ARGOMENTO
Idro appare in quel tempio ove fu impresso
su l’urna di Clorinda il santo acquisto,
indi narra ad Accardo ove stett’esso
puro e vero uom, lunga stagion non visto.
Poi su magica barca Egla lo stesso
fin a’ mari ove gira alta Calisto
condur promette, e dentro gli arsi cori
sveglian le vaghe intanto i prischi amori.
Descrizione del sepolcro di Clorinda, sul quale per volere del Cielo è raffigurata la storia della prima crociata su bassorilievi (1-37)
1In questo regal tempio, ove s’aspetta
da prisco sasso anco di me il mortale,
la tomba di Clorinda in alto eretta
con figura sorgea piramidale,
marmorea e bella, e ’n nessun lato schietta
e con lavor di Dedalo immortale,
ma da Fidia terreno ella intagliata
fu prima, e ’n altre guise effigiata.
2Già ’l buon Ruggier vi fe’ scolpir qual venne
su l’arca funeral smorto il suo figlio,
e come il suo nepote un rio divenne
e pascerne suo duol fu suo consiglio;
poi mirò i duri oggetti, e spesso isvenne,
e spesso un Gange, un Ren versò dal ciglio,
ma ’l Ciel n’ebbe pietate, e qui repente
l’opre trasfigurò mirabilmente.
3In un sol punto trasformò il subietto
invisibil potenza a la scultura,
e qual volubil scena che l’aspetto
cangia, lasciò cangiata ogni figura.
L’alta impresa, di cui pietoso obietto
fu liberar già di Sion le mura,
e per Dio mossi tanti eroi, tant’armi,
sculpì la destra invisibile in quei marmi.
4Ciò volse il Ciel, perch’un tal rege afflitto
migliori istorie innanzi a gli occhi avesse,
e mentre i gesti del fratel suo invitto
mirasse e i pregi del suo figlio in esse,
a memorie degnissime tragitto
tra sue sventure il suo pensier facesse.
Or l’artificio è tal ch’illustre inganno,
giudice l’intelletto, i sensi n’hanno.
5Pur non autor del fatti eri tu, Piero,
tu che, tornato da’ paesi santi,
il giogo di Sion barbaro e fiero
rimproverasti a’ popoli, a’ regnanti,
tu ch’uscisti da gli eremi e ’l sentiero
insegnasti de’ regi a’ passi erranti,
no no, che non pigliò qua giù da terra
l’origin, ma dal Ciel sì degna guerra.
6Cominciò da Maria cotanto affare,
e ben quel novo intaglio in sé il divisa,
però ché tra faville ardenti e chiare
pria la celeste corte eravi incisa.
Tondo ne l’imo e quadro in alto appare
l’Empireo, e spirti et alme imparadisa,
e tien, dentro non sai, non sai se ’n suso,
Dio, ch’empie il tutto e non dal tutto è chiuso.
7In triplice sedeva unico trono
egli con tre ineffabili sembianze,
con tre sembianze ch’un sol volto sono
e tre distinte in lui sono uguaglianze.
Di lui parea natura un picciol dono,
infinite parean le sue possanze,
imi appo lui gli eccelsi cieli, et imi
de’ gradi di là suso i più sublimi.
8Pur i prossimi onori eran di lei
che d’esso è genitrice e figlia e sposa,
intessute in bell’or sei stelle e sei
cingean sua fronte augusta e gloriosa,
alterissima vista, e i rai febei
aurea gonna le fean meravigliosa.
Co ’l piè la luna ella calcava, et ella
principio era a l’impresa eccelsa e bella.
9Costei piegava in giù gli occhi ove fiso
là su si specchia il sempiterno amante,
gli occhi suoi, ch’ella ne l’eterno viso
volge, e molto vi bee lume beante.
Scendea d’essa e di lui quasi indiviso
lo sguardo vèr la piagge altere e sante,
vèr la provincia ch’è sì cara al Cielo
e tra ’l Libano giace e tra ’l Carmelo.
10Ivi guardava l’immortal reina
e Dio con essa, e tutta ivi intagliata
in modo si vedea la Palestina
che verace parea, non figurata.
Gli alberghi de le Tribù e la divina
magione in Gierosòlima fondata,
Nazaret, dove scese, e ’l borgo dove
ebbe culla mortal l’eterno Giove.
11Ma tai reami altissimi e sì degni
soffrian servitù barbara in quegl’anni,
e con modi atrocissimi et indegni
i regi di Babel n’eran tiranni.
Mirava con pietate i patri regni
l’imperadrice de’ superni scanni,
e parea che l’Eterno ella pregasse
per essi, e mercé ad essi ella impetrasse.
12Indi ambo ergean le ciglia, e di più lume
parea ch’ella in quel punto si vestisse
e lei più piena allor del sommo Nume
credi, e ch’egli di lei più s’invaghisse.
Poi mille Angeli al volo aprian le piume
perché d’essa il voler già s’adempisse:
questi d’Europa in fra l’invitte genti
spargean di vero onor fiamme cocenti,
13e davan forza al semplice sermone
de l’eremita, e ’l fean grave e facondo.
A principi et a turbe indi era sprone,
armava indi ei per Siria oh quanto mondo.
Urban, che su la chioma ha tre corone
e de l’empiree chiavi in mano il pondo,
commosso anco da lui sedeva a fronte
a concilio sovrano in Chiaramonte.
14Ei confortava Europa a l’alta e pia
guerra, a cui dier le croci il nome poi,
però ché l’oste che passò in Soria
di rosse croci ornò gli omeri suoi.
Ei dava, e l’aste a’ pastorali unia,
licenza anco d’armarsi i sacri eroi,
ei fea Guglielmo ir con sua vice, e credi
la terra arme produr tante ne vedi.
15Concorrevano Italia il valor franco,
Germania et Anglia, e stimi veri e vivi
i duci ne l’intaglio, e li miri anco
vender lor stati per pietate quivi.
Goffredo v’è con duo fratelli al fianco,
e i duo Riberti, di vil ozio schivi,
belga uno, uno normanno, e ’l tolosano
conte, e del maggior re l’alto germano.
16Con Adria dividea poi la scultura
da l’Italia gli illirici e i Dalmati,
e per Dalmazia a le bizantie mura
gìano, e per Ungaria popoli armati.
Eran quasi infiniti, e polve oscura
sorgea tra lor lungo i sentier calcati,
ma correan vèr Iapigia a infinit’altri
avventurosi almen se non più scaltri.
17Molto quelli tra via danno et oltraggio
scontravan, questi no: vedi in costoro
ferir da l’alto il sol con lieto raggio
i serici vessilli e gli elmi d’oro.
Coprian le navi accinte al gran passaggio
l’itale rive, che già greche foro,
ma troncando altre risse Boemondo
offria se stesso in guerra al Re del mondo.
18E mentre da le galliche pendici
gli esserciti venian, costui scindea
ampi manti regali, ostri fenici,
e su l’arme a più eroi croci ne fea,
che sotto i patri suoi segni felici
gli Insubri e i Toschi e gli Umbri egli accogliea,
e quanta ha nobiltà Sicilia e quanta
il vicin regno ne produce e vanta.
19Vedi oltre i tanti e tanti che camino
fean per terra e su l’onde a l’alta impresa,
arar navi in più schiere il suol marino
del glorioso campo anco a difesa.
Adria e Liguria in quel lavor divino
obliavan la lor prisca contesa;
ma in Bizanzio giungean gli stuoli tutti
et a concilio i duci ecco ridutti.
20Creavano essi a sé duce sovrano,
principi eran tai duci, il greco Augusto,
ma quei compagno sì, non capitano
uniasi lor con patto equale e giusto.
Patto era ch’al fedel campo cristiano
ei mandi aiuto dal suo regno angusto,
e ch’ei n’abbia ne l’Asia ogni cittade
ch’a l’impero usurpàr le turche spade.
21Quinci rendeva a’ Greci il popol franco
Nicea dopo travaglio e sudor molto.
L’aiuto greco poi venendo manco,
de la lega il bel nodo era disciolto.
Due volte Soliman vinto, non stanco,
in general conflitto in fuga è volto,
del suo trono niceno egli in aita
spingeva, e poi in vendetta oste infinita.
22L’una e l’altra battaglia evvi bollente:
miri il soldan, miri i guerrier di Cristo,
da doppia strage uscir doppio torrente
et inondare orribilmente è visto.
L’udito anco s’inganna, e i gridi sente,
e de’ feriti il gemito commisto.
L’occhio è schernito, e vinti e vincitori
crede veri, e i cipressi anco e gli allori.
23Con l’ultime reliquie in vèr l’Oronte
dopo tai fatti Soliman sen gìa,
ma, benché vinto, ei con invitta fronte
al regal campo d’Asia uniasi in pria,
a’ Turchi uniti, a’ Persi, e pur de l’onte
sue per vendetta egli a costor s’unia,
e venìa là dove Antiochia presa
dassi a Boemondo, e non a’ Traci è resa.
24Ponea con sì grande oste un tal soldano
l’assedio in Antiochia a’ vincitori.
Dura vicenda qui di caso umano
vedi, et insuperbir l’oste ch’è fuori:
la fame dentro i muri in volto strano
magra e cospersa d’orridi pallori,
e de’ duci diversi i pensier vari
fean ne l’estremo mal lenti i ripari.
25Ben questo estremo mal traeva allora
i duci ad assemblea, ma più la tema;
essi vedeano omai qual danno fora
non darsi ad un l’auttorità suprema,
e, benché tutti eccelso merto onora
e regia stirpe in nulla patre scema,
pur l’impero di lor, lor buon consiglio,
dava del gran Guiscardo al maggior figlio.
26Ei prendea l’alta verga, e più che pria
d’ogni grado mortal parea diviso,
con tal splendor la maestà natia,
retaggio de’ prischi avi, era in suo viso,
et in quel punto di maggior l’empìa
senno e prudenza il Re del Paradiso.
Già duce era de’ duci, e i sommi e gli imi
variamente minori appo lui stimi.
27Costui negava il sonno a gli occhi sui
(non sai se miglior duce o cavaliero)
e ’l suo digiun togliea la fame altrui
e un travagliar continuo era il suo impero,
e per angustie estreme intorno a lui
e ’n mille parti dividea il pensiero.
Alfin apria le porte, e dal murale
assedio egli a battaglia uscia campale.
28Ma pria che gli usci aprisse, ambe le ciglia
ergeva al Ciel, come pietà l’invita,
e parea tra gli intagli, o meraviglia,
da lui devoto esser tal voce udita:
«Prendi tu quella lancia che vermiglia
fu del sangue divino, oggi in tua aita,
et ella ogni vessillo et ogni schiera
preceda, e gran vittoria indi tu spera».
29Quinci poi l’asta che Giesù trafisse
portar fea innanzi al campo il duce pio.
V’era il celeste eroe che ne le risse
alte del Ciel l’empio dragon ferio,
e con pioggia avvenia che favorisse
i nostri sì il sovran messo di Dio:
questa pioggia qual nebbia allor cadea
su ’l fievol campo, e vigoroso il fea.
30In ferree membra aver alma d’acciaro
pareano i Franchi da tal nembo aspersi,
né contro loro avean fuga o riparo
con Solimano i Turchi invitti e i Persi.
Poi di barbara strage (oggetto caro
a gli occhi pii) quei campi eran cospersi,
et arme e busti con taurina fronte
portava per tributo al mar l’Oronte.
31Lasciava alfin di tanta e tal vittoria
già Boemondo del governo il freno,
e coronava lui lampo di gloria,
di generosità lampo ripieno.
Titol di grande ad immortal memoria
dar tutti al chiaro Ugon quasi s’udieno,
messaggio universal questi poi giva
al greco Augusto in vèr la tracia riva.
32Toglieano in tanto a’ Turchi i Canopei
Gierusalemme, e quivi il suo viaggio,
da poi ch’anco in Tortosa avea trofei,
finia l’oste cristiana e ’l gran passaggio.
Ma l’eroe ch’è materia a’ versi miei
e ’n cui d’ogni virtù sfavilla il raggio,
vedeasi forte e santo altrove e quivi
erger trofei di vil silenzio schivi.
33In Antiochia vedi et in Nicea
et in Cilicia glorioso, e poi
ne la città regal de la Giudea
chiari e diversi i molti affanni suoi.
Ei Betleem muniva, ei precorrea
verso Sion i conduttori eroi;
egli ancideva Argante, e la famosa
guerriera in non famose arme nascosa.
34A voci che parean di tal guerriera
et eran finte (ahi che non puote Amore?)
sol cedeva in quel bosco, ov’egli intera
vittoria avea d’ogni tartareo orrore,
e la normanna sua regal bandiera
figgeva in alta parte ei vincitore,
nel dì del santo acquisto, allor ch’ardito
correva ogni guerrier per raro invito.
35Già quello invito (e feasi altero sprone
a’ sommi, a gli imi, e ferza inusitata)
prometteva a ciascuno in guiderdone
la soglia che da lui fosse occupata
per lasciare a’ suoi posteri magione,
segno d’onor, ne la città sacrata.
Tal si prendea Sione, e dava parte
del santo acquisto a tutti il proprio Marte.
36Poi Roberto il normanno eravi eletto
da quei principi eccelsi in re primiero,
ma per degna cagion, senza difetto,
ei fea rifiuto de l’offerto impero,
onde del regno al Ciel caro e diletto
davan essi al Buglion lo scettro altero,
né volea cerchio d’or questi al suo crine
tra’ muri ove il gran Dio l’ebbe di spine.
37Ma lettre, sire, ohimè, greche e romane
cingean la tomba in triplice scrittura,
e prediceano a le città cristiane
l’onta sì grande che tant’anni dura:
dicean che ritorrian l’armi pagane
l’ineffabil di Cristo sepoltura,
crudele annunzio, e che sparito allora
qui di Clorinda il monumento fora.
Ruggiero piange sulla tomba quando ricompare Idro, festeggiato da tutti: Ruggiero lo manda a Taranto a preparare una spedizione che vada incontro a Tancredi (38-53,6)
38Tale lo scritto e tale effigiato
fu quel sepolcro, e solo e matutino
Ruggier erto la fronte, et atterrato
doppiava i prieghi anzi l’altar divino,
quando ’l nepote suo si vide a lato
tra un lampo d’armi ardente e repentino,
e gridò: – Ciò di te ben mi predisse
sant’uomo -, e sorse e ’n lui gli sguardi fisse.
39Pur come se vedesse ir alto monte,
d’insolito stupore egli s’empiva,
o come se mirasse incontro il fonte
correre il fiume e disseccar la riva;
ma quegli, come a lui l’umana fronte
mai non fu tolta, in breve dir gli apriva:
narrò ciò che gli avvenne, e sopragiunto
Giosia nel tempio stesso ecco in quel punto.
40Qual meraviglia, o buon Giosia, n’avesti?
Ma quel pio re, con trepidi sembianti,
e rendendo in suo cor grazie celesti,
tenea sopra il garzon braccia tremanti.
Alfin proruppe e disse: – O quanto diesti
a l’avo et al suo regno amari pianti,
quanti a questo baron, mentre creduto
fiume tu fosti, et acqua, ohimè, veduto!
41Ma dov’è ’l tuo infelice genitore?
E pur nel dì che nacque a Dio l’offersi,
dissi: «Dalli, Signor, forza e vigore
contro gli Egizi e i Mauri e contro i Persi;
fa’ che solo il servirti ei stimi onore,
emulo in ciò de gli avi», e nudo immersi
in fredda acqua il bambin, per così farlo
abile a le fatiche et indurarlo.
42Poi composi la man sua pargoletta
su l’elsa ch’io cingeva, e lui parlai:
«Cresci a pie guerre, o figlio, e gli anni affretta:
serva è la città santa, e tu no ’l sai.
Tu questa spada, a giuste imprese eletta
(ella fu di Guiscardo) impiegherai;
ei liberonne il Vaticano, e piaccia
al Ciel ch’alte tu in Siria opre ne faccia « -.
43Così Ruggiero, e nulla o poco a freno
le lagrime tenea, ch’empìano il ciglio.
A cui rispose, e raddolcilli il seno
del suo gran germe il generoso figlio:
narrò dov’è Tancredi, e tutto a pieno
gli aprì ’l tenor de l’immortal consiglio.
Disse che ciò nunzio immortal gli aperse,
quel che ’l rapì, ma in fiume nol converse.
44Soggiunge indi il fanciullo: – O venerando
avolo eccelso e caro al Dio sovrano,
ch’anco i tuoi giusti scettri disprezzando
l’erto sentier del Ciel ti fai più piano,
quest’armi ond’io mi vesto e questo brando
ch’io cingo e l’asta ch’empie la mia mano
l’Angel ch’a me fu duce anco a me diede,
e vuol che ratto io quinci or tolga il piede.
45Lungo il sicolo mar per camin dritto
passando il tuo gran figlio andrà spedito
a tòrre i ceppi al gran fratel tuo invitto,
e ’l debbo attender io nel vicin lito -.
Ruggier ripiglia: – Or quel ch’è in Ciel prescritto
sia da te, sangue mio, tosto adempito,
ma pria t’inchina al sacerdote e l’alma
fa col pane divin candida et alma -.
46Tace, et Idro depon l’asta e la spada
e l’elmo, ov’è cimiero aurea Medusa,
e le ginocchia ad atterrar non bada
e i falli suoi, che pur son lievi, accusa.
Piange, e ’l bel pianto suo sembra rugiada
sopra vermigli e bianchi fior diffusa,
chini i begli occhi, e palma a palma unite
le mani, c’han natie le margherite.
47Mitrato il sacerdote indi gli pose
in vaso sacro e d’or l’esca divina,
ei gustò il cibo eterno, et alfin sorse
poich’assai la sua fronte ei tenne china.
Di vari eroi gran calca intanto corse,
ognun stupito guarda, ognun s’inchina.
Ei tutti accoglie, e primo il buon Giosia,
poi di consigli il sen l’avo gli empìa.
48Ma su le sacre soglie al fine il piede
fermò Ruggiero et abbracciò il nepote,
e disse: – Scorga te chi tutto vede
e sia difesa tua chi ’l tutto puote.
Va’, trova il padre che da’ climi riede
ove s’aggira altissimo Boote,
torna a noi tu con esso, e qui ristori
ei ciurme e legni, et arme prenda et ori.
49Ma se ciò nega il Ciel, tu in nostro nome
figgi i pietosi baci in fronte a lui,
e se torrete unqua l’indegne some
al mio german, baciate ambo colui -.
Nudo qui Accardo le canute chiome
(in vece di Ruggier reggea costui)
stassi davanti a’ cavalier primieri,
che molti han dietro a lor paggi e scudieri.
50A sé Ruggiero il chiama, e dice: – Accardo,
tu col nostro nepote andrai in Tarento,
e di proveder lui non sarai tardo
di quanto a domandarti ei non fia lento -.
Così gli impose, e torse il passo e ’l guardo
là dove sacro coro in bel concento
da le corti lontan, lontan da l’armi
canta a l’eterno i sacrosanti carmi.
51Cento destrier con ricche selle e vòte
stan fuor del tempio, et un scevro è da loro,
ch’altamente è guarnito e che percote
l’aria con lampi luminosi e d’oro,
e di bianco e di brun fulgide rote
spiega nel pelo, alto natio lavoro,
col piè batte la terra e sbuffa e fuma
e sparge l’aureo fren d’argentea spuma.
52Questi è d’Idro il destriero, et in un punto
Idro e cento baron vedi in arcione.
S’attergan essi al conte, che congiunto
precede a tutti col real garzone.
Rapidi vanno, e già di punto in punto
diverse intorno han d’alberi corone;
alfin uscendo fuor d’alti oliveti
vedeano il cielo in campi aperti e lieti.
53Qui presso è ’l monte d’Auro, e così detto
già fu da la felice antica etate
perché in lui scaturiva un ruscelletto
ch’ebbe nel letto suo l’arene aurate.
Or secco è ’l rivo, e ’n suo sentier negletto
nulle o poche ne sono orme additate.
Roppe Accardo il silenzio allor che quelloIdro narra lungo la via della sua sparizione e del suo apprendistato guerresco (53,7-70)
gorgo ei mirò per riva d’or sì bello,
54voltossi ad Idro e disse: – Il trasparente
liquido argento in questa riva accolto,
signor, quell’onde a me riduce a mente
in cui cangiarsi già vidi il tuo volto.
Piacemi che virtute onnipotente
l’umano aspetto a te non ebbe tolto,
e ch’a Salento diede un novo fonte
et or ne rende la regal tua fronte.
55Ma tu, che nostre menti or rassereni,
dinne, e fa’ che la gioia in noi più rida,
dinne onde tanto e sì ammirabil vieni
(sappiam che nume empireo a te fu guida).
Soggiornasti del Ciel tra’ bei sereni,
là dove senza Occaso il dì s’annida?
o dove di sua vita Elia sin’ora
con celesti ruscei l’umido irora? -.
56Così il buon conte, e i cavalieri alquanto
si spingon oltre, e fan moto più equale
e regolato sì che tanto o quanto
del calpestio a l’orecchie il suon non sale.
Idro risponde: – Io non ho merto tanto:
altrove portò me quello immortale,
o di rara virtù lucido speglio
non men che per vigor mirabil veglio.
57Pur dirò dove io fui; quegli in romita
piaggia portommi, e, giunto in quella parte,
disse: «Ecco il loco ov’a l’umana vita
la strada in su i primi anni in due si parte.
Tu non seguir chi ad ozio empio t’invita,
ma chi dopo il sudor glorie comparte».
E qui si tacque, e ’l corpo onde m’apparve
sciolse in odori ei divin nunzio, e sparve.
58Sentier m’era tra’ piè che si distende
tra verdi erbette assai proclive e piano,
ma poco è l’andar suo che tosto fende
se stesso, e fa due vie tra l’erto e ’l piano.
La piana è molle, aspra è la via ch’ascende,
a destra è questa e quella a l’altra mano,
e tosto una da quella, una da questa
a me venìa donna ansiosa e presta.
59Costoro in guardia han le due vie, ma quella
de la man destra have celeste viso,
e splende come l’acidalia stella
ma casto in fronte le scintilla il riso,
non sai se più pudica o se più bella,
e cittadina par del Paradiso;
scarsa è del lume essa de gli occhi, e scarsa
de’ raggi onde la man bianca è cosparsa.
60Ebri d’odore i crin l’altra diffonde
su la cervice candida e lasciva,
e fa sembrar due bianche e tremul’onde
la neve del bel sen limpida e viva,
né de l’eburnee braccia il nudo asconde,
né di gemme l’orecchie e ’l collo priva,
e va nuda il ginocchio e intorno al grembo
avince in nodi d’or l’ondoso lembo.
61Costei rideva, e lungo la sua via
additavamo mense, ombre e carole;
condiva i detti, e dicea che servia
al piacer la virtù lieta in sue scole.
Indi pur anco i rosei labri apria
e pur melate ne sciogliea parole,
e de l’eburnea mano i mossi diti
di tal voce accordava a’ vaghi inviti.
62Riso è in mia strada, e là da lei sta il pianto,
e ’n dolci nodi Amor l’alme vi lega:
«Seguimi, o bel garzone, e solo a quanto
trastulla gli egri spirti i sensi piega.
Che giova dopo morte o nome o vanto
a chi gioia a se stesso in vita nega?».
Così quest’empia, e l’altra contradisse
a’ suoi falsi argomenti, indi a me disse:
63«Germe d’eroi famosi, io per sentiero
aspro conduco altrui dov’ei poi gode.
Chi non suda e non gela, e con guerriero
spirto non vince i sensi, al fin si rode.
Biasmo va dietro a l’empio e lusinghiero
diletto, et il sudor padre è di lode.
Soggetto a morte ogn’uom, ma sol per fama
chiari i suoi da l’oblio virtù richiama».
64Tacquero entrambe, et io volgea in me stesso
i sì diversi lor contrari detti,
e ’n ambe rimirai, riguardai spesso
il duro calle e ’l calle de’ diletti.
Quel m’atterriva, et io vedeva in esso
d’insuperabil alpe orridi aspetti,
e questo m’invaghiva, e d’ambo i vari
agitavano il cor finti contrari.
65Restai dubbio, et in forse, e non conversi
né qua né là mie voglie, e fuimi quale
onda di mar che fra duo venti aversi
non precipita in giù né in alto sale,
misero, e ’l peggio o ’l meglio non discersi,
né più potei, ma grazia alta immortale
in me discese, e fe’ che sprezzass’io
l’empie lusinghe e ’l sentier molle e rio.
66Allor seguii colei che scorge e mena
l’uomo a buon fin per aspri ermi dirupi,
ispido calle, e le mie piante a pena
capia tra precipizi orridi e cupi.
Sentii ruggiti d’invincibil lena
e troppo immane l’ulular de’ lupi,
et a manca et a destra e su la fronte
e tra’ piè mi tremava e ruggìa il monte.
67Le nevi ivi or del Caucaso, et or ivi
gli ardori onde del Nil bolle la sabbia,
e vari venti di temperie privi
quai non so s’Etiopia e Scizia gli abbia,
talché talor gelai, talora in rivi
versai sudore, e secche eran le labbia,
e del piè in vece oprai spesso la mano
e ’n alto trassi me per molto vano.
68Mia scorta non così, però ché quasi
alata precedea, lieve e spedita.
Solo un dì quel travaglio e senza Occasi,
credei quel dì girar linea infinita.
Pervenni in cima al monte, e qui rimasi
in piaggia alma, gentil, verde e fiorita,
e tosto la donzella a me sparia
ch’io tutta superai l’alpestre via.
69Ma sentii d’un vigor novo informarmi
tosto là suso, e riguardando in alto
vedea dentro le nubi insegne et armi
e battaglie diverse e vario assalto.
Gli eroi famosi per istorie e carmi
ivi vestiano adamantino smalto,
e quasi ivi in teatro eran ridutte
de’ prischi semidei l’imprese tutte.
70Scritti in fronte i lor nomi, e tra ogni schiera
mercar pareami i marziali allori.
pareami sormontar de la severa
milizia per gli gradi a’ primi onori.
Ubidii, comandai, non so s’io m’era
là su co’ membri o pur dal corpo fuori.
Volgean cinqu’anni intanto, et un sol giorno
mi sembran quei cinqu’anni or che ne torno.
Idro manda Accardo a preparare la spedizione e intanto si reca dalla madre: giunto alla sua grotta ammira la tela che sta intessendo con storie di Tancredi (71-100)
71Così il fanciullo eccelso e generoso
narrava, e stupian tutti, e là d’Atlante
poscia caduto, il dì rotava ascoso
e ’l nostro artico ciel volgea stellante.
A’ corpi allor gli eroi davan riposo
finché Ciprigna usciva a l’alba innante,
anzi al primo apparir di questa stella
con la sua squadra asceso era Idro in sella.
72Tacito cavalcava, et a sua cara
gran genitrice rivolgeva il core:
volea torla a quell’arti ond’entro il Tara
s’illustra, e d’altro ornarla illustre onore,
volea mandarla a l’avo, e vera e chiara
sposa un dì farla al suo gran genitore,
sì che conchiuse andarvi e si rivolse
verso Accardo, e ’n tal dir la lingua sciolse:
73- Tu con questi baroni, o nobil conte,
or vanne a l’alte rocche di Falanto,
ch’io con tua pace andar vuo sotto il fonte
d’Egla, e vuo’ che Giosia mi venga a canto.
Ben pria che ’l terzo sole in ciel rimonte
con voi saremo, e tu disponi intanto
ciò che d’uopo ne fia -, ned altra giunse
voce, e da’ cavalieri si disgiunse.
74Seguillo il duca d’Atri, indi s’aggira
su ’l picciol mare in cui sbocca il Galeso,
poi passa ove in maggior lito sospira
Nettun fremente da procelle offeso.
Il materno ruscel lieto rimira
e qui si ferma, e già di sella è sceso;
Giosia scende anco, ei poi fece su ’l rio
un segno mago, e ’l fiumicel s’aprio.
75Tal segno gli insegnò sua genitrice
quando ei partia da lei di nebbia avvolto,
e perseguia con arte venatrice
fere et augelli, e nascondea il suo volto,
ma ’l dischiuso ruscel cava pendice
sembra, e s’inarca infra durezze involto,
e doppio muro immobile et immoto
fa de l’alt’onde, e lascia il varco vòto.
76I duo v’entraro, e tosto in sé li chiuse
il rio ch’è sì ammirabile e sì adorno,
ma dove riserrossi non escluse
per la sua trasparenza i rai del giorno.
De le sfere del ciel le virtù infuse
fean loro effetto a’ cavalier d’intorno,
mirabil vista, e ne prendea più forme
di varie gemme la materia informe.
77Et imperfetto e liquido l’argento
non men se ne densava a poco a poco,
e chiaro n’avea l’auro accrescimento
quasi in fornace d’invisibil foco.
Scorgevansi, e qual rapido, qual lento,
i principi de’ fiumi in sì bel loco,
quei d’Alfeo, quei de l’Istro e quei de l’Ebro
e ’l sacro imperial fonte del Tebro.
78E d’un solo antro anco là dentro uscieno
Eufrate e Tigre, e v’era il suo ch’asconde
fonte a i mortali, il Nil, v’eran del Reno
e del Gange le culle e le prim’onde.
Vi scaturia il Pattol, ricco non meno
là giù d’aurata arena ambe le sponde,
e l’indomito Po, che con taurina
fronte re de l’esperie acque camina.
79Mostra al compagno Idro tai cose, e i passi
non s’arrestano intanto, e gli addita anco
lo speco onde in Toscana, Arno, tu passi,
tu di produr cigni febei non stanco.
Poi vide tra quei rivi occulti e bassi
rivo da lui là giù non visto unquanco,
mirò nova urna e scaturiane quello
che da gli occhi versò gorgo novello.
80S’era incentrato, e sotterraneo anch’esso
nasceva, e da vicin nasceva Idume.
Ambo incontraro al Galeso et a lo stesso
che i duo baron chiudeva altero fiume.
Ma d’Egla il bel palagio omai d’appresso
vibrava di più gemme un misto lume,
aperte l’auree porte, e ’n auree sedi
qui l’emule d’Aracne assise vedi.
81Eccede tra costoro Egla sì come
tra le ninfe minor la dea di Delo,
sì di splendor di sen, d’occhi e di chiome
abonda, e sembra di bellezze un cielo.
Ma seco anco ha d’amor l’antiche some
e piange e terge gli occhi ella col velo
assai sovente, et un gentil trapunto
face, e sospira ognor di punto in punto,
82ché tutta effigiar di parte in parte
la vita ivi ella vuol del suo bel vago.
Oh come con sua man divide e parte
suo cor, mentre di lui finge l’imago!
Più ch’altrove col senno usa qui l’arte
più ch’altrove qui industre ella fa l’ago,
e stupor per lo duol leggiadro e per la
industria onde trapunge era a vederla.
83Sopra eburneo scabel sedeva, e sopra
sue ginocchia tenea ricco oriliere,
con gran tela ch’aperta avien che scopra
le compite fin qui figure altere.
Sospirava a mandava intorno a l’opra
gli umidi rai de le pupille nere,
e non movea l’alabastrino e schietto
collo, e piegava con le poppe il petto.
84La man sempre in bel moto e dolci apria
fin dal cubito il braccio i suoi candori,
mentre di su e di giù vario ne gìa
limpido il filo a seminar colori,
filo che non veder mai come pria
fea quei crescenti ognor vaghi lavori,
e parea dar a’ corpi informi innanti
in su l’effigiarli alme informanti.
85Mercé de l’arti sue son d’ora in ora
del suo bel vago a lei pòrte novelle,
a tali annunzi ora gioisce, et ora
turba de gli occhi le due chiare stelle.
Ma non ella or di lui forma e colora
nel bel recamo suo l’opre novelle,
che tardi incominciò, tanto ch’espresso
del tutto ha ’l poco, e ’l più ne l’alma è impresso.
86Espresso avea qual di Ruggier la sposa
diede parto sì degno e sì gentile,
e come a lui fu culla generosa
il patrio scudo in disusato stile,
e de l’avo il pugnal, non preziosa
gemma al collo gli appese, alto monile,
carpone no, ma ’l figurò tra selve
fanciullo, cacciator d’orride belve.
87I veltri intorno e ne la destra il dardo
gli mise, e gigli et ostri al viso diede,
ma tra rara beltate aspro fe’ il guardo,
rigido il volto e sciolto al corso il piede.
Vèr le guerriere scole ella d’Accardo,
poi da caccia tornar carco di prede
figurollo non meno, e di forbito
acciaro ivi ella ancor l’avea vestito.
88Poi ricamollo in gonna entro il bel rio
tra la virginea sua nubil famiglia,
qual fu da poiché il mago in lui sopio
l’ira, madre d’onor, di ragion figlia.
Quivi con le sue fila il colorio
girante sotto il vel le maschie ciglia,
et avolgente a gentil fuso aurato,
quasi linea purpurea, ostro filato.
89Misera, e poi per lui ne’ suoi ricami
trista se stessa e pallidetta finse,
qual vergin che nol sappia e che pur ami
e sotto il ciglio il novo pianto strinse.
Poi qual amante che disperi e brami,
pur ne’ suoi magisteri si dipinse,
allor piangeva, e ’l duolo illiquidite
parea tra gli occhi aver le margherite.
90Formò lucido speglio, al cui consiglio
ella poi componeva il suo bel crine,
e d’amorose frodi armava il ciglio
per far ch’ad amar lei colui s’inchine,
e del volto gentil la rosa e ’l giglio
rendea più vaghi, e de le man le brine,
e svelava il bel sen, mostrava ignude
le nevi de le mamme acerbe e crude.
91Quasi parlante ancor mostrò il suo volto
(tanti artifici son nel magistero);
pareva dir: – Ah perché in gonna avolto
sei, crudo o del mio cor dolce guerriero? -.
Ma di lui (quale il vide altrove volto)
espresse il guardo, o in lei torbido e fiero,
e figurò nulla valer ad essa
suoi prieghi, sua beltà, sua magia stessa.
92Pose, e pur belle, intorno a’ suoi bei lumi
torbide rote e nebbie di dolore,
mentre qual neve al sole ella consumi
parea se stessa a sì gentil splendore.
Tremava, impallidia, versava fiumi,
non molli perle, or da’ begli occhi fuore,
e nel suo bel trapunto i suoi sospiri
anco avean forma, e forma i suoi martiri.
93E v’avria espresso ancor perch’ella tolte
ebbe acque a Lete e ne sopì costui,
s’onestà nol vietava, e pur tre volte
mosse a pinger suoi furti i diti sui,
e tre ragion la man ritenne, e folte
lagrime uscian, membrando essa qui lui.
Ben mostrò dopo ciò da l’Occidente
passato il fedel campo in Oriente.
94Et in Accardo allor mostrò cangiato
l’Angel ch’i re normanni in guardia tiene
(tal quest’Angelo allor trasfigurato
già s’ebbe, e questi a lei tolse il suo bene).
Questi ruppe il suo gorgo, e l’onorato
garzon tolse a le magiche catene,
ne ritrasse ella ciò senza timore,
e la man tremò intanto e tremò il core.
95Indi nel suo lavor tra le sue smorte
verginelle smarrita essa apparea
mentre l’Angel con cenno invitto e forte
sotto uman volto i tetti suoi rompea.
Aurea neve avenia ch’in aria il porte
e su tal neve egli il fanciul mettea,
già sciolta ogni magia, ma l’uno e l’altro
quai poi fe’ l’ago in ricamar sì scaltro?
96Di non vile rossor la faccia offesa
l’uno chinava, e l’altro parea dire:
– Gran rigor di giustizia è grande offesa,
ma te nessun condanna in tuo fallire -.
Poi quella nave in su le nubi ascesa
ratto parea vèr l’Oriente gire,
e vela disicogliea lucida, e franto
suo vitreo albergo Egla saldava intanto.
97Ma chi reggeva il finto aureo timone
ratto de l’aria iva solcando il mare,
e ’l credi ragionar col fier garzone
e chi egli sia scoprirli e quei tremare.
Allor la gonna e ’l vel parea che suone
già l’una, e l’altra fea l’Angel cangiare,
transformavansi in piastre e feansi quelle
arme onde il vide lampeggiar Babelle.
98Feasi il fuso pugnal, la rocca brando,
e ’n terra e ’n cielo ei poi volgea lo sguardo,
che cielo e terra a lui gir divisando
parea col dito il non verace Accardo.
Insegnarli parea perché indugiando
nel verno i mari il sol lascia sì tardo,
e sì ratto la state e varie uscite
del dì mai non egual parea gli addite.
99Così ne giano ove a difese accinta
assediavan Nicea gli eroi cristiani.
Parte Nicea da nobil lago è cinta,
parte confina con terrestri piani;
quivi con fronte di stupor dipinta
verso la vela in aria ergean le mani
gli assediatori, e gli assediati come
se stella in aria appar lunga le chiome.
100L’Angel, che ’n sua forma per nocchiero
svolgea l’aureo temone e ’n giù piegava,
et a piè di Boemondo il gran sentiero
finiva, et il nepote a costui dava,
sciogliea la nave in vento e prendea il vero
suo volto, e luce et aura a Dio tornava,
e giunto era fin qui l’ago felice
de la bella e gentil ricamatrice.
Egla convince il figlio a precedere l’armata e andare incontro al padre con lei su un carro voltante (101-113)
101Fissava le sue luci ella a guardare
in sua tela il suo vago appo Nicea,
ma le sembianze a lei dilette e care
in maschio arnese allor come vedea?
In riguardar quasi impetrava e rare
lagrime da’ begli occhi essa piovea,
ma sentì mover piante, et alzò il ciglio,
e giunto a sé mirò l’amato figlio.
102Sorge rapidamente e lieta e smorta
gitta i ricami e ’l caro oggetto abbraccia,
e ’l piacer che gli spirti ange e conforta
non rende gli ostri a la smarrita faccia;
ma poiché scinse la catena attorta
che nel collo di lui fean le sue braccia,
disse: – Tornasti alfin, germe degno
degli avi, e del mio ventre unico pegno? -.
103Et egli: – O madre, io fuimi in parte … -, et ella:
– Non t’affannar in questo, io ben so dove
fosti e dove ir t’accingi, e quale stella
t’agita, e per te quanto Angel si move -.
Tace, e ’l pallor de la sua guancia bella
s’inostra, et un seren vago ne piove,
qual del matin la fronte rugiadosa
spogliandosi il candor veste la rosa.
104Poscia soggiunge: – Io lodo che tu attenda
tuo genitor tra’ sicoli confini,
o figlio, e chi fia mai che ten riprenda
se ’n ciò precetti tu segni divini?
Pur è ragion che l’uom sempre si renda
maggior nel bene e ’n ben oprar s’affini;
odi i consigli miei, che potran farti
più pietoso, e più caro al padre darti.
105Egli è spinto, qual sai, là sotto il polo
e vien fin da l’antartico Brasile,
et io menarti a lui posso, o figliuolo,
in poche ore oltre Calpe et oltre Tile.
Andrem sopra un battel, che più ch’a volo
andrà su ’l mare in disusato stile -.
Così parlò la nobil maga, e tosto
fece al gran figlio suo cangiar proposto.
106- Rompi ogn’indugio – ei disse; ma colei:
– Cibati prima, e dà gli occhi al riposo,
noi partirem co’ novi rai febei,
e vo’ ch’al conte ciò non sia nascoso:
con lettre a lui n’andranno i messi miei,
per non restarne ei timido o pensoso,
et anco perché intanto a te prepari
navi e guerrieri in su i paterni mari -.
107Tacque, ma l’alte sue regali ancille
visto l’idolo lor vedi tremanti,
vedi del pianto in lor belle le stille,
vedi del pianto il pallor ne’ lor sembianti,
e cercan l’amorose lor faville
per l’oggetto maggior ch’avean davanti,
elle il vedean per gli anni a gran vaghezza
cresciuto di sembianza e di bellezza.
108Ad apprestar la cena ivano anch’esse
e ponean bissi in su la mensa et ori,
entro ampia sala, ove di Fidia espresse
eran l’arti in non soliti lavori.
Effigiò tal sala Egla e v’impresse
con magico scarpello eccelsi onori,
vi figurò la sua Iapigia e i suoi,
progenie di Malennio, avoli eroi.
109E Lictio Idomeneo, quel che novello
nomi al tuo fiume, o Lecce, et a te diede.
Anco intagliovvi, e fe’ regali e belli,
leccesi muri, ond’ella è degna erede.
Vi mise ancor, già già su ’l farsi augelli,
i compagni de l’inclito Diomede,
e vi mise costui mentre ei rendea
il famoso palladio al frigio Enea.
110Di così illustri istorie era scolpita
la sala ove le vergini in quell’ore
ponean la mensa a lui che con gradita
fiamma have a tutte arso e riarso il core.
Piropi il cui splendor le fiamme imita
esse appendono in alto, e già l’orrore
ne vincon de la notte, e ’n quelle e ’n queste
parti le vedi industriose e preste.
111Altra con le sue man candide e belle
preme neve agghiacciata, e con bell’arte
ne forma cave tazze e lascia in elle
d’alti sensi d’amor lettre cosparte,
e de l’antiche sue piaghe e facelle
vi scrive il fier tenore a parte a parte,
perché se ’l legga poi mentre vi beve
colui che cagionò martir sì greve.
112Sotto candido lino altra nasconde
Cerere, e ’l lino in più figure spiega.
Finge Egla entro la barca in mezzo a l’onde
con l’idol suo, che parte e mercé nega,
e finge intorno a lui scherzar seconde
l’aure nel mar ch’or s’erge et or si piega,
e se stessa rivolta in su la riva
finge senza color, di moto priva.
113Altra per ritener con vago errore
gli occhi di lui ch’è sua sì dolce pena,
con industre pennel vien che colore
in ampio vaso la futura cena.
Già l’odorato alletta il finto odore
sì d’artifici la pittura è piena,
e ’l gusto se n’invoglia e ’l vaso posto
poi su la mensa era a tutti occhi esposto.
Idro chiede alla madre di abbandonare le armi magiche e convertirsi, lei acconsente; quindi vanno a mensa (114-132)
114Idro parlava intanto a l’innocente
che ’l partorì là giuso illustre maga:
– Tu, che di sangue – ei disse – d’alta gente
fosti, o gran donna, in concepirmi vaga,
deh non sdegnar miei prieghi, e la mia mente
rendi in quest’altro ancor contenta e paga:
deh, lascia l’arti ond’a’ bei rai del sole
non ch’a gli sguardi altrui qua giù t’invole.
115Orna con tua presenza i nostri regni
e metti il piè ne la magion di Dio.
Se ’l fessi andrei più lieto a tòr gli indegni
ceppi al grand’uom ch’al mio gran padre è zio -.
Egla a tal dir, d’alta allegrezza pregni
mostrò i begli occhi, e insieme ella arrossio,
e scoprendo le perle infra le rose
de’ labri che movea, così rispose:
116- Figlio, cui volse il Ciel ch’a glorioso
re d’alte doti pieno io partorissi,
pia fui ne l’arti maghe, e chiamar oso
Dio in testimonio, e innocente io vissi;
pur s’è sospetto il mio qui star nascoso
muto a richiesta tua quel che prefissi:
non per ornar tuoi regni uscendo io fuore
di qua, ma perch’io in te là su m’onore.
117Ben prego, vogli tu, che ciò pur fia
nel dì del glorioso tuo ritorno:
quanta, o figlio, in quel dì gioia, se fia
che Ruggier chiami me nuora in quel giorno,
e m’adduca di regi in compagnia
dal sacro tempio al suo regal soggiorno? -.
Tace, e con esso e con Giosia poi stende
il piede ove aurea mensa omai gli attende.
118Qui giunti, et a le man l’acque già date,
s’assidon essi, et ecco i preziosi
cibi in oro, et in or perle gelate,
nevi più che giel freddi i vin spumosi,
fioccano esche novelle e variate,
inondan vari nettari odorosi,
e quindi estinta ènne la fame, e quinci
la sete, tu dolce Lieo, ne vinci.
119Ma le vergini amanti, incerte e liete,
eran ministre intorno a l’alta mensa,
e con gli occhi bevean l’onda di Lete
e giungean nova fiamma a l’alma accensa.
Poneva a i lor pensier rigide mete
Amor, che scarso i suoi piacer dispensa,
Amor, la cui tirannide ha diletti,
e ’l cui giogo è soave a’ cor soggetti.
120Una è tra lor ch’a musici stromenti
sa comandar col plettro e con la mano,
a le cui melodie giocondi i venti
son sempre, e sempre è ’l mar tranquillo e piano.
Stan nel suo volto per amor languenti
i bianchi gigli e l’ostro indi è lontano,
Daria è ’l suo nome, e tien grand’arpa in braccio
ella, affannata d’amoroso impaccio.
121La chioma di costei gira raccolta
parte tra sé, parte tra perle ascosa,
e sottentra e rientra in nastri avolta
con industria leggiadra et amorosa.
Cinque volte s’avolge et ogni volta
una lettera fa bella e pomposa,
et Idro scrive e con tant’arte il forma
che lo scritto par treccia in rara forma.
122E già su ’l nudo petto alabastrino
pon l’arpa, ove de l’or sfavilla il raggio,
e su quell’or, dove il suo sguardo è chino,
vario co’ diti fa muto passaggio.
Poi gli occhi inalza e scioglie un repentino
incerto suon, ch’è d’armonie messaggio.
Alfin snoda la lingua, e vien ch’accorde
il novo canto a le sonore corde.
123Ma duro nodo l’attraversa, ahi lassa,
tra gli accenti canori Amor tiranno,
onde ella dice – Ohimè – con voce bassa
e su le gote i larghi pianti vanno.
Poi l’empio i labri in libertà le lassa
et essa loda il sangue alto normanno,
loda i re dani onde tal sangue uscìo,
e venne onde il suo dolce idol sì rio.
124Loda gli avoli d’Egla, onde i materni
alti principi un chiaro Augusto vanta,
quel che del sommo impero infra i governi
filosofica gloria ebbe cotanta.
Ma le pene scoprir de’ sensi interni
non osa al suo bel sol, mentre ella canta,
le pene cui ’l pallor suo manifesta
e sua chioma in caratteri contesta.
125Ma più che ’l crin, più che ’l pallor l’accusa
l’avido troppo insaziabil guardo.
«La finta in suo cimiero aurea Medusa
vera è per me, s’a l’esser mio riguardo.
Ma come io spio? e come stassi chiusa
la fiamma ond’io mi struggo, ond’io sempr’ardo?»,
Daria tra sé dicea, e pur seguia,
misera, in atto i canti e l’armonia.
126E pur cantando e tacita parlando
del suo ben vari oggetti a gli occhi fea,
or nel volto di lui sua vista errando
giocondo calle e faticoso avea,
or ne la bianca mano ella guardando
dolce veleno in quel candor bevea,
or vagheggiava il crin leggiadro et ora
il piè, ch’anco l’alletta e l’innamora.
127Poi tolte eran le mense, e ’n aurei letti
prendean qualche riposo i duo guerrieri,
ma vegghiavan le vergini, e ’n lor petti
di membranza nutria gli egri pensieri,
e sciegliea la lor donna abiti eletti
per dare a sua beltà pregi più alteri:
pensava ove ir doveva, e potea quale
mercede eccelsa averne e marziale.
128Essa in disparte a quel cristal ricorse
con cui si consigliò già verginella,
quando pria svelò il seno, e tanti porse
aiuti d’arte a sua beltà novella.
Ma poich’ivi di novo i guardi torse,
stette alquanto, e poi sciolse in tal favella:
– Altri vezzi, altri fregi, o dolce antico
di mie bellezze consigliero amico.
129Sposa io non sono, e pur genitrice,
però quell’arte, o specchio, or tu m’insegna
ch’a pudica beltà non si disdice
per prender lui che forse ancor mi sdegna -.
Caldo rubin, mentre ella così dice,
tutto il bel volto suo forza è che vegna,
onestamente ornossi, e ne le vaghe
orecchie appese alfin due perle maghe.
130Una di queste entro i pensieri spire
di face marital pudico ardore,
e seco è Castità, per cui sospira
sol d’Imeneo sotto il bel giogo il core.
Ma per virtù de l’altra altr’arco tira,
quello pur santo e venerando Amore,
quello che riverenti i figli rende
verso le madri, e ’n santo ardor gli accende.
131De l’una fia per Egla alto l’effetto
né più per Egla vuol divin consiglio.
Lei mai non fia che vegga il suo diletto
et ella meneralli il sì gran figlio.
Misera, e pur volgeva con diletto
in vèr lo specchio a riguardarsi il ciglio,
poich’ambedue l’orecchie ebbe arricchite
con tai maghe d’amor, due margherite.
132Tremavan elle in lucidi ori appese
e tremavan con lor quei felici ori,
e tremando elle in vaga luce accese
scintillanti spargean bianchi splendori,
e de’ bianchi splendor l’ombre distese
ferian del collo i limpidi candori,
i candori del collo, che gentile
avean d’argentei rai natio monile.