai solo sostegno,
quando venisti a me, ché ’l tuo cospetto
non mi colmasse di bramata gioia?
265né m’arricchisse di dolcezza? et ora
ne vèni a farmi senza fin felice.
Ecco la vita mia contra le piaghe
de’ micidiali acciar fia riverita.
Farò mirarmi fra perigli et alti
270quivi darò de la fortezza essempi,
aprendo il varco a le vittorie; omai
franco è mio scettro e la corona in fronte
riposerà del successore infante
a noi sì caro». Sì dicea, sorpreso
275da soverchio piacer d’alta speranza;
ma verso il sommo Correttor del mondo,
onde ei credea ch’a lui venisse il dono,
non mandò preghi, e si guerniva il busto
del fier venen de la palude inferna,
280mal medicato de gli odor soavi,
et addobbossi delle regie vesti
di passo in passo, ove dedalea mano
fatto avea fiammeggiar vago trapunto
ricco di gemme e di rugiade eoe;
285poi di feltro impennato il crin ricopre,
et al fianco sinistro il brando appende,
et esce in ampia loggia. Ogni parete
aveva dipinto Policleti e Zeusi
con lungo studio, e agli occhi altrui conforto
290cario splendor de’ paretoni marmi
e marmi argivi ricopria gli spazi
del pavimento: in sì real magione
soleano i duci riverir Menapo,
uso venirvi con la prima aurora.
295In su quel punto era sorgiunto Adrasto,
e seco Ernesto, Adrasto unico germe
di Perafan, de gli schiavon tiranno.
Avea costui trenta fiate aprile
fiorir veduto, e risplendeva altiero
300del più bel fior de la mortal beltate;
spada cingeva e s’avvolgea d’usbergo
per franca far la principessa Agave,
onde era amante e riamato; solo
s’attendeva cessar l’opre di Marte
305et indi celebrar lieti imenei.
Ma di Trevigi e de le belle intorno
molte castella era signore Ernesto,
già figliol d’Erimanto; era leggiadro,
bello a mirar, ma di beltà guerriera,
310e poco dianzi egli varcò venti anni,
fortemente diletto al cor d’Elvira,
onde usava sperar la regia sposa
costor guerniti di metallo e d’oro.
Moveano il nobil piè dentro la loggia
315fin che Menapo fa vedersi, allora
fermaro i passi et abbassaro in terra
quasi in ginocchio, e dimostraro al vento
scoperto il crin di riverenza in atto.
Il re cortese con la man fa segno
320che ne vengano a sé, poscia commise
coprire il capo, e finalmente ei disse:
«Molto amati campioni, a la cui destra
voglio devere il regno, a la cui vampa
di vero amor tanto m’accende il petto,
325che spegner nol potranno acque d’oblio,
vostra virtù fin qui stata è sì come
argine a l’innondar del fier nemico,
e salvò la città; ma quinci innanzi
con più freschezza maneggiate l’armi,
330ché messaggio del Ciel reca novella
d’alto soccorso», e sì diceva et ecco
l’afferra giel che fa tremarlo e casca,
e gridò nel cadere: Ahi che mi moro».
Qual per cielo seren spande colombe
335l’ali dipinte e va cercando i rivi
ove lavar la dilicata piuma,
ma trova arcier che bene esperto scocca
dardo impennato e gli trafige il riolo,
onde trabocca e non temea del colpo,
340tal di quel re mal fortunato avvenne,
tutto cosperso di palore ei versa
sospir odiosi di sulfureo fumo
da l’atra bocca, e fortemente anela,
e vuol parlar ma di parlare in vece
345ei scilinguava; disse al fine: «O duci,
al mio fanciul, deh, lealtate e fé».
Altro non giunse, e su quel punto l’alma
se ne volava a le magioni eterne.
Ernesto, Adrasto e le seguaci schiere
350ciò rimirando non facean parola,
ma l’un vèr l’altro s’affissava in volto,
come arator se ne l’alzar del giorno
vede repente scolorirsi il sole
allor ch’ei soffre da la luna oltraggio,
355lascia l’aratro in abbandono e guarda
il sorvenir de l’affrettata notte
ingombro di stupor, similemente
stetter pensosa quella nobil turba
sul venir men del re. Poscia dogliosi
360misero gridi, e riversando pianti
faceano alto risonare omei.
Immantinente la città percossa
fu da l’aspre novelle, onde cordoglio
tutte trascorse quelle vie funeste;
365né penò molto ad impiagar l’orecchio
de la donna real. Sul primier suono
fu quasi di pietra ne’ sembianti, et indi,
tornando viva, ella scagliò lontano
l’aurea corona e si divelse i crini
370e trasse mugghi di profonda angoscia:
«Pur dianzi il Ciel mi promettea soccorso,
et or mi spoglia d’ogni aita? e dove,
dove appoggiarsi la mortal speranza?».
Fra questi detti ella fremeva, e fiumi
375spargea di pianto in su le belle guancie.
E poi di novo cominciò lamenti:
«Manti superbi e regi letti, letti
non più ma tombe, a che dolente punto
or mi traete? O me felice s’era
380nascendo destinata a vulgar culla!
Miser Elvira, in sì crudel stagione
chi ti fa schermo? chi ti serba il regno?
chi dà scampo al figliol?», sì dice, e prende
rapido corso a ritrovar le membra
385del suo re spento. Ella incontrò per via
Ernesto, Adrasto che recava in braccio
il freddo corpo del signore estinto
verso le stanze de l’usato albergo.
Essi, come fur presso e vider tinti
390di mortal pallidezza i bei sembianti
de l’alta donna, e come scuro il guardo
e de le chiome rabbuffato l’oro,
costretti da pietà sparsero pianto;
ma la reina quanto po s’avventa
395verso il caro consorte, il collo cinge
tenacemente, e mille volte il bacia,
e sovra il petto abbandonata gemma
de le lagrime sue non punto avara.
Or come al lamentar non ponea fine,
400Adrasto le diceva: «Inclita donna,
deh perché t’abbandoni? A’ grandi è biasmo
non trionfar de le fortune avverse».
Ella dopo gravissimo sospiro,
guardando fissamente il corpo estinto
405fece a sé forza intra’ singhiozzi e disse:
«O di quante gioconde avea speranza,
solo sostegno, e ne’ miei guai conforto,
e sola vita del mio cor, Menapo!
Perché vivere io più? forse per sempre
410qui lagrimar tua miserabil sorte?
Ma, s’io volessi, onde n’avrò possanza?
sono io diamante? ho di macigno il petto?
Ah ch’io sento perirmi». In queste note
cadde sul suolo, ivi si scosse alquanto,
415poscia anelando se ne andò lo spirto.
Quei duci afflitti tenebrosa pompa
fèro apprestarsi, e dolorosi onori
per li regi sepolcri, et indi franche
volsero l’alme a travagliare in guerra.