ARGOMENTO
La gran nave regal monte diviene
e ’n altro monte poi Gozo è sepolto.
Rassegna fa l’oste cristiana, e viene
soccorso a lei su trenta navi accolto.
Il tirio re, che gelide ha le vene,
ringiovanisce, e ’l pigro giel gli è tolto,
e tra’ fedeli e tra’ guerrier d’Egitto
duro comincia indi il naval conflitto.
La nave di Tancredi si tramuta in sepolcro per Gozo (1-14,4)
1Gozzo, a te che non eri ancor sepolto
feasi col novo dì gran funerale,
chine l’insegne e l’aste, e ’n ambe avolto
misto a cipresso il lauro trionfale.
Ma tosto altrove ogn’occhio fu rivolto
e s’arrestò l’alta opra funerale,
però che franse i funi e raggirossi
per sé la regal nave e trasformossi.
2Feasi mole marmorea, e non depose
sua forma, benché tutta ella impetrasse,
e fu che l’alte insegne gloriose
fatte d’ispido sasso anco serbasse,
et a l’isola unissi e vi nascose
la prora, et indi mai non si ritrasse,
e qual nave restò che dal mar venga
e giunga al lito et al terren s’attenga.
3Pensa con qual stupor tutti guardando
stan quell’alpe novella et improvisa,
in riguardar quasi da’ corpi in bando
vanno, et ira del Ciel ciascun n’avisa,
ma pur eccelsa profezia membrando,
Giovanni anco in Tancredi i guardi affisa,
piagne, et «Oh sommo duce, «poi gli dice,
«quai cose palesarti oggi qui lice?
4Tra quanto a me già ’l solitario Piero
là nel sepolcro del Fattor del mondo
rivelommi, anco disse: – Ah prigioniero
ne le torri di Colco, ahi fia Boemondo,
e ’l carcer di tant’uom sarà mistero
celeste, investigabile, profondo,
e per sottrarlo a quei servili e gravi
nodi il nepote andrà con cento navi.
5Ma stabilito è su l’eterno regno
ch’anco il nepote in mar soffrisca affanni;
pur la nave regal, ch’eroe sì degno
porterà su Nettun quattro e sett’anni,
naufraga non fia mai con fine indegno,
né fia che ’l tempo a corruzion la danni.
“Malta” fia detta, e cangierà sembiante
et a scherno avrà poi l’onda incostante.
6Bello e pregiato scoglio ella farassi
ad isola pregiata ella già unita,
e Malta dal suo nome appellerassi
tal isola che detta oggi è Melita.
Anco nobil città sopra quei sassi
fia per sorger chiarissima e munita,
città dove avran sede i cavalieri
a cui fian tolti i rodiensi imperi.
7Ma prima donde a Rodi, ohimè, costoro
con onta de’ cristiani? Ohimè, che miro!
Onde verran? Ma non già l’arme loro
non serrerà Melita in picciol giro:
con poca armata infesti al lito moro
fiano, et a gli empi usurpator di Tiro,
e pochi essendo sì, ma scelta gente,
terran tutto in terror l’empio Oriente.
8Or tu, buon tirio re, quando vedrai
quella nave impetrar, ciò non tacere,
ma tutti i nostri mar pria scorso avrai
e diverso ocean sotto altre sfere -.
Non più il profeta, et io nel cor serbai
le sue voci sì sante e così vere,
ma tra me dissi: – Oh da quai parti andranno
tai cavalieri a Rodi? e chi saranno?
9E perché, ohimè, con onta de’ cristiani
a Rodi, onde che sia, faran tragitto?
chi sa se scaccieranli unqua i pagani
da’ regni santi? e ’n Ciel così è prescritto? -».
Tacque il re di Sidon, ma le sue mani
congiunse, e sollevolle il duce invitto,
e rese grazie al Cielo, e poi compia
la pompa al morto eroe funerea e pia.
10Eccelsa su ’l ferètro e larga intorno
in forma è di castel mole inalzata,
e contesta è di cerri e vince il giorno
per pompa d’alti lumi onde è fregiata.
Splende in arnese limpido et adorno
l’essangue, e cinge al fianco e elsa gemmata,
et aurea sotto lui sporge ampia tela
co’ giacinti de gli avi e ’l terren vela.
11Quattro archi ha l’alta mole, et i quattr’archi
spiegan mille trofei del duce estinto,
e reggon essi, d’ampie spoglie carchi,
de’ Farnesi il vessillo in cima avinto,
et ingombrano in giuso i quattro varchi
i sacerdoti in bell’ordin distinto.
Ma vedi a l’alternar de’ sacri carmi
sparsi di pianto i campi e sparse l’armi.
12Stringe al morto la man Tancredi, e preme
il largo pianto e dice: «Adunque morte
invidiò tanto a mie fatiche estreme
tuo valor, tua virtù, tua destra forte?
Tu la milizia impoverisci,
tu ’l bellico splendor teco ne porte.
Tal t’attendea l’Italia? e tale il Lazio
de le glorie de’ tuoi pieno e non sazio?».
13Tacque e baciollo, e dipartissi, e scelse
alto per tomba sua monte marino,
monte cui forse un tempo il mare isvelse
da l’isola a cui troppo egli è vicino.
Questi raccoglie in su el cime eccelse
senza altro intoppo al raggio matutino.
Era allor senza nome, et a lui dato
fu di Gozo in eterno il nome in fato.
14Mentre a tal monte in sen Gozo fu chiuso,
pur diluviavan lagrime le schiere,
e tristo suon le trombe ebber diffuso
e radevan la terra le bandiere,
ma ’l buon re di Sidon, come ha per uso,Tancredi passa in rassegna l’esercito (14,5-49,4)
usava alta prudenza in prevedere,
però al fin di quell’opre ei favellava
al duce, et alto a lui consiglio dava:
15«Dopo trascorso «disse immenso mondo,
sei presso a’ patri regni, al tron de gli avi,
né lunge è la prigion di Boemondo
s’hai tu de’ venti il carcere e le chiavi,,
però mentre che stan l’ancore in fondo
fa di tue squadre qui, fa di tue navi
universal rassegna, o gran Tancredi,
e quanto manca lor poscia provedi».
16Risponde il capitan: «D’affetto pieno
sono, o buon re, sempre i consigli tuoi,
e ’l chiaro Atride, ove a parlar tu vieni,
taccia quel Nestor suo tra’ grandi eroi».
Non più Tancredi, et aspettò che meno
l’altra alba il giorno a gli orizzonti eoi,
e poiché d’or vestissi l’Oriente
egli a Rollone appalesò sua mente.
17Vuol che su ’l lito a gli occhi suoi davante
tutto a rassegna il campo suo s’aggiri,
e vuol ch’insieme in su Nereo spumante
tutte sue navi a schiera a schiera ei miri.
Tosto con l’asta in man Rollon le piante
move di qua e di là con presti giri,
d’oro è quest’asta, e ’n sé scolpite mostra
palle che ’n campo d’or bell’arte inostra.
18Pregio d’Etruria, o palle gloriose,
che sovente poggiaste in Vaticano,
e foste alto sostegno a le gravose
chiavi ch’al maggior Pietro empion la mano,
voi ch’oggi con tre gigli anco famose
siete, sì gran vessillo al re toscano,
di gloria militar troppo in quei tempi
adornava Rollon con rari esempi.
19Altero officio in guerra era di lui,
e raro egli in ciò fu, schierar le squadre.
Diverse prende l’oste a’ cenni sui
sembianze formidabili e leggiadre:
or un scorpio sembrar la fa costui,
or le dà forme acute or tonde or quadre,
et or ampia ne fa luna cornuta,
or la fronte e l’estremo e i fianchi muta.
20Ma in terra e sopra il mare ecco distinti
ad un tempo girar duci e nocchieri,
tutti in rassegna a dimostrarsi accinti,
e già l’aura i vessilli apre e i cimieri.
Ecco d’arme ordinati laberinti
e innanzi a’ lor drappelli i condottieri,
e i remiganti in su gli ondosi piani
piene di remi al sen traggon le mani.
21Sorgeva un sasso infra Nettuno e ’l lito,
quasi confin de l’uno e l’altro ei fosse,
sopra tal pietra il capitan salito,
l’oste e l’armata a riguardar fermosse.
Non volse tron di porpora vestito,
ma ne la semplice asta egli appoggiasse,
e quinci riverenza in tempo pari
gli fean le schiere e quindi i marinari.
22De le Muse del Ciel Musa reina,
che serbi il fior virgineo e che pur diesti
giunta a l’umanità prole divina
e di lampi di sol t’adorni e vesti,
e poggi al sommo sol tanto vicina
che stan sotto i tuoi piè tutti i celesti,
s’umil sei tu, s’io non oblio tue lodi
fin di là su piega l’orecchie e m’odi.
23Sol le patrie de’ popoli qui armati
vorrei ch’io, tua mercede, al mondo insegni,
et il numero sol de gli spalmati
contro Babelle in Asia invitti legni,
co’ nomi de’ lor duci alti e pregiati
che per tòrre ad Europa oltraggi indegni
e metter Boemondo in libertade
sì generose e pie cinser le spade.
24Di Partenope già l’armi e le navi
a l’alta mostra alto principio diero.
Sette e quattro carine immense e gravi
sospinge un remigar forte e leggiero.
Non remi i remi, no, ma vaste travi
ferro i temoni e scelto ogni nocchiero,
e pendon, come è l’uso, e sporgon fuore
le torte ancore lor dietro le prore.
25Auree le poppe et in ciascuna credi
intagliate cantar le tre Sirene,
così spirar, così tirar le vedi
gli incauti naviganti in vèr l’arene,
né che sian scherzi d’arte anco t’avvedi
di naufraghi nocchier le rive piene.
Così le navi di Campania fanno
mostra di sé, poi loco a l’altre danno.
26Ma i cavalier, ma i capitani d’esse
giran pedoni d’altra parte in terra,
falangi invite, e sol dal fasto oppresse,
nidi d’amore e turbini di guerra.
N’è duce Amberto, c’ha di gloria impresse
orme, e gran rai di nobiltà disserra;
nacque in val di Sebeto, e nacque altera
per sangue egli regal progenie ibera.
27Già gli avi suoi de’ regni d’Aragone
spogliati fur lunga stagion da’ Mori,
ma tornaro le stesse auree corone
a’ suoi nepoti alfin con più splendori,
e ’l Ciel per regale alta adozione
regi a costoro diede itali onori,
e fe’ che lor succeda Austria, ch’a tondo
gira or con fama e con impero il mondo.
28Ma su i margini salsi e su ’l terreno
l’insegne di Rollon giungon seconde,
pur ei, cui tutti gli ordini ubidieno,
non va con elle, e gloria in esse infonde.
Quei che ’l Po, quei che ’l Mincio e ’l picciol Reno
e de l’Alpi e de l’Arno i gioghi e l’onde
abitaron son qui, quei ch’illustraro
il nome de’ Latini inclito e chiaro.
29Quei ch’al normanno scettro non soggetti
passàr sotto Boemondo in Oriente,
già de’ vessili lor, de’ loro aspetti
ammiri le divise e ’l lume ardente;
et a le ciurme i gran villosi petti
bagna il sudore e l’anelar si sente,
mentre diece e tre legni torreggianti
volgon tre volte al capitan davanti.
30Poi con vele a l’antenne in groppi avinte
quattro e due prore del gentil Salento,
venian da’ remi rapidi sospinte
et ondeggiar fean sei bandiere al vento,
bandiere generose, et indistinte
tutte tra lor per gran delfin d’argento,
et i guerrieri lor su i campi asciutti
da fortissimo duce eran condutti.
31Gilberto è questi, e splendida et antica
origin sua son di Iapigia i regi;
solo ad Idro secondo avien che ’l dica
la fama, e l’orna de’ secondi fregi,
ma la sua schiera, d’ozio vil nemica,
n’imita le virtù, n’ammira i pregi,
prende sotto grav’arme ella allenata
l’arsa stagione a scherno e la gelata.
32Color che bevon l’Ausido e ’l Fiterno,
in terra e ’n mar poi spiegan lor segni,
varia gente, e Cosmante halla in governo,
gente in breve terren varia d’ingegno,
che parte alberga in piano e dal superno
Tropico scaldan lei gli estivi segni,
e la fanno inaudace; a parte indura
l’alme per duro sito aspra natura.
33E quanti mesi have in sé l’anno, tanti
son di tal doppio popolo i navigi;
dipinto evvi il Gargan, che sacri vanti
ottenne d’ineffabili prodigi;
la luce repentina i sacrosanti
ne l’atra grotta angelici vestigi
e ’l saettato tauro, e qual vendetta
contra il saettator fe’ la saetta.
34De’ Calabri l’insegne indi a mostrarse
in terra cominciar e sopra Dori,
sette e sette lor navi, e ’n essi apparse
pregio montan d’indomiti rigori:
abitan l’Appenino ove mai scarse
non son le brume infra’ gelati orrori.
Afron gli scorge, Afron ch’alti non ebbe
natali, e su gli eroi per virtù crebbe.
35Cittadi in espugnar pari o simile
uom novo o prisco al chiaro Afron non fue,
così meschiando il prisco al novo stile
sopra umane egli fa le glorie sue;
pur se men rotte da l’età senile
fossero, o tirio re, le membra tue,
innanti a tanto precursore andresti,
ma per lo giel de gli anni a dietro resti.
36Il lito e ’l mar quasi s’empìo d’antenne
e di squadre il terren poi sotto Onteo,
che quinci e quindi insieme a mostra venne
l’altero sforzo del paese eneo,
del paese ove occulto alfin pervenne
ove Aretusa sua raggiunse Alfeo,
del paese cui tanto orna e feconda
Cerere, e cui Nettun bagna e circonda.
37Questa isola regale a’ Saracini,
che n’avean fatto iniquo empio conquisto,
tolsero i pii Normanni, et a’ divini
ivi dier libertà culti di Cristo.
Poi Guiscardo, ch’al regno i bei confini
sempre con l’arme dilatar fu visto,
in questa isola ancor la regal sede
fondo sì, ma ’l fratel ne fece erede.
38Cinque Guiscardo ebbe fratelli e sei,
e del primo Tancredi ei fu figliuolo.
Gran pegni di gran padre et a trofei
et a glorie aspirò sì nobil stuolo,
ma di tanti fratelli semidei
sol d’uno scelta fu su l’alto polo
la progenie in retaggio a frenar molti
sotto un dominio sol domini accolti.
39E fu prole di quello a cui l’impero
di Sicilia lasciar Guiscardo volle,
di sì bel regno egregio condottiero
il chiaro Onteo le varie insegne estolle.
Sedici navi, et ogni lor primiero
favoloso vessil lor non si tolle,
et il dimostrano esse in gran pitture
et anco fan veder sacre figure.
40V’è Galatea, v’è Polifemo et Ati,
v’è Plutone e Proserpina e v’è Scilla,
sonvi due dive con due vasi aurati
et una tien ne l’un doppia pupilla,
l’altra gli avori del suo sen troncati
mostra ne l’altro, e ’l sangue indi distilla,
ambe spose di Cristo, ambe coscritte
tra’ gran martiri suoi, vergini invitte.
41Ma terrestre seguia dietro a’ Sicani
di varie nazioni oste commista,
oste diversa, e ch’a rei casi e strani
con altre forme in Cipro errar fu vista.
Varia è di lingue e vari ha capitani,
e varie vesti et armi offre a la vista,
e tutti i duci suoi conduce il forte
famoso Irlando, sprezzator di morte.
42Or mentre in terra con tant’arme passa,
van trenta poppe sue sopra Amfitrite,
ogni poppa in passar l’insegne abbassa,
ogni insegna il suo duce avien ch’imite.
Questi s’inchina al capitan, ma lassa
la maestà de gli avi al volto unite,
e vuol ch’ereditario onor ne vaglia
ad uomo ch’ad onor per sé non saglia.
43De’ signor di Borgogna alto rampollo
e tanto eroe, ma sconosciuto prese
l’armi quando a Giesù pietate armollo
e schietto scudo ad arcion rozzo appese,
o frode generosa, e poi segnollo
e le figure fur sue proprie imprese,
alfin scoprissi il vero, e ’l ver scoverto
gran lampi unì di stirpe a sì gran merto.
44Ma ristampansi in terra orme novelle
su le fin qui stampate orme cotante,
e seguon la rassegna invite e belle
squadre, cui mena eroe chiaro e prestante,
eroe ch’alte opre fe’, ma solo quelle
c’have in retaggio ei par che pregi e vante,
Arnaldo ha nome, e nacque in su ’l Metauro,
stemma de’ suoi maggiori è l’elce d’auro.
45E furo in Siria e non in Umbria elette
le genti a cui s’atterga ei lor guidando,
e sette son tai stuoli et anco sette
navi il numero lor van pareggiando.
Vanno una dopo l’altra sì dirette
che dritta stimi andar linea formando,
e ’n aurei intagli ancor le navi istesse
scopron la patria de le genti d’esse.
46Però che tra Pamfilia e l’alpi armene
e ’l mar qui la Cilicia è figurata,
evvi Tarso e ’l suo divo, onde fur piene
le genti di dottrina rivelata;
su le parti del ciel chiare e serene
tratta parea sua mente e stenebrata.
Ma dopo questi pin sola una nave
venia, che due cittadi in sé sculte have.
47Tiro e Sidone, e d’ambe in su i confini
fatto uomo il Dio, dator d’eterna luce,
vedi in suo volto uman raggi divini
dentro un fulgor che più che ’l sol riluce.
Quivi egli da’ suoi regni palestini
giunge, e ’l vero ad udir le turbe induce,
il vedi gir su l’erbe e non toccarle
e d’insoliti fior sparse lasciarle.
48Il capitan di questa nave è quelli
che di Sidon gli scettri ebbe e di Tiro,
e ’n terra a mostra trae pochi drappelli
che ne l’amare sue fughe il seguiro;
su i membri antichi sì, ma non imbelli
curva gli omeri annosi il sì buon siro.
Ma d’Antiochia indi venir son viste
l’insegne, or senza duce inchine e triste.
49Vanno, o chiara Antiochia, egre e dolenti,
come i tuoi stuoli, tue spalmate abeti:
son diece, e tutte a remi zoppi e lenti
le liquide pianure aran di Teti.
Scioglion le trombe intanto in tristi accentiElegge Idro duce del drappello di Boemondo, giungono trenta navi di rinforzo dall’Italia mandate da Accardo (49,5-69,4)
i fiati che sonar solean sì lieti,
ma ’l gran duce col cenno il suo gran figlio
chiama, e la mostra arresta anco col ciglio.
50Quegli viene e s’inchina, et ei gli dice:
«Figlio, su queste genti abbi l’impero,
ma sottoposto al saggio re fenice
siasi il tuo scettro e l’ardir tuo guerriero,
e da tant’uom ciò ch’a virtù più lice
impara minor duce e cavaliero.
Cavaliero eseguir nulla t’aggreve,
ma duce impera e l’imperar sia lieve.
51Ubidisci soggetto e ove comande
prendi de l’opra in te la maggio parte,
e membra che le glorie e le ghirlande
tutte a chi regge gli altri il Ciel comparte,
e che ciò sminuir, quantunque grande,
deve ogni peso a’ conduttor di Marte».
Gli antiocheni applaudono a tai detti
e cangiano in allegri i mesti aspetti.
52Et alzan lor bandiere ov’è dipinta
la famosa Antiochia in val d’Oronte:
il magistero è tal che par non finta
ogni sua torre, e vero il piano e ’l monte,
e nel suo tempio, d’auree mitre cinta,
sede pontifical parea sormonte,
e vi sedevi tu, che poi la soma
portasti de le chiavi a l’alta Roma.
53Ma con bell’elmo d’or senza visiera
Idro sen va tra l’ordinata mostra,
et a la chiara sua commessa schiera
lieto precede e di beltà fa mostra.
Splende in sua fronte l’amorosa sfera
et Amor in sua guancia i gigli inostra,
e la bianca cervice accoglie i crini
in cui par ch’i suoi raggi il sole affini.
54E par che quel candor rida in sue mani
ch’al sol ne l’Oriente apre le porte,
e riverenza ei crea ne’ petti umani
benché con sua beltà l’alme ne porte.
O fortunati e miseri i pagani,
poiché insieme n’avran diletto e morte,
non fia chi scampi da sua spada, e intanto
pioverò gioie il volto adorno e santo.
55Ma le navi e i drappelli antiocheni
dianzi al sommo duce eran passati,
quando l’ultima squadra alti baleni
mandò da gli elmi e da gli scudi aurati,
e le sue navi i salsi umidi seni
rupper co’ remi e dier rimbombo i prati.
Otto e cinque tai navi, e ne la loro
regale insegna i gigli grandi e d’oro.
56Questa milizia è il fior di quei guerrieri
che già passando in Asia al santo acquisto
abbandonaro i gallici emisferi
e tante region verso Calisto,
e che i lor voti d’ogni parte interi
dopo lungo sudor sciolsero a Cristo,
et appeser devoti in su le soglie
del sepolcro divin barbare spoglie.
57Questa squadra, ch’a sé di sé fa fregi,
chiude la bella universal rassegna,
eroi, spiriti invitti, animi regi
sotto l’aurata gloriosa insegna.
Ermondo è duce lor, cui rari pregi
magnanima virtù mostra et insegna,
ma superbia di sangue il cor gli involve,
quella che tanto gonfia umana polve.
58Son di questo sì altero avi materni
regi famosi per romanza penna,
ch’ereditari già, scettri paterni
resser con alto grido in val di Senna,
quinci ei va gonfio e quinci ne gli esterni
atti appar quanto orgoglio il cor gl’impenna;
l’aringo di sue glorie immenso e vasto
fora maggior se men fosse il suo fasto.
59Ma gli eroi di ventura il capitano,
quasi fior, tra le squadre avea cospersi,
né sì fatti guerrier disgiunse in vano
ei, cauto anzi il venir de’ casi avversi,
e pur del tempo a la rapace mano
torrò più d’un lor nome io co’ miei versi,
colà poi tra le guerre. Ma pensoso
rimase il duce invitto e glorioso.
60Scese giù da quel sasso end’egli avea
viste le vele sue, ciste sue genti,
e pensò quanto Babilon potea
e quanto i Saracini eran possenti,
e quanti appo Antiochia, appo Nicea
ebbe già l’Asia eserciti frementi,
e che più navi e tutti i suoi cavalli
vennero men lungo i cerulei calli,
61sì che proveder l’oste di corsieri
pena, et ogn’altro anco supplir difetto,
e riveder dopo mille aspri e fieri
casi anco il suo buon genitor diletto.
Ma veniva su i liquidi sentieri
in trenta navi oh quanto sforzo eletto,
sforzo di guerra a ristorar la franca
invitta armata sua, già scema e manca.
62Cotanto sforzo di milizia invia
quel c’ha vice regal sì nobil conte,
Accardo io dico, cui lasciò tra via
Idro quando tornò d’Egla al bel fonte.
Giunse Accardo a Tarento, e quando uscia
il sol novello poi da l’orizzonte
per opra de la maga ei seppe ov’ella
menava il figlio e su qual navicella,
63talché indugio non fe’, ma con quei stessi
baroni che ’l seguian trascorse il regno,
mandò molti in Sicilia et i commessi
offici come i suoi drizzò ad un segno,
doppio di qua e di là lettere e messi
et affrettò gli effetti al gran disegno,
fe’ sonar regie trombe, ebbe quasi Argo
occhi, e ’n vece del re fu eccelso e largo.
64Fabricò trenta navi, e sopra loro
pose di ferro gioventù fiorita,
e torme di cavalli e masse d’oro
e molto Bacco e messe pesta e trita,
e, d’ingegno e di man parto e lavoro,
militari stormenti, et infinita
copia anco d’armi e copia di servili
turbe, ma scelte e ’n vile affar non vili.
65Duce di queste navi ei crear volse
del buon sir di Brandizio il bel germano,
il bello Usmondo, a cui beltà non tolse
pregio e vigore di guerriera mano.
Costui spiegò le vele e ’l camini volse
verso il ciel vicinissimo sicano,
varcò, varcabil fatti, il mar scilleo,
passò Peloro e giunse a Lilibeo.
66Quivi ad arte approdò, quivi indugiando
mandò legnetti rapidi e spediti,
attendea le novelle et alfin quando
i lieti annunzi udì, lasciò quei liti,
et indrizzossi egli, il suo re cercando,
ove il traean di fama i gridi uditi,
ove un monte marittimo divenne
la nave che spiegò regali antenne.
67Et a gran vele omai vi s’avvicina,
ma pria ch’ei giunga abbatte ei sua bandiera,
e n’onora, quantunque r selce alpina,
nel trasformato pin l’insegna altera;
poi scende, et al gran duce egli s’inchina,
e s’inchina con esso ogni sua schiera.
Ammiran l’armi e ’l volto, e poi son visti
tra’ prischi stuoli andar stupidi e misti.
68Chi ’l zio, chi l’avo, chi ’l fratel, chi ’l padre
vi trova, e con pietà s’abbraccian tutti,
e passa in lor da le vetuste squadre
sprone d’onor, né tengon gli occhi asciutti,
bramano udir l’imprese alte e leggiadre
e varcati in duo mondi i salsi flutti;
ma intorno al sovran duce omai son dati
spirti a le trombe, e si fan canti i fiati.
69Cavalli, oro, armi e ciurme egli comparte,
ma con pensiero poi scaltro et occhiuto
al novo veteran mesce in gran parte
et il vecchio al novel campo venuto.
Alfin tirar fa l’ancore e le sarteCatturato l’uccisore di Gozo vengono mandate delle spie alla flotta egizia (69,5-84,4)
con un cenno parlante, ancorché muto,
e gli ampi lin ch’al navigar son penne
aggrappati eran pria lungo l’antenne.
70Sovra il sidonio pin Tancredi ascese
non su la nave sua ch’era impetrata,
e la prigion de’ venti in mano ei prese
et aura occidental n’ebbe slacciata.
Tutte le vele poi sciolte e distese
furo, e fu la bella isola lasciata,
bella e col novo nome ond’ella spande
per quello antico onor lume sì grande.
71Corre l’armata, e già spumoso e franto
vedeasi ’l mar spesso cangiar colore;
ma carta e penna il sommo duce intanto
prende, e scrive al regal suo genitore;
scrive, ma su gli inchiostri ei versa il pianto,
e mesce in essi il suo doglioso umore,
fa croce al foglio e poi in lingua normanda
dice: – Il figlio di Ruggier salute manda.
72Padre, quegl’io cui naufrago togliesti
sai da qual arca, io quel che ’n questo e ’n quello
lito fui scosso, e , qual piacque a’ celesti,
mai non giunsi a discior tuo gran fratello,
altre due volte usai l’ali celesti,
vidi il giardin d’Adam santo e sì bello,
e s’io lasciai l’armata, il Dio sovrano
resse lei ne l’atlantico oceano.
73Poscia anch’egli le navi e me co’ suoi
favori a mostri orribili sottrasse,
ei gli antipodi ancor scoprimmi e poi
l’aspro verno io soffrii del gelid’asse,
e membrai sempre i tristi giorni tuoi,
e fu che ’n tai membranze il cor tremasse,
e membrai sempre i ceppi di Boemondo,
io scosso e travagliato in doppio mondo.
74L’aure alfin diemmi entri un bell’aureo velo
l’Angel che nostri regni in guardia tiene,
sì ch’or men corro per tal don del Cielo
sempre d’Eolo secondo a vele piene.
Gioia mi fia l’affanno e ’l caldo e ’l gielo
e ’l versar sangue e ’l disseccar le vene;
tu tempra il duolo, e tu radoppia i prieghi,
onde l’ira superna a mercé pieghi.
75*** e scrivo, e ’n Colco e ’n te il pensiero
tengo, e di Libia ancor solco il gran mare,
e far vendetta in su Damasco io spero,
ma tu intanto a Maria drizza aureo altare,
intagliavi l’empireo messaggiero,
sommo interprete a lei d’eccelso affare.
Son giunti Idro et Usmondo, onde più presta
la vittoria a noi fia, tu in pace resta.
76*** sì (ma v’aggiunse), et a te mando
pur qualche pegno de’ paesi santi -,
e più non scrisse, e ’l foglio sigillando
de l’avo impressi vi lasciò i sembianti,
e poi rozzo pigliò sasso ammirando
ch’in suo vero valor vince i diamanti,
e cui tolse ei devoto a le maremme
sacre del tuo presepio, o Betlemme,
77la carta e ’l sasso egli a l’antico Onorse
diede, e congedo diegli, e quei partio,
e su veloce pin sì ratto corse
ch’a gli occhi di ciascun tosto spario.
Ma genti antiochene in mar trascorse
troppo eran già per alto effetto e pio,
corsero a ritrovar chi non veduto
vibrò in Gozo il mortal quadrel pennuto.
78Fuggia il fellon su rapido legnetto
e ben da lunge il videro quei Siri,
e per la fuga in lui preser sospetto
e lo strinser con lievi e ratti giri.
Giunto, a scoprir sua colpa ei fu costretto,
anzi altro aperse ei, vinto da’ martiri,
disse del re d’Egitto e de’ gran legni
spalmati ond’egli è spia su i salsi regni.
79Né tacque quanti duci ha il canopeo
e i nomi e quanto l’oste è numerosa,
e che solo attendean lungo l’Egeo
di Tancredi l’armata gloriosa,
ma poiché tutto discoperse il reo,
piaghe ebbe con offesa vergognosa,
da le tempie a l’orecchie a lui divise
furo, e le nari a lui furon recise.
80Così difforme e non da’ nodi scinto
quella squadra a le navi indi menollo,
e poi, per torli l’alma, a lui fu avvinto,
debita pena, un saldo laccio al collo,
non senza un ferreo globo, e ’l globo spinto
il trasse, e seco in mar precipitollo.
Ma de le navi egizie al tanto aviso
grave restò Tancredi e piegò il viso.
81Tosto chiamò i suoi duci, e tutti armati
sopra auree barche a lui venner costoro.
Dentro le mani lor gli scettri usati
erano indico avorio et indic’oro.
Fèr di sé cerchio al duce essi adunati
e fur quasi silenzi i detti loro,
e i remi o poco mossi o senza moti
i navili tenea già quasi immoti.
82Tal de le squadre i conduttor primieri
concilio ivi facean cheti e ristretti,
e conchiudean che vogator leggieri
portin su l’onde salse uomini eletti,
a cercar se mendacio se pur veri
de la memfica spia fur gli altri detti,
et a veder s’a’ legni franchi in mare
potean le navi egizie il mar serrare.
83Ma più non movean labra i duci eroi,
e verso Amberto il capitan dicea:
«Vanne a tant’opra, e scegli, qual tu vuoi»,
compagno, e ’l pro Cosmante egli sciegliea.
Chiari Cosmante have i natali suoi
per avi antichi di progenie achea,
da Diomede ei discende, e già s’invia,
coppia tal su veloce saettia.
84Ambo egizie cavea preso et armi e vesti,
e barbari parean lor remiganti,
i quai rompendo l’onda accorti e presti
egiziaci fingean gridi e sembianti.
Ma tu, tra’ duci stessi, o quai volgesti,Giovanni mangia il pomo del Paradiso di Tancredi e ringiovanisce (84,5-90)
Tancredi, al tirio re pensier zelanti:
sapevi che cangiar essi in robusta
per miracol potea l’età vetusta,
85però dicevi: «O tu, ch’al fianco antico
qualche onesto riposo unqua non dai,
e sei de gli ozi natural nemico,
gli anni miglior che non ripigli omai?
Usa i doni del Cielo, o veglio amico,
che attendi più? Tu a forza il fianco trai;
lascia o vecchiezza o l’armi, anzi non l’armi,
poiché vecchio così non ti disarmi.
86Tu serbi ancor quel pomo ch’a me diede
il portier del terrestre paradiso,
pomo per cui la gioventude riede,
e depon le sue rughe il vecchio viso.
Cibatene or, che cotant’uopo il chiede,
e rinova il vigor da te diviso,
su su, rinova le tue forze, et esse
sian pari al senno onde sì a Dio t’appresse.
87Disse il celeste a me che far tu ’l deggia
al maggior uopo, e quand’uopo più fia
ch’ora che d’empie navi il mare ondeggia
di Dio contro il gran figlio di Maria?».
«Mal tante grazie l’esser mio pareggia,»
risponde il re «non che non pronto io sia
ad eseguir tuoi imperi e quei del Cielo
su questo mio mortale antico velo».
88Non più ’l buon veglio, e cava gemma aperse
ov’era il sacro pomo, e genocchiossi,
e poiché il suo navale egli cosperse
di lagrime devote, in piè levossi,
poi con tai voci al ciel gli occhi converse:
«Signor, in tuo servigio sian rimossi
i ghiacci di vecchiezza or dal mio corpo,
se no lascianti tal qual gelo e torpo».
89Tacque, e ’l sacrato pomo in cibo ei prese,
e tutte in esso ecco gioian le vene,
e fuggia il freddo onde fur tanto offese
sue membra, e di calor novo fur piene.
Viver su ’l sesto lustro il Ciel gli rese,
ma ’l prisco in quella età senno ei ritiene,
già dritto è il curvo tergo, e fatto è il fianco
agile, e negro in fronte il capel bianco.
90Su ’l rinovato eroe l’armi sonaro,
l’armi materia asprissima e pesante,
l’armi ch’un punto mai non si scevraro
da la persona gelida e tremante.
Stupidi i duci allor tutti ammiraro
fresco il corpo decrepito già innante,
e poi con l’alme di stupor pur gravi
a le stesse tornàr lor proprie navi.
Le due flotte vengono a contatto, i comandanti ordinano manovre tattiche e arringano le truppe (91-114)
91Indi, come ha per uso, in ordinanza
correa più dì l’armata de’ cristiani,
leggiadra e formidabile in sembianza,
per ciurme, per guerrieri e capitani,
e, colma di valore e di baldanza,
prevenia col pensier trofei sovrani;
ma i duo mandati eroi lor cauti affari
compito aveano e rivarcato i mari,
92A la sidonia nave, onde partiro,
né deponean le barbare celate,
s’appressaron costoro, e risaliro
di cedro oriental scale odorate.
Rifermossi l’armata in ampio giro
e i duci pur venian su barche aurate,
vista venir la nobil coppia, e tutti
pur al sidonio pin s’ebber ridutti.
93Chinossi Amberto al sovran duce e disse:
«Sire, l’egizia spia il ver n’aperse;
giungemmo, e credo il Ciel ne favorisse,
e penetrammo infra le navi avverse.
Sembran montagne che da terra sfisse
natino, e contro noi ben son converse.
Tra Sesto anco et Abido il mare infuso
guardano, e ’l varco stretto ivi n’han chiuso».
94Così ’l duce aragonio, e i duci allora
sdegnosi in faccia e torbidi eran visti,
e fremean come freme Etna qualora
son d’Encelado in essa i furo misti.
Ma ciascun tra quell’ire s’avvalora,
e membra i chiari suoi vanti e conquisti,
monstrano un atto sol tutti i lor volti
et un sol grido fan lor gridi accolti.
95«Noi, noi, «dicean «noi di lor sangue un mare
faremo, e su quel mar farem tragitto».
Idro crolla il bel capo e bello appare
suo sdegno, onde avrà crollo Asia et Egitto,
e stringe l’elsa e ’l pome, e bianche e chiare
faville apre la man su ’l brando invitto,
e sfavilla sua guancia, e molto o poco
non mostra di candor, vinta dal foco.
96Ma disse il sommo eroe: «Dunque su i vostri
legni a tanta tenzon voi v’accingete,
e voi questi decreti ultimi nostri,
com’è l’usanza, divulgar farete».
Tacque, e color sen gian tra rostri e rostri
ciascun verso la sua primiera abete,
poi sonavan le trombe in ogni parte
e i cor di qua e di là sferzava Marte.
97Allor ciascun guerrier via più che mai
stava in sua posta immobile et armato,
e de gli scudi i folgoranti rai
sfavillavano al sole oltre l’usato.
Creta e Corinto erano a tergo omai
e le Cicladi egee da ciascun lato,
e de l’armata egizia ognor novelli
avisi udiansi in questi liti e ’n quelli.
98In parte erasi omai donde vedere
l’eccelse si potean gabbie africane,
e spiegate le memfiche bandiere
per tanti regi e dèi superbe e vane.
Le franche s’arrestàr navali schiere
viste quelle del Nil poco lontane,
però che gli usci a le cimerie grotte
apria la sera, e fuor n’uscia la notte.
99Non fur l’ancore in uso, ma su l’onda
tenner l’armata i franchi rematori,
finché l’alba tornò da la profonda
antartica remota immensa Dori.
Le trombe pie con voce aspra e gioconda
annunciaron tre volte i primi albori,
e tre volte ogni pia schiera atterrata
salutò la verace alba annunciata.
100Ma natanti parean negre montagne
l’egizie navi, e già gravose e lente
et ombrando le liquide campagne
tutti copriano i lampi al dì nascente.
O giorno, tu che giri e che ti bagne
ne’ mari esperi, e ’n quei de l’oriente,
allora in ciel tu nascondesti il Tauro,
tu su ’l bel carro di piropi e d’auro.
101Stavansi incontra l’une e l’altre antenne
a lunghe squadre, e volto sprone a sprone,
ma su l’egizie navi le sue penne
batteva la tartarea Tisifone,
quella che ’n loro infin da Persia venne
spinta pur dianzi per sì rea cagione,
spirava ella un furor ch’a glorie, a palme
ivi contro Giesù ferza era a l’alme.
102Moveansi poi d al’una a l’altra parte
l’armate con pensier provido e saggio
ad occupar nel campo ampio di Marte
gli spazi più opportuni a lor vantaggio,
per ischifar le rupi in mar cosparte,
per ischifar l’alto apollineo raggio,
e giraron guardinghe e dopo molte
rote, restaro in ordine raccolte.
103Arco, o memfico re, festi sembiante
tu l’adunanza de le navi tue,
acciò che ella poi, fatta circolare,
chiuda i nemici entro l’ampiezze sue.
Ma con risposta d’arte militare
Tancredi incontro a ciò tardo non fue,
e cuneo grande a quel grande arco oppose,
cuneo che di sue navi egli compose.
104Ma visto il cuneo ostile a sé davante
disfèr l’orine impreso i Saracini;
fèr lo stesso i cristiani in quello istante
ne le parti di mezzo e ne’ confini.
Tre volte i fari legni et altrettante
s’opposer variamente i franchi pini,
alfin restaro in ordinanze quadre
co’ duci a fronte ambe l’avverse squadre.
105gran cose anco il gran duce, ancorché sia
Rollon d’alte sue voglie esecutore,
egli sopra veloce saettia
trascorse tra le poppe e tra le prore,
e l’imagin di Cristo e di Maria
spiegar fe’ prima nel vessil maggiore,
e volse su gli sproni e sopra i rostri
ch’ambo siano in pittura anco dimostri.
106Et ei portava in man sculpito e terso
avorio ove Giesù pendea ritratto,
pendeva in croce, ivi di sangue asperso
e di mandar l’anima al padre in atto.
Ma ’l gran duce il mostrava a’ suoi converso
e favellava e trascorreva ratto,
e ’n aria rimbombavano i suoi accenti
e gli spargeano in ogni parte i venti.
107Disse: «O di questo Dio fidi campioni,
cui solo ei scelse a trionfar de gli empi,
e cui mai non sarà ch’egli abbandoni
pur che ne vegga dar gli usati essempi,
sian gli onor vostri a voi stimoli e sproni,
membrate di quai spoglie ornaste i tempi.
L’egizia gente or osa? e voi l’Egitto
o non vinceste in Siria in gran conflitto?
108Troppo noce una volta altri esser vinti,
o voi mai sempre vincitor guerrieri,
il Cairo, quando al Nil noi fummo spinti
paventò i nostri inermi messaggieri;
ecco i memfici stessi, ecco dipinti
essi di morte, ancorché in vista alteri,
né vuo’ però che la vittoria certa
facciam, per non curar, dubbia et incerta.
109Ogni arte usiam, benché l’egizia armata
poco a la nostra è di valor simile,
che ’n ogni loco la virtute usata
non obliar d’alta milizia è stile.
Ben fia ch’oggi di novo l’onorata
vostra fama sen voli a Calpe, a Tile.
Fanciullo è il fario re, voi abbiate in mente
chi vi regge e chi siete, o invitta gente.
110A voi voi noti, et imparai molt’anni
saper sottrarvi io tra i gran rischi a morte,
pur s’alcun qui morrò, metterà vanni
di grazia a gir vèr le celesti porte».
Tacque, et a pena il saggio e pro Giovanni
frenar poteva il garzon bello e forte,
noia gli era ogni indugio; et ebbe in questa
l’egizio re lingua orgogliosa e presta.
111Con folli et esecrabili parole
in dispregio di Cristo ei lodò i suoi,
poi disse: «Oste infinita e vasta mole
abbiam di navi, e copia ampia d’eroi,
e contro quella andiam croce che suole
spesso in campo abbattuta esser da noi,
e vili or qui la spiegan cavalieri
sol per fame fuggir fatti guerrieri.
112Trofei ne piove il cielo, e fanne ancella
la superba de’ Franchi empia fortuna,
viva Macon, pèra l’iniqua e fella
setta di Cristo, ove ogni mal s’aduna.
Incontro nazione a Dio rubella
per pietà non abbiam pietate alcuna,
e resti monimento d’alti e chiari
fatti africani in questi greci mari.
113Giovane io son, ma torvi oggi in memoria
mio padre eccelso ond’io son tanto erede,
stabilirem con unica vittoria
a’ re di Libia ogni lor prisca sede,
ad Asia renderem l’antica gloria
e porremo in Europa anco qui il piede».
Così quel re, ma d’altra parte il brando
stringea Gualtier, pietoso e venerando.
114Su ’l regal pino ei compario mitrato
chiuso in pontifical abiti e vesti,
e s’appoggiava al pastoral sacrato,
e i cristiani tutti allor chini vedesti.
Ei col poter che ’l Vatican gli ha dato,
parlando, disserrò gli usci celesti,
tre volte alzò la mano e tre ridisse
le voci onde tant’alme ei benedisse.
Furiosa battaglia: si distingue Idro (115-132)
115Ma pronti a’ loro offici i vogatori
stan su gli orecchi ad ascoltare il segno,
e speranza e timor percote i cori
e di ragion prole gentil lo sdegno.
Silenzi orrendi e taciturni orrori
lungo esso i mari e dentro a ciascun legno,
poi sonando annunziaro il gran conflitto
le trombe franche e i sistri aspri d’Egitto.
116Or cominciate voi, Muse, a dittarmi
le guerre pie che per subitetto io presi,
datemi fiato e tromba in mezzo a l’armi
e ’n foco marzial spiriti accesi.
Pur non vi chiedo i fortunati carmi
che son del mondo in ciascun clima intesi,
ma tai ch’uditi sian nel bel terreno
c’ha l’Alpi in fronte e l’Appennino in seno.
117L’ampio Egeo s’incurvò sotto il gran pondo
quando ambe le due armate iro a scontrarsi,
e muggio disserrato in fin al fondo
e giunsero a le stelle i gridi sparsi.
Ma su lo scontro il mare no, ma ’l mondo,
tanto l’impeto fu, parve spezzarsi,
e ne tremaro i liti e le castella
d’Asia e d’Europa in questa parte e ’n quella.
118Anco al sì vasto insolito rumore
l’aria s’aperse e caddero i volanti,
e le ninfe del mar serrò il timore
ne’ più riposti alberghi de’ natanti.
Ma pria che rostri a’ rostri e prore a prore
appressasser co’ remi i remiganti,
del ratto corso lor fur precursori
tondi sassi, aspri dardi e fieri ardori.
119E poi, qual se tua legge, che non erra,
eterno Dio, se stessa disciogliesse,
e n’andasser le cose in risse e ’n guerra
sì che ’l giel con la fiamma combattesse,
e l’umido col secco, e ’n ciel la terra
salisse e ’l cielo in terra discendesse,
tali eran contese, e la mia lingua
di parte in parte lor fia che distingua.
120Parean gli egizi legni alpi marine
e i nostri un mare che quell’alpi assaglia,
un mar ch’inalzi in su l’onde sue chine
per salir su quell’alpi, e non vi saglia.
Ma ferree mani e funi adamantine
ponenasi in uso a stringer la battaglia,
e legavan le navi, e piazza e campo
feano a’ guerrieri in su l’ondoso campo.
121Nel mezzo del conflitto ampio e calcato
Tancredi al re d’Egitto s’opponea,
ordine grande, e nel sinistro lato
Orsone contro Afron battaglia fea,
e ne la parte destra il rinovato
eroe fenice opposto era a Nilea:
tai tre coppie di duci in trine schiere
traeano dietro a sé duci e bandiere.
122Arnaldo sotto Afrone, Amberto, Usmondo,
e sotto Orson Zendoro era e Trivento,
a Tancredi ubidiano Irlando, Ermondo,
et Anserbo al gran califfe e Grigento.
Lo stile io non comprimo e nol diffondo
et esser breve e chiaro insieme io tento,
e forse n’ergerò palma d’idume
tra’ lauri toschi in su ’l mio patrio Idume.
123Però soggiungo qui ch’Idro e Cosmante
per duce avean Giovanni, e che seguia
te sua scorta, o Nilea, solo Grifante,
ma come anco Zendor teco venia!
Ti segue con affetti il folle amante
e ciò cagion di morte oggi a lui fia.
Ma fuor de la battaglia in campo aperto
Onteo scorreva e ’l conducea Gilberto.
124Cura Gilberto avea non su quei mari
fosser nemiche insidie in qualche canto,
et a le franche navi alti ripari
dovea per varie vie questi altrettanto.
Doveva egli agguagliar dove non pari
fosse il numero d’esse o dubio o franto,
doveva in vari lochi ei repentino
dar soccorso or da lunge ora da vicino;
125doveva anco costui, dove i pagani
sian vinti, dar la caccia a’ fuggitivi.
Ma da le navi in su gli ondosi piani
il sangue omai ritraboccava in rivi,
e ’l guerrier che ’n bellezze ha sopraumani
vanti, e spirti sì rigidi e sì schivi
trascorrea tra’ nemici in varia parte,
tuono e baleno e fulmine di Marte.
126Su i legni avversi il sì sovran garzone
già scorre, e folte squadre apre et isvena,
e lo sdegno a le piante ale gli pone,
e gloria il segue, et ardimento il mena.
Cade il rischio, e ’l furor che gli s’oppone
la strada ch’ei si fa di morti ha piena.
Pieni ha di strage i campi di Nettuno
e pur sembra in ovil leon digiuno.
127Ma vago infra l’orror rende l’orrore,
tanta vaghezza infra l’orror discopre,
et il suo incomparabile valore
adombra de gli eroi le più degn’opre.
Come il nascente dì col uso splendore
imagini e pianeti e segni copre,
che dianzi empian tutto il notturno velo
mentre lunge era il sol dal nostro cielo.
128Non io, se tutto lingue e tutto accenti
fossi, e di bronzo avessi il fiato e ’l suono,
tutte direi le saracine genti
ch’or da la costui spada ancise sono.
Fario e Canopio in mar cader fa spenti,
fanciulli invitti e nati in regal trono,
del califfe fratelli, e l’arme e l’alma
toglie a Tomeo, pur gloriosa palma.
129Niscolopio e Nilon per mezzo ei parte,
Pelusio da la fronte in giù divide,
il doppio usbergo e ’l sen rompe a Comarte
e le fibre vitali e ’l cor gli incide,
e prima ad Ermio (Ermio schierò a tant’arte
gli egizi pin) l’asta e la man recide,
e passa per gli petti e per le terga
con esso un colpo Catadupo e Berga.
130Taccio gli effetti di sua fronte e taccio
quanto anco n’abbattea sol minacciando,
e che segava ad un girar di braccio
le squadre intere il suo fulmineo brando,
e se non era a lui ritegno e laccio
militare precetto, a sé pugnando
quivi obliava il segno a lui prescritto
ei vincea tutto il gran naval conflitto.
131In questa parte intanto ascese vedi
su i pini canopei l’armi cristiane,
e vacillar per tal vittoria credi
tutte l’altre falangi ampie africane,
e già monta primiero il gran Tancredi
su l’alte opposte a lui navi pagane,
e col suo stuol nel manco lato Afrone
su i legni saracini il piè già pone.
132Freme tra’ nembi Tisifon, ch’in vano
di qua e di là forze a’ pagani spira,
e morde i labri e l’una e l’altra mano
per doglia, e dentro un turbine s’aggira.
Ma qual sorse d’Amor trofeo sovrano
fra cotanta di Marte indomit’ira?
chi fu selce e focil? chi fu il bel foco?
chi se n’accese e come et in che loco?