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Babilonia distrutta

di Scipione Errico

Canto III

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 2.05.15 9:23

ARGOMENTO
Persina muor presso a Filindo estinto.

Incontro tra Filindo e Persina: il giovane muore, la vergine si suicida (1-68)

1Era la notte, e gelidi splendori
di Latona la figlia in ciel spargea,
e coi suoi quieti e lucidi candori
scorno gentile al suo fratel movea.
ed in profondo oblio cure e dolori
tuffava ogni omo, ogni animal tacea,
e le stelle con rai vaghi e tremanti
ridean de furti de’ notturni amanti,

2quando tra un giro di secrete mura
due carissimi petti Amore unio,
ma con division troppo empia e dura
in quel punto medesmo egli partio.
Voi di Pindo alme dee, ch’avete in cura
del famoso Elicona il sacro rio,
date aita al mio stil sì che il gran pianto
non m’annodi la lingua e turbi il canto.

3Su le tenere piume, ignudo Amore,
il vezzoso fanciul posando stava,
ma al pungente desio, fiero avoltore,
esca, novo Prometeo, il petto ei dava.
E nel cupido sen speme e timore
con lance del desir dubio librava,
e al par giostrava entro l’accesa voglia,
duro agon de la mente, e gioia e doglia.

4Così stass’ei mentre la bella amante
con alma accesa e trepidante attende,
ed incerta e confusa in quell’instante
dal caro arrivo la sua vita pende.
Di pensiero in pensiero il cor bramante
vaga e s’aggira, e se medesmo offende,
e l’egra mente misurando stassi
de l’amata fanciulla i moti e i passi.

5E in un sol punto trasformar desia
quel tempo odioso il tormentato core.
e misura con calda frenesia
i troppo tardi movimenti a l’ore.
Così un infermo a cui promesso sia
doppo alcun spazio il desiato umore,
nota e contempla co i pensieri ardenti
gli atomi, i punti e i minimi momenti.

6Desioso dicea: «Dunque fia vero
che le lacrime mie non vane foro?
E avrò del foco, ond’io languisco e pèro,
tra le tenere nevi a pien ristoro?
Troppo Amor mi promette e troppo io spero
possedere una dea che amando adoro,
ed a tropp’erta, ond’io respiro a pena,
altezza di contento Amor mi mena.

7In questa notte ristorar le tante
notti noiose il corpo afflitto spera,
in questa notte, in cui cadrammi innante;
punta d’amor la mia cortese fera;
e quel candor de la beltà prestante,
quel tesoro d’Amor che nascoso era
scoperto io pur godrò senz’alcun velo,
che rimirar non si concede al cielo.

8Godrò le rose, onde qual prato ameno
ornò somma bellezza il vago aspetto,
e ’l famelico Amor fia sazio a pieno
fra quelle poma del vergineo petto.
Già viene, già l’annodo e nel bel seno
spiro l’alma brugiante e do ricetto
al trabboccante e fervido desio.
Ma che penso? che parlo? ove son io?

9Infelice amator, come sì tardo
ogni gusto è d’amor, s’Amor ha l’ale,
e cosi ratto d’un vezzoso sguardo
esce alato a ferir l’aurato strale?
Forse nel petto mio col foco ond’ardo
arse ha le piume, onde volar non vale?».
Cosi vaneggia, e in vaneggiar s’affanna
tra fantasme amorose e l’alma inganna.

10E col suo vaneggiar veloci l’ore
seguiano in tanto il sempiterno corso.
Ma non già per badar punto a l’ardore
giunger vedeva il bel garzon soccorso.
L’uscio ei guata, e contempla, e sente al core
di dolor di desir pungente morso,
e con la vista e con la mente immota
ogni strepito incerto osserva e nota.

11Oh quante, o quante volte egli da letto
sorse per incontrar l’idolo amato,
ed altre tante poi, con suo dispetto,
conobbe da le larve esser beffato!
Oh quante volte il desioso affetto
a gli occhi la sua donna ha figurato,
ed altre tante poi, con suo tormento,
egli stringer la volse e strinse il vento.

12Ma passato era il tempo, e poca spene
a l’amante fanciul restava omai,
né più cortesi a le sue dolci pene
mirar credea del bel sembiante i rai.
Langue, geme s’affligge e non contiene
più l’egra bocca i dolorosi lai,
quando un strepito udissi, ed ei converse
ratto a l’uscio lo sguardo, e quel s’aperse.

13Ed ecco in bianco lin lieta gli appare
quel suo d’alta vaghezza inclito nume.
A lo splendor de l’amorose e care
repentine beltà par l’aria allume.
Ombre, che la miraste, ed occultare
voleste in cieco grembo un tanto lume,
deh soffrite ch’io l’apra, e fian trofei
de l’immensa bellezza i versi miei.

14Ella su l’aurea testa a un nodo avea
il biondo crin vezzosamente astretto,
e parte ancora in onde d’or correa
su gli avori del viso e del bel petto.
Ricca siepe con quel farsi parea
a le rose natie del vago aspetto;
farsi parea su ’l volto un bel tesoro
di porpora, d’argento intesta e d’oro.

15Ridon le luci e ’l bel vergineo aspetto
e vergognoso e lascivetto e vago,
e con dolce timor gela il bel petto
nel vicino piacere, ond’egli è pago.
Misto di mille affetti un strano affetto
carca d’alto rossor mostra l’imago,
né ben qual sia maggior saper si puote
il rossor de le labra o de le gote.

16Come sorgendo il sol da l’Oriente
apre il tenero sen purpurea rosa,
e spiega ognor se più la luce sente
l’odorata beltà già dianzi ascosa,
così apparve costei, così ridente,
ed allegra mostrossi e vergognosa,
ed a l’ardente suo nobil rossore
scoprì la fiamma, ond’era oppresso il core.

17E sotto un bianco lin chiuse parieno
l’altre bellezze, e più bramate e rare,
ma sottile in tal guisa il vel ch’a pieno
ogni fattezza, ogni candor traspare.
Così vago e splendente in ciel sereno
dietro a candida nubbe Apollo appare,
e la beltà de le velate membra
quanto ha ascosa via più, più vaga sembra.

18Così venn’ella, e come vergin’usa
movea tremando in vèr l’amante il passo.
Quello immoto la mira, ed ha trasfusa
dolcezza tal che il rende infermo e lasso,
e par d’una gentil vaga Medusa
fatto un’algente ed animato sasso.
La guata e par non senta, e le tien fiso
tacito e immoto e stupefatto il viso.

19Così, mentre in solinghi alpestri campi
sovente un pastorel sen vaga ed erra,
s’avvien ch’acceso folgore l’avampi,
languido cade e semivivo a terra,
così il garzone a gl’improvisi lampi
de l’immensa beltà langue e s’atterra.
Pur si riscote, e sorge al fin dal letto
dubioso, ad incontrar l’amato oggetto.

20Egli andò vèr la donna, e verso il caro
fanciul drizzò la bella i piè tremanti.
Si urtaro i corpi ignudi, e s’incontraro
con arringo più bel l’anime amanti.
Non l’edera formar nodo sì raro,
non la vite amorosa unqua si vanti;
stringonsi ed alme e corpi, e unisce e allaccia
quelle il vago desir, questi le braccia.

21La dolcezza e ’l piacer grato piovea
ne la bella union di cori e menti,
e nel gradito avviticchiar parea
versarsi un ocean d’alti contenti:
Taccio il vago languir ch’ivi si fea,
taccio il vago stupir de l’alme ardenti,
e taccio i dolci or timidi or audaci,
sguardi, gesti, sospir, parole e baci.

22Taccio perche l’ascose in fosco velo
tra secreta magion la notte algente;
ma non temprò col suo nativo gelo
quella fiamma d’amor salda e cocente:
Degno era nodo tal che fermo il cielo
tenesse mille luci in esso intente,
degno ch’eternamente ivi restasse
e d’amore e beltà trofeo sembrasse.

23Stetter per bona pezza uniti e stretti
ne i cari lacci, e avviluppati e chiusi,
e languian dolce i desiosi petti
ne l’immenso piacer dubi e confusi.
Ma tu più fieri, e più potenti affetti
avevi a l’alma, o bel Filindo, infusi,
che stringer lasso ed annodar volevi
più le candide membra, e non potevi.

24E ’l fiato e ’l sospirar già ti togliea
sola al grato baciar la bocca intenta,
e la dolcezza in quel goder parea
tra la brama infocata oppressa e spenta.
Soccorso dibattendo il cor chiedea
che par d’un gran piacer l’assalto senta,
corre in aiuto suo veloce il sangue
per ogni vena, e lascia il corpo esangue.

25Freddo si è fatto e d’un mortal pallore
tutto il corpo gentil sparso è repente,
e de’ lumi la vista e lo splendore
indebolir ed appannar già sente.
Così, per troppo e disusato ardore,
l’infiammato garzon divenne algente,
così gli occhi non tanto a mirar usi
poiché troppo mirar, rimaser chiusi.

26Ed infermo e impotente il piede e ’l braccio
a sostentarsi e ad annodar diviene.
Pur, sendo stretto entro l’amato laccio,
ruinoso non cade e si sostiene.
Svanìr la mente e i sensi, e grave impaccio
sol è de la donzella a cui s’attiene.
Vibra una voce al fin languida e lassa,
e su ’l candido petto il capo abbassa.

27È fama allor, che sospiroso Amore
romper mirato fu l’arco funesto,
oh fanciullo infelice in troppo ardore,
visto il tuo fin sì sventurato e mesto,
e, piangendo, le Grazie a tal dolore
misere erraro ed in quel lato e in questo,
sparìr le stelle, e sanguinosa e bruna
entro le nubbi s’occultò la Luna.

28Tu ancor a i cari baci intenta stavi,
o dolente fanciulla, e non vedevi
quanti acerbi dolor profondi e gravi
tra breve spazio sopportar dovevi.
E forse folle ancor l’alma beavi
nel languir de l’amante, e ti credevi
che ’l tremar, che ’l gelar (ahi cruda sorte!)
eran moti d’amor e non di morte.

29O sempre d’abbracciare Amore avesse
dato allora a costei possa e balia,
che l’acerbe sciagure omai successe
in quella notte non vedute avria.
E avendo al sen vital le membra impresse,
forse avvivato il cavalier saria,
né sarebbe or quel miserando scempio
a l’amanti donzelle amaro esempio.

30Essa allentò le braccia, e già vicina
venir credeasi a l’ultimo diletto,
quando ecco esangue il bel garzon ruina,
steso parte nel suol, parte nel letto.
Pendon le braccia e al tergo il capo inchina:
casso è ’l bel raggio del ridente aspetto
e al color, al sembiante, al tatto, a l’opre
esser l’anima sciolta a pien si scopre.

31Come s’avvenir può ch’un dì repente
oltre il corso di sfere e di natura,
si mirasser del sol le luci spente
a un punto, e l’aria tenebrosa e oscura,
incerta allor la sbigottita gente
d’ogni estremo periglio avria paura,
starebbe immota e, attonito il pensiero,
non crederebbe a pieno esser ciò vero;

32tal si fece costei, quando improviso
lo spettacol mirò crudo e impensato,
scorgendo estinto in quel diletto viso
del bel guardo vezzoso il lume amato,
e di morte il bel corpo esser conquiso,
ch’Amor con somma industria avea formato.
Stupida stette e quasi in falda alpina
candida parve ed agghiacciata brina.

33Poscia un cupo sospir mosse, col quale
parve tutta esalar l’alma dolente,
e punta il cor d’un velenoso strale
mesta lanciossi in sul guerrier giacente.
Il guata, il muove, e a pena un tanto male
non anco afferma attonita la mente:
tratta aggira le membra, e poi s’avvede
che ’l suo danno è ben certo, e pur no ’l crede.

34Ed è forza, che il creda. Hor qual dolore
si può a questo agguagliar, miseri amanti?
Voi, che talor ne la region d’Amore
varcaste in varie guise un mar di pianti.
Qual rigid’alma, e qual invitto core
furon tal doglia a sostener bastanti?
ma qual mente o qual lingua ha sì gran possa
che contemplarla o che narrar la possa?

35Certa al fin del gran danno, e avendo omai
de l’empio mal nel mesto cor l’avviso;
non discioglie la lingua in gridi, e lai,
ma sta tacita e immota, e mira fiso.
Mancàr gli spirti, e de’ begli occhi i rai
svanìr, langue tremante il corpo e ’l viso,
e al moto e al gelo e a le cadenti membra
morta al par del garzon la donna sembra.

36Si converse de l’ombre il cupo orrore
a sembianza sì bella e sì dogliosa.
Parver quasi stillar dolente umore
i sassi, e rivelar la pena ascosa.
Cosi per cause avverse, o sorte o Amore
fèr tragedia impensata e lagrimosa,
in due bellezze, ahi caso acerbo e solo,
Oprando e troppo gioia e troppo duolo.

37Ma la doglia non già fu sì potente,
che l’avesse d’affanni al fin privata,
ché la via d’ammorzar la pena ardente
a la destra infelice era serbata.
Rivenne, e incerta ancor languia la mente
né de gli occhi la nebbia era svelata,
quando al primo guatar l’inferma vista
scorse l’amata faccia esangue, e trista.

38Sciolse allora, e sgorgò di linfe amare
rivi non già ma rapidi torrenti,
ed a gara de gli occhi anco a versare
l’egra bocca attendea sospiri ardenti.
Volean, ma s’impedir dal lagrimare
uscir messi de l’alma i mesti accenti:
onde tornàr con più dolente affetto
l’acerbe note a ribombar nel petto.

39E lagrimando si dilegua e sface,
quasi gelida neve in aspro monte,
e la doglia, onde il cor non è capace,
versa da i lumi, e par mutata in fonte.
E mentre inonda al cavalier che giace
di linfe il caro aspetto e l’egra fronte.
parea con quell’umor, qual fior succiso,
volesse ravvivar l’esangue viso.

40E come il cieco duol la commovea,
ecco in un punto il biondo crin disciolto,
che su ’l bel petto in onde d’or scendea,
e su la faccia scarmigliato e incolto
s’attraversava, e a gli occhi suoi togliea
pietoso il crin del caro estinto il volto,
Ma che? s’ella il rompendo irata apria
a l’egri lumi del mirar la via?

41E da l’irate man guaste parieno
l’altre bellezze in un col vago crine.
Percosse, e lacerossi il volto e ’l seno
e feo porporeggiar l’intatte brine:
Ma poiché il duol, ond’era il suo cor pieno
puoté con voci disserrare al fine,
«Misera,» disse «io pur conosco, e miro
la mia certa sventura, e vivo, e spiro?

42E vivo e spiro, ahi lassa, e tu non basti
a togliermi di vita, o fiera morte?
Empia morte crudel, ch’or ti mostrasti
contra l’istessa vita invitta e forte.
Come ogni mio tesor cruda involasti?
come hai tante bellezze in grembo absorte?
Ahi gradito sembiante, ahi faccia amata,
ahi perche non son io cote insensata?

43Perche scoglio non sono, e intorno al core
cinto non ho di duro marmo il seno,
onde l’empio successo e ’l gran dolore
o non sentissi o non vedessi al meno?
Filindo, ù de’ begli occhi è lo splendore?
Filindo, ù de la fronte il bel sereno?
Tu pur giaci infelice immobil salma,
o de gli egri miei spirti e vita ed alma.

44Apri Filindo quei begli occhi, e mira
come l’egra tua serva abbandonasti.
Apri i begli occhi, e col bel raggio inspira
la contentezza, onde il mio cor privasti.
Apri la bocca, onde Amor fiamma spira,
bacia la bocca, che cotanto amasti.
Apri la bocca acquieta, i miei dolori,
Apri almeno la bocca e dimmi: muori.

45Moviti o caro amato, e teco mena
dove l’alma tua gio la mesta amante.
Ma qual voglia, ahi dolor, qual gioia o pena
ti feo pur senza me partir innante?».
Cosi si affligge, e queste note a pena
a formar l’infelice era bastante,
e qual turbato mar, lassa, confonde
de’ sospiri il rumor, del pianto l’onde.

46O qual era il veder vaga, e dolente
sola affannarsi la real donzella.
D’amare linfe un gemino torrente
mesta spargea da l’una e l’altra stella,
e versava dal cor fiamma cocente
sospirando la bocca afflitta e bella.
Così lassa pareva a poco a poco
struggersi a un tempo istesso in acqua e in foco.

47Su l’estinto talor le braccia stende,
e petto a petto unisce, e viso a viso.
e freddi baci da la bocca prende,
Ch’or son seggio di morte e pria di riso.
Or muta stassi, or vibra voci orrende,
quas’abbia il cor d’acuto stral diviso.
Lo stringe, il lascia e su l’esangui membra
Far mesta guerra la donzella sembra.

48Alfin doppo gran pianti, irato e rio
su ’l diletto garzon l’aspetto fisse,
ed asciugò del vivo pianto il rio;
poi con alto sospir proruppe, e disse:
«Filindo tu sei morto e vivo anch’io?
Viver dovea mentre tua vita visse.
Che pensi, ohimè? con chi t’affliggi ed angi,
vergine sventurata, e perche piangi?».

49Sorse cosi dicendo, e qual baccante
per l’albergo vagò ratta, e pensosa.
Norma non han le disperate piante,
né le membra infiammate o legge o posa.
Scendea ratto e incomposto il crin errante
su la faccia dolente e sanguinosa,
ed errava con guardo ardente e bieco,
nova furia d’Amor, per l’aer cieco.

50Non con doglia sì grande, o tal furore
per le greche città vagò Medea,
quando in vendetta del negletto amore
la sua prole sbranava ed ancidea,
né tal pena ne l’alma o tal ardore
da le Furie aggitato Oreste avea:
né sì avvampar e forsennar si vide
da l’empia veste avvelenato Alcide.

51O quante allor formò rivolte, o quanti
giri confusi ed intricati moti,
mostrando a i gesti e torbidi sembianti
come il cieco pensier vaneggi e ruoti.
Spesso feo cosi ratti i passi erranti
che i venti presso a lei parvero immoti,
e ferma spesso in quell’incerto errore
marmorea rassembrò statua d’Amore.

52Risoluta a la fin porre in effetto
l’infelice disegno ella dispone.
Corre al bel corpo, e su ’l vedovo letto
cosi ignudo com’era il prende e pone.
O che leggiadro, o che dolente oggetto
fu allor mirar disteso il bel garzone:
scorgendo involti in gelidi pallori
tante rare fattezze e tai candori.

53Un non so che di grato e lusinghiero
spira il pallido viso, e vivo sembra,
e pur son vaghe e serbano il primiero
dolce natio le delicate membra.
Persina in su l’estinto cavaliero
sta china e fisa, e ’l cupo duol rimembra,
e imprime a le beltà nude e giacenti
mille misti a i sospir baci ferventi.

54E dolente inondò di quel bel seno
con le lagrime sue le nevi amate,
e le membra scaldò, ch’allor giacieno
dal funesto rigor fredde e gelate.
Gli occhi al fine ella volse, ove pendieno
de l’amato garzon l’arme dorate,
e dove del guerriero erano ascose
le vesti, e più pregiate e più pompose.

55L’infelice le prese, e pria disteso
avvolse in bianchi lini il suo diletto,
e poi di real veste adorno ha reso,
sparsa di perle e d’or, le membra e ’l petto.
De l’onorato usbergo il grave peso
gli adatta e su ’l crin biondo il fino elmetto.
Spada ingemmata al nobil fianco pone
e sovra altiera sede indi il compone.

56Per l’ufficio mortal tu dasti, Amore,
possa e vigor a la donzella amante.
Teco l’ira infiammata al fier dolore
fu feroce ministra ad opre tante.
Sedeva e freddo ancor destava ardore
de l’adorno fanciul morto il sembiante,
e l’esangue bellezza ancor gradita
era ingombra di morte e dava vita.

57Ella in gran pezza avendo al cor conquiso
di stupor e dolor confuso affetto,
tenne immota sovr’esso il guardo fiso,
e muta non formò sospiro o detto.
Al fin proruppe: «O delicato viso
viso di mille gratie albergo eletto,
viso gentil, ahi fato atroce e diro,
ohimè qual fosti un tempo e qual ti miro.

58Fronte gentil, che quasi un ciel sereno
dolci spiegasti ed amorosi albori,
e usavi in grate guise in questo seno
destar dolcezze e tranquillar dolori:
Occhi, al vostro girar di grazia pieno
mille a un punto avvamparo ed alme e cori.
Le chiare stelle e i rai che Febo adduce
eran vili sembianze a tanta luce.

59Bocca e gota leggiadra, ove formato
era di molli fiori un paradiso,
porta gentil di quel nettareo fiato
uscio d’Amor nel vezzosetto viso:,
come ogni vostro bel, lassa, è mancato?
come ogni vostro fior cade succiso?
come, o bel corpo, ch’agili e vivaci
i bei membri mostravi, immoto giaci?

60Ogni grazia e bellezza, ohimè, distrutta
giace tra picciol’ora, anzi a un momento,
quasi gran mole in cenere ridutta,
quasi cenere, ohimè dispersa al vento.
Langue il viso celeste, ov’era tutta
la pompa de le stelle e l’ornamento.
Caddero, ohimè, da l’amoroso impero
ogni pregio, ogni gloria, e pur è vero.

61E pure ver che, quasi in molle stelo
tenera rosa, ogni beltà languio,
e pur è ver cha pena apparve in cielo
che in mesto occaso il mio bel sol spario.
Qual v’involse e turbò pallido velo,
membra leggiadre, il bel color natio?
qual Furia vi appannò con cieco ammanto
di celeste folgor lume cotanto?

62Ma che? piacete ancora, e pur giacenti
Serbate di beltà gli incliti onori.
Bello è il pallore in voi, voi pur languenti
destate fiamme ed avvivate ardori.
Morte piena di larve e di spaventi
m’eri tu prima e cagionavi orrori,
ma venend’ora in su la faccia amata,
Morte bella sei fatta e mi sei grata.

63A te verrò, tu a l’amoroso affanno
mi sei ristoro e sol conforto a i pianti,
e lieta io fia mentre in tal guisa avranno
il mio corpo col suo pari sembianti.
Così, se non in vita, almen saranno
giunte dopo il morir l’anime amanti:
e così forse, inteso il rio successo
riporranci gli amici a un marmo istesso.

64Union troppo, ohimè, dolente e ria,
mesto soccorso a l’infiammato affetto;
questi fian gli imenei, misera, e fia
di piume in vece un duro marmo il letto.
Siano i sospiri i nostri canti, e sia
con atra face messagiera Aletto.
Arderà foco infausto e tenebroso
ne le nozze infelici, o caro sposo.

65Sì sì verrò, ben mi ti par udire,
alma, che forsi qui dimori errando,
sol l’eterno amor mio m’abbia a seguire,
ogni pianto, ogni duol sen vada in bando».
Disse, e sfodrò con forsennato ardire
dal fianco del garzon l’aurato brando;
ferma il pomo nel suolo, e contr’il molle
petto l’orrida punta alta s’estolle.

66Stette immota alcun spazio, e sparse il viso
poi col pallor de l’appressata morte
e stando appresso al bel garzone anciso
tien chino invèr la spada il petto forte.
Alfin sentendo in mezzo il cor conquiso
vicine omai le sue mortali scorte,
trasse un sospir, e i languid’occhi fisse
vèr l’amato fanciullo, e così disse.

67- Vissi figlia di re, sol con la mente
fui di Regio garzone amata amante
mentre Amor volle, or vittima innocente,
o diletto idol mio, ti cado innante -.
Volea più dir, ma flebile, e dolente
la bocca oltre seguir non fu bastante,
su la punta ella cade oppressa e lassa
e ’l ferro il nobil petto e punge e passa.

68Né s’arrestò fin che al vergineo core
non fece ben profonda e mortal piaga.
Cade Persina e di sanguigno umore
la veste, il suolo, e ’l bianco petto allaga.
Muore la bella amante, e mentre muore,
qual sembrò ne la vita anco par vaga:
Fur pietosi, fur placidi, e modesti
gli ultimi sospir suoi, gli ultimi gesti.

Alone riceve notizia della morte di Filindo e della fuga di molti guerrieri dal campo a seguito di Bessana: prepara i suoi uomini per assaltare le mura (69-79)

69In tanto ad illustrar nostro emisfero
al garrir de gli augei l’alba sorgea,
e quasi condolendo il caso fiero
lagrimose ruggiade il ciel spargea,
quando servo fidel, che del guerriero
estinto il caro albergo in cura avea
aperse l’uscio, e gli occhi raggirando
vide il caso improviso e miserando.

70Il cadavero bello al suol giacente
steso mirò nel proprio sangue involto,
e su la fede il bel garzon cadente,
e dimesso le membra, chino il volto.
A tal vista tremò, mesta la mente
smarrissi, ed ei si feo pallido e stolto;
pianger non può, ma ben risolve a un tratto
da quella empia città partirsi ratto.

71Poiché vedeva a pien che più di pace
aver non può la vana tregua effetto,
ben altamente abbandonar gli spiace
nel mesto fine il suo signor diletto.
Preme il duolo ne l’alma e infinge e tace,
ed esce fuor da quello odiato tetto,
e fa sì che con voci amiche e scorte
la guardia di Babel gli aprì le porte.

72Lascia le mura, e d’aspre nove messo
in vèr l’oste cristiana il piè drizzava.
Giuns’egli al campo, e subito fu ammesso
dove immerso in gran cure il Duce stava;
umido gli occhi, e languido e dimesso
stette innanti il gran Duce, e non parlava.
«Ah perche non son io di voce privo»
al fin disse, e versò di pianto un rivo.

73Indi soggiunse, e ciò che visto avea
de la coppia infelice a pieno espose:
perché in tutto ridir già non sapea
il sucesso fatal, che l’ombra ascose.
Punto allor fu d’acerba pena e rea
Per le nove infelici e lagrimose
il grande Alone, e da la doglia vinto,
se gran cor non avea, restava estinto.

74E a la pena privata aggiunger sente
un affanno comun che l’alma accora:
vedendo il fior de la sua forte gente
da la strada d’honor vagando ir fuora;
ché sparita Bessana era repente
a l’apparir che feo la terza aurora,
e tra gli amori e tra gl’incanti suoi
sparìr del campo i più famosi eroi.

75E tra questi partìr Guiboga e Abaga,
Floridano, Mitran, Macheo, Sifante,
e Arbace, che non fu de la gran maga
contra l’arme invisibili bastante,
c ’l canuto Tamor da vana e vaga
sembianza tratto, ancor che saggio innante.
Così son frali a gli amorosi inganni
la virtù, la ragion, l’onore e gli anni.

76Allor da la gran sede in fiero aspetto
sorse il gran Duce, e disse: «Or che si bada?
questo di tradigion empio ricetto
dunque non fia che sin dal fondo cada?».
Tacque, e tremàr le schiere, ed ecco Aletto
sanguinosa tra lor gira la spada.
Sonasi a l’arme, e destansi i furori
le minaccie a le lingue e l’ire a i cori.

77Da l’altra parte la pagana gente
che de le frodi antevedeva l’opre,
l’arme e le guardie gemina repente
e negl’inganni suoi lieta si scopre.
Altro che suon d’acciar più non si sente
e del ferro deposto ognun si copre.
Sol privo del più forte invitto stuolo
erra il campo cristian tra tema e duolo.

78Ma l’intrepido eroe con mille modi
la sua gente conforta, ed assecura,
né de’ guerrier più valorosi e prodi,
sol fidando in se stesso, il partir cura.
Pensano intanto occulti inganni, e frodi
i pagani, e rinforzan le lor mura,
né sembran paventar più de le posse
del nemico furor gli urti e le scosse.

79Venìa recando col suo nero velo
soporosa la notte algenti orrori,
ma stansi qui, pur mezzo il sonno e ’l gelo,
deste le menti ed avvivati i cori.
Parver precipitar dal quinto cielo
per mover ire ed avvivar furori
tra fosche larve in questa e in quella parte
l’empia Bellona e ’l sanguinoso Marte.