commenti
riassunti
font
AA+
Chiudi

La vittoria della Lega

di Tommaso Costo

Canto V

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 2.03.15 9:08

La battaglia è stata una massacro, i mostri marini di Nettuno divorano i cadaveri e fanno preda delle navi affondate (1-11)

1Se dopo le battaglie aspre e diverse
che tra Roma e Cartagine si fèro
ne success’una tal che questa perse
e quella ottenne universale impero,
tale al popol fedel contra le avverse
genti ch’in breve avenir debbia spero,
piacendo a l’alta volontà di Quello
per cui dianzi di lor si fe’ macello.

2Tal fu questa battaglia e tal è ’l danno
che n’è avenuto agli arroganti Sciti,
che mal per lor se ne ricorderanno
finché mai nominar saranno uditi
e lascerann’ancor, s’io non m’inganno,
di voler contra noi parer sì arditi;
e in vece de’ paesi altrui turbare
a guardar le lor case avran che fare.

3Di tanti che costor quivi menaro
legni, ch’armati fur quasi trecento,
quaranta soli in dietro ne tornaro,
perché fur primi a dar le vele al vento.
De gli altri là sommersi ne restaro
tanti ch’era a vederli uno spavento:
molti ne fur dal foco arsi e distrutti
e ’l resto presi e via menati tutti.

4Ove si rinvestìr di libertade
dodicimila in Cristo battezzati,
che molto tempo, in gran captivitade,
ne le man di quegli empi erano stati,
de’ quai fatti ne fur gran quantitade
schiavi da’ nostri e molti segnalati.
Fra gli altri si trovàr, sulla reale,
duo figli del lor morto generale.

5Fu preso un di quei duo ch’in compagnia
avean il carco de la destra schiera,
perché, morto il rettor di Scanderia,
restò prigion l’Euboico, che viv’era,
et altri assai ch’a noia vi verria
l’udirne i nomi. Or basti: fu sì fiera
questa battaglia e a’ Turchi sì molesta
ch’impresa non fèr mai peggior di questa.

6Quivi con miserabil duol finiro
la vita almen quindicimila Sciti,
u’ sol quattro migliaia ne moriro
de’ nostri, e tanti ne restàr feriti.
In somma i corpi morti allor copriro
tutto quel mar, con quei propinqui liti,
talché con le galee quivi affondate,
spettacol degno fean di gran pietate.

7A così grossa preda il dì seguente,
cessat’ogni tumulto, il re del mare,
con la sua fiera e mostruosa gente,
venne per quella far quivi sbramare,
talché sì gran battaglia novamente
si cominciò fra i marin mostri a fare,
per la gran preda a che Nettun gli spinse,
che di novo rossore il mar si tinse.

8Si vedan quivi l’infinite schiere
di marin tori, di destrier, di cani,
di tonni e di delfini, d’orche fiere
e d’altri pesci spaventosi e strani
moversi in ordinanza, per volere
far prova a chi più avrà de’ corpi umani:
chi di qua straccia e chi di là divora,
e per tutt’escon fieri mostri fuora.

9Ma pur si fan sì dispietata guerra
fra lor che novi corpi van per l’onde.
Corrono l’acque insanguinate a terra
e sempre par che più la turba abbonde,
né giova se Nettun lo scettro afferra
(per cui soglion del mar tutte le sponde
tremar) per acchetarli, anzi maggiore
incendio par ch’aggiunga al lor furore.

10Perché mentre fra l’onde insanguinate
duràr gl’immondi cibi, le perverse
bestie del mar, con tal ferocitate,
fra lor battaglie fèro aspre e diverse.
E così poi che fur pacificate,
a le ricchezze grandi ivi sommerse
il loro avido re Nettun si volse
e quante ve ne fur, tante ne tolse.

Le anime dei cristiani giungono nei Cieli, quella di Alì si presenta alle porte dell’Inferno (12-21)

11D’arme e di spoglie e di gran copia d’oro
fe’ in quantità carri e quadrighe empire,
e d’altre ricche merci, le quai foro
de’ Traci ivi con duol fatti perire.
Tanto che si partì con un tesoro
del cui valor non si potria mai dire,
né prima i mostri quindi si scostaro
che netto di carogne vi lasciaro.

12Or che dirò de l’anime infinite
che abbandonaro i corpi in tal giornata?
Dico di genti e cristiane e scite,
ne l’orrenda battaglia e dispietata.
Tutte in due squadre già s’eran partite,
la maggior de le quali er’aspettata
nel centro de l’Inferno, tra’ dannati,
e l’altra in Ciel, fra spiriti beati.

13Di questa dunque le purissim’alme,
con le corone risplendenti in testa
portando in man vittoriose palme,
liete saliro in Ciel con giuoco e festa,
accompagnate da le belle et alme
schiere già scese di là su per questa
cagion seguendo l’orme di Michele,
gran protettor del popolo fedele.

14Talché condotte le beate e belle
anime fur su ne gli eterni giri,
e collocate poi quivi tra quelle
ch’in terra accese fur d’alti desiri,
sì che in poter di genti inique e felle
morte patìr con vari e gran martiri,
cioè quei ch’or di gloria coronati
là su detti son martiri beati.

15Ove con vesti rilucenti e d’oro,
dinanzi al fonte de l’eterna grazia
godono il premio de gli affanni loro,
mirando la beltà che mai non sazia.
Or godet’alme in sì felice coro,
che se qua giù tra foco e ferro in grazia
di Dio lasciaste la terrena spoglia,
vi rende eterno ben per breve doglia.

16Condotte dunque da le sante schiere
d’Angeli in Ciel quell’anime felici,
in preda de le furie orrende e fiere
qua giù l’altre restàr più ch’infelici,
le quai con pianti et urli miserere
in van chiedean contra sì fier nemici,
et era lor cagion di doppie pene
l’altrui infinito e lor visibil bene.

17Fra la dolente schiera fu trovato
d’Ali Bascià lo spirito superbo,
ch’a guisa di serpente invelenato
quivi gonfio si stea, con volto acerbo;
ma poi che da’ demòni circondato
si vide, esprimer non potea più verbo
e quei non senza astuzia il confortaro
e poi dinanzi a Cerber lo menaro.

18Quand’ei si vide giunto nel cospetto
di quella bestia spaventosa e strana,
sì gran doglia e terror li corse al petto
che quasi a cader ebbe in terra piana,
perché conobbe allor con chiaro effetto
che per cagion de la lor legge vana
era in man di quegli empi capitato
et a l’eterno duol da Dio mandato.

19Connobbe Cerber chiaramente a l’atto
che del suo fiero aspetto Alì temea,
e ’l fe’ avertir che nessun torto fatto
non li saria, qual fors’ei si credea,
sendo in quel luogo egli venuto ratto
con tutti quegli spirti ch’ei vedea
sol per condur quell’anime di Sciti
u’ son tutti i lor re defunti giti.

20«Io son» rispose Alì «di gir contento
là ’ve son giti i nostri antecessori,
ma del vostro sembiant’io mi sgomento,
ch’è tal che m’empie il cor di strani orrori
e temo non vogliate al gran tormento
menarmi e meco far da ingannatori».
«Andiam,» li fu risposto «e non temere,
ché ti farem gran cose oggi vedere».

21Contento dunque il barbaro d’andare,
com’era di bisogno, alzàrsi a volo,
onde tremar fe’ intorno e liti e mare
quando si mosse l’infernale stuolo,
menando via quell’alme a tribulare
nel tristo regno de l’eterno duolo.
E così brevemente ritrovàrsi
a l’oscura palude, ove posàrsi.

Descrizione del regno infero (22-40)

22Quivi di strani arbusti una gran selva
cinge quell’acque puzzolenti e nere,
il cui fetor fa ch’ivi alcuna belva
né alcun altr’animal può albergo avere;
anzi nessun augel mai vi s’inselva,
non si potendo a volo sostenere,
ma da l’estrema puzza sopravinto,
gli è forza rimaner ne l’acque estinto.

23Indi un ampio sentier che ’l bosco fende,
cinto d’orror principiar si vede;
facil molto a chi va questo si rende,
ma toglie il passo a chi tornar si crede.
Per questo a l’infernal regno si scende,
ove il gran Pluto coronato sede,
come dominator costituito
di tutto quel paese, ch’è infinito.

24Le cui gran porte, ove ’l sentiero ha fine,
ampia mostran l’entrata e sempre aperta
a l’alme più che misere e tapine,
ch’a patir van ciascuna il mal che merta.
Quivi son mura più ch’adamantine,
che l’altissima cima hanno coperta
d’un tetto che oro par puro e lucente,
e son lame di foco più ch’ardente.

25Da un lato de la porta sta il Timore
e tien da l’altro il suo gran seggio il Pianto:
quello a chi v’entra l’infernal terrore
e questo accenna il sempiterno pianto.
Dimostra quel là giù tanto maggiore
ch’in altro luogo esser la tema quanto
diversi sono i guai ch’a patir v’hanno,
senza speme d’uscir giamai d’affanno.

26Tra l’altre cose ch’ornan quelle porte,
sembrando del mausòleo le scolture,
sonvi congiunti il Sonno con la Morte,
l’acerbe Infermità, pallide e scure,
e quelle due c’han sì le genti a forte,
Vecchiezza e Povertà, con lor sciagure.
V’è la Fortuna e la Discordia fella
crinita di serpenti a lato a quella.

27Insieme stan la Morte e ’l Sonno come
tra lor simili molto ne gli effetti,
quantunque abbia colei sì fiero il nome,
et a ciascun costui piaccia e diletti.
Spoglia l’uom quella de l’umane some,
sendo i mortali a lei tutti soggetti,
ma quivi accenna a l’anime dannate
che là sempre staran mortificate.

28Evvi il Sonno, ch’a l’uom sì dolce pare,
mentre il cor lasso ogni pensier ripone,
ma porge tuttavia bevande amare
a l’alma, dando al corpo tentazione,
talché di fargli insieme anco peccare,
il che sovente aviene, egli è cagione;
così una de le sette empie e rapaci
sorelle tira a sé tanti seguaci.

29Dinota la Vecchiezza in questo loco
quei che son tanto al mondo scelerati
che de l’eterno mal curando poco,
s’invecchiano ne’ vizi e nei peccati.
La Povertà poi, ch’infiniti al foco
conduce, dico quei che disperati
per non aver ricchezze in questo mondo
fan che l’anime lor vanno al profondo.

30Quivi le Infermità, ch’aspre a’ mortali
soglion parere al mondo e sì moleste,
dimostran che là giù son pene tali,
ch’una di quelle avanza tutte queste.
Poi quella ch’è cagion di tutti i mali,
di guerre e di ruine e di tempeste:
per lei più ch’infiniti son coloro
ch’alfin ne vanno a l’infernal martoro.

31Fra principi, re, duchi e imperadori
gode costei di por discordie e liti,
con empir di mortal odio i lor cori,
farli superbi, ambiziosi e arditi:
dà lor tal sete de gli altrui tesori
che li tien con lor danno disuniti.
Così Fortuna che le siede a lato
di tutti attende a dissolar lo stato.

32Queste due pazze e dispietate fere
sulla gran porta insieme assise stanno,
e vien ad ambedue tolto il vedere
da la benda ch’agli occhi legat’hanno.
La prima, ch’è cagion ch’armate schiere
a darsi morte con tant’odio vanno,
perché l’impietà sua chiar si comprenda
agli occhi tien la insanguinata benda.

33L’altra, che ’l secol van chiamar solea
de’ beni di qua giù dispensatrice,
e con tal potestà ch’ella potea
chi far misero al mondo e chi felice,
sì ch’or solendo a’ buoni avversa e rea
mostrarsi, or grata agli empi, il volgo dice:
«Quel giusto pate e questo reo sollazza,
perché Fortuna è cieca e sorda e pazza».

34Di quelle porte ancor son ornamenti
le tre Gorgoni, Scilla e la Chimera,
con Briareo custodi suoi possenti
d’Arpie e di Centauri una gran schiera.
V’è Gerion, ch’ai passaggier dolenti
dinota con la sua forma straniera
il ben passato, che non torna mai,
il mal presente e i lor futuri guai.

35Un antic’olmo sorge ivi di fuori,
che par co’ rami circondar la terra,
sol atto a produr fronde e inutil fiori,
perch’altra in lui sostanza non si serra.
Sogni i suoi frutti son pieni d’errori
ne’ quai la gente vil s’inganna et erra,
perché di vanità la mente pasce,
come da l’olmo frutto alcun non nasce.

36Dentro dipoi de l’infernal cortile
si trovan quelle sette empie sorelle,
c’han fatto il mondo scelerato e vile:
posero in guerra il regno de le stelle,
e fur cagion che dal Celeste ovile
bandisse Dio le ribellanti agnelle,
converse in lupi col lor duce, a cui
son tutti sottoposti i regni bui.

37Qual tratto fuor di criminal prigione,
ov’in tenebre sia gran tempo stato
senza saper quel ch’abbia la ragione
o bene o mal di lui determinato,
fra la speme e ’l timor tutto si pone,
ma giunto ove ’l morir gli è preparato
con mille aspri martir, la speme fugge
e ’l timor lascia, che col duol lo strugge,

38tal restò Alì, giunt’egli suo mal grado
con gli altri a le gran porte de l’Inferno,
parendogli veder cose di rado
o non mai viste e sonovi ab eterno.
E così ’n breve si trovaro al guado
onde passando vassi al foco eterno,
ch’ivi rapidamente un fiume corre,
l’acqua del quale ogni chiarezza aborre.

39Quivi con chiome irsute e orrida fronte,
con lunga barba et occhio rubicondo,
squallido e nero stassi il fier Caronte,
et un gran ramo ha d’albero rimondo,
con che spinge una barca in Acheronte
e passa quei che vanno al tristo mondo,
cui mesta insegna rappresenta e fiera
la costui vela insanguinata e nera.

40Dinota, dico, l’infernal nocchiero
con quell’oscura vela aspro dolore,
come al miser Egeo quelle già fèro
al ritornar del figlio vincitore,
che spento in Creta avendo il mostro fiero
si scordò por le ricche vele fuore,
onde il misero padre al falso segno
sfogò con ria credenza in mar lo sdegno.

Alì si adira con Caronte per il trattamento riservatogli, attacca zuffa, viene percosso e trasportato oltre l’Acheronte (41-53)

41Con tal dunque dolor l’alme dannate
fean quelle strane novità restare,
mentre dal fiero stuol venian portate
là dove il gran nocchier tartareo appare.
Sol de l’orribil cose raccontate
non parve Alì nessuna stima fare,
con arroganza tal parlò a Caronte,
giuntoli poi, com’udirete, a fronte.

42Quivi dunque il trovàr ch’essi aspettando
avea tirato il paliscalmo al lito,
il qual pien di stupor rimase quando
vide de l’alme il numero infinito.
Dai servi poi che tiene al suo comando,
da’ quali è ’n tal mestier sempr’ubbidito,
fe’ tosto ritornar la barca al loco
per condur l’alme sventurate al foco.

43E così primamente nel battello
Cerbero entrò, per far ch’Alì ’l seguisse,
ma ’l barbaro adirato come quello
che superbissim’era, ad ambi disse:
«Oh veramenti scemi di cervello,
non vorrei già ch’orecchio uman l’udisse,
ch’al vostro re volendo voi menarmi
vi caglia oggi sì poco d’onorarmi.

44Voi non sapete dunque chi son io
o forse è ’l vostro re di vile affare.
Pochi dì son ch’i ebbi al comando mio
tante galee ch’era lor poco il mare,
se ben volle mia sorte o ’l grande Dio
da’ miei nemici farmi superare;
e voi sì poca stima di me fate
ch’un palischermo vil m’apparecchiate?».

45«Ben sei, spirto, arrogante (li rispose
Caronte), e con gran torto ti lamenti,
poiché tu sol di così fatte cose,
che sempre al mondo fur, non ti contenti».
Queste parole tanto ingiuriose
al barbaro superbo aspre e pungenti
parver che gonfio di furor si mosse
e con mani e con piè la barca scosse;

46ma fu di sorte che la fe’ ne l’acque
gir sottosopra, con chi dentro v’era.
Tanto quest’atto così strano spiacque
a tutti quei de l’infernale schiera
che desio di vendetta a ciascun nacque,
ond’attaccossi una battaglia fiera
tra l’arrogante spirto e tutti quelli
ministri di Pluton, maligni e felli.

47Percoss’egli un di loro e cader fello,
per torgli un pal ch’avea, disteso in terra,
e poi che gli l’ha tolto, altier, con quello
fra gli altri pien di tal furor si serra,
ché se dato a lui fusse il far macello
di lor come si fa d’uomin’in guerra,
certo ’l faria, ma non li può ferire;
basta ch’in rotta li fe’ tutti gire.

48Cerber tra tanto e ’l gran nocchiero alzati
s’eran da l’acque e, ricovrato il legno,
videro i lor seguaci spaventati
dal barbaro fuggir senza ritegno.
Insieme dunque di furore armati
gli andaro a dosso e d’ira e di disdegno,
et assaltandol come i cani il verro
ei s’avvalea del guadagnato ferro.

49Allor la turba vil, che spaventata
s’era chi qua e chi là posta a fuggire,
a quella nova pugna incominciata
da la coppia infernal con tanto ardire,
si fu tutta in un tratto congregata
e venne Alì di novo ad assalire,
tanto ch’al fin l’astrinsero a dovere
far del triforme can tutto ’l volere.

50Si rese dunque il barbaro, poi ch’ebbe
infinite percosse ricevuto,
e contentato certo si sarebbe
a tal lite non mai d’esser venuto;
né più d’entrar in barca li rincrebbe
ma, tutto mansueto divenuto,
v’entrò senza contrasto, onde passato
fu tosto a l’altra ripa e là sbarcato.

51Ove passò poi tutte quante in breve
quell’altre miser alme il fier Caronte,
con quel suo legno, che qual vento leve
va per le torbid’acque d’Acheronte;
e quindi entraro ov’in supplizio greve
stean infiniti a’ piè d’un alto monte,
sulla cima del quale, u’ corre Lete,
l’alme purificate ascendon liete.

52Tra queste non è lor luogo concesso,
perché non come lor sono dannate,
ma prim’avran, secondo il mal commesso,
la giusta pena e ’n Ciel poi fian portate.
Or qui, sì com’ha Dio dunque permesso,
le colpe al mondo, sua mercé, sgravate,
restando intatte l’alme pellegrine
si purgano con aspre discipline.

53Pien d’alta meraviglia e d’orror gìa
mirando Alì le pene di costoro,
ma ben per somma grazia avuto avria
d’aver il peggior loco e star fra loro,
che converrà ch’in maggior pene stia,
senza speme d’aver già mai ristoro.
Or, giunto, udite pur con che rispetto
parlò del re infernal nel gran cospetto.

Alì arriva al cospetto di Plutone, lo insulta e attacca di nuovo zuffa (54-64)

54Di ferro in seggio vil sedea Plutone,
a sua superbia convenevol loco.
Sembra dal capo a piè spento carbone
e gli occhi accesi ha di solfureo foco;
qual da vaso che ferve esce il sermone
da la fetida bocca oscuro e roco.
A così strano aspetto e così fiero
che dovea dunque far lo spirto altero?

55Quand’ei si sentì dir ch’inginocchiato,
qual a gran re conviensi, il riverisse,
divenne di tal sorte infuriato,
ch’a Cerbero il parlar drizzando disse:
«Malvagio traditor, tu m’hai menato
qui, non che ’l mio voler vi consentisse,
ma poco accorto mi lasciai ingannare
da la gran falsità del tuo latrare.

56Prometter mi facesti di menarmi
là tra i defunti imperatori nostri,
e m’hai condotto qui per collocarmi
tra questi fieri e spaventosi mostri;
e credi ancor ch’io debba inginocchiarmi
a’ piedi di costui, che tu mi mostri
per vostro re e signore, essendo tale
che mostro a lui non ho mai visto eguale».

57Quando il dannato re l’ingiurioso
parlar sentì del troppo spirto altero,
tener non poteo più lo sdegno ascoso
e ’l dimostrò con dargli un colpo fiero.
Ma ’l barbaro superbo et orgoglioso,
non ben punito da l’error primiero,
«Tu fai,» li disse «o pazza bestia, come
conviensi al tuo malvagio e crudo nome;

58e già che solo e disarmato in mano
qui m’hai l’usarmi forza è ’n tuo potere,
perch’ogni ardire, ogni riparo in vano
s’adoprerebbe contra tante schiere;
ma l’atto superbissimo e villano
ch’usato m’hai mi sforza a non tacere,
e s’io avess’il poter com’ho l’ardire,
con queste man te ne farei pentire».

59Questo parlar ne l’adirato petto
tal foco aggiunse del crudel Plutone,
che pria s’avvalse del furor d’Aletto,
e, gonfio poi di quel di Tesifone,
mosse Megera, onde con fiero aspetto
contr’Alì s’avventò com’un dragone.
Et ei, quasi cinghial mentr’è percosso,
vorria, né può, a ciascun menarsi a dosso.

60Ecco l’Inferno andar tutto a rumore:
corrono gli empi spirti, a schiera a schiera,
tutti a difesa del lor gran signore,
talché più cresce l’ira di Megera;
e dimostrando Alì poco timore
gli corre a dosso quella turba fiera
con tanta furia, che parea là dentro
tutto intorno tremar l’infernal centro.

61Come quando le pecchie escon da’ fiali
seguendo il re che nova stanza brame,
s’avien che quello in parte a posar cali,
tutto s’avventa intorno a lui lo sciame;
o s’in campo a distrur le piante frali
cade di cavallette schiera infame
così ’l dannato stuol, ma va più orrendo
contra lo spirito sol, benché tremendo.

62Pluton, che vede il barbaro sì ardito,
di maggior ira e di furor s’accende,
ch’intorno avendo un numer infinito
di fieri spirti, grida, urta e contende;
e ricevendo colpi incrudelito
con pugni e calci a chi più può ne rende.
Ma che farà, se maggiormente abbonda
la gran turba infernal che lo circonda?

63Alfin tanti de’ diavoli gli andaro
intorno ch’ei voltar non si potea
e tutti fieramente l’assaltaro:
chi a dritto e chi a traverso il percotea,
ond’ei, che non potea far più riparo,
percosse e gravi e molte ricevea.
In somma tali e tante gli ne diero
ch’ivi cader, com’uom defunto, il fèro.

64Quindi fu poi da quattro spirti preso,
i quali al gran Pluton, che ritirato
s’era al suo trono, lo portàr di peso,
livido tutto, afflitto e lacerato;
e quivi a’ piè di quel lungo disteso
lo tenner molto, acciò ché castigato
fusse di sua arroganza; onde Plutone
sciolse vèr lui la lingua in tal sermone:

Radamanto mostra ad Alì gli inferi (65-80)

65«Credi, superbo spirto, esser a torto
venuto in questo mio gran tenitoro,
ma ti vo’ far veder qui d’ogni morto
re vostro l’alma in pena et in martoro.
E così quel Macon, che ’l mal accorto,
anzi ilS | io tutt’orbo e popol turco e moro
adora e riverisce come Dio
et è perpetuo servo e schiavo mio.

66Or va’, che verrà teco Radamanto,
il qual ten chiarirà com’uom saputo».
Sentendo questo il barbaro, fu tanto
il duol che l’assalì che parve muto,
perché connobbe ch’a l’eterno pianto
quivi era come gli altri anch’ei venuto.
Menollo dunque Radamanto al loco
ove i dannati stanno ardendo in foco.

67A cui ’l pentirsi de’ lor gravi errori
e ’l dimandar perdon nulla più giova:
son quivi oltr’ogni modo aspri i dolori,
quivi ogni vizio scelere si trova;
falsari, empi assassini, usurpatori
contra pupilli e quei che fan ria prova
spargendo il sangue giusto, il qual ognoraS | ogn’or
dinanzi a Dio grida vendetta e plora.

68Quiv’i superbi son, gli invidiosi,
de l’ira pazza i figli e i vili avari,
a cui son in dispregio i virtuosi;
vi son gl’insaziabili usurari,
che col sangue e sudor de’ bisognosi
cercan di sempre accumular denari;
di gola, di lussuria e d’altri tali
ve n’ha che detti son vizi mortali.

69Vi stan gli ingrati in non minor tormenti,
c’han di macigno e non di polpa il core;
i tiranni, i crudei, gli impazienti,
i perfidi, i ribaldi e chi l’onore
macchiò di mille inganni e tradimenti;
né manca a’ vagabondi aspro dolore,
né in somma a tutti gli altri vizi rei,
ch’a nominar noioso io vi sarei.

70E così poi quell’anime infinite
ch’eran condotte appresso al generale,
fur da’ demoni tutte compartite
nei cerchi del gran pelago infernale.
Quivi allor fur diverse strida udite:
qual dicea in vano «Miserere» e quale
biastemava la legge di Macone,
ch’era del loro error stata cagione.

71Divise fur quell’alme e collocate
quiv’in duo cerchi d’infinito giro,
le cui gran porte chiuse e sigillate
furo ab eterno, onde non mai s’apriro;
ne l’un quelle che, essendo battezzate,
poi da la fé di Cristo si partiro,
e rinegando il giusto e vero Dio
serve si fèr di Satanasso rio.

72Di queste scelerate Radamanto
mostrò ad Alì la meritata pena,
sendone pien quel cerchio in ogni canto,
nel qual corre di foco una gran vena.
Ivi quest’alme, con stridore e pianto,
legate da invisibile catena,
oltre l’angoscia del continuo ardore,
hann’un gran tarlo che lor rode il core.

73«Quel tarlo c’hanno al cor, come tu vedi,
dà lor più pena (Radamanto disse)
che ’l foco ardente, in cui dal capo a’ piedi
senza mai punto di requiar son fisse.
Quel che tu forsi esser pur tarlo credi,
è solo quel pensar che Dio l’ascrisse
tra quei ch’aspetta in Cielo e dipoi loro
perder, negando lui, quel gran tesoro».

74Mostrogli poi nel cerchio susseguente
così l’alme de’ suoi Macomettani,
come di quella sciocca e cieca gente,
che tenne per suo dio gl’idoli vani:
«La pena lor (diss’egli) è ’l foco ardente,
per cui gli odi latrar che paion cani.
Questi, infedeli e crudi al mondo stati,
mai non conobber chi gli avea creati.

75È ver ch’essi non paton quel dolore,
ch’agualia quel del foco, anzi ’l trapassa,
dico il gran tarlo c’han quell’alme al core
che di roderle mai punto non lassa,
perché chi nasce al mondo ne l’errore
e ne l’istesso error di vita passa,
come costor non ha cagion di dire:
“Lasciai la via ch’al Ciel fa l’uom salire”».

76Mentre il dolente Alì tutto ascoltava
quel che l’infernal saggio li dicea,
giunser dov’una valle terminava,
ch’un monte a lato e un cerchio in seno avea,
in cui scorrendo un grosso fiume entrava
quivi in un lago ch’agghiacciato stea,
nel qual più che migliaia d’alme afflitte
star si vedean fino a la gola fitte.

77Poi vede con più capi nova gente
da quel gran fiume uscir fetida e molle,
a seconda del qual velocemente
andava e poi salia sopra quel colle;
giunta là su, precipitosamente
cader la cieca turba ignara e folle
vedeasi con ruina et in quel fiume
di novo ritornare al suo costume.

78«Costor son (disse Radamanto) quelli
de la legge del ver gran corruttori,
quei ch’a la Chiesa fur, dico, ribelli
e di mill’eresie seminatori;
con che le dier vivendo aspri flagelli,
ch’empìr molte città dei loro errori;
poi per alzarsi con la lor dottrina
sé stessi e gli altri spinsero in ruina.

79Quei che sepolti il duro ghiaccio tiene,
quelli son gli ostinati empi Giudei,
che disprezzando il desiato bene,
dico il Messia, se li mostràr sì rei
ch’al fin con mille strazi e mille pene
li fèr com’uom sentir gli ultimi omei;
il qual poi suscitando, essi ostinati
si stan pur ne l’errore in che son nati.

80Perché non voglion creder ch’egli sia
quel Dio venuto in terra ad incarnarsi
nel puro e sacro ventre di Maria,
e per salvare il mondo a morte darsi;
anzi da lor si tien che quel Messia
da Dio promesso ancor abbia a mostrarsi,
e stando in così falsa opinione
s’acquistano l’eterna dannazione.

Da ultimo incontrano i sovrani musulmani e Maometto (81-104)

81Sì che tu hai inteso pienamente quanto
importi il non aver creduto in Cristo:
felici quei che nel suo nome santo
finiscon ché faran del Cielo acquisto.
Or vien ch’io ti vo’ far veder quel tanto
bramato e da te loco ancor non visto».
Andàr dunque ove son l’alme dannate
dei morti re ottomanni collocate.

82Quivi in un ampio cerchio si vedea
un giro di gran sedie in foco ardente,
sopra ciascuna de le quai sedea
incoronata un’anima dolente,
che senza consumarsi sempre ardea
e sonvi collocate eternamente.
Mostrolle tutte Radamanto a dito
al barbaro et entràr nel circuito.

83«Vedi (li disse) quel che men sovrano
tra tutti gli altri par di questo coro:
fu quello il primo duce e capitano
ch’ebbono i Turchi nel principio loro;
fu ’l proprio di costui nome Ottomano
e sembra inferior, qui tra costoro,
siccome poi molto l’Imperio crebbe,
ond’ei tant’alta dignità non ebbe.

84Quell’altro fu suo figlio e successore,
Orcana detto, il qual non meno ornato
che ’l padre fu d’ingegno e di valore
e capitano in guerra aventurato,
ove d’assai gran cose fu inventore
sì ch’aumentò col suo valor lo Stato.
Fu ’l terzo di costui figliuolo, il quale
ai genitori suoi fu disuguale.

85Er’Amuratte il nome di costui,
che falso e vil di laude fu bramoso.
Vedi quel Baiazete dopo lui,
gran Principe prudente e valoroso?
Or questo a par di quei prim’avi sui
in più battaglie fu vittorioso,
tal che non pur gran guerra in Ungheria
fe’, ma in Epiro et anco in Vallacchia.

86Et ei di vita finalmente estinto
fu dal gran Tamerlan: guarda destino.
Vedigli a lato il figlio, che fu ’l quinto
principe nominato Calapino,
dal cui valor fu Sigismondo vinto
che l’Imperio reggea di Costantino.
Il sesto nominossi Macometto,
che quanto ’l padre fu guerrier perfetto.

87Quell’altro poi c’ha dopo lui regnato
è Amuratte il secondo, che fu in tutto
dissimile dal primo, essendo stato
molto ne l’arte militare istrutto;
in cui fu ancor non poco aventurato
e dopo lunga guerra ebbe distrutto
quel Ladislao che ’l Ungheria reggea,
poi sottopose tutta la Morea.

88Ma che dirò di quell’ottavo, il quale
vedi c’ha sì feroce e orribil volto?
Quel Macometto ei fu, principe tale
che i precedenti superò di molto.
Da l’arme e dal costui valor fatale
l’alto dominio a Costantin fu tolto:
ei soggiogando più e più regni al fine
ampliò del suo Imperio ogni confine.

89Vedi quei duo che con turbato aspetto
l’un guarda l’altro e si son padre e figlio:
quel Baiazete è l’un, ch’al regno eletto
con gran fatica fu, con gran periglio;
l’altro è quell’empio parricida detto
Selim che per regnar pose in scompiglio
lo stato e ’l padre a mal morir condusse,
e ’l proprio parentado alfin distrusse.

90L’ultimo che tu vedi è Solimano,
padre del gran Selim, ch’oggi è signore;
vedigli a’ piè quel forte capitano,
ch’in mar fu pien di così gran valore,
onde più volte al popolo cristiano
con l’apparenza sua diè gran terrore:
fu costui detto Barbarossa, il quale
di quel gran Soliman fu generale.

91Or non starò dei gloriosi gesti
di così grande imperadore a dirti,
perché sendo a te noti e manifesti,
verrei troppo parlando a fastidirti».
«Saper vorrei (soggiunse Alì) se questi
qui tra le fiamme collocati spirti
paton gran pena, e perché posti Dio
gli ha in questo luogo sì dolente e rio».

92«La pena che si pate in questo loco
(rispose Radamanto) è così grande
che quell’incendio e quell’ardor di foco,
che sai c’hanno i mortali in quelle bande,
saria di questa a paragone un gioco:
qui si gusta sapor d’altre vivande,
questo foco arde e non consuma mai,
sì che tien l’alme in sempiterni guai.

93E sappi che non pur costoro avranno
a star in queste pene in sempiterno,
ma tutte quelle genti ancor che fanno
contra la volontà del Verbo eterno,
Quel ch’io dissi ch’in terra patì affanno
e poi volle morir con tanto scherno,
per liberar la gente che già tutta
in servitù di Pluto era ridutta.

94Però voi altri che seguaci sète
di quel falso Macon, ch’è qui dannato,
e nel sacro Evangelio non credete,
né in quel Verbo divin Cristo incarnato,
a venir tutti in questo centro avete,
nel qual eterno duol v’è preparato.
Vedi che qui condotto son anch’io,
perché vivendo non conobbi Dio.

95E se vuoi ch’io ti mostri quel Macone
del qual voi Turchi tanta stima fate,
che come Dio adorandolo è cagione
che tutti in questo loco al fin vegniate,
acciocch’in sempiterna dannazione
seco per premio di vostr’opre stiate,
vedi tu quel gran pozzo oscuro e tondo?
Andiam, che lo vedrai là giù nel fondo».

96Insieme dunque al detto pozzo andaro,
e mirando il gran fondo Alì di quello
videvi un foco tal che rendea chiaro
di quel falso Macon l’aspro flagello.
Pria duo demoni vide che ’l posaro
sopr’un’ancude, e con un gran martello
per un tanto il battèr che semivivo
pareva essendo d’ogni forma privo.

97Poi dentr’un lago turbido che v’era
d’acque bollenti l’attuffàr, nel quale
riprese quella sua forma primiera,
sì che mostrava non aver più male.
Ma senza dimorar poi con più fiera
possanza i servi di quel re infernale
tornàr tutto di nuovo a flagellarlo
e poi nel bullicame a ristorarlo.

98Come guastar si suol qualunque image
di piombo per formarne altro lavore,
che franta e liquefatta in su le brage
si getta in forma, indi si trae di fuore,
si torna anco a disfar con doppia strage
se ne l’opra seconda è qualch’errore,
poi si rifà fin che perfetta viene,
tal di Macon, ma eterne, eran le pene.

99Del che rimaso Alì meraviglioso,
ne chiese a Radamanto la cagione,
dal qual: «Questo lo fan» li fu risposo,
«per dargli maggior pena e passione;
e sappi ch’un momento di riposo
concesso non gli è mai dal gran Plutone,
anzi perpetuamente in tal supplizio
starà in eterno per divin giudizio.

100E convenevolmente di tal pena
crucciato egli è qua giù, secondo hai visto,
poi ch’una falsa legge e d’error piena
contraria a quella ardì formar di Cristo,
onde a la Verità chiara e serena
diede sembiante tenebroso e tristo
per ingannar, come già fe’, la gente,
tal ch’è la pena al mal corrispondente.

101E sì come quel Cristo che sostenne
crudel morte e passion fu vero Dio,
onde il più eccelso e degno luogo ottenne
là su dov’ogni duol ponsi in oblio,
così Macon per sua nequizia venne
qui nel più basso fondo oscuro e rio.
Fa’ quello i suoi credenti in Ciel beati
e questo in sempiterno qui dannati».

102Rimase Alì di ciò sì addolorato
che biastemò Macone e chi li crede.
Biastemò poi sé stesso e chi allevato
l’avea nel cieco error de la sua fede.
Alfin menollo Radamanto a lato
a Soliman dov’un’altera sede
li mostrò vacua e dissegli: «A sedere
su quella or te ne va’, com’è dovere,

103perché Selim, quel tuo potente Sire,
che tal ti fu mentre vivesti al mondo,
morto ch’ei fia dèe pur l’alma venire
a patir pene in questo gran profondo,
e però di dover ben custodire
quel luogo che fia ’l suo lascio a te ’l pondo,
che là su fusti suo locotenente,
onde il sarai qua giù perpetuamente.

104Va’, siedi dunque e serba al tuo signore
quell’ampio seggio a lui già preparato».
Così pien di mestizia e di dolore
entrò nel foco il barbaro dannato,
a goder quiv’il premio da l’errore
del cieco Paganesmo meritato,
ché come a sprezzator d’opre divine
sì gli convien quel duol che non ha fine.