ARGOMENTO
Nel gran concilio che Pluton raccoglie
più che ’l cauto Sofin, Satan prevale,
e poi con Tisifone apre e discioglie
questi, anco a pro d’Inferno, a volo l’ale,
et Asmodeo vola a l’inglesi soglie
con l’empio suo d’Amor foco infernale,
e Matilde e Tancredi egli n’accende,
et amati et amanti entrambi rende.
Plutone convoca il concilio e chiede il parere dei demoni (1-21,2)
1Tra’ più inospiti monti e più nevosi
de l’aspra Scizia è speco sì profondo
che giunge dove in mezzo de’ gravosi
pesi de l’ampia terra ha centro il mondo,
e disserra a le stelle i lagrimosi
chiostri del duol fin al tartareo fondo,
e trista apre a l’inferno e tenebrata
l’aurea luce del sole ivi non grata.
2Stende colà lunghissima catena
dal polo, e su nel polo avinta resta,
e dietro al tergo a Belzebù incatena
le braccia, e tutta d’adamante è questa.
Così pende quel reo, né ’n tanta pena
la divina giustizia anco s’arresta,
ma lega in lui con simigliante laccio
di due incudini immense il doppio impaccio.
3Da’ suoi piedi una incude a’ nodi appresa
trabocca, e l’altra da le tempie d’esso.
Troppo è travolta la cervice offesa
e troppo è dilungato il corpo oppresso,
ma da l’incude in fra le piante appesa
fugge il terren ch’esser dovria da presso:
ei gli occhi inalza in quel suo crollo eterno
e bieco guarda il ciel sommo e superno.
4I cerchi ov’ei bramò seggio stellato
oh con quant’odio ognor l’empio rimira,
mentre là giuso il tien così legato
il sì strani supplicio che ’l martira.
Scuote d’adunche corna il capo armato,
stende ampia lingua, immensa coda aggira,
membra il ben de’ cristiani, e tra ’l martire
sferza contro costor l’indomit’ire.
5Però con gran furor gli orecchi porse
a le novelle di cui sopra io dissi;
pensovvi sì, ma di consigli in forse
a sé chiamar suoi consiglieri udissi.
Oh che strano senato a lui sen corse,
baroni orrendi, eroi di tetri abissi,
senatori di morte, le cui forme
han forma diversissima, difforme.
6Ad alcun chiome no, ma rei serpenti
si disnodan su ’l collo e versan foco,
e quasi antropofago alcuno i denti
affige in uomo che gemendo è roco.
Altri il suo petto apre in fornaci ardenti
et altri con tre corpi ingombra il loco,
altri, quasi cometa, orribil vampa
di formidabil occhio in fronte stampa.
7Le ciglia altri ha su ’l tergo, onde mal scorto
mai sempre inciampa, e le sue pene accresce;
altri ha tarpati i vanni e camin torto
fa mal volando, et a se stesso incresce;
altri chimera, altri centauro è scorto,
altri in sé l’uomo e ’l bue confonde e mesce,
altri altrimente doppio avien si mostri,
cinge altri il fianco di latranti mostri.
8Sì fatti consiglieri intorno stanno
al rege lor sì stranamente appeso,
ma le voci di lui voce non fanno
per lo doppio che ’l crucia orribil peso.
Geme, e romor di tuono i gemit’hanno
tra negro lampo entro sue labbia acceso,
e con quel tuon chiamò pur dianzi quivi
questo Giove infernal gli empi suoi divi.
9Or come egli scoprì l’empia sua mente
s’egli parole articolar non puote?
Essi trovaro allor, Dio permettente,
com’ei sedendo articolasse note:
sei sono qui, pur de la stigia gente,
mostri difformi e di fattezze ignote,
grandi così ch’Enceladi e Tifei
sariano in paragon nani e pigmei;
10de’ sei, tre s’incurvaro e tre saliro,
de’ tre su l’ampie spalle, e i tre salendo
duo l’incudini alzaro, e di martiro
scemaro i piedi a Pluto e ’l capo orrendo,
e ’l terzo se medesmo avvolse in giro
e rotondo offrì seggio al re tremendo.
Il re s’assise, et alleggiato alquanto,
scorse l’ampia sala ad asciugarsi il pianto.
11Restaro ambe le braccia al tergo avinte
ch’al Ciel non piacque ch’altri il disnodasse;
poi, per formar le voci in van sospinte,
la sparsa lingua entro le labra ei trasse.
S’assiser tutti in balze orrende e cinte
di foco, e degne più quanto più basse,
et ei formava poi distinte voci
informalmente orribili et atroci.
12Era il suo favellar qual se l’Egeo
scioglie là tra le Cicladi i suoi stridi
allor che ’l frange aspro Aquilon rifeo
e fin al fondo apre i cerulei nidi,
o quando i lacci suoi scuote Tifeo
qual d’Inarime i mar mugghiano e i lidi,
o qual rumor fa Mongibel se stanco
muta Encelado il destro o ’l lato manco.
13Tremaron l’alme inique e si converse
indietro allor Cocito e Flegetonte,
Tantalo cadde, e dentro il rio s’immerse,
ma per timor nulla gustò del fonte.
Tra’ piè la terra a Sisifo s’aperse
mentre pur carco risalia su ’l monte,
et Ision si svolse e tenne immoto
Caronte il remo, e i fusi inasprio a Cloto.
14Ma voi, menti del Ciel, superne Muse,
che là giù mi guidate, or senza offesa,
e che giungete fregi in non confuse
maniere a l’opra mia fin qui distesa,
fate che da mie orecchie in ciò non use,
la tartarea favella oggi sia intesa,
e che in accenti italici conversa
ella dal vero suo non sia diversa.
15«O nemici del Ciel «disse quell’empio,
«o duci inferni, o stigi semedei,
anzi o veraci del tartareo tempio
sotto mia deità temuti dèi,
se voi là suso con eccelso essempio
foste, e poi chiari consiglier qui miei,
non mancate a voi stessi or che feroci
vengono avisi a noi per tante voci.
16Su magico battello Idro sen corre
al padre, e ’l padre oggi è signor de’ venti,
sì che ratto n’andranno ambo a disciorre
quel che ’n Oronte noi fe’ sì dolenti.
Questi tre tutto in Asia a noi ritorre
potranno il dritto de l’umane genti,
ma su tutto m’è grave che Soria
quinci più altera e più invincibil fia.
17Ahi, che quando io rimembro che formato
l’uom con tanta eccellenza in Siria fue,
e che con arte poi da noi crollato
riparò in Siria ei le cadute sue,
tra me mi rodo, e dogliomi, o reo fato,
de le potenze insuperabil tue,
e distrugger vorrei, non che soggetta,
quella provincia aver sì al Ciel diletta.
18Provincia, e questo è quel che più m’affanna,
provincia ne la qual visse e morio,
nata con pregio tal, la figlia d’Anna
che serbò il fior virgineo e concepio.
Provincia dove la salubre manna
pur da costei contro il mio tosco uscio,
e dove anch’ella ripigliò l’intatte
sue morte membra, alme e perpetue fatte.
19Per tal cagione io v’ho raccolti: or l’arte
del senno esercitate e del sermone,
ponete in giusta lance a parte a parte
il tutto, e siasi il vero in paragone.
Ma con parole non d’obbrobri sparte
difenda oggi ciascun la sua ragione,
e i sensi del suo cor liberamente
in chiari detti aprir nessun pavente.
20Io qui sedendo, mentre voi parlate,
faticherò la mente in tal riposo,
non per lodar poi le più voci ornate
n quelle c’han più d’ira e d’orgoglioso,
ma quelle che, tranquille o pur irate,
mostrano il vero e ’l pro chiaro e gioioso.
Consultate prudenti, e n’abbia aita
d’Inferno omai la monarchia smarrita».
21Così il gran mostro, al cui tacer poi resta
l’aer d’intorno orribilmente muto.
Sofin pria sorse, e la viperea testaSofin propone di agevolare i cristiani nel loro successo, così che dopo Dio li punisca per il loro conseguente insuperbire (21,3-45)
piegò due volte, e riverinne Pluto,
Sofin le forme in se medesmo inesta
d’angue e di volpe, et have il tergo occhiuto:
strano a vederlo, e ’l suo difforme seno
pur di palpebre stranamente è pieno.
22Questi è scelto orator, ma rare volte
in quella empia adunanza egli prevale,
ché spesso il crudo re mal vien l’ascolte
e sovente il suo dir posto è in non cale.
Se sempre persoadesse, oh con che folte
procelle sopra noi cadrebbe il male!
Solo nel ciel di ben fu consultore,
né persoase e cesse al grande errore.
23Or quanto io qui n’accenno ei nel pensiero
rapidissimamente allor rivolse,
e per farsi più degno consigliero
indi a’ suoi detti alto argomento tolse.
«O regnato del gran tartareo impero,»
queste le voci fur ch’egli disciolse,
«o ineffabil Giove di Cocito,
ove traggi me tu con tale invito?
24Ma non sia ch’anco indarno oggi io favelli
qual qui sovente et una volta in Cielo;
già le tue pene io giuro e i miei flagelli
che ’l tuo move mia lingua onore e zelo.
I tanti impeti tuoi prischi e novelli,
onde teco a ragione io mi querelo
(al dir tu dai licenza), a te han mutato
in Cielo, in terra e ne gli abissi stano.
25Ben rare volte tu, se pur non mai,
porre ad effetto il mio voler volesti,
al mio negletto dir deh pensa omai
e membra se ruine o pro n’avesti.
Ricordati là su quando i bei rai
del chiaro sol sotto i tuoi piè tenesti,
e sorgevi sì eccelso, ahi pria che noi
spiegassem contro il Cielo i segni tuoi.
26Ricordati che dissi allora, e i miei
detti s’ebbero il ver per fondamento:
sì persoaso avessi, come in rei
ceppi or tu non vivresti e noi in tormento!
E bench’altro bramar or non potrei
di quel che volli allor per tuo talento,
pur teco ora vegg’io, quasi in ispeglio,
il gran perduto inestimabil meglio.
27Dissi, dissi là su, ma ’l dissi in vano,
dissi che ’n paragon pur si vedesse
s’era incomparabile e sovrano
il poter di colui che poi n’oppresse.
Volea di lunga fune ei porne in mano
l’un capo, di cui l’altro egli stringesse,
e voleva che ’n Flegra o in val d’Atlante
stessim noi poscia, et ei su ’l ciel stellante.
28Diceva che tirando unitamente
noi quella corda allor ben n’apparrebbe
di lui l’onnipotenza, e ch’impotente
la nostra possa appo la sua sarebbe,
però che trarne ei grande, onnipotente
su gli emisferi altissimi potrebbe,
ma tanto, o quanto pur, lui sempiterno
non moveremmo noi, colmi di scherno.
29Dicea ch’anco in un fascio ei trarria insieme
la terra che per sé piomba e discende,
e ’l mar, che tutta la circonda e preme,
il mar che ’n aria anco con essa pende,
e che la terra e ’l mar su le supreme
parti, dove più in alto il mondo ascende,
quanto piacesse a lui così tenendo
mirabil ne sarebbe egli e tremendo.
30S’ei ciò potea, s’effetto tal seguia,
o stigio re, tu non pugnar dovevi,
et io: – S’ei tanto può, veggiam noi pria –
gridava, et a tenzon tu ne spingevi.
Ahi miseri, e ben tosto a noi s’apria
sotto fulmini il ciel tonanti e grevi.
Noi qui cademmo, e re colà su l’alto
restò quegli al cui tron diemmo l’assalto.
31Anzi in Siria discese, e ’l damasceno
luto scegliendo ei raddoppiò nostr’onte:
Adamo ne formò, spirò sereno
lume di vita a quel primo uomo in fronte,
et indi a prati et a verdure in seno
trasportollo in remoto almo orizzonte,
e da un osso di lui, mentre ivi assonna,
con sommo pregio ancor formò la donna.
32Felli reina e re su quanto allora
di visibil creava e di mortale,
e volle che l’Occaso e che l’aurora
empissero di prole alta, immortale.
Solo interdisse un arbore, e che fora
il frutto di quei rami empio e letale
s’ei ne gustasse ad Adam disse, e torse
altrove il piede, e ’l grido a te ne corse.
33Allora tu radunasti il tuo primiero
concilio nel novel tuo regno oscuro;
sai quali allor entro questo aer nero
d’eloquenza infernal contrasti furo,
e sai che col mio dir volava il vero
pur tra quest’ombre assai candido e puro;
ma gli altrui detti a te sproni pungenti
festi, e schernisti i miei veraci accenti.
34Per vincer l’uom già in serpe ti cangiasti
(sciolto eri allora), et io: – Deh non andare;
troppo splendido è l’uomo, ahi tanto basti;
più chiari, se ’l guerreggi, il potrai fare -.
Che mi dilato io più? Gisti e tornasti,
ma sentisti dal Cielo in te piombare
questa catena e queste sì penose
a tua fronte, a’ tuoi piè some gravose.
35Uom poi si fece, ahi l’uom tanto inalzando,
colui ch’a sé simil fatto l’avea,
e se stesso per l’uomo a morte ei dando
l’aprì l’Empireo, ove i suoi fidi bea.
E in tutto il mondo i messi suoi mandando,
l’universo occupò, non che Giudea,
e tornò al Ciel d’umanità vestito,
senza mai più lasciarla, ad essa unito.
36Così in varia stagion seguì quel danno
ch’a te toglier potean nostri consigli,
né per tuo scorno in ciò membro e condanno
ma solo perch’al meglio or tu t’appigli,
ch’esser non può d’errore orma o d’inganno
ove antico infortunio è che consigli;
dunque quei tempi al tempo ch’è presente
fa’ spegli, e intanto al mio sermon pon mente.
37O correttor d’abisso, il cui gran nome
giunge con tema entro i pensieri umani,
e innanzi al cui cospetto, erte le chiome,
anco i dannati oblian lor duoli immani,
grande è tua possa in ver, ma che tu dome
Gieusalem gli sforzi tuoi son vani,
se ’l Cielo incontro lei pria non s’adira,
ma ch’amore e pietà non sia quell’ira.
38Pareva nostro ben quando in affanni
tenea celeste man Tancredi e ’l zio,
e ne gioisti, non temendo inganni,
securo tu, ma tra mio cor diss’io:
– Io quinci temo, e pur non so quai danni;
deh, sia vano e mendace il timor mio -.
Sì dissi, e venne a noi poi rea novella
di là dove non va l’artica stella.
39Udimmo che Tancredi a danni nostri
pur con l’ali celesti era intromesso,
tu sai per quanto effetto, in quelli chiostri
ove ’l pregio d’Adam restò depresso,
e ch’ancideva in ocean gran mostri
egli già infaticabile, indefesso;
ma forse ciò non curi, e sol tu brami
abbatter di Sion gli alti reami.
40E però vuoi che ’n libertà mai posto
non sia Boemondo, e quinci i tuoi lamenti,
et io contra pesar col riso opposto
voglio i tuoi pianti, o stigio re, deh senti:
smarrir sembro il sentier, ma sì m’accosto
al segno ch’io farò lieti e ridenti
in ciò tue voglie, o re d’eterno pianto,
sol che tu il bene altrui sostenga alquanto.
41È mio parer che quando il Ciel percote
i fidi suoi, noi fraponiam lo scudo,
che quelle scosse di pietà non vòte
inver non son, né quel colpire è crudo,
e che poniam costor sopra le rote
de la felicitate anco io conchiudo,
allor che dal Dio lor con dolce aspetto
son visti, et approvo io così il mio detto.
42Certo il Dio loro a questi unqua non dona
tanta tranquillità che loro offenda,
e lor persegue poi, non ch’abbandona,
quando avien che superbi il ben li renda.
Oh come di là su lampeggia e tuona
l’ira, ove d’essi il mal oprar l’accenda;
Italia ancella sai, sai in Babilone
sotto aspro giogo i figli di Sione,
43dunque or che ’l Cielo usa sì pio tenore
co’ suoi siam pronti a secondarlo noi:
Tancredi abbiasi i venti, e tra poche ore
accolga anco il figliuol su i legni suoi,
anzi porgiamo ad ambo alto favore
per scioglier Boemondo, et i tre poi
trovin con nostra aita ampio tragitto
a glorie, e vincan l’Asia e ’l chiaro Egitto.
44Troppo magnanimi essi, essi faranno
de gli acquisti a Sion ben larga parte:
sommo ad essi et a lei verrà poi danno,
già l’aiuto del Ciel veggio in disparte,
che gli agi e gli ozi in lor sol nutriranno
Venere e Bacco, e scaccieranno Marte,
e l’Umiltà abbattuta e posta in seggio
la Superbia ivi fia, fin da qui ’l veggio.
45Son d’iniqui pensieri irrigatrici
le ricchezze accresciute oltre misura,
e le voglie empie e ree son genitrici
d’opre nefande entro possenti mura,
e l’opre inique son provocatrici
de l’ira eterna: adunque tu procura
adempir quanto io dico, et indi aspetta
dal Ciel contro i suoi fidi a te vendetta.
Satan si oppone, consiglia un piano immediato d’azione su due fronti: Plutone segue il suo parere (46-69,6)
46Sofin qui tace, e poi nessuno ardia
porsi in aringo di sermon con esso,
e sue parole e sue ragion stupia
il cor di tutti, in lor sembianti impresso.
Intanto il re d’Averno in sé ruggia,
e non fea ’l suo voler ne gli atti espresso,
ma già Satan sorse da l’arso soglio,
e favellò pien d’ira e di cordoglio.
47In giù tigre è Satan, in su leone,
e di sulfurea ferza arma l’artiglio;
ei con furor favella, e mentre espone
sua mente, a gridi, ad onte ei dà di piglio.
A’ detti i Sofin sempre ei s’oppone,
spesso gli applaude l’infernal conciglio,
e con doglia Sofin chiamare il suole
“Scoglio de le ragion di sue parole”.
48«O stigio regnator, «gridò costui,
«e voi sì grandi o consiglier demoni,
che tenta oggi Sofin co’ detti sui?
e quanto egli fallaci usa sermoni?
Ma gli alti inganni io scoprirò di lui,
e librerò col ver le sue ragioni;
dirò senza oltraggiar, temprando il mio,
poiché ’l comandi, o re, furor natio.
49Ma però che da lunge eccelsa ei tira
materia, e ne fa base a sue parole,
anco io convegno, ovunque egli s’aggira,
girarmi, e pria su la celeste mole.
Certo insoffribilmente egli delira
mentre vincer d’ingegno ognor ne vuole,
e mentre i suoi concetti orna e colora
sì con quell’arte onde il parlar s’infiora.
50Qual paragon volea che ’n Ciel si faccia,
ei cauto, ei vil? dove traeva noi?
A non mostrar mai sempre invitta faccia,
a non portar tant’alto i segni tuoi.
l’opra d’onor, che mai non fia si taccia,
in tutti gli anni e là da gli anni poi,
ove saria per suoi consigli? Oh quanto
toglier cercava al tuo nascente vanto!
51L’origine de l’uom poi loda e pregia,
e ’l giudicio egli più de la sua mente,
e i detti suoi ma te punge e dispregia
ch’ad Eva andasti allor volto in serpente.
Dice i tuoi mali, e ’l suo parlar ne fregia,
e gode e oh come infinge esser dolente,
e di nostre sventure alti egli face
rumori, e ’l nostro ben invido ei tace.
52Tace che mentre tu serpe ti festi
tu l’uom ch’era immortal spingesti a morte,
che ’l colmasti di pianto e che chiudesti
del doppio Paradiso a lui le porte.
Né noca a noi che quel Re de’ celesti
voluto abbia per l’uom cangiar sua sorte,
e se stesso avvilir, né invendicati
unqua già noi, se fur contrari i fati.
53Ma forse sempre, o re de’ tetri chiostri,
gli alti consigli suoi tu non curasti?
Ahi spesse volte posponesti i nostri
a’ suoi, sia con tua pace, e spesso errasti.
un te ne sceglio, e uno quinci si mostri,
quanto de’ suoi pensier son vani i fasti;
rammenta, (io so co’ detti anco menarti
lunge, ma non so falso il ver mostrarti),
54rammenta quando in Roma il così grande
dono a Silvestro Costantin già feo,
che cangiar de’ martiri le ghirlande
con auree mitre il Vatican poteo,
rammenta per dannar quasi esecrande
le costui voci et il parer suo reo,
rammenta (oh per vergogna ei piega i lumi!)
quai di falsa eloquenza ei versò fiumi.
55Ahi dienne a diveder (e n’addolcia
il molto mel di sua facondia intanto),
ahi dienne a veder ch’esser dovria
seme di mal, dono sì eccelso e santo,
ch’indi mendica la virtù n’andria,
troppo arricchito indi il papale ammanto,
che cadria il tron di Piero e fora a Piero
ribella indi ogni mitra et ogni impero.
56Stolti, tal da costui noi persoasi
non andammo ad opporne a sì gran fatto?
et or speriam qual ch’ei predisse, quasi
debba cader ciò che più saldo è fatto?
ori, ostri et arme, ahi tai di Pietro i casi?
così il suo trono a precipizi è tratto?
suo tron vallato di virtù, suo trono
cui servi i regni e i pastorali sono?
57Dunque, se chiaro appar quanto è mendace
il sermon di Sofin e quanto offende,
così s’a te la sua eloquenza spiace
come se da te in grado ella si prende,
utile a te non paia, né verace
suo dir, che sol sempre al contrario attende,
o de gli abissi ineluttabil fato,
o dio di stigia gloria incoronato.
58Machinator di fole, ove ei ti mette?
ove ti mena a perder senno e vanto?
e qual remoto bene ei ti promette?
e da te il pro vicino ei scevra quanto?
Vuol ch’attendiam dal Ciel nostre vendette
e ch’i fidi del Ciel tu estolla tanto,
Boemondo e Tancredi, e quel ch’avanza
ah su i primi anni ogni mortal speranza.
59Vincan costor l’Asia e l’Egitto, e regno
accrescano a la Siria (ahi chi soffrire
può tai parole?), e poi ’l celeste sdegno
forte s’infiammi per Soria ferire.
Stigio monarca, a consultor sì indegno
chiudi i tuoi orecchi, accogli il miglior dire:
più di duo lustri son ch’alto et augusto
fondaro in Siria i Franchi il seggio ingiusto,
60questo crollar debbiamo, indi a sua voglia
s’inaspri il fato et il destin crudele.
Ma tu nol crollerai, se fia che scioglia
verso l’Eusin Tancredi unqua le vele;
or questi è in Anglia, e noi facciam ch’accoglia
d’amor ei nel suo petto il dolce fiele,
arda egli per Matilde, ella per lui,
e tragga ivi egli in lusso i giorni sui.
61Et anco n’averrà, (poiché veloce
su strana barca il figlio a lui sen corre)
che ’l garzon quel suo indomito e feroce
spirto, ch’ozi et amori odia et aborre,
tempri in molle piacer, ch’a’ figli noce
da’ genitori essempi indegni tòrre;
in età fresca e ’n forme sì leggiadre
vaneggierà col vaneggiante padre.
62In tal modo Boemondo ov’altri il lega
fine non fia per libertà prescritto.
Procura ancor che pace et alta lega
segua a tuo pro tra’ Turchi e ’l re d’Egitto:
così per te punir non ti si nega
i Franchi, e sempre mai mostrarti invitto,
vendicandoti tu con la tua mano,
del tetro mondo o regnator sovrano».
63In questi accenti il fier Satan conchiuse
il suo sermon, ma un susurrar seguio
di voci incerte, torbide e confuse,
sì che un tale rimbombo se n’udio
qual s’ode infra le selve orride e chiuse
de’ venti penetranti il mormorio,
o quale l’ocean non rotto preme
i furor suoi mentre più gonfio freme;
64però che d sentenza eran divisi
i senatori de la stigia soglia,
e parlando co’ cenni anco i lor visi
scoprian l’affetto onde il pensier s’invoglia:
altri verso Satan rivolti e fisi,
altri in Sofin con discrepante voglia,
e nel doppio parer freman discordi
essi in malvagità tutti concordi.
65Ma ’l tartareo monarca entro il più oscuro
seno del cor l’arbitrio suo chiudea,
e ’n questa e ’n quella parte orrido e duro,
fin che tra sé risolse, il rivolgea.
Quando ei parlò tutte serrate furo
le bocche, e queste voci egli sciogliea:
«Ahi lasso, or forse avien che Sofin dica
il vero a comun pro con mente amica,
66pur tu, Satan, mi sforzi e mi costringi,
ad appigliarmi anco a’ tuoi detti audaci,
però con Tisifon vanne e t’accingi
con l’opre i tuoi proposti a far veraci.
Mia vice a te concedo, e ’n Anglia spingi
anco Asmodeo, con l’amorose faci,
Matilde ami Tancredi et egli li,
e questi oblii sue glorie e suoi trofei».
67Così parlò de l’ombre orride et eterne
l’empio tiranno, e bestemmiò il destino,
e de’ labri serrò l’arse caverne
figgendo in esse il dente adamantino.
Applause il suo senato, e le più inferne
grotte tremaro e ’l Tartaro vicino,
e fieri udiansi in rauco suon latrati,
stridi, muggiti, fremiti, ululati.
68Si sciolse il fier consiglio, e ’n quel momento
mancò l’aiuto al re pendente e reo,
ch’ognun di quei sei grandi non fu lento
a sottrarsi a la soma, et ei cadeo.
Piombò la doppia incude, e violento
e grave crollo in verso il centro ei feo,
e la catena in esso e ’n Ciel legata
scosse la sfera altissima e stellata.
69Trasse il suo immenso traboccante pondo
tre volte in giù la machina superna,
et altre tante in su risorse il mondo,
et ei balzava entro quell’aria inferna;
al fin in mezzo al regno atro e profondo,
qual pria, librollo la Giustizia eterna.
Ma la Furia e Satan vèr l’Asia, e versoAsmodeo si reca in Inghilterra, instilla nel seno di Tancredi e della regina Matilda fuoco d’amore (69,7-93)
Inghilterra Asmodeo poi s’è converso.
70Asmodeo è l’alma dea ch’esser la stella
del terzo ciel credeo l’antica etade,
e che dal mar ne la stagion novella
nacque sparsa di raggi e di rugiade,
la dea ch’al carro suo vezzosa e bella
colombe avince e i bianchi nembi rade,
la dea ch’Amor produsse, et ha su ’l petto
ad amorose imprese un cinto eletto.
71Pien d’incanti è tal cinto, e magistero
tutto il trapunge di bell’ostro e d’oro,
ma per tartareo e magico mistero
d’amoroso poter colmò e ’l lavoro.
Ciò che ivi è finto ha forza ivi del vero,
et è cagion di gioia e di martoro,
caro, dolce, diverso, altero e vago
per empie meraviglie oggetto mago.
72Sono le sue figure i risi e i canti
onde è sì molle di Ciprigna il regno,
sonvi i prieghi melati e i dolci pianti
che di stemprano ogn’odio, ogn’aspro sdegno.
Evvi Amor sagitario e de gli amanti
il desio cui ragion non fa ritegno,
e ’l parlar feminil che molce e senza
arte è facondo, e vince ogni eloquenza.
73Pensa Asmodeo por di Matilde al seno
tal cinto in Anglia, et ivi a sé spogliarlo,
e scuoterne amoroso empio veleno
per Tancredi, e sol d’essa uom ligio farlo.
E pensa far mirabile e sereno
il costui volto, e magamente ornarlo,
e lei invaghirne, e tòr ogni primiero
amato oggetto al casto suo pensiero.
74Giunto il demon dove coprian l’aurate
poppe normanne l’arenose sponde,
tosto a sé sue sembianze egli ha mutate
e prende quelle d’Egla, e va su l’onde.
Ridon sotto i suoi piè l’acque calcate
senza che in qualche parte il piè s’affonde;
pareva il mar saldo zaffiro, e snella
moveva ei sopra il mar la pianta bella.
75Vêr la nave regal la larva giva,
empia, a spirto celeste in vista equale,
e con fulgenti rai l’aria feriva
e le prestavan l’aure odori et ale,
e dove sta Tancredi alfin saliva
su per l’aeree vie, non per le scale.
Così la finta maga, e restò innante
al vago suo, qual non gradita amante.
76Tremò, arrossio fingevolmente, e poi,
quasi affidata, ella tai voci sciolse:
«O fior de’ prischi e de’ moderni eroi,
cui ’l sommo d’ogni pregio il Ciel dar volse,
l’arse mie voglie e i casti pensier tuoi
anciser me, quando altri a me ti tolse,
né soffrii più mirar quel fiume donde
fuggisti, e fin di là corsi a quest’onde.
77Qui m’accolse il Tamigi, e basti tanto
a saper di mia vita egra e dolente;
pur nobil fama a divulgar tuo vanto
da varie parti qui giunse sovente,
e ’n mille guise raddolcio il mio pianto
e le mie orecchie, a sì bel suono intente.
Ma il nuovo stato d’Anglia or noto farti
devo, e i vari suoi casi anco narrarti.
78Morto Guglielmo, il re, regnar Roberto
doveva, ch’era al re maggior germano,
e che già di Sion lo scettro offerto
ben rifiutò con non superba mano.
Ei venne, e non conforme al suo gran merto
dispose il Ciel caso crudele e strano:
trovò usurpato il regno, e ciò cagione
fu ch’ei muoia tra’ nodi in rea prigione.
79Errico usurpò il regno, Errico anch’esso
al re fratello, e d’improviso corse
contro Roberto, e ’n guerra l’ebbe oppresso,
e le man generose a i lacci tòrse.
Eredi non lasciò di maschio sesso
Errico, e varia sorte ad Anglia occorse:
vergine figlia a le corone sue
successe, a cui Matilde il nome fue.
80E pur notizia aver tu ben potresti
di tutto ciò, ma il dissi perché unito
col resto va. Già morì Errico, e ’n vesti
brune Matilde alto attendea marito.
De la Germania i re tutti vedresti
correr di sì gran nozze al tanto invito.
D’Errico Augusto, Augusto il figlio Errico
l’ottenne alfin, ma non con fato amico.
81Però ch’ei senza eredi uscì di vita,
e quanto piacque al Ciel godeo la sposa;
di vedovile ammanto ella vestita
non fu minor che ’n gonna preziosa,
e la fama per lei col vero unita
non la tenea poi tra i confini ascosa,
ma ben fu intanto ogni sovran barone
da lei posposto al figlio di Fulcone
82al sì gentil Goffredo, il qual poi visse
breve stagion con lei. Pur a costui
postumi avvenne ch’ella partorisse
duo figli (doppia imagine di lui).
Fine a sue caste gioie allor prescrisse
afflitta, e sepelio gli affetti sui
col morto ultimo sposo; ma di Blesa
corse importuno il conte, e portò offesa,
83Questi l’Anglia occupò, ma con l’elmetto
cangiò Matilde il velo, armò il bel fianco,
et a l’orror de l’armi unio il diletto
costei col volto suo purpureo e bianco.
Tosto ella vinse il conte, e ’n lacci stretto
l’ebbe, e core mostrò virile e franco;
indi scinse la spada, et or in gonna
impera qui questa sì eccelsa donna.
84Ella raccolto have il tuo messo, e ratto
ella a te ne verrà, s’a lei non vai.
Ma tu previenla, e generoso in atto
sciogli le vele e spingi i remi omai».
Tacque, e ’l sembiante d’Egla allor disfatto
sparve, e versò in Tancredi odori e rai
quel mostro stigio, e ’n lui fece un novello
maggio, e più augusto lui fece e più bello.
85Tal avanzarsi indica perla suole
là dove industre man l’oro v’unisce,
e tal diamante se ’l percote il sole
con doppio sfavillar l’aria ferisce.
Tancredi de la larva a le parole
pensa, e d’un non so che tra sé invaghisce,
pensa s’egli andar deggia o se fermarsi
e sente d’alta gioia i sensi sparsi.
86Resta incerto, né sa qual miglior sia
de’ duo pensieri, e pur ripensa e tace.
Ma, non veduto, ivi Asmodeo rapia
a’ cupi mari ogn’ancora tenace;
spingea le navi, ove a se stesso via
vèr l’oceano il gran Tamigi face,
spingea su ’l fiume i legni e feali andare
contro il corso, onde corre il fiume al mare.
87Tancredi allor, così il demon lo spira,
sciolte le vele a ratto vol sen corre,
e tra piani e tra poggi si raggira
sopra il Tamigi, e rapido trascorre.
Va la sua nave innanzi, et egli mira
di Londra omai la più sublime torre,
e tal vista l’alletta, e ’l sen gli molce
e cresce il dianzi in lui concetto dolce.
88Dentro quell’alta torre a la reina
Asmodeo è giunto, e sì le tocca il core
ch’a poco a poco le sue voglie inchina
a lungo oblio d’ogni primiero amore,
e de’ pensier di lei poi fa rapina,
pur non veduto, e gli empie d’altro ardore;
le finge in mezzo a l’alma altero e grande
un bel volto ch’odori e lampi spande,
89il volto di Tancredi, e già n’ingombra
lei d’alto affetto sì ch’ella ne geme.
– Chi ’l mio Goffredo omai dal sen mi sgombra
(dice ella), e qual furor così mi preme? -.
Tra questo dir a le la mente adombra
lo spirto stigio, e fa ch’avampi e treme,
e poi le fa, sì di ragion la spoglia,
cangiar in gonna d’or la negra spoglia.
90Di ricca veste ella s’ammanta, e sposo
bramato et assai degno attender crede,
e troppo irrequieto have riposo,
e troppo in chiuso albergo affretta il piede,
et il non visto suo pegno amoroso
vagheggia ella entro l’alma e mercé chiede.
Non mai furor simil tragica scena
mostrò su ’l Tebro o su l’argiva arena.
91Forsennata apre poi quell’arche dove
vedova chiuse ogn’ornamento egregio,
e tra quegli il bel cinto avien che trove
che di Venere al petto è mago fregio:
tra quegli Asmodeo il mise, et or commove
lei ne la mente, e fa che l’aggia in pregio,
e l’insegna anco l’empio, in essa infuso,
il valor di tal fregio e ’l pregio e l’uso.
92Ahi le fe’ discoprir del casto petto
le nevi, che tenea così celate,
che l’uno e l’altro già dolce e diletto
suo sposo non le vide unqua svelate.
Allor da’ vivi avori (alto diletto!)
a l’aria uscian native aure odorate,
a l’aria inglese, che non giunse mai
ivi a fregiarsi d’argentati rai.
93Nudo restò il bel seno alabastrino
e pose ivi ella intorno il cinto mago,
e l’era innante oggetto cristallino,
specchio gentil, dove ridea sua imago.
Stupio di se medesma, e tenne chino
il guardo poi due volte in atto vago,
e due inalzollo, e sovra ogn’uso belle
vagheggiò in fregio tal le sue mammelle.
Tancredi giunge a corte, banchetta con la regina che gli chiede di narrare dei suoi viaggi (94-118)
94Ma precorrean la fama et improvise
giungeano in Londra le normanne antenne,
e ’n arme altere e ’n fulgide divise
sopra aurea poppa il gran Tancredi venne.
Tra’ duci eroi le piante in terra ei mise,
poiché le navi l’ancora ritenne,
i primi d’Anglia umili ad onorarlo
correano, et al sovran trono a menarlo.
95Volonne il grido a la sua strana amante,
et ella sbigottinne, e quasi svenne,
ch’Asmodeo con più forza il quello istante
toccolle il seno, e freddo smalto fenne,
misera, et ella del gentil sembiante
ch’era entro l’alma, i lampi non sostenne,
et «Ohimè «disse, e spinse la sinestra
pianta, e precipitò vèr la finestra.
96Come quell’uom che peregrin perviene
a città che dipinta in prima ei scerse,
quelle ch’immaginate in mente tiene
forme non trova dal lor ver diverse,
e mentre egli con l’occhio il piè ritiene
stan sue virtuti a rimembrar converse,
e gode in rimembrar e ne le ciglia
mostra ei prevista e grata meraviglia,
97così costei, ma timida e smarrita
mirò lui ch’Asmodei nel cor l’impresse,
misera, e la cagion di sua ferita
conobbe, e ’l reo suo fato anco vi lesse.
E pur da l’empio Amor rinvigorita
la testa ella chinò, né fu che stesse;
scese le scale e del castel su ’l ponte
scontrò l’armata, anzi che vista fronte.
98Amor l’aprì le labra e disse: «Il piede
pon, signor, ne la tua, ch’è mia reggia.
Le cose umane nel tuo volto eccede
l’umanità, né falso è pur ch’io veggia.
Giungi d’Anglia a fregiar la regal sede,
ombra è appo te ciò che tra i re lampeggia,
tu il gran Sepolcro hai liberato, e giunto
tu ad emisfero sei da noi disgiunto».
99Così Matilde, et Asmodeo fa meta
d’essa il bel petto di Tancredi al ciglio,
e col suo cinto il contrastar gli vieta
e di senno il disarma e di consiglio.
Tutte le voglie in un volere acqueta,
gli schermi di ragion manda in essiglio,
e l’affetto primier, figlio d’Amore,
cangia, e d’altra beltà fa servo il core.
100Sì che colui n’oblia Clorinda, e resta
sculta in suo sen questa sì altera vaga,
questa per sé fior di bellezze, questa
cui cresce or leggiadria per forza maga.
Ad aventarli ella è spedita e presta
novella entro il pensier profonda piaga,
e la piaga a saldar, che più di sete
e sett’anni colà sì viva stette.
101Misero, e le sue ciglia il crudo e fello
demon pur volge in quei candor vivaci,
ove il nastro infernal magico e bello
oggetti in suo trapunto ha sì veraci.
Spira il lavoro reo, vibra il quadrello
d’amore, e quai silenzi usa loquaci?
parla il reo cinto, e contro il sì sovrano
eroe nulla sua possa or usa in vano.
102Ei, che cessar dentro i suoi spirti sente
per quel novo piacer sua pena antica,
bench’attonito resti e senza mente
pur così avien ch’alfin risponda e dica:
«Tre volte l’uno e l’altro tuo parente
fortunato per te, di gloria amica,
o magnanima donna, et altrettante
il secol che ti diede al mondo errante.
103Tu fai bella la pace, e tu con l’arte
de la milizia anco il tuo scettro adorni.
Vere voci di te la fama ha sparte,
o nova alba d’onor che ’n Anglia aggiorni».
Così Tancredi, e poscia ella in disparte
il mena in lochi alteramente adorni;
parlan di guerre e di guerriere palme,
ma pascon d’altro oggetti i sensi e l’alme.
104Variamente son cauti, e ciascun chiude
quel che di far palese han somma voglia,
et è più cara ad ambo la vertude
d’ambo per lor beltà ch’entrambi invoglia.
Crescon dentro i cor soavi e crude
le piaghe, e dolce ognor cresce la doglia,
talor si scontran gli occhi, e gli uni e gli altri
schivan lo scontro, imbelli no ma scaltri.
105Ma già il carro del dì gito è sotterra
e la notte e le stelle Espro rimena,
e l’ombra chiude il mar, chiude la terra,
e Londra appresta incomparabil cena:
di preziosi vasi Anglia disserra
ricca copia, e sua reggia ampia n’è piena,
ma più là dove splende in forma altera
molto in sala regal lampo di cera.
106Tela serica e d’or celando ornare
vedi quei muri, e gran figure in lei.
Qui, dentro l’ocean, Britagna appare,
qui di Matilde son gli alti trofei,
qui le sue doppie nozze, or non più care
ad essa, e qui i tant’avi semidei,
e per rami traversi anco qui vedi
lei da’ re dani scendere e Tancredi.
107In questa sala a regie mense trasse
alfin Matilde il peregrin diletto,
e ch’al convito ogni baron restasse,
sia normando od inglese, ebbe in diletto.
Sotto candido lin Cerere stasse
sopra oro in apparato non ischietto,
e ’n altro loco intanto oh quanto odore
sorge da’ vasi in cui de’ cibi è ’l fiore.
108S’assidon tutti, e col suo vago assisa
sta la già donna d’Anglia, or d’Amor serva,
ma poco cibo ella gustar s’avisa
fuor di quello ond’Amor le fa conserva.
Fioccano nobili esche in varia guisa,
Bacco tra nevi avien ch’agghiacci e ferva,
e che spumante in cave gemme assete
prima altrui, che ’n altrui nasca la sete.
109Figli d’eroi, miransi cento e cento
paggi con piene man tornare e gire,
e vòtar e colmar in un momento
le mense, accorti e con gentil servire.
Lieo ralegra i cori, et omai spento
è de la fame il natural desire,
Lieo rallegra i cori, e già ne scoppia
voci ch’intorno a’ tetti Eco raddoppia.
110Ma l’aspetto d’Aulone Asmodeo piglia,
d’Aulone caro a le Muse, e cetra ha in mano,
e canta, e con Amore ei riconcilia
ogn’alma, e l’aspro e ’l dur fa molle e piano.
Canta ei, qual fu tra feminil famiglia
senza la clava il cavalier sovrano,
potenze alte d’Amore, e qual depose
il cuoio del leon, spoglie famose.
111Poi Cleopatra ei loda, allor che questa
sommi nudrio in Egitto itali amori,
poich’a Cesare andò dentro ampia cesta
tutta coperta d’amorosi fiori,
e poiché lasciò il Nilo, e vaga e presta
varcò con tanto lusso i salsi umori,
et in sembianza de la cipria diva
corse ad Antonio in vèr la siria riva.
112Empio, non tacque (e come i suoi concenti
di dolcezza ineffabile condia!),
empio, e non tacque ahi tra l’elette genti
ahi del più saggio re l’idolatria.
Con questi essempi accendea più le menti
de’ regi amanti, e più lor piaghe apria,
sotto forma d’Aulone Asmodeo, e fisse
poi gli occhi in alto, e con gran voce disse:
113«Girate, o cieli, e rimenate ogn’anno
ad Anglia questo dì chiaro e felice,
e tra’ giorni che tornano e che vanno
colmatelo dono quanto più lice,
poich’egli reca al regno empio britanno
d’alta gioia regal speranza altrice».
Così la larva, e tolte eran le mense
ma tu, Amor, i tuoi cibi ancor dispense.
114Stavano i regi amanti allor rivolti
l’un verso l’altro con oblio infinito,
immoti più che marmi eran lor volti
e gli occhi ribevean tosco gradito.
Gli sguardi di Tancredi ahi tien sepolti
là tra due mamme il cinto di Cocito,
e ’l viso di Tancredi or via più vago
è di Matilde a gli occhi oggetto mago.
115Ella vari sermoni a lungo tira
né de l’ore fugaci unqua s’avvede.
Domanda a lui quanto ocean s’aggira
colà donde il dì vien quando a noi riede,
domanda d’Eolo e di Nettun quant’ira
soffrì ne’ nostri mari, e quante prede
mercò col brandi egli ne l’Asia, e quante
volte s’armò il soldan, quanto fu Argante.
116«Anzi le guerre d’Asia ho spesso intese»
soggiunse «e che tenerti in esse a bada?
Ma dimmi tu, dopo quelle alte imprese
quanto soffristi in mar, se pur t’aggrada,
dimmi finché giungesti al mondo inglese
ciò che t’occorse per sì varia strada».
Tacque, e vago d’udir nessun poi gira
gli occhi o move labra o pur respira.
117Ma d’essa al sen magicamente ornato
ei pur mirando, «O gran reina, «disse
«gran tempo uopo è per dir quanto agitato
io fui in due mondi, come il Ciel prescrisse,
e già la notte col temon stellato
divide l’ore al carro suo prefisse,
però, ma con tua pace, or parte io dire
vorrei del tutto e parte differire».
118«Sia qual tu vuoi «colei ripiglia, e questa
voce accompagna ad un atto umile,
e ’n guardar lui come quel fiore resta
che mira i rai del sol per natio stile.
Et egli a lei: «Dunque ad udir t’appresta
quei casi, o donna a te sola simile,
che soffrii là da Calpe: in breve io molta
e varia istoria accoglierò, tu ascolta».