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Il Tancredi

di Ascanio Grandi

Canto III

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 27.09.15 11:35

ARGOMENTO
Piangon le vaghe; al mar scilleo fa incanto
e va col figlio in Francia Egla in poche ore;
di Boemondo e di Tancredi il vanto
questi ascolta, e ’n gran giostra ha ’l primo onore.
Ma presso Tile in oceano intanto
soffre tempesta rea suo genitore,
cui dentro aurato velo ubbidienti
un angel porge imprigionati i venti.

Egla prepara una nave incantata, trasporta il figlio e Giosia fino a Parigi (1-31)

1Poiché lasciò lo specchio, Egla fregiossi,
quanto a sposa convien, splendidamente.
Uscì dal gorgo, e tacita fermossi
su l’arena ch’è meta al mar fremente,
et ove i piè frenava, ove eran mossi
ivi l’alga e la sabbia era ridente,
ivi le conche concepir le perle
credi, e raggi produr credi in vederle.

2Anco il notturno sol lampi d’argento
giungeva al sen di lei ch’è d’alabastro,
e parea l’aureo crine incontro al vento
su ’l ciel de la sua fronte un crinit’astro.
Ma vèr le stelle essa col guardo intento
a Tolomeo fea scorno, a Zoroastro,
poi verso l’Aquilon volgea le terga
e ’l suol segnava con possente verga.

3Disegnò con tal verga in su la sabbia
di caratteri pien picciol navigio,
e mosse pura lingua e monde labbia
né fece forza alcuna al regno stigio,
né venne che la luna oltraggio n’abbia,
né che ’n novelle vie stampi vestigio,
ma larghi fur, per maga sì gentile,
celesti influssi in disusato stile.

4E su ’l disegno il disegnato intanto
ella cantando fabricò battello,
e dielli spirto per virtù d’incanto
e dielli corpo d’or magico e bello.
Altro che remi a l’uno, a l’altro canto
mise per farlo andar rapido e snello;
ordìavi altri che vela, altro che sarte
per poi di Tifi esercitarvi l’arte.

5Ella soggetto il suo bel magistero
solo a l’imperio fe’ de le sue voglie,
sì che solo il voler sarà nocchiero
ove costei di gir fia che s’invoglie.
Nol siciliano mar, nol segno altero
d’Ercole tarderalla, e tra le soglie
del suo palagio essa ripose il piede
tosto ch’a l’opra ogni eccellenza diede.

6Ma Cinzia in ocean già s’immergea
quanto esser può rotonda e luminosa,
et a gli iberi omai mezza apparea,
ché mezza dentro l’onde era nascosa,
e ’n Oriente al novo dì cedea
l’alba, e l’aurea d’Amor stella amorosa,
sì che cadea quinci la luna e quindi
sorgeva il sol dal mar de’ lucid’Indi,

7e di viaggio a l’avido suo figlio
Egla facea d’alta partenza invito;
ma volgea al volto d’essa egli il suo ciglio
ove da forza maga era rapito,
pur non guardò quel bianco e quel vermiglio
onde il viso di lei tutto è fiorito,
ma la perla ch’a’ figli infonde e cria
fiamma verso le madri onesta e pia.

8Tutto il sì santo ardor con gli occhi bebbe
bench’un momento ivi con gli occhi bade,
e vèr la genitrice in lui s’accrebbe
l’amor, la riverenza e la pietade.
ma chi pensar non che narrar potrebbe
del costui volto le magie più rade,
le magie di beltà, quelle ch’informa
un lume, ch’a colori è vita e forma?

9Triste ’l seguian cento infelici amanti
verso la aperta e cristallina uscita,
e versando ei beltà da’ suoi sembianti
tenea su l’elsa d’0r le bianche dita.
Ahi non mirando era cagion di pianto
egli con la bellezza sua infinita,
e, sempre vagheggiato da le stesse
vergini, i tolti cor toglieva ad esse.

10E già ’l vedean sopra il battel dorato
con Egla e con Giosia fuor del bel rivo,
misere, e con un rigido commiato
egli partiva dispettoso e schivo.
Chiuse Egla il fiume, e ’n esse entro il serrato
flutto restò ogni senso egro e mal vivo;
«Ohimè», gridaron tutte, e tutte al mare
spinser gli sguardi ove il ruscel traspare.

11Il magico battello esse guardaro
finché per lontananza egli disparve,
allor mobil la terra e v sol non chiaro
et il tutto a costor cangiato parve.
L’alma non può più digerir l’amaro
et è il pensier pien di sgomenti e larve,
et sveno le misere donzelle
e pur i sensi alfin ricovran elle.

12Con disperate poi voglie dolose
ciascuna da colà ratta si parte,
e corron tutte a sfogar l’amorose
loro equali sventure in varia parte.
Altra frange le chiome auree e pompose,
di tesori gangetici cosparte,
altra col pugno dilicato e crudo
offende i bei candori al petto ignudo.

13Altra respira ov’egli stette, e dice:
«Quest’aria entrò in sua bocca, e uscinne fuore?
Aria bella, amorosa, aria felice,
ma tu non tempri il mio cocente ardore;
oh me beata, pur poich’a me lice
spiarti e rimandarti infino al core».
Altra, che mira ov’ei girò i begli occhi,
teme non indi Amor l’arco in lei scocchi.

14Bacia altra de la tazza il piè gemmato
che strinse ei con sua mano, et altra in seno
si mette qualch’a lui pegno involato
di dolce rimembranze ingombro e pieno,
e per lo ben perduto e rimembrato
tra la gioia e ’l timor quasi vien meno.
Ma Daria prese arpa dogliosa e negra,
et unì stridi a suon che non rallegra.

15Fe’ che stridan le corde, e fe’ che dia
ciascheduna di lor concento informe,
et in lutto d’amor lor melodia
converse, e diede al canto amare forme.
L’altre amanti a sì stabile armonia
corsero unendo un ulular conforme
ma l’idol lor da loro in su la strana
magica barca o quanto s’allontana.

16Pensa Egla ad esse, et a costui poi dice:
«Gran beltà dietti il Ciel per altrui pena,
figlio, ma in suo battel tua genitrice
ove più brami a ratto vol ti mena,
e tra poche ore noi, tanto a me lice,
sarem di Francia in su l’illustre arena,
là dove l’ocean la bagna e serra
infra ’l Carro stellato e l’Inghilterra.

17Pur voi con arte addormentar degg’io,
che soffrir non potrian, se fosser desti,
i vostri sensi il ratto vol del mio
battel, ch’i venti fa parer non presti».
Tacque, e i duo per incanto ella sopio,
e lei, quei duo dormendo, indi vedresti
sferzar col cenno quella ond’ella varca
i regni di Nereo mirabil varca.

18Vola il battel su l’acque, e tosto tutta
trascorre di Croton l’onda marina,
e lascia dietro a sé Locri distrutta
e vèr Zefiro il vol piega e dechina,
e giunge dove ineluttabil lutta
fa con se stessa indomita marina,
quivi Caridda a manca e Scilla a destra,
questa latrante e quella orrida, alpestra.

19Pur tal golfo era a l’or più reo, più immane,
ma ben non fu mai sempre ivi Amfitrite.
Fama è che nostre piagge e le sicane
da Dio create fur giunte et unite,
e che poi disserrossi a l’onde insane
la terra infino a’ chiostri imi di Dite,
e ne restò diviso il continente
così culla qua giù sta eternamente.

20Il calabro Appenin da questo fianco
e da quell’altro s’arretrò Peloro,
e trapassò Nereo ceruleo e bianco
tra le due balze ch’un sol monte foro,
poi tra naufrago orrore unqua non manco
dier materia a’ poeti i sassi loro:
qui pianse Ulisse, e paventò sì rea
onda il figliuol de l’acidalia dea.

21Tale il gorgo scilleo, quando il lui venne
su la barchetta sua l’illustre maga,
e frante vi trovò poppe et antenne
ma d’incantar quei rischi ella fu vaga,
né ’l magico battel punto ritenne,
et innocente usò pur l’arte maga,
fe’ che tai flutti rei fosser men fieri,
né qual prima intrattabili a’ nocchieri.

22Disse: «In queste due rive, ov’or fan nido
di gloria in duo bei regni i miei Normanni,
cessi la doppia infamia e ’l doppio lido
tanto orribil non sia ne’ futur’anni».
Tra queste voci essa la dea di Gnido
sembrava in atto di fugar gli affanni,
e spargea da’ purissimi candori
de le mani e del sen gioia e splendori.

23Dolce color d’oriental zaffiro
splendea ne l’odorata ondosa vesta,
ne la vesta che ’n giù si spazia in giro
e su i fianchi gentili angusta resta,
e di Favonio un tremulo sospiro
fea tra l’onde del crin cheta tempesta,
e parea l’aria del bel viso adorno
primavera del mar, pompa del giorno.

24Forte ammiravan le città vicine
vista passar sì degna incantatrice,
et or credeano in lei forme divine,
ora la stimavan di beltà fenice;
stupian ch’al suo passar parea s’inchine
la doppia ivi esecrabile pendice,
stupian ch’allor men cruda divenia
l’acqua crudel per sua gentil magia.

25Però che l’ammirabile valore
del generoso e salutare incanto
scemo rendeva omai quel reo furore
ond’ivi il mar fu insuperabil tanto.
Temprava a Scilla anco il rabbioso orrore
entro lo scoglio cavernoso e frano,
temprava a te, Cariddi, e quel ch’accresci
turbo di mar mentre l’assorbi e mesci.

26Tal d’incanti magnanimi schermito
Egla lasciò quel golfo al germe umano,
e poi con l’uno e l’altro eroe sopito
trapassò l’isolette di Vulcano
e la Sardegna, e scorse indi infinito
pelago ibero e pelago africano,
e varcò le colonne e ’l mar che parte
Europa e Libia al mondo, e d’ambe è parte.

27Poi dentro l’ocean rase la Spagna
veloce più d’ogni volante penna,
mirando ogni sublime ivi montagna
che con sue cime il ciel ferire accenna,
e poi corse altra liquida campagna
lungo la Francia infin che giunse a Senna,
su questo fiume allor con quello altero
suo magico battel prese il sentiero.

28Sopr’esso il regal fiume a la regale
città pervenne, et affrenò sua prora.
Svegliò quei duo baroni, e mandò tale
sermon verso il figliuol de’ labri fuora:
«Figlio, con l’ora quarta appena sale
il giorno, e noi partimmo in su l’aurora,
e già siamo entro Francia ove alcun giorno
dritto è che facciam nobil soggiorno.

29Questo è ’l bel regno ove con alte navi
venner de gli avi tuoi gli avi norvegi,
per cui tu già fanciullo intento stavi
in men, che ne contava i sommi pregi,
et a la bella Italia i tuoi chiar’avi
pur venner quinci peregrini egregi:
questo è Parigi, e ’n giostre et in tornei,
scherzan qui sempre invitti semidei.

30Diporti marziali, e nel presente
giro di sole o qual giostra qui fia,
da l’Alpi di Pirene al carro algente
volò la fama a divulgarla in pria,
e v’ha raccolto il fior d’inclita gente
e parte esser ne dei tu, prole mia:
in sì nobil contesa il tuo valore
deh sia che lieto a me renda il mio core.

31Da presso ti vedrò non vedut’io,
ma tra i gallici eroi ben tu vedrai
alcun di quei ch’a la città di Dio
tolsero il giogo, e gioia e pro n’avrai,
ch’i trofei di tuo padre e del suo zio,
eccelsi in Asia, udir tu ne potrai,
et a te ne farai stimolo e cote,
di sì gran coppia tu figlio e nepote».

Raimondo narra a Idro le imprese del padre (32-53,2)

32Tacque, e ’n terra quei duo scesero, et ella
il magico battel di nebbia avolse,
ma ’l corpo suo, ma sua sembianza bella
per arte maga a gli altrui sguardi tolse,
né resto no, ma del figliuol novella
costei portar dentro Parigi volse,
e finse a sé l’aspetto di Ferondo,
regio scudiero, e corse al buon Raimondo,

33al tolosan Raimondo, in cui guerriera
e fresca vedi ancor l’età matura.
Fu ne le guerre d’Asia e calcò vera
strada d’onor con fama non oscura,
ma con vice regale in Francia impera
e del gallico regno esso ha la cura,
or che ’l re franco a visitare il Santo
Sepolcro è gito in non regale ammanto.

34A costui disse lo scudier mentito:
«Sire, or qui di Tancredi il figlio arriva,
e quegli è desso», et il mostrò col dito,
però che da lontano Idro appariva.
Gran turbe intorno e n’era riverito,
ma favellare a lui nessuno ardiva,
se non d’alcun ch’a le domande sue
di lor silenzi rompitor già fue.

35Raimondo andolli incontro, e ’l seguian cento
de la Senna e del Ren chiari baroni.
Era verso Idro ogni lor guardo intento
tra meraviglie e sublimi sermoni:
di bell’arme vedean raro ornamento
e di natura incomparabil doni,
su ’l fior de gli anni di bellezze il fiore
et amoroso e rigido splendore.

36Ei con Giosia ne vien, ma, visto il conte,
affretta i passi, in vista riverente,
e ’l bel petto a chinar non che la fronte
comincia, ma colui ciò non consente,
et a vietar quest’atti ambe due pronte
le mani ebbe non sol, ma lietamente
con affetto paterno egli abbracciollo
e tal parlò, poiché gli cinse il collo:

37«Tuo padre già fanciul vidi in Nicea,
troppo in quella sua età la tua il somiglia;
così era il volto suo lampa febea
tali sue mani ancor, tali sue ciglia;
così sovente in mia presenza ei fea
l’argentea guancia sua più che vermiglia.
Sol vario sei nel crin: nel tuo riluce
l’oro, e ’n suo capel bruno era gran luce.

38Tu qui giungi improviso, io non so come,
e su nave ei colà giunse volante,
ma tosto ornò le giovinette chiome
col bello alloro a cui l’orror va innante,
che già in doppio contrasto allor fur dome
de l’invitto soldan le schiere tante;
fur due battaglie, e fur queste il primiero
travaglio onde fondammo il sirio impero.

39Né poco io devo a tal tuo genitore,
io nol nego: egli a morte mi sottrasse
entro la città santa, e di vigore
le sue membra in quel punto eran pur casse.
Fu dal circasso Argante, ei vincitore,
ferito a morte ei quando a morte il trasse,
e non ben sano ancor rivestio l’arme
gridi egli udendo, e corse ad aitarme.

40Ma quant’anni un signor tanto fedele
è ritenuto in mar dal Re del mondo?
O giudicio immortal, troppo ti cele,
troppo sublime sei, troppo profondo!
Quanti passammo con destrieri e vele
per tòr di servitute il duro pondo
a la città di Dio, fummo poi tutti
o tra ceppi o tra pene o in rischi o in lutti.

41Io, pensando su ciò, dissi sovente:
– Chi sa perché tai cose il Ciel dispone;
poco veggiamo noi, talpa è la mente
nostra del divin lume al paragone -.
Ma tu, credo, a mercar giungi repente
in regal giostra altissime corone».
Così Raimondo, e ’l giovinetto o tace
o risposte per lui modestia face.

42Ma fermi essi restando erano in parte
ove vedean la piazza ampia e sbarrata,
lo steccato entro cui scherzando Marte
la palma d’alta giostra oggi fia data.
Di drappi d’or l’alte fenestre sparte
vedi, e pioggia di fiori indi versata,
da presso è Senna, e muovon gli Aquiloni
l’insegne e i fregi d’or su i padiglioni.

43In un di questi oh quanto e qual si scorge
ricco lavor di tessitrici sire!
Et egli è grande e così in alto sorge
che sembra ir su le nubi e ’l ciel ferire.
Tal padiglion d’altre parole porge
nova materia di Tolosa al sire,
il qual col dito il mostra e intanto stende
verso Idro i guardi, e così a dir riprende:

44«Figlio, e pur questa tenda opre pietose
del tuo buon genitor membrar mi face,
opre di Boemondo generose
che son memorie di virtù verace,
e che vive saranno e gloriose
finché avrà lampi la diurna face,
finché ‘onda de’ fiumi al mar fia volta,
finché starà la terra, or tu le ascolta.

45A Tarso senza noi mise tuo padre
assedio con esercito latino,
ma tra fatiche invitte e sì leggiadre
usurpolli l’acquisto Baldovino,
né l’offeso a vendetta le sue squadre
spinse, zelante de l’onor divino,
oh fatto raro e degno, ond’ognor pigli
Europa essempio per suoi alteri figli!

46Cesse, e gli increbbe sol ch’eran di Dio
via molto più che sue sì fatte offese,
né lasciò la Cilicia, e forte e pio
anco espugnò Mamistra in quel paese.
Pur, mentre da Cilicia ei non partio,
tra Baldovino e lui seguian contese,
e questa tenda eccelsa sì fregiata
al campo de’ cristiani era mandata.

47Di Baldovino ella al maggior fratello
veniva in dono, e seme era di risse.
Credo che Tisifon col suo flagello
per gir con essa da l’Inferno uscisse.
Già questa tenda un forte e fier drappello
portava allor perché secura gisse,
fin a quel loco ove le nostre spade
impiegava per Cristo alta pietade.

48Ma, benché forti, a portar fu tolto
tosto per forza il padiglion tra via,
d’altri guerrieri in numero più folto
su lo stesso confin pur di Soria.
la tenda altera et ammirabil molto
costoro in val d’Oronte a l’oste pia
dopo più dì portaro, e dono altero
del tuo gran padre al sì gran zio ne fèro.

49Data al principe fu là sotto il muro
d’Antiochia assediata allor da noi,
ma sen turbò Goffredo (ahi quanto è duro
usar virtute ove altri unqua n’annoi!):
per tal tenda costui cinse d’oscuro
l’ammirabil fulgor de’ merti suoi,
s’armò, corse a quel prence, a lui al chiese
importuno, e la man su ’l brando ei stese.

50Ma quei frenò suo generoso sdegno,
né pur gli usi curò del mondo insano,
rischiarò il volto in atto inclito e degno,
e ’n ogni parte fu sommo e sovrano;
poi disse: – Unqua non fia, se mezzo un regno
cesse il nostro nepote al tuo germano,
ch’altre sian mai tra noi risse, o Goffredo,
ma che sento io da te, grand’uom? che vedo?

51Così sciogliamo i voti al Re celeste?
così poniam sua tomba in libertade?
queste le vie di gire al cielo? a queste
mete drizziam nostre pietose spade? -.
Tra questo dir diegli la tenda, e deste
o quant’ire smorzò sua gran bontade!
Di qua, di là correano i duci e ’n due
parti divisi, e scampo a tutti ei fue.

52Poi s’avvide Goffredo, e ’l suo difetto
troppo adornò con generosa emenda:
fe’ de’ principi uniti anzi il cospetto
ch’a Boemondo il padiglion si renda.
Prese Boemondo con tranquillo aspetto,
ma donolla egli a me, l’altera tenda.
Tal si riconciliaro, e tornò intanto
tuo padre a noi col re di Tiro a canto».

53Tacque il buon conte, indi stringean la mano
ad Idro gli eroi franchi e i peregrini,
e una donzella, in cui tenea lontanoRoberta si innamora di Idro (53,3-56)
l’uso de l’arme il vel da’ biondi crini;
in questa sempre tu vibrasti in vano,
Amor, gli strali che ’n begli occhi affini,
però ne’ guardi d’Idro gli arrotasti
per vendetta in quel punto e lei piagasti.

54Roberta è questa, la regale e bella
vergine che ’n aringhi ha raro pregio,
e ne le guerre marzial procella
sembra, e di leggiadria non lascia il fregio.
Amazzone la stimi, e la mammella
destra pur non è tolta al petto egregio,
nepote al re de’ Galli, e in sé non prezza
per la sua gran virtù stirpe o bellezza.

55Ma qual geloso affetto aspro e possente
gran doglie alfine apporteralle e morte?
Strana tragedia a la futura gente
fia la sua strana e lagrimabil sorte,
et or non sa s’ella sia dessa, e sente
dal cor gli spirti uscir per mille porte,
e di costui celesti el parole
crede, e crede il suo volto aurora e sole.

56Et egli ogni donzella, ogni matrona
oltre passando involontario allaccia,
ch’Amor a nulla donna amar perdona
a l’apparir di sì leggiadra faccia.
Tosto qui libertà l’alme abbandona
o se v’è prisco affetto or se ne scaccia,
e s’ode dir su i palchi e su le strade:
«Che luce è questa? e qual nova beltade?».

Raimondo narra dei meriti di Tancredi nella presa di Antiochia (57-81)

57Ma vassi dove splendido apparato
era di mense entro marmoreo ostello,
qual fu presa Antiochia istoriato
in questo albergo avea nobil martello,
e senso e moto ancor par ch’abbia dato
a le figure il dedalo scarpello.
Quivi tra’ sommi eroi sovrano vedi
col zio eccelso in verde età Tancredi.

58Come farfalla al lume e qual s’aggira
la calamità a’ lampi di Calisto,
Idro si volge ove di marmo spira
coppia sì degna in sì famoso acquisto,
vi rimanda il cor, sta senza moto e mira,
tanto è ’l piacer, né respirare è visto;
ma ’l tolosan toccollo, et ei si volse
e quegli verso lui tal voce sciolse:

59«Come fama apportò, già fe’ sculpire
sì degni affanni il re, però vi manca
molto del vero lor, qual puoi sentire
da me, che ’n Asia fui con l’oste franca.
Ma de la fame al natural desire
diamo pria ciò che i membri egri rinfranca».
Sì disse e pena, e i paggi i vasi alzaro,
e ’n giro in su le man l’acque filaro.

60Ebbe Idro a lato al conte eguale et alto
seggio, e seggio anco eguale i cavalieri,
che ’n chiuso campo a glorioso assalto
eran per ispronar forti destrieri;
e già de’ cibi il vario odor va in alto
già rallegra Lieo gli occhi e i pensieri,
già la lingua disserra in chiari detti
le gioie interne e ne percote i petti.

61Ma dopo ’l prandio, il tolosan favella
così a l’eroe, che la promessa attende:
«D’ogni fatto lontan sparsa novella
doverse forme in vari gridi prende.
Quinci, o figlio, l’impresa altera e bella
ch’effigiata in questi marmi splende,
ne’ trofei di tuo padre è scema assai:
or tu m’odi, e virtù n’apprendi omai.

62Grido fu ch’Antiochia unqua non era
per potersi espugnar, se prima a lei
non fosse tolta l’asta santa e fiera
che ferio il Dio che rifiutàr gli ebrei;
e per tal fama, ad essi lusinghiera,
nulla avean tema i difensor suoi rei,
e i nostri assedi e i nostri assalti a scherno
prendeano, anzi di noi fean malgoverno.

63Ciò non soffrì tuo padre, e, senza tòrre
congedo o palesarne ardir cotanto,
furtivo entrò ne la munita torre
ov’era custodito il ferro santo.
Entrò per foro angusto, ove deporre
convenne l’ampio scudo e ’l ferreo ammanto,
la spada no, però ch’egli la strinse
e con due mani innanzi a sé la spinse.

64Era alta notte, eran dal sonno oppresse
el guardie, e ’n lor gelida morte ei mise.
Pigliò la diva lancia, et a le stelle
vie strette e cieche il corpo suo commise.
Mostrossi a noi vittorioso e impresse
stupor ne l’alme in disusate guise.
Ma dopo il santo a lei già tolto acciaro
cercò Antiochia altro fatal riparo.

65Fuor de le mura sue marmoreo avello
sorgeva, e l’ossa in sé chiudea d’Albino,
d’Emiferro cristian fu Albin fratello,
ma fu fedele al popol saracino,
et era fama che potea pur quello
sepolcro ad Antiochia esser destino,
s’unqua in sé il ricettasse, e ch’ella allora
per destin novo insuperabil fora.

66Cassano per tal tomba oro n’offerse,
noi ’l rifiutammo, ond’ei tra schiere armate
poi vi sospinse machine diverse
per tòrla a forza, e rote ampie e ferrate.
Che strage, e quanto sangue vi disperse
nostro e di quelle turbe ivi ostinate?
Mettevan le lor vite esse in non cale
per quel sepolcro che credean fatale.

67Cessando l’armi un dì, da noi si fea
concilio su tal fatto in chiuso loco,
e per comun consenso ognun volea
spezzar la tomba o darla in preda al foco,
non perché credevam ch’aver potea
questa in sé di fatal molto né poco,
ma perché pro stimammo, ancor che vani,
i disegni schernir de’ rei pagani.

68Solo taceva e giù piegava il ciglio
discordante e modesto in giovinetto,
questi è lo stesso eroe di cui sei figlio,
e volgea gran pensier dentro ’l suo petto.
Poi disse: – O duci, a riverir io piglio
quanto da voi qui s’è conchiuso e detto,
pregovi pur che riguardar vogliate
i detti miei, non la mia poca etate.

69Io bramerei che tu pensassi, o chiara
schiera d’eroi, se pregio è di te degno
che non per forza ma per arte rara
preso da noi sia d’Antiochia il regno.
S’a questo consentite, oh quanto cara
fortuna la sua chioma or danne in pegno!
Già per la tomba che disfar volemo
varco securo a l’alte rocche avremo.

70Su l’alte noi potrem rocche salire
se ’n questa tomba imiterem l’inganno,
l’illustre inganno del caval ch’aprire
Troia a’ Greci poteo nel decim’anno.
Pari onor, pari gloria, equal ardire
e molto assai minor tema di danno:
molti eroi s’arrischiaro in quel destriero,
e ’n quest’arca fia in rischio un sol guerriero.

71Però ch’essa non è di più capace
che d’un sol uom, per così eccelso affare,
né uopo è di Sinon l’arte mendace
per giuramenti ancor falsi impiegare.
Sappiam quanto a’ pagani e giova e piace
poter dentro le torri unqua portare
questo sepolcro, ch’è da lor stimato
per Antiochia insuperabil fato -.

72Così parlò tuo genitore, e poi
del gran disegno i modi ei più distinse.
Con stupor lodammo i pensier suoi,
e per modestia ei di rossor si tinse.
– Pur chi sarà (disse qualcun tra noi)
che lo stuol ch’ad aprir Troia s’accinse
voglia emular dentro una tomba? -; ed esso:
– Io, se voi no ’l vietate, io sarò desso.

73O fortunato me, s’io non trovassi
emulo di più merto a tanta impresa,
o me felice in quei funerei sassi
se da me così eccelsa opra fia impresa,
non perch’ad altre età mio nome passi
e ne sia con onor mia fama intesa,
no no, che ciò non cor, e sol bram’io
far caro a Cristo o ’l ferro o ’l sangue mio -.

74Percosse i cori e provoconne a pianto
con tai voci il garzon forte e sì invitto,
e nel volto di lui leggiadro e santo
vittoria leggevam quasi in iscritto,
ma ’l principe, o ch’a sé volle quel vanto,
e che tal su le stelle era prescritto,
ritenne il gran nepote e d’esso in vece
nel sepolcro d’Albin chiuder si fece.

75Era alta notte allor ch’ivi fu posto,
talché non vider nulla gli assediati.
D’Albin pria l’ossa indi togliemmo, e tosto
che ’l sole uscì, spiantammo gli steccati.
Marciammo, et in terren poco discosto
opaca selva noi tenne appiatati,
e così noi colà, finch’andò il die
poi sotto il mar per le celesti vie.

76Ma l’assediato re tosto che scerse
noi dipartir, non indugiò un momento,
ben noi il mirammo, e de la rocca aperse
gli usci, e portò colà quel monimento.
Di barbaro gioir voci diverse
sentimmo il dì, ma poiché ’l dì fu spento
seguì cupo silenzio, e noi, le schiere
movendo allor, celammo le bandiere.

77Giungemmo a mezza notte appo le mura
col campo a tergo, taciti e sospesi,
e segni dal castel tra l’aria oscura
il tuo gran zio ne fea per cifra intesi.
Uscito era da l’arca, e l’armatura
splendeali in dosso, i gravi usati arnesi;
le guardie ancise avea, ma in nostri petti
nascevan repentini oh quai sospetti.

78Ah noi sospettavam che prigioniero
ei fosse de’ nemici, ancor che sciolto,
e che temendo scempio atroce e fiero
fesse quei segni a libertate ei tolto.
Incerti, e sotto muto atro emisfero
concilio facevamo in cerchio folto,
né le scale ergevam, ma intanto in fretta
suo nepote alta scala avea già eretta.

79O sangue generoso, allor per quella
scala ch’alzò il nepote il zio discese,
e n’affidò con inclita favella
e magnanimamente ne riprese,
e per lo stesso calle a la sì bella
gloria furtiva innanzi a tutti ascese,
e su i famosi muri le normande
insegne affisse ei, glorioso e grande.

80Tal fu da noi presa Antiochia. Or mira
quanto ciò varia in questi intagli, o figlio».
Così il buon vecchio, e ciaschedun raggira
vèr la scultura poi giudice il ciglio;
Roberta no, ch’amor suoi sguardi tira
l dove il cor di lei sta in dolce esiglio.
Ciascun guarda gli intagli, ella infelice
guarda il bel che la strugge, e tra sé dice:

81- Se m’abbatte costui solo co’ rai
de’ suoi dolci occhi, e serva sua può farmi,
ohimè, che fia s’egli avverrà che mai
meco egli venga al paragon de l’armi? -.
Così costei, ma discorrendo omai
gli oricalchi scioglieva sonori carmi,
et egregi e magnanimi timori
forte scoteano a’ cavalieri i cori.

Giostra dei crociati, Idro mette in fuga il misterioso Torrismondo (82-128)

82Poi questi si traean verso le tende,
più che pensar si può ricchi e pomposi.
Con la ricchezza nobiltà contende
e gli occhi altrui da stupidi e gioiosi.
De gli anni il primo fior ne’ paggi splende,
son gli scudieri scelti e vigorosi,
e l’abito diverso e de le lingue
il vario suon le nazion distingue.

83Passano a stuolo a stuol finti nemici
con regolati e debiti intervalli.
Son le divise porpore fenici
miste co’ lampi de’ miglior metalli.
precedon trombe di battaglia altrici
accinte a rincorar gli aspri cavalli;
briglie gemmanti, e su dorati arcioni
ciascun col suo drappello, eroi campioni.

84Così quando sotterra i dì gelati
manda, e sormonta a miglior segni il sole,
diversa moltitudine d’alati
irsene a schiere in altro clima suole,
per colori e per piume divisati
tutti, e squadra anzi squadra avvien che vole,
sembran nubi pennute, e i naviganti
stupiscon su gli eserciti volanti.

85Ma già in sua tenda a l’ampia sbarra a fronte
dopo un ungo girar ciascun si pone,
e mette uniti di Tolosa il conte
Idro e Giosia nel proprio padiglione,
in quel che da Nicosio a val d’Oronte
invan fu già mandato al pio Buglione,
giudice ei siede, e vanno in questa e ’n quella
parte pomposi i regi araldi in sella.

86De’ sublimi palagi i merli e i tetti
copre il volgo, et ondeggia in su ’l terreno.
Gli eroi togati in palchi alti et eletti,
ogni loco miglior le donne han pieno.
Risplende a queste ne’ superbi aspetti
di sangue e di beltà lume sereno;
ciascuna d’esse arso ha mill’alme e infiamma,
misere, or tutte lor solo una fiamma.

87Versare elle in altrui doglia e tormento
soleano, e gli altrui prieghi a sdegno tòrre,
e fan colonne or con le man d’argento
a le guancie, in cui lago il pianto scorre.
A pena alzar il ciglio hanno ardimento
vèr la tenda ove l’alma egra sen corre,
là dove il bello eroe stassi rinchiuso
che tanto in lor tosco amoroso ha infuso.

88Più volte intanto raccoglieano il fiato
le trombe, e ’l discioglieano in chiari canti,
e s’appendeva innanzi a lo steccato
scudo ch’a quelli stuoli andò già innanti,
et in cui s’attenea foglio vergato
che contenea la legge de’ giostranti:
era la legge lor ch’i nomi d’essi
scritti sian tutti, e dentro un elmo messi.

89E che ’l primier ch’ivi sortito sia
la sbarra occùpi e difensor ne resti,
e, vinto, ei ceda et in sua vece stia
chi ’l vinse, e ceda ancor se vinto è questi.
Ma che di spada ognun tre colpi dia
e prima una sol asta al corso arresti,
e sol rimanga alfin, letto ogni nome,
l’eroe vincente a coronar le chiome.

90Ma senza indugio alcun tutti in minute
carte gli scelti nomi eran notati,
e posti entro elmo aurato e, non vedute
le carte, erano i brevi indi agitati,
il giudice ivi intento e intorno mute
le trombe e muti i popoli adunati,
e con semplice mano un pargoletto
le sorti omai traea fuor da l’elmetto.

91Il nome di Dudon primo si lesse,
libero questi è principe germano,
e vanta d’avi ancor serie che resse
l’imperio che ’l Germania anco è romano.
Costui sopra un destrier che parve avesse
alati i piedi, uscì senz’asta in mano.
Sonaro allor le trombe, e disserrarsi
la piazza allor fu vista a’ suoni sparsi.

92Dudone il suo caval mover fe’ lento,
piegar poi ’l fe’ il ginocchio e no ’l sospinse,
poi ’l fe’ sembrar tra presti giri il vento
e grave in vèr la sbarra alfin lo spinse.
Aurea lancia in questo ultimo momento
lo scudier mandò in alto, et ei la strinse.
Ripasseggiò l’aringo,e poi fermosse
nel loco che fu eletto a le sue mosse.

93Da l’elmo de le sorti usciva intanto
un altro breve, in cui fu scritto UMBERTO.
Questi ne’ tornea menti ha raro vanto,
questi è figliuolo al belgico Roberto,
et è prestante in armi et altrettanto
il rende altero il gran paterno merto.
Già in campo il vedi, e sembra in aureo arcione
l’imagine stellante d’Orione.

94Crolla l’asta pterna egli e vi guata
e dice: «O lancia, onde già tolse il mio
padre il reo giogo a la città sacrata,
e popolo atterrò barbaro e rio,
empimi oggi d’onor, s’a glorie usata
tu somme e s’additato or ne son io».
tra questo dir sonò ogni tromba, e punto
il fianco a’ duo destrieri fu su quel punto.

95Spronò Dudone e spronò Umberto, e pronti
indi a piegar le lancie ambi due foro,
e corsero a colpirsi in su le fronti
e vomitò faville il colpir loro.
Immobili sembràr cime di monti
le teste che d’acciaro arman costoro,
ma lasciaro le lancie i cavalieri
e, stretti i brandi, svolsero i destrieri.

96Pur l’elmo di Dudon non resse il grave
colpo de l’asta belga e balzò sciolto.
In riguardarlo ei teme e stupor n’have,
qual se fosse entro l’almo anco il suo volto;
gira il brando, e pur l’elmo ei mira e pave
ma l’avversario il pregio omai gli ha tolto.
Ei parte vergognoso, e de la scena
Umberto vincitor calca l’arena.

97Pien di gioia tre volte egli i destriero
tòrse in rapido giro e tre frenollo,
e tre balzar in aria il fe’ leggiero
e tre tornar colà donde spronollo.
Alfin nel loco che ’l german guerriero
vinto dianzi gli cesse egli fermollo,
riprese l’asta, e tosto da la sorte
scelta du contro lui la donna forte.

98Roberta in folgorante e ricco arnese
venne, ma l’alma avea torbida e trista,
e gli atti erano tai che fean palese
chiusa ne l’elmo la dogliosa vista,
misera, et ella i guardi non distese
verso la sbarra dove onor s’acquista,
ma verso il padiglion del suo bel vago
e fu il ciglio di guardar, di pianger vago.

99Alfin si scuote, e volge gli occhi dove
entro il campo di Marte altri l’attende,
e cui con gli occhi e con la mente altrove
di man de lo scudier la lancia prende,
ma non oblia sue generose prove
e crolla l’asta, e l’aria se n’accende.
Sonan le trombe e, rimbombando Senna,
vien quinci e quindi alta arrestata antenna.

100Colpì l’elmo d’Umberto la donzella,
e oppose a l’asta belgica il suo scudo,
e restò quasi immobile alpe in sella,
e fe’ crollar quel forte al colpo crudo.
Strinsero allor gli stocchi et egli et ella,
e tonò, scosso, il doppio ferro ignudo,
ma se ’l belga cedeva, ella gli svelse
il cimiero, e doppiò sue glorie eccelse.

101Verso la tenda sua calca la strada
Umberto, e ’l pregio a la guerriera cede.
Ella nel fodro la fulgente spada
chiude e l’antenna a lo scudier già chiede;
poi drizza del cavallo, e più non bada,
con quella mano in vèr le mosse il piede,
e guarda pur vèr l’amoroso altero
padiglione e ’l penetra col pensiero.

102Ma su quel punto il nome di Giosia
scelto allor da la sorte era già letto,
e tosto poi la tenda alta s’apria
ch’a gli occhi di quest’egra è dole obietto.
Il duca d’Atri in terso arcion n’uscia,
il duca a l’idol suo caro e diletto.
Ella tremò, però ch’egli con presta
mano metteva oh qual bell’asta in resta.

103Questa è la lancia d’Idro, opra immortale,
che sparge lampi non più visti in terra.
Vi s’abbaglia la vergin marziale
e’l cor ne sente alta amorosa guerra,
misera, e più di gloria non le cale
e ne l’asta gentil vaneggia et erra;
vi vaneggia con gli occhi e con la mente
e rapir gli egri spirti indi si sente.

104Pur sonando le trombe arresta anch’essa
la salda antenna et oltre si sospinge,
ma di guardar però mica non cessa
la lancia che quel duca abbassa e stringe,
e non difende, ah misera, se stessa
e di pallor di morte si dipinge,
e mal dopo la giostra il brando impiega
ah così gli occhi ella in quell’asta piega.

105In tal modo fu vinta, e gran stupore
lasciò de’ riguardanti entro il pensiero.
Pur Idro sospettò l’occulto amore
di tanta vaga et internossi al vero;
ei spesso in questa un subito pallore,
un rotto suon di voci o non intero
avea visto, avea udito, e s’era accorto
del troppo avido sguardo e troppo accorto.

106Or tal guerriera invitta, che solea
in campo semidei lasciar perdenti,
e che franca sembrò Pentesilea
spesso in Parigi in alti torneamenti,
esser vinta (chi ’l crede?) anco godea,
gli imperi in lei d’Amor sì fur possenti,
gode esser vinta e non dal braccio amato
ma dal braccio in quell’asta rimembrato.

107A Giosia d’altra parte altra vaghezza
i sensi per onor trastulla intanto:
ei crede che sua forza e sua destrezza
abbia tolto a la donna il pregio e ’l vanto,
ma non dura qua giù ciò che s’apprezza
e gli estremi del rio ingombra il pianto:
oh qual campion in lui scelto dal caso
ere in quell’elmo ch’a le sorti è vaso?

108Questi è il guerrier cui non potria nel mondo
(s’Idro se ne togliesse) uom pareggiarse,
congiunto anco per sangue a Boemondo
ma in vista di pagan pur dianzi apparse.
Reccardo è ’l nome suo, ma Torrismondo
da’ suoi scudieri e paggi ei fa chiamarse,
e con gli stessi arme mentendo e voce,
barbaro sembra in su ’l destrier feroce.

109Quivi or l’affida regia fe’, ma ’l rende
securo la sua destro ove andar voglia,
e qual l’uso de’ Turchi, al fianco appende
ritorta spada in su la ferrea spoglia,
e candide su l’elmo attorte bende
in forma di diadema avien ch’accoglia;
armato è di gran lancia, e pur ha carco
di gran faretra il tergo e di grand’arco.

110Con un purpureo vel lo scudo serra
e l’insegna de gli avi in lui nasconde,
e robusto di membra, alto da terra
sta su ’l cavallo, e fiero orror diffonde,
e non minaccia simulata guerra
ma strage e dentro i cor ghiaccio infonde,
salvo che ’l vedi (e pur tremendo in atti)
osservar de la giostra il modo e ’l patto.

111Or questi omai ne la sbarrata chiostra
entra, e nodosa trave in resta pone,
e contro il duca d’Atri ei sembra in giostra
contro tauro african mauro leone.
Ben Giosia forza et arte e valor mostra,
ma nulla val contro sì pro campione,
né giovò a lui l’asta celeste, e crollo
ei diede, e fuor di sella ognun mirollo.

112Il simulato barbaro trapassa
e del caduto eroe l’aringo ingombra,
e terror et orror ne’ petti lassa
et ogni appresa speme indi disgombra.
il buon Raimondo tien pensosa e bassa
la faccia, or troppo di rossore ingombra,
e tragger fa da l’elmo i nomi, e ’n questa
colui sta in campo e crolla la gran testa.

113D’Anversa incontro lui pria il conte venne
scelto dal caso a sì gran paragone,
ma la lancia nemica ei non sostenne
e balzò in aria e ’n su voltò il tallone.
Poi molti e molti, e tutti aver le penne
parvero in traboccar fuor de l’arcione
l’un dopo l’altro, e col cavallo giacque
altri sossopra in terra, altri entro l’acque.

114Entro l’acque di Senna oh quai famosi
eroi cadeano allor quivi abbattuti!
Rotti frassini e cerri aspri e nodosi,
et oh quai duci in terra eran veduti!
Et ei terribilmente gloriosi
rendea suoi vanti, e parea far rifiuti
di palme di battaglia non verace;
stupor in tutti, e ’l volgo trema e tace,

115ch’eccelso quanto Olimpo e quanto Atlante
tra ’l chiuso aringo ei sembra ad uom che ’l mira,
e fiero più che per sua via stellante
su i nembi Arturo od Orion s’aggira,
e del cavallo indomito a le piante
fa legge con la briglia, e si ritira
sempre, dopo aver vinto, al loco istesso,
mostrando un fiero cor ne gli atti impresso.

116Così costui, finché le trombe al cielo
il nome d’Idro in alto suon mandaro.
Ma ne le donne omai per novo gielo
impallidia su i volti il lume chiaro:
mise altra il guanto a gli occhi, altra il bel velo,
e ’l viso con le man molte celaro;
vedean già contro un uom fiero et immane
il lor diletto elle, in amor non sane.

117E pur egli in sembiante sopraumano
uscì dal padiglion su ricca sella,
e quell’asta fatal stringea sua mano
cui per guardar cadeo l’alta donzella.
Girò quasi su gli atomi e su ’l vano
de l’aria, et aura parve agile e snella,
e poi spronò, tutti di speme empiendo,
contro il non vero barbaro tremendo.

118Il finto saracin con lancia pari
corse, e tremò la mole ampia terrestre,
qual trema quando irati urtans’i mari
là sotto Calpe, e mugge Abila alpestre.
Co grossi tronchi die non colpi impari
su i fermi scudi le due salde destre,
ma non per le percosse orride e vaste
forati e frante fur gli scudi e l’aste.

119Anzi tai furon gli urti e rintuzzato
sì l’impeto ne fu de’ duo destrieri
che, respinti da questo e da quel lato,
giro i cavalli indietro e i cavalieri.
Lo scudo del pagan restò svelato
(ma non pagan mostrollo a’ magisteri)
de l’insegna paterna: Idro in lui guarda
e voglie indi a cangiar punto non tarda.

120Uom di suo sangue il crede, e tosto in giuso
piega la lancia, e grida: «O tu, che fingi
barbaro volto in barbare arme chiuso,
et insegna non tal celi e dipingi,
quale è tua stirpe? e donde apprendi l’uso
di così altrui schernir? ma perché spingi
te ratto in fuga? Almen dimmi fuggendo
tuo nome, o pur tocca la man ch’io ti stendo».

121Ma quei più per tal voce affretta e punge
il corsier, è risponde e si dilegua,
et ogni suo scudier i ricongiunge
con lui che fugge, e le sue fughe adegua.
Idro ritorna alfin, poiché no ’l giunge,
né dritto è pur ch’involontario il segua;
ritorna a difensar il campo, dove
fe’ il mentito pagan l’eccelse prove.

122Ei sospinge il caval in corso e ’n ruote
qual lampo che da’ nembi si discaccia,
qual lampo ch’ove a l’aria il sen percote
lascia di raggi luminosa traccia.
Batte il popol le mani, et indi scuote
suon d’allegrezza, e nullo avvien che taccia.
«Idro «gridar si sente, «Idro «ridice
eco de l’altrui voce imitatrice.

123E ’l sì bel nome a le novelle amanti
rimembrava più dolce in mezzo a’ cori,
e colorian di gioia i bei sembianti
queste, e sentian più caldi i novi ardori,
et egli a gli occhi loro diletti e pianti,
et a gli eroi recando alti stupori,
mostrava quanto può, quanto comparte
giunto con Citerea l’astro di Marte.

124Fermossi, e contro lui la sorte eletto
tosto il buon sir d’Angioia ebbe primiero.
Fra gli altri eroi questi è guerrier prefetto
ma d’Idro a paragon poco è guerriero.
Se n’avvide l’invitto giovinetto
e pregio umil cercò, che fa più altero:
tutta impiegar ei sua virtù non volse,
né l’eccelsa ei però palma a sé tolse.

125De le trombe canore a l’alto invito
ratto spronò quinci egli e quindi il conte,
e trattò, da mille occhi seguito,
l’armi con franca man, con salda fronte.
ma tanto usò del valor suo infinito
ch’ei vinse, e scarso fu d’offese e d’onte.
Francia se ’l vide, e meraviglie n’ebbe
e ’n nove guise Idro suoi vanti accrebbe.

126Poi ricorse l’aringo, e trasse il brando
egli più volte, e pur co’ modi stessi,
e, i cavalier di cortesia aggravando,
lasciò d’onor sommi vestigi impressi.
Vincea con maggior gloria or meno usando
arte di spada ei ricolpendo in essi,
or men composto il busto et or men dritta
portando, or salda men la lancia invitta.

127Tal libico leon, quando egli scherza
su l’arsa arena co’ crescenti figli,
la coda onde a’ suoi fianchi egli fa ferza
lento raggira e lento i fieri artigli,
e d’essi il poco ardir n’infiamma e sferza,
e fa ch’ognun di lor baldanza pigli,
finché poi tutti lor, senza lor danno,
ei vince, e giova lor l’industre inganno.

128Parigi applause al vincitor cortese
e ghirlande gli diè, ma in lui rivolte
l’eccelse donne in suo bel foco accese
parean non vive, od a se stesse tolte.
Qui stava Egla invisibile e comprese
quai fiamme entro i lor petti eran raccolte,
e qui, di mal presaga, ella minori
bramò in suo figlio di beltà splendori.

Tancredi incontra tempesta, è salvato dall’Angelo custode, che gli imprigiona i venti e glieli dona (129-144)

129Ma Tancredi, a cui germe sì sovrano
costei sotto il ruscel già partorio,
partito era da Tile, et Euro insano
agitavalo in mar feroce e rio.
Freme contro i suoi pin l’ampio oceano,
come quando l’Atlantite inghiottio,
anzi più molto, e l’onda è tutta gielo
quantunque franta, e ’n nembi è chiuso il cielo.

130Natan monti di ghiaccio e scosse orrende
n’hanno più ognor le poppe e le carine:
or sotto i legni il pelago discende
fin dove è tra gli abissi il suo confine,
or con le navi in su le nubi ascende
e fa in aria muggir l’acque marine,
e quinci intanto l’ultima Gorlanda
da lunge alto rimbomba, e quindi Islanda.

131Disgiunte le giunture, et entran l’onde
per mille vie ne gli sdrusciti legni,
e de’ soldati e de’ nocchier confonde
le strida il vento e di Nettun gli sdegni.
Treman gli eroi su le navali sponde
vedendo ivi la morte a mille segni;
ma ’l forte e pio Tancredi erge a le stelle
gli occhi devoti, e scioglie tai favelle:

132«Padre del Ciel, s’a fin duro ne serbi,
per te in guerra morir perché ne vieti?
Di Babel son prigioni i re superbi,
o noi per te fra i rischi andiam non lieti?
Ma tu, ch’al mondo in casi aspri et acerbi
madre di Dio, l’ire divine acqueti,
tra quest’ire e tra noi, prego, frametti
tuoi prieghi, sempre a lui cari e diletti».

133Così pregava, e quell’empireo messo
che su ’l Libano udio gli alti misteri,
invisibil girava ivi da presso,
ma non temprava i flutti orridi e fieri,
né con quei prieghi allor salia pur esso
al ciel ch’è sopra i mobili emisferi:
sapea il voler divino, e che dovea
una nave inghiottir l’onda aspra e rea.

134E già la nave che mandò Tarento
dischiusa è d’ogni parte, e beve i mari,
e poi nel vasto e liquido elemento
vedi tra l’onde arme natanti e rari,
e, duce tarentino, il vecchio Ergento
vome l’alma e trangiozza i gorghi amari.
Ma quai suoi vanti a lui da morte giunto
tornano a mente in su l’estremo punto?

135Ei troppo amò Tancredi, onde sovente
«In te, «disse «o signor, vive mia vita,
se cadi, io cado, e da l’età mia algente
fia, mentre vivi tu, morte sbandita».
Or ciò ricorda singhiozzando, e ente
che ’l suo spirto apre l’ali e fa partita,
e impara involontario egli a mentire
et a saper senza il suo re morire.

136Ma ’l divin nunzio, a cui l’eccelsa cura
di schermir i Normanni il gran Dio diede,
scaccia de’ nembi rei la notte oscura
poich’affondato questo legno vede,
e molle fa l’acqua agghiacciata e dura
talché in sua liquidezza il mar ne riede,
e ’l tumido oceano d’ogni parte
spiana, e raccoglie omai le navi sparte.

137Et anco i venti che feroci in guerra
fremean d’intorno ei chiama, e vengon essi,
e questi, che crollar l’immensa terra
ponno, quando vi stan chiusi e compressi,
in picciol velo d’or comprime e serra,
e carcere quel vel face a gli stessi,
e per lor varie porte anco e per loro
vari alberghi compon dentro quell’oro.

138Sferico è l’aureo velo, et egli oppone
l’Eoo là dentro al soffio occidentale,
e loca il gelidissimo Aquilone
da l’altra parte incontro al vento australe.
E su l’uscio d’ognun, d’ognuno ei pone
sì ritratto il sembiante e pien di tale
arte ch’ognun par vivo e par che fuore
mandi da la sua bocca i fiati e l’ore.

139Ma veri et aurei lacci in varie guise
fe’ per legar e sciorre i veri fiati,
e per insegnar ciò compose e mise
lettre di gemme in su quei nodi aurati.
L’aria intano su ’l mar rifulse e rise
per gli angelici lampi in lei celati,
e parte di quell’aria ei presse e strinse
e volto umano a sé formonne e finse.

140Si fe’ d’età fiorita, e ’n mano avea
questa de’ venti aurea prigion novella.
Lume di perle il viso suo parea
e parean gli occhi suoi gemina stella.
Pareano le sue man neve rifea
o la via che dal latte ancor s’appella,
quasi Iride eran l’ali e scendean come
liste d’atomi d’or l’auree sue chiome.

141D’argentea e rosea nube eran diffuse
le membra, e ratto al sommo eroe cosparse,
e l’aureo velo, in sui l’are son chiuse,
gli diè tra quello a lui ratto mostrarse,
e da la veste arabi odor diffuse
e dal vestito acciar lampi cosparse,
et anco tale e con sembiante luce
più volte s’era mostro al sì gran duce.

142Riconobbe colui dunque il celeste
difensor de’ normanni, e piegò il ciglio,
e tai voci n’udì: «Su su, fian preste
el vele al vol, più non temer periglio.
Non piace al Ciel che ’n servitù più reste
del gran Guiscardo il generoso figlio.
Ecco in quest’aureo velo, alto mio dono,
tutti accolti e racchiusi i venti sono.

143Discioglili a tua voglia, Eolo verace,
e va dove ti chiama il tuo dovere,
e prendi a scherno l’ocean verace
e le mediterranee alte riviere».
Così gli parla, et anco non gli tace
di quegli affanni le cagion primiere,
le quai dal duce d’ogni empireo coro
su ’l Libano svelate a lui già foro.

144Soggiunse poi: «S’a tanti onori elette
ebbe vostre sventure il Re del mondo,
ben tu potrai questi quattr’anni e sette
chiamar felici, e i ceppi di Boemondo».
Tace, e le parti auree che ristrette
corpo gli fean senza terrestre pondo,
in baleni odoriferi discioglie,
et ei sen cola in su l’empiree soglie.

Tancredi fa rotta verso Londra (145-154)

145I giudìci di Dio Tancredi ammira
e vi rivolge col pensier la mente,
e mentre in contemplarli non respira
ben dentro il cor gioia incredibil sente,
e nel dono celeste anco raggira
sue luci intanto desiose e intente,
poi grida: «O del mio mal dolci et eccelse
cagioni, s’a pro tanto il Ciel le scelse!».

146Ma le gemmanti lettre ove le ciglia
affisa intento omai legge et apprende,
come egli la ventosa aspra famiglia
regga, e la man verso un lacciuol distende.
Lo scioglie, et ecco allor Borea bisbiglia
e n’esce, e l’aria impetuoso fende,
e tutti empiendo de l’antenne i lini
volar su ’l mar fa gli spalmati pini.

147Troppo abbagliate le normanne schiere
per lo splendore angelico restaro,
e pur con voci intrepide e guerriere
«Colco fin da colà, Colco «gridaro,
che tra quel non poter esse vedere
ben esse i detti angelici ascoltaro,
poi ricovrar la vista, e poi su ’l velo
stupian che ’n sé chiudea l’aure del cielo.

148L’avea Tancredi appeso nel maggiore
arbore de la nave alta regale,
e ’l gelido Aquilon che n’era fuore
l’antenne sospingea rapido l’ale,
e già l’orsa maggior, l’orsa minore
sono meno alte, e ’l ciel men boreale,
e già vassi tra l’Orcadi e Norvegia
de gli avi de’ Normanni antica regia.

149De’ prischi avoli re l’aria natia
spira Tancredi, e ne ricrea il suo petto.
Verso il regno britanno indi s’invia,
per penuria di cibo e per difetto;
già da l’antartico asse egli venia
egli del sommo Dio ministro eletto,
visti colà gli Antipodi, che ’l suolo
calcano opposti a noi sotto altro polo.

150Portato nostra fede a quelle genti
aveva, e reso un altro mondo a Cristo,
e mancavano a lui quegli alimenti
onde sotto quel ciel s’ebbe provisto.
Rendea più dì poi d’Anglia gli eminenti
liti, ove eterno aspro candore è visto,
qui su le bocche del Tamigi accolse
le vele, ove gittar l’ancore volse.

151Nobil fiume è ’l Tamigi, e per lui vassi
dal mare a gran città che Londra è detta,
e che mediterranea e regia stassi
per trono lor da’ re britanni retta.
Ma tu, ch’or l’uomo inalzi et or l’abbassi,
fortuna, a nostro ben mai non perfetta,
più volte hai tra pochi anni il regno inglese
mutato, e pien di sangue il bel paese.

152Matilde or regna qui, la casta e ella
vedova in pace e ’n arme gloriosa,
de’ re di Normannia progenie anch’ella
per valor, qual per sangue generosa.
Ha de l’opre di lei varia novella
Tancredi, et ènne a lui gran parte ascosa;
però non va, ma con molt’oro manda
un messo, e vittovaglia a lei domanda.

153Portan sei navi il messo, e ’l messo è d’anni
carco e di senno, e d’animo è guerriero,
mai non istanco ne’ più degni affanni
e sprezzator de l’ozio lusinghiero.
Questi è ’l già re di Tripoli Giovanni,
del pio Tancredi il fido consigliero,
e queste spoglierassi la vetusta
sembianza e riavrà l’età robusta.

154Ma del carcer de’ venti, il qual fu dato
dal divin nunzio al cavalier sovrano,
per gir tosto colà dove legato
sta del suo genitor l’alto germano,
e del mago battel su cui menato
Idro è sì ratto in su l’ondoso piano,
giunta era fama entro gli abissi, e ’n molto
terror teneane il re tartareo involto.