ARGOMENTO
Al gran duce de gli Angeli in Soria
va l’Angel difensor de’ re Normanni,
e n’ode perch’al fin dopo la pia
impresa i franchi eroi scontraro affanni.
Altrove ad Amedeo narra Giosia
strani accidenti et amorosi inganni.
Idro è creduto esser converso in fiume
ma n’appalesa il ver celeste nume.
Proemio (1-4)
1Canto l’eroe ch’a la città di Dio
poiché co’ Franchi il duro giogo tolse
diversi casi in terra e ’n mar soffrio
e ’n sé di cose alta notizia accolse,
pria che giungesse in Colco, ove il gran zio
con faticosa guerra egli disciolse,
e pria ch’Africa unita al re d’Egitto
vinta da lui fosse in naval conflitto.
2Muse del Ciel, formate in me il disegno
voi di tal opra, e voi mie labra aprite,
e de l’Inferno e de l’empireo regno
in ciò, quanto uopo fia, tanto scoprite,
e se v’aggrada anco d’amor ritegno,
qual gli si deve, al pio suggetto unite;
donde volete incontinente e quanto
piace anco a voi, voi dilatate il canto.
3E tu, che sol da te valore apprendi,
o re de l’Alpi, e così valli il monte
che la porta d’Italia orribil rendi
a chi ci vien nemico e ’l colmi d’onte,
per regal cortesia t’accampa e splendi,
pregio di Marte, a questi versi a fronte,
e de’ gran fatti tuoi concedi parte
poi per materia ad altre nostre carte.
4Ma qual nume m’ingombra? e chi del mondo
mi tragge al centro e su l’eccelse rote?
e chi mi gira sopra il mar profondo?
e chi lungo la terra avien mi rote?
Io del mio dir gli accenti, io non secondo
e nova voce informa le mie note.
Carlo, non più da me mia lingua è volta,
le Muse ho in sen, le Muse in me tu ascolta.
Riassunto delle sventure capitate ai crociati dopo la liberazione del Sepolcro (5-9)
5Gli eroi che già per Cristo ozio et imperi
lasciaro, e ’n mille rischi ebber la vita,
e tolsero a Sion gioghi aspri e fieri
(opra che debbe in Cielo esser gradita),
dopo i tanti sudori (o de’ misteri
del sommo Dio profondità infinita!)
gran tempo sostenean diverse e dure
scosse di ferocissime sventure.
6Morto era in ceppi il sir di Normannia
entro le soglie del suo regno inglese,
né pur l’altro Roberto allor gioia,
né Baldovin, ch’al regal solio ascese;
costui, reggendo i regni di Soria,
di fortuna sentì non lievi offese.
Poco regnò Goffredo, e peggior sorte
forse attendealo, e pia per lui fu morte.
7Sosteneva e catene, anch’egli avinto,
in Colco Boemondo e rea prigione,
ma Tancredi, che ’n mar cento avea spinto
navi per liberar sì gran prigione,
svolto tra’ nostri liti e risospinto
scorreva, e ’n ocean lunga stagione,
e visto terre e genti allora ignote
agitato era al fin verso Boote.
8E te, Dio grande, e i fidi tuoi schernendo
sciogliean questi empi accenti i rei pagani:
«Così quello ineffabile e tremendo
e santo Nume lor premia i cristiani?
Essi tra ferro e foco il varco aprendo
erto gli han su ’l Sion trofei sovrani,
e la sua tomba han liberato, et ei
lor non sottragge a’ casi avversi e rei?
9Folli lor, che ’n un uom già morto in croce
sperano, e ’l nome altissimo gli han dato,
e dicon che la terra e l’atra foce
del basso Inferno e i Cieli egli ha creato».
Di tai bestemmie l’esecrabil voce
rimbombava del mondo in ciascun lato,
e ne godean gli abissi e non ardia,
confusa, il ciglio alzar la gente pia.
L’Angelo custode dei Normanni chiede a Michele il perché di tanta rovina (10-15)
10Era qua giuso, udia sì iniqui detti
l’Angel che de’ normanni è difensore,
né sapea perch’usava in quei diletti
duci il Fattor del Ciel tanto rigore,
e ’n essi non vedea colpe e diffetti
per cui volga di pene un tal tenore,
et in ciò penetrar de’ gran decreti
divini allor volea gli alti secreti.
11Giva in pensier profondo e tutto ardea
di santissimo zelo in suo desire,
et a saper tai cose non battea
l’ali per su l’empireo a Dio salire,
ch’udirle in terra da colui dovea
ch’al gran rubello in Ciel fiaccò l’ardire,
e per trovarlo omai già vèr le cime
del Libano egli a volo iva sublime.
12Stava a schermo sovran di Palestina
quell’immortal su ’l Libano in quei tempi,
giunto l’altr’Angel quivi, a lui s’inchina
e dice: «Il mormorar senti de gli empi?
O tu, che vendicasti la divina
primiera offesa, o tu che tanto adempi
il tuo eccelso desir là tra gli eterni
splendori mentre in lor tanto t’interni,
13somma è giustizia in Dio, bench’egli affligge
i duci che per lui cinser le spade,
i duci onde tremò Babelle e Stige
allor ch’essi a Sion dier libertade,
e se l’occulte del signor vestige
io non discerno in sue riposte strade,
m’acqueto in suo voler, che fa beato,
quanto è per sé capace, il nostro stato;
14pur, s’Ei no ’l vieta a te, non mi tacere
un giudicio di lui tanto profondo,
che strana cosa in ver sembra a vedere
sotto legami e ’n servitù Boemondo,
e lungo le maritime riviere
spinto Tancredi in ogni sen del mondo,
nepote a Boemondo il pio Tancredi
ch’iva a sciorre a tant’uom gli avvinti piedi.
15E Roberto il normanno, che ’l paterno
stato impegnò quando ei s’armò per Cristo,
die più dolce spettacolo a l’Inferno
mentre in fiera prigion morir fu visto.
Riso ha pur troppo il regnator d’Averno
per quanti già passaro al santo acquisto,
e Babilon ne punge or con altero
suon di rampogne il re d’eterno impero».
San Michele risponde che la grande sofferenza che patiscono ne fortificherà la gloria e profetizza danni peggiori, quindi lo invia da Tancredi (16-38,4)
16Così questi, e Michele: «O d’alti eroi
custode in terra, e che pien d’alto zelo
meco pugnando alzasti i pregi tuoi
quando tant’arme ribellaro al Cielo,
quanto Dio rivelommi di tai suoi
altissimi misteri io ti rivelo;
svelolli a me, svelolli a la Reina
nostra, ch’al tron di lui sta più vicina.
17Sappi dunque ch’i duci, i quai passaro
d’Europa in Asia a debellar Babelle,
e che queste provincie liberaro
ov’ebbe culla il Re de l’alte stelle,
tutte avrian vèr l’Eoo lucido e chiaro
dome le genti al Creator rubelle,
giunto scettri a Sion, giunto ricchezze,
cui son seguaci i fasti e l’alterezze,
18onde superba la città sacrata
desti avria contro sé gli eterni sdegni,
anzi omai ne sarebbe ella aggravata
con altri gioghi asprissimi e condegni;
fora la sua corona or calpestata,
spariti in lei di maestate i segni,
sì quegli eroi, per via più augusta farla,
serva fatta l’avrian con troppo alzarla.
19Però convenne che ’l Signor distorni
questi da l’armi, e se lor diè tai mali
ogni lor mal sia ch’a lor gloria torni
e che dia lor là su premi immortali;
e se finora la pietà n’ha scorni,
poi lieta ella col ver batterà l’ali,
e Babilon, ch’or superbisce et osa,
schernita rimaranne e vergognosa.
20Ma le muraglie stesse a noi sì care
pur fian soggette, e ciò saran ben pria
che cento volte il sol la circolare
fra i Tropici trascorra obliqua via,
né fian fiaccati i Franchi, e me tornate
vedrai su la più eccelsa gerarchia.
Così la destra altissima in sue dive
carte i destin registra e i fati scrive».
21Tace, e l’altro immortal tosto ripiglia:
«Il tutto al gran Fattor sia gloria e vanto,
ma dimmi, ond’è che di Sion la figlia
starà di novo in servil laccio e ’n pianto?».
A tal sermon Michel turbò le ciglia,
e quel turbar fu zel pietoso e santo;
poi disse: «Per le colpe de’ fedeli
così già stabilisce il Re de’ Cieli.
22Per le lor colpe appresta egli tai pene
egli che ’n castigar modi ha diversi,
egli ch’a sua Sion diede catene
altre volte, e gli ebrei mandò dispersi,
egli che Babilonia, egli ch’Atene
ha fatto trionfare, e Roma e i Persi,
egli che nel profondo di sua luce
si chiude, e meno appar quanto più luce».
23Non men che prima angelici stupori
ebbe l’altro celeste a tai parole,
e disse: «O duce de gli empirei cori,
che sì t’affisi ne l’eterno Sole,
adunque gli altrui falli e gli altrui errori
su queste region Dio punir vuole?
Strana pena, onde Dio parer non giusto
potria, se Dio potesse esser ingiusto,
24che pecchino i cristiani e che Dio offeso,
ohimè, n’opprima i suoi reami santi,
ch’i cristiani siano empi, e d’ira acceso,
che Dio la sua città n’immerga in pianti,
che ne sian servi i lochi, ove fu appeso
in croce ei Re del Ciel, Re de regnanti,
ov’uom e Dio Maria il produsse, et ove
in pria fu conosciuto, ignoto altrove».
25A queste voci i raggi onde risplende
infiammò il duca angelico e rispose:
«Gli arcani di là su chi non comprende
dubbio restar può ne l’occulte cose,
ma chi si spazia in essi e ’l ver n’apprende
queto riman su quanto il Ciel dispose,
e vede come giusta è l’alta libra
ove Dio le ragioni appende e libra.
26Certo adunque mai per li peccati
non suoi l’alta Sion fosse punita,
e ’n regno e ’n pace i peccator lasciati
fosse la lor malvagità impunita,
parer potria su i cerchi alti e stellati
senza giustizia la bontà infinita,
ma de gli empi cristian non di Soria,
pon mente tu, questo supplicio fia.
27Miseri, eh che vuoi più? vuoi maggior scorno?
vuoi castigo maggior che tòrre ad essi
la terra ove il Dio lor fe’ già soggiorno,
e dov’ei scampò lor, da morte oppressi?
vuoi più che poner guardie a i monti intorno
ove son di Maria vestigi impressi?
o vuoi pena maggior, maggiore oltraggio
che dare a’ lor nemici il lor retaggio?
28Anzi per visitar quelli divini
alberghi uopo lor fia scinger il brando,
e sol l’arme pigliar de’ peregrini,
troppo da gli avi, ahi troppo tralignando.
Daran tributo al re de’ Saracini
prezzo del varco, inermi essi passando,
tante s’avovolgeran sopra il lor core
nebbie di cecità, nubi d’errore.
29Adombrati così loro intelletti
non più i cristian faranno inclite imprese,
e d’astio e d’odio colmeranno i petti
tra torbide ire in Flegetonte accese.
Fian più che ciechi, mentre a diri effetti
tra propri danni aran le voglie intese,
e senza la ragion, ch’a l’alma è duce,
quasi il Ciclope andran privo di luce.
30I campi inonderà, scalderà i fonti
Marte più che civil col sangue loro,
et in se stessi alzando essi le fronti
cipresso coglieranno e non alloro,
e cercando altri mondi, altri orizzonti
oh quanto il mondo perderan costoro!
Sol di barbare navi avran trionfi
ma Babel non così fia che trionfi.
31Usurperà il superbo empio Ottomano
tra le discordie lor, tra i lor furori
la sede de l’impero alto Romano
e se n’approprierà gli augusti onori;
vorrà scacciar dal Ren, dal Vaticano
di Carlo ancor e di Pietro i successori».
«Ma che però puoi dirmi se vedute
pur fian le sante mura in servitute?».
32Et io rispondo a te che quel servire
fia per Gierusalem decoro e fregio,
che de la fede in lei fia che s’ammire
semplice il rito, immacolato il pregio,
e ’n più lingue ivi il ver farassi udire,
e nullo avrà da’ barbari il dispregio,
il ver che tra’ cristian, fra mille scismi,
impugnato è da spade e da sofismi.
33Pur s’essi unqua fian giusti, allor la benda
cadrà ch’adombra di lor mente i cigli,
e n’averrà che con illustre emenda
s’armin d’Europa i generosi figli:
altro Ugone allor fia che l’asta prenda
per Cristo, e che ’n Soria riporti i gigli,
e andranno altri Roberti, altri Tancredi,
altri Boemondi in Asia, altri Goffredi.
34Anzi Spagna, che soffre indegni affanni
or sotto i Mori e some inique e felle,
e che felici poi volgendo gli anni
fia donna di moltissime favelle,
dispiegherà del paganesmo a’ danni
l’austriche insegne sue tremende e belle,
e s’avvedrà che manca a sue corone
lo scettro sì, no ’l titol di Sione.
35Ma di Tancredi omai tu i gloriosi
legni rivolgi ove primier fur volti;
già la stagion s’appressa ch’i gravosi
ritegni a Boemondo alfin sian tolti.
Pur quei navigi entro quei mar nevosi
là dove son, vedrai scossi e travolti,
fin ch’una nave affogherà: sol questo
vietar non puoi, tutto schermir puoi il resto.
36E perché scemi di lascivi ardori
sparger veggo l’Inferno e ’l veggo armare
l’Asia e l’Egitto in guerra, e di terrori
tartarei empir la terra, empir il mare,
comparti più che prima i tuoi favori
al tuo Tancredi, e vogli riportare
a la vista de gli uomini l’invitto
figlio di lui: così è su ’l Ciel prescritto.
37Cinque anni ha che ’l rapisti, e che cangiato
in acqua fluvial ciascuno il crede,
ma su monte egli ascese, ove segnato
vestigio uman rarissimo si vede,
su monte d’inaccesse alpi vallato
ove virtù guerriera ha ferma sede,
e molta ove di Marte disciplina
infusa è in lui per grazia alta e divina.
38Cose a te note, or questo unir tu dei
al padre, che non sa d’esso il natale,
che ’n debellar Babelle e ’n tòrre i rei
ceppi a Boemondo egli è guerrier fatale».
Qui riserrò le labra, e queiAmedeo di Piemonte, di strada per Bisanzio, giunge in Puglia, e incontra Giosia, coetaneo e amico di Idro, gli chiede il motivo della sua tristezza (38,5-46)
accommiatato poi spiegava l’ale,
ma inconsolabil già per doglia pia
piangeva altrove intanto il buon Giosia.
39Questi al regio garzon, ch’egli credea
converso in rio, fu caro e fido amico,
garzone anch’esso, e d’Atri il fren tenea,
morto pur dianzi il genitor suo antico.
Ma se stesso, ma ’l tutto in odio avea,
ma stimava egli il Cielo a sé nemico,
fuggia le giostre, i giuochi, i torneamenti,
avido di sospiri e di lamenti.
40Su ’l fiume in cui ’l suo re trasfigurarsi
stupido ei scerse, or versa un largo pianto,
e s’aveva di polve i crin cosparsi
squallido e tristo e ’n tenebroso ammanto.
Ma in qual clima del mondo un gorgo farsi
fu visto il gran fanciul, che merto ha tanto?
Già il vide divenir liquido argento
lungo esso i liti d’Adria il bel Salento.
41Salento ch’è d’Italia estrema parte,
Iapigia e Magna Grecia anco si noma,
provincia nota assai per prische carte
e da fortune averse unqua non doma.
Qui fur popoli illustri, armò qui Marte
Pirro a Tarento incontro l’alta Roma,
e qui fu il forte eroe creduto un fiume
tra Leuca alpestre e ’l bel leccese Idume.
42Su le porte d’Idrunto, ov’è sì breve
tra l’Italia e l’Epiro il mar framesso,
parve volto in ruscel quegli onde deve
l’orgoglio saracin restar depresso.
Giosia quivi il piangeva, e mentre al greve
duolo accoppiava di lamenti eccesso,
in su le bocche del medesmo rio
spingea più navi il mar turbato e rio.
43Da fieri venti combattute e spinte
venivan quelle navi a questa riva,
e con vele prendean frante e discinte
porto, e tosto un regal prence n’usciva.
Correa la gente, e tutte n’eran cinte
le ripe, e ripe e colli ella copriva,
che ’l prence conosciuto era a l’altere,
scisse, ma gloriosissime bandiere.
44Amedeo è questi, e regge del Piemonte
gli scettri, e vanta eccelsi avi Sassoni.
Già sceso è in terra, e più che regia fronte
gira, e dietro gli van scelti baroni;
ma visto cavalier così su ’l fonte
angoscioso e con occhi umidi e proni,
la cagion del suo mal domanda altrui
e i passi incliti e pii move vèr lui.
45Fu al prence la cagion detta in confuso
rapidamente, e ch’era l’annuale
giorno quel dì presente, e c’ha per uso
ciascun dì far Giosia tal funerale.
Il duca, e pur di lagrime diffuso,
tardi si volge al peregrin reale,
e gli s’inchina, e quei il solleva e dice:
«Figlio, caso crudel tuo pianto elice,
46dure fortune in ver ti fan dolente,
e qualche grido io n’ho su l’Alpi udito,
e novelle n’intendo or parimente
succintissime qui su questo lito.
Certo immensa pietà mio cor ne sente,
né riprendo il tuo duol grave, infinito,
ben ti prego io che con alquanto asciutto
ciglio tu raccontar vogliami il tutto».
Giosia racconta di come Idro sia stato concepito da Tancredi durante la sua reclusione presso la maga Egla (47-67)
47Così il principe alpino, e ’l cavaliero
gli occhi asciuga, et «Ohimè» tre volte grida,
e poi ripiglia: «O peregrino altero,
dura istoria ad udir qui il Ciel ti guida,
e trema in rimembrarla il mio pensiero,
benché lei nel mio petto il duolo incida;
pur la dirò, ch’a te obedir convengo
e quanto posso il lagrimar ritengo.
48E per incominciar, dico che quando
per liberar di Dio l’eccelsa tomba
i principi d’Europa risvegliando
giva di Marte gloriosa tromba,
sì come è fama, Alberada tremando
qui rassembrava timida colomba,
cognata a Boemondo, e produss’ella
Tancredi al buon Ruggier, feconda e bella.
49Vedeva ella il cognato unir più schiere
forte e pietoso, e con pietosi essempi
ritor del gran Guiscardo le bandiere
per impresa sì santa a’ sacri tempi,
ma stimava ella a sé malvage e fiere
l’alte condizion pur di quei tempi,
e fuggia ratto da le guancie al core
il sangue, et essa un ghiaccio era di fuore.
50Per lo bello e gentil costei temea
suo figlio, che d’etate era immatura,
temea no ’l zio sì eccelso egli in Giudea
seguisse, e poi scontrasse ei rea sventura,
e disciplina d’armi egli apprendea
di Lecce entro l’antiche e chiare mura,
là dove il conte Accardo in tal stagione
a molti itali Achilli era Chirone.
51Ma poiché in suo timor pensò non poco
per trovar qualche schermo la reina,
corse regal quadriga e venne in loco
ch’è famosa magion d’arte indovina,
e dove vien stimato un scherzo, un gioco
saper quanto in sue stelle il Ciel destina;
Soleto il loco ha nome, et è cittate
quasi distrutta per soverchia etate.
52Quivi Alberada allor trovò Matteo,
famoso mago, il qual e per incanti
e per notizia d’astri anco poteo
tòrre al sì chiaro Zoroastro i vanti.
A lui disse ella: – Or dimmi che di reo
mostrano e che di ben gli orbi stellanti
per lo mio figlio, ove co’ duci vada
in Siria, e cinga per Giesù la spada.
53Ciò facil cosa a te, che tutti puoi
ne le stelle spiare i fati umani,
e doni preziosi avrai da noi
in premio tu de’ merti tuoi sovrani -.
E ’l mago a lei: – Troppo, o reina, a’ tuoi
tesori io devo et a tue larghe mani,
troppo già m’arricchisti e sono i miei
pregi obedir, sol comandar tu dei -.
54Tacque, e s’ascose quattro dì, e nel quinto
d’alpestre grotta uscì squallido e bianco,
d’attonito terror la fronte cinto,
et anelo traea l’antico fianco,
nudo i piè, nudo i crin, la veste scinto,
e su ’l baston posava il corpo stanco;
poi, giunto ad essa: – Odi, o gran donna (disse)
ciò ch’al tuo regal figlio il Ciel prescrisse.
55S’ei passerà ne l’Asia a l’alta guerra
eccelso fia per armi e glorioso,
ma trionfante ne la patria terra
mai non riporterallo il mar ondoso,
et altro il suo pianeta a me disserra
ch’a non turbarti il cor terrò nascoso -.
A questo dir colei svelse il monile
dal bel collo, e percosse il sen gentile,
56e disse: – Ah perché maschio io già il produssi,
né fu femineo sesso il parto mio?
Ah perché madre sventurata io fussi,
che ben fia sprone a lui sì eccelso zio -.
Replica il mago: – A tai celesti influssi,
se tu il permetti, oppormi anco poss’io -.
E quella: – Fa’ che puoi, pur che sia tolto
a quei futuri mali in cui fia involto -.
57Ripiglia il mago: – O generosa, sai
ch’Egla, stirpe gentil d’ausoni regi,
è pia maga innocente, e ch’a’ bei rai
del sol si cela, e ’l mondo avien che spregi;
questa più regni ha depredato omai
e di beltà n’ha tolto i sommi pregi:
cento illustri fanciulle e strana e rara
stanza è sott’acqua a lei l’onda del Tara.
58Tara ch’è non lontan dal bel Tarento
e ne’ tuoi regni un limpido ruscello,
e di questo ruscello a le sue cento
vergini Egla formò magico ostello.
Il liquido cristal, qual saldo argento,
ella indurò di dentro al fiumicello,
e ne fe’ il mago albergo, e lasciò l’opra
senza offesa il ruscel, mirabil opra.
59A le colonne che d’argento eresse
diè capitelli di piropo ardente,
e d’or le fe’ ne l’imo e su le stesse
spiegò un ciel di cristallo trasparente,
e vi compose cristalline e spesse
celle e più sale, e fe’ che ’l dì lucente
entri in modo là dentro ch’i suoi inchiostri
ad occhio ch’è di fuor non sian dimostri.
60Or la maga gentil stassi là giuso
in ozio industrioso e ’n bei lavori,
emula di Minerva, e l’ago e ’l fuso
impiega in lucid’ostri e ’n lucid’ori.
Tra sì degne opre in loco imo e sì chiuso
tiensi d’intorno i suoi virginei cori,
e sovente in disparte ella i secreti
spia di natura e i moti de’ pianeti.
61Se tu no ’l vieti, io vuo’ di feminile
spoglia ammantar tuo generoso figlio,
però ché il suo disdegno aspro e virile
per incanto io mandar posso in essiglio,
onde ei godrà, qual di donzella è stile,
mostrar nel petto ignudo il natio giglio,
et anco in parte discoprir le terse
braccia di lampi alabastrini asperse.
62E la sua vaga chioma, che negletta
senza arte or del bel collo orna i confini,
sarà che splenda in vari nodi stretta
tra lampi di lapilli pellegrini,
e qual verace e casta giovinetta
gli sguardi egli terrà modesti e chini,
e maschi accenti non avrà la bella
sua sì guerriera e sì gentil favella.
63Ad Egla menerò poi la mentita
vergine, et ordirò cotal magia
e possente così che ’n ciò schernita
l’inclita maga inclitamente fia.
Ei tal starà là giù finché compita
sarà tutta la guerra di Soria,
e intanto passeran l’inique e felle
per lui malvagità di dure stelle -.
64- Tronca gli indugi – Alberada soggiunse,
e l’aria serenò del viso adorno;
ma serpi alate ad un suo carro ei giunse
dapoi che in ocean tuffossi il giorno,
e trattò i freni in aria, e ’n aria punse
i draghi, e sparse nebbia al carro intorno,
e fe’ tosto in gran parte a quei suoi vanti
seguir gli effetti, et illustrò suoi incanti.
65Però ch’ad Egla in feminile ammanto
portò il sì bello marzial garzone,
né del ver s’accorse ella o tanto o quanto
finché non n’ebbe al cor gran passione;
misera, scaturir da gli occhi il pianto
sentiva, e fiero amor n’era cagione,
misera, ella esser vide un uom verace
sotto un velo, e vibrar d’Amor la face.
66Chiese mercede e non l’ottenne, e poi
con incanti il fanciul costei sopio,
talché, sopito, il fior de gli alti eroi
ella ebbe a’ suoi diletti entro il suo rio,
e tra furti d’amor essa e ’n quei suoi
avidi abbracciamenti concepio,
a lei poi tolse lui mirabilmente
Angel ch’al zio portollo in Oriente.
67Col zio quegli acquistò sommi trofei
e scontraro ambo poi fortune averse.
Ma partorì dopo tre mesi e sei
l’eccelsa maga, e meraviglie aperse,
che ’n maschio parto la beltà di lei
e ’l normanno valor misto si scerse,
mirabil parto, e detto Idro egli fue,
perché sott’acqua ebbe le cune sue.
Narra poi della sua giovinezza e del dolore per la scomparsa del padre appena tornato dalla Terrasanta, che l’ha tramutato in un fiume (68-107)
68Questa a lui porse sua gentil mammella
di succhi di beltà gravida e piena,
e per dargli aspro nutrimento anch’ella
col canto suo domò torva leena,
et appressò la bocca tenerella
d’orrida mamma a la ferina vena,
tanto ch’un latte a la costui bellezza
fu cibo, e l’altro a sua nativa asprezza.
69Dopo il sesto anno ei fuor del gorgo usciva
con arco, e fea volar lo stral pennuto,
ma d’ammirabil nebbia Egla il copriva
onde il tutto vedeva ei non veduto.
Scorreva lungo la famosa riva
ove il Galeso al mar rende tributo,
i casti membri esercitava il giorno
e vespertino ad Egla ei fea ritorno.
70Indi quando a tre lustri fu vicino
Amor splendea di lui nel sì bel viso
ma castità di schermo adamantino
cingeagli il cor, da’ vani amor diviso,
et ei pareva oggetto alto e divino
là sotto il fiume a chi ’l mirava fiso,
e le chiuse là giù vergini elette
vive fiamme d’amor n’avean concette.
71Altra piangea, scioglieva altra in sospiri
l’interno affetto, immobili eran gli aghi,
ferme le spole e i fusi, e per martiri
amorosi languian gli aspetti vaghi.
Egli nulla gradiva, e ’n biechi giri
piegava gli occhi di piacer non vaghi,
e di qualunque più le forme sue
per lui fregiava, egli più schermo fue.
72Ma l’alta maga a sue donzelle il tolse
in modo ch’esse più no ’l vider mai,
ch’ella al socero alfin mandar pur volse
il suo parto gentil cresciuto omai.
La nebbia onde il copria costei disciolse
e svelollo del sole a’ chiari rai,
e lettra diegli in cui poi ’l tutto lesse
Ruggier, ché ’l tutto ella in sua lettra espresse.
73Baciò il nepote non sperato, e ’l duolo
doppio ch’avea su ’l cor temprò Ruggiero,
pianse per allegrezza e del figliuolo
vide in costui quasi un ritratto altero.
Per ville e per città la fama il volo
stese, e diffuse un sì ammirabil vero:
correan popoli a noi sol per mirare
miste a sommo valor bellezze rare.
74Amor pudico in amicizia santa,
ma più sua cortesia me giunse a lui,
che bench’avoli re mia stirpe vanta
pur nato io son sotto gli scettri sui;
ma le caste matrone ebbero ahi quanta
guerra per la bellezza di costui!
Egli ciò non curava, e ’n giostre e ’n selve
cavalieri abbattea, domava belve.
75Meco da l’alba al tramontar del sole
vagheggiava in ozio onesto e faticoso,
d’Accardo ancor ne le guerriere scole
oh quanto s’avanzava ei glorioso!
Ma in qual parte avvicino or mie parole,
ah, per narrare il caso doloroso
il trofeo di fortuna empia et acerba
onde il mio re divenne in rio su l’erba?
76Spinse qui su ’l mar miseramente, spinse
Tancredi, e poi qual mostro, ohimè, nel tolse?
Idro ne pianse, e se medesmo estinse
col pianto, e ’n questo fiume ah si disciolse».
Tra queste voci di pallor si tinse
il cavaliero, et al ruscel si volse,
e versò tante lagrime nel fonte
che parve avesse un mar dentro la fronte.
77«Gran cose, o figlio,» il principe ripiglia
«chiudendo il tuo sermon tu in breve accogli;
pur tempra anco il dolor, tergi le ciglia,
e distinguer l’avanzo anco mi vogli,
ch’a me crescon pietà con meraviglia
in raccontar tai casi i tuoi cordogli».
Non più Amedeo, ma il buon Giosia rifisse
in lui gli occhi asciugolli e così disse:
78«O tu, di cui porta la fama il vanto
oltre ogni segno a la virtù prescritto,
o senza pari in armi, o giusto e santo,
o de l’Italia onor, principe invitto,
a che ritardi interrompendo il pianto
mio miserando, il tuo regal tragitto?
Già ’l mar s’incalma, et udir casi strani
brami, e gli vedrai quantunque orrendi e immani.
79Cinque anni in mar, dapoi che ’l giogo atroce
a la città di Dio tolse Tancredi,
spinto tra ’l Nilo e la tenaria foce
non sciolto avea del zio gli invitti piedi,
quando rotte da Borea aspro e feroce,
lungo gli Acrocerauni che là vedi
da qui mirammo antenne erranti, e fue
giudicio qui ch’eran l’antenne sue.
80Noi giudicammi il ver, ma sovra un’arca
spinto da flutti orrendi ei qui veniva,
e l’arca, dentro e fuori ingombra e carca,
poco appariva in mar ch’aspro bolliva.
Ei naufrago sembrava in rotta barca
e s’appressava ognor più vèr la riva,
e l’arca era la tomba in cui giacea
la sua amorosa e da lui ancisa dea.
81Di cedro era quell’arca e ’l corpo algente
di tanta vaga ivi agitavan l’onde,
e Tancredi fuor ghiaccio e dentro ardente
per quel legno avenia che non affonde.
Con braccia egli stringea tenaci e lente
il vaso che ’l suo ben perduto asconde,
e mal vivo a la morta era ritegno,
e morto era al mal vivo ella sostegno.
82Idro qui, qui Ruggier, qui popol folto
corse del primo annunzio a l’alto aviso,
e già tra l’acque omai manco sepolto
di Tancredi scopriasi il busto e ’l viso,
ma chi creduto avria Tancredi avolto
in quell’arca e da l’acque ivi conquiso?
Pur internassi al vero (ah come il core
paterno fu indovin!) suo genitore.
83Ei l’arca col figliuol non vien ch’aspette
no, ma s’immerge in mar senza consiglio,
e con l’arca in un fascio in terra il mette
e da l’arca il divelle e grida: – Ahi figlio,
ahi così tu dopo cinque anni e sette?
e qual sepolcro è questo ond’io ti piglio? -.
Piange e ’l solleva, e ’l regge immobil pondo,
peso a le braccia sue duro e giocondo.
84Morto lo stima, e tiene alquanto a bada
la voce tra singhiozzi e poscia dice:
– Dolce in morendo tu calcasti strada,
Alberada, e ’n morir fosti felice,
poiché tal duol mai non sentisti. Ahi spada,
ancider sé perch’a cristian non lice?
Ma certo a me tal pena era dovuta
e grave attendo a me l’età canuta.
85Pur s’estinto così tra queste mani
conchiuso era su ’l Ciel ch’io mai t’avessi,
piacemi che ciò aviemmi or che sovrani
d’onor vestigi hai tu ne l’Asia impressi,
e che con tanti duci a’ re pagani
hai tolti di Sion i muri oppressi -.
Tace, e gli tocca il petto, e qualche moto
sente nel cor, benché stia il corpo immoto.
86Come se versa il ciel pioggia novella
sopra non piene ancor spighe languenti,
infra ’l verde che ’n lor si rinovella
vedi le biade poi vaghe e ridenti,
così Ruggier, in cui parean per quella
fortuna sì crudele i sensi spenti,
tosto che nel figliuol moto sentio
si scosse, e d’allegrezza i cigli empìo.
87Rivenne il figlio, ei nel castel vicino
disegna ristorar le smorte membra,
et intanto in colui l’umor marino
che cade giù da l’arme un fiume sembra.
– O famoso et egregio peregrino,
odi anco cosa ond’or pur mi rimembra,
che se lacrimerai da pietà punto
ciò da l’impreso dir non va disgiunto -.
88Quei narra i casi suoi, Ruggier la fronte
gli asciuga, e poi de l’arca anco il domanda,
de l’arca ove, terror di Flegetonte,
purpurea croce in negro avien si spanda.
Colui versa dal ciglio un largo fonte
e pur gli sguardi in quel sepolcro manda,
e vi li tiene immobilmente alquanto,
poi risponde, e commove a tutti il pianto:
89- Non è giunto qui ’l suon come regale
vergine in Asia fu guerriera e bella?
e ch’io di notte, a far sommo il mio male,
non sapendo con cui, pugnai con ella?
e che n’ebbi trionfo funerale,
qual disponeva in me mia dura stella?
e ch’era saracina, e ’n sua richiesta
battezzaila in quell’ora a lei funesta?
90Da questa, o patre, a me santi imenei
io sperava, et a te gioia e nepoti,
et or qui in centro, ohimè, stansi di lei
i casti membri gelidi et immoti.
Da la nave regal la svelser rei
turbini orrendi in momentanei moti,
né men rapidamente entro quel mare
me stesso io traboccai per lei salvare.
91La strinsi in mar crudele, in mar che spinse
tosto lunge da me l’armata nostra,
tre volte il ciel m’alzò, tre mi rispinse
l’onda crudele a la tartarea chiostra.
Poi da la Scizia aspro Aquilon si scinse,
e con Africo venne in fiera giostra,
e piovendo anco in me grandini acerbi
sonavan l’arme, irrigidiano i nerbi.
92Mia donna, qui sepolta (ahi forse errai,
e forse no, se già pietà mi mosse,
se per pietate in mar io mi gittai)
avenne allor che mia salute fosse.
Vinto da la stanchezza abbandonai
me stesso abbandonato di mie posse,
ma con questa sua tomba ella mi resse
onde qui giungo, e l’onda non m’oppresse.
93Or tu, poich’altro ad essa non si deve
ergi alto avello, o padre, a tanta nuora.
Clorinda fu ’l suo nome, e ’n parte lieve
rendi ’l mio duolo, e ’l suo gran merto onora -.
Tacque, e ’l soffio de’ venti orrido e greve
ruinoso fremea su l’onde ancora,
e tra montagne d’acque indi agitata
sospinta era vèr noi l’invitta armata.
94Le bandiere di Cozo e di Cosmante
mandava in pezzi aprissimo Aquilone,
e rotto avea l’antenne Euro muggiante
a l’invitto Gilberto, al forte Afrone,
e si vedea più che paleo rotante,
con l’insegne di Tiro e di Sidone
la nave di Giovanni, e quasi a fondo
co’ gigli d’or le poppe ivan d’Ermondo.
95In simil rischio Arnaldo era et Onteo,
Amberto e gli altri duci invitti e chiari,
pur Ruggier non guardava in su Nereo
le navi allor tra sì bollenti mari,
però ché del dolor tenace e reo
temprar volea nel figlio i toschi amari
con palesarli omai qual sotto l’acque
bella a lui prole e generosa nacque.
96Ma su ’l figliuolo a pena ei fermò il ciglio
e su ’l nepote a pena erse la mano,
e disse a pena: – O figlio, Egla un tal figlio … -,
e troncò le sue voci un caso strano:
tonò il ciel chiaro, il sol parve vermiglio,
udimmo arme sonar ne l’aer vano,
e sorto, io non so donde, apparve ahi quale
portentoso splendor con braccia et ale.
97Parea che quel splendore in sé chiudesse
(fuor ch’i vanni e le braccia) un corpo alato,
e parea che quel corpo sostenesse
gli alti baleni onde scorrea velato.
Questi fe’ un giro altissimo et impresse
un solco in aria orribile et aurato,
poi si drizzò verso Tancredi, e stese
le braccia per rapirlo e ’n lui discese.
98Scese e ’l rapio qual verso un puro agnello
senza mover le sue sì rapid’ali
scende e ’l rapisce il re d’ogn’altro augello,
e poi de’ nembi in cima a un punto sale.
Portollo in su le navi, e qui l’avello
rimase sì, ma verso il clima australe
Borea spinse l’antenne e ’n un momento,
che che ’l prodigio fu, cangiossi in vento.
99Or chi può dir il pianto acerbo e pio
del re normanno, ahi mentre in tal maniera
gli sparve il figlio? e mentre ei tristo aprio
poi l’arca ove giacea l’alta guerriera,
quanto affetto di socero sentio?
Armata ella giacea, grande et intera,
bello il viso suo, ch’infusi in lei
bello il teneano ancor gli odor sabei.
100Ma più strano a quel re duolo e terrore
recavano et a me l’eterne rote,
che perdere in tal punto il mio signore
io doveva, e quel re l’alto nepote.
Tre dì versò il fanciul doglioso umore
da gli occhi, e tenne al mar le luci immote,
e su l’orme paterne immobil mise
egli il suo piede, e mai non nel divise.
101Negò conforto egli al dolor tra ’l pianto,
negò al bel corpo suo cibo e riposo.
Nulla diceva, o sol gridava: – Ahi quanto,
ahi quanto al Re del Ciel sono odioso! -.
E sconosolato gli languiva a canto
l’avolo, in van consolator pietoso.
Nel quarto dì allungarsi e illiquidire
fu visto, e questo rivo ei divenire.
102Io rimasi sì come avien che resti
quell’uomo a cui da presso il fulmin cade,
ma ’l buon Ruggier gridava: – Ah da’ celesti,
ah gradita non è nostra pietade.
Figlio non fosti tu, che precorresti
vèr Betleem tante cristiane spade?
Tu, guerrier forte e santo, e qual venisti
dopo tant’anni a me? come sparisti?
103Fu che pudico ancor tu generassi
né tal atto sapessi: ov’è tua prole?
Fatta un rivo ecco al mar volge ella i passi,
mentre a te ignota al tuo sparir si duole.
Dunque de’ re normanni ohimè vedrassi
la stirpe in queste forme sotto il sole?
e fia chi al peregrino additi e mostri
miserabili tanto i casi nostri?
104Lasso, e tra scene tragiche agitati
anco saremo in così strane guise?
e stupori et orrori inusitati
n’avran le genti in su i teatri assise?
Pur sia quanto a Dio piace, ma gli aurati
scettri ch’a la mia destra egli commise
io là depongo, e qui tristo e devoto
del resto di mia vita al Ciel fo voto -.
105Poi de la nobil Lecce appo le mura
tempio a quel divo alzò, la cui terrena
umana spoglia in Bari apre sì pura
di sacra manna inesseccabil vena.
Anco splendor d’illustre architettura
tal re volle in tal tempio, anco con piena
mano arricchillo, e i sacri di Cassino
eroi chiamovvi al culto alto e divino.
106Ersevi e’ tomba, che per divo e raro
magistero d’intagli or gli occhi arresta;
tutta ella è del più fin marmo di Paro,
et egli in lei serrò l’arca funesta.
Ma sua vice ad uom fido e ’n armi chiaro
diede, et a sé spogliò la regal vesta,
e là tra chiostri or vive, e vano il pianto
non fa, com’io, qui vaneggio intanto.
107Io, io giorno non è ch’a questa sponda
per dolermi del Cielo e ’n van lagnarmi
non venga, e intorbidi quest’onda
in lagrimoso umor con distillarmi.
– Idro, Idro – io chiamo, e ch’ei – Giosia – risponda
credo, e vederlo et abbracciarlo parmi.
Ma detto ho quanto d’aspra istoria udire
tu già bramasti, o glorioso sire».
L’Angelo protettore dei Normanni svela a Giosia che Idro è vivo (108-121)
108Al suo amaro sermon tal fine impose
il duca, e ribagnò col pianto il seno,
e ’l prence: «O figlio, l’ascoltate cose
di meraviglia e di dolor m’han pieno,
ma ciò che ordinò il Ciel, ciò che dispose
non può consiglio condannar terreno:
questo io ti dico, ben ch’invendicato
non fia che resti il sì grand’uom legato.
109Dal Vaticano ambasciatore eletto
per tanto affare io passo al greco Augusto:
disgombra almeno in questa parte il petto
de l’aspre noie onde sì ’l porti onusto.
Danne aviso a Ruggiero in quel ricetto
sacrato ov’ei divien santo e più giusto,
nel mio ritorno ivi io sarò, tu resta
in pace, e ’l pianto pio, pregoti, arresta».
110Tacque, e mirabil elmo in don gli diede
e tolta al re de’ Mori ampia lorica.
Questa è squamosa e d’or, ma in quel si vede
il Meandro scherzante in sua fatica,
va l’onda e torna, e mentre parte e riede
qual laberinto ella il suo corso intrica,
non sai s’al mar, non sai s’al fonte vada,
ch’al fonte, al mar va la sua dubbia strada.
111Ma ’l peregrin sovrano indi era accolto
con sommo onor ne la città vicina,
e lui ch’entra là dentro il popol folto
segue, e cosa seguir crede divina.
Solo rimase, e pur con tristo volto,
Giosia su la stessa onda cristallina,
nel cui sì vago umor tremolo e terso
egli credeva il suo bel re converso.
112Un tremante parea limpido velo
il rivo, e chiara l’aria era e lucente,
e sembrava traslato il sole e ’l cielo
dentro quel vetro liquido e ridente,
e si stampava ogni vicino stelo
nel medesmo cristal sì trasparente,
qual verde, qual fiorito, e ne l’interno
sen de l’acque era a gli occhi e scherzo e scherno.
113Tra questi oggetti il guardo egro e tremante
teneva il duca in atto immoto e fiso,
né frenava i sospir, quando volante
un corpo ivi apparir vide improviso,
il qual d’empireo messo avea sembiante
et era qual sembrava egli nel viso.
Era l’Angel che dianzi al glorioso
Michele andò su ’l Libano odoroso.
114Calava d’alto e s’imprimea nel fiume
ove co’ raggi suoi dritto feria,
adamantine l’arme, auree le piume
e molta luce il volto suo vestia,
ma non sostenne de l’empireo lume
l’imagine entro il gorgo il buon Giosia,
et il ciglio inalzò, ma in più fulgore
il vero in aria egli mirò splendore.
115In su la faccia ambe le man congiunse
contra un sì strano di baleni oltraggio,
e pur cadde abbagliato e intanto giunse
sopra la riva l’immortal messaggio,
e temprò per costui, ma non disgiunse,
dal corpo appreso il troppo ardente raggio,
e con virtute occulta in piè il ripose
e novelle gli diè meravigliose.
116Disse: «Rivo non è l’eroe che tanto
o buon Giosia, tu qui piangi e sospiri,
ma da vostr’occhi il tolsi io tra ’l suo pianto,
e fei dal pianto suo l’onda che miri.
Credilo a me tu generoso, o quanto
ponno gli spirti de’ superni giri,
et ei dove ei sia stato e chi son io
diratti, ei mai non trasformato in rio.
117Ben questo gorgo, che da gli occhi nacque
di lui, ch’è stirpe di famosi regi,
Idro dal nome suo (così al Ciel piacque)
fia che s’appelli, e d’alto onor si fregi,
e fia di grido, benché scarso d’acque,
eguale a’ fiumi de’ più alteri pregi,
ma chi col proprio pianto il diede al mondo
fatal guerriero è per discior Boemondo.
118Ei che per me sparì, per me ritorna,
dunque tu in gioia pia cangia il dolore.
Lui dentro il tempio ove Ruggier soggiorna
vedrà del dì seguente il primo albore:
ivi or ten corri, e finché non aggiorna
non arrestar per sonno il corridore.
Già vien la notte, e dovrai al matutino
colà tu aver compito il tuo camino».
119Tacque, e celossi il messaggier celeste,
come involarsi a noi l’iride suole,
quand’ella de’ color la varia veste
lascia, e gli opposti rai perde del sole,
o qual con ruote luminose e preste
sembra cader de la superna mole
stella che ’n aria si raccese e poi
non sai dove ella asconda i raggi suoi.
120Giosia riman come uom che da soave
et ammirabil sonno a’ sensi riede,
né di quanto ascoltò dubbio alcun have,
e stupido l’ammira e pio se ’l crede.
Lascia l’affanno ond’egli andò sì grave,
e trema, e vèr la staffa inalza il piede,
e tra l’unghie ferrate al destrier pone
la nota via, né scarso è poi di sprone.
121Già cavalca notturno, e fosca e nera
ombra nasconde il mondo a lui d’intorno,
e ’l suo viaggio incominciato a sera
ei poi compisce in su l’uscir del giorno.
Non di Malennio a la città guerriera
entra, ma ’l destrier vole al tempio adorno
dove vive tra chiostri e dove altero
diè sepolcro a Clorinda il buon Ruggiero.