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Il Tancredi

di Ascanio Grandi

Canto V

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 27.09.15 11:29

ARGOMENTO
Vòta tomba a Clorinda erge in Egitto
Tancredi, e quivi al re messaggi invia.
Spinto a le Sirti è per sentier non dritto
e spinto in Cipro è per non dritta via,
ma quivi mira egli il suo campo invitto
trasfigurato per crudel magia.
Intanto un novo Angel, c’ha d’uom la faccia,
le qualitati umane a lui rinfaccia.

Racconto di Tancredi alla corte d’Inghilterra: in prossimità dell’Oronte è gettato dai venti in Egitto, dove erige una tomba a Clorinda e vede crescere la preoccupazione dei compagni per una profezia di Proteo (1-48)

1«Da poi che il tuo gran zio l’alto rifiuto
del regno fe’ de la città sacrata,
e noi il diemmo al Buglion, che re veduto
per pietà negò a sé corona aurata,
io, per crudele aviso a me venuto,
corsi al Carmelo, e fabricai l’armata,
e dal Sepolcro del Dio grande presi
mia spada, che pur dianzi ivi sospesi.

2Disposi il tutto, e già sopra l’ondoso
mare le vele al vento eran cosparte,
ma qual fu quello aviso aspro e noioso,
o donna eccelsa, e venne da qual parte?
Ciò per chiarezza ancor, non perch’ascoso
io creda ch’a te sia, vuo’ pria narrarte,
e per unire a così santa e fiera
istoria qui pur sua cagion primiera.

3Credeva in Cristo, et era a’ Franchi amico
uom che ’n Armenia avea picciolo stato,
Gabriele appellossi, e nel suo antico
regno dal reo Dasman fu guerreggiato.
Chiedeva intanto ei contro un tal nemico
soccorso a Boemondo, il qual troncato
ebbe ogni indugio, e, qual pietate invita,
non mando no, ma lui portava aita.

4Paventò per tant’uom quell’empio, e tese
aguati in selve, e in valli orride e chiuse,
e ’l mio buon zio sol con queste arti ei prese
et indi in Colco entro gran rocche il chiuse.
Questo fu il duro annunzio, e d’ira accese
i Franchi, poiché in Siria si diffuse,
onde molti di lor seguiro i miei
vessilli, altri a cercar giusti trofei.

5Navigava io con cento e mar secondo
verso il polo, e radeva i liti eoi,
che ’l caso in terra occorso a Boemondo
a non andar per terra insegnò noi,
ma per me lunghi affanni il Re del mondo
conchiuso avea ne’ gran decreti suoi,
mirar d’Oronte a pena egli ne feo
le bocche, et ecco in alto un turbo reo.

6Tornaro i poli, et oscurossi il giorno,
e dal dritto camino Eolo ne svolse,
et al vento che vien da Capricorno
oppose l’aure, ch’iperboree sciolse.
Affondò quattro navi, e far ritorno
colà donde partimmo anco a noi tolse,
anzi oltre trasportonne e ne spinse ove
le glebe il Nil feconda e ’l ciel non piove.

7Dico in Egitto, e qui del Nilo gli ampi
liti afferrai sotto sì chiaro clima,
e qui baciammo de la terra i campi
noi di toccarli disperati in prima.
O anno, tu che ’n te medesmo stampi
l’orma tua sì diversa or alta or ima,
tu rimenavi allora il dì ch’io tanto
onoro et odio, e m’è sì acerbo e santo.

8Sa mie sventure il mondo, e come ancisi
incauto io quello a cui donai già il core,
e che ne’ freddi sassi ove la misi
gelida non estinse ella il mio ardore,
misero, e che da lei non fur divisi
i miei foschi pensier carchi d’orrore,
né quando ascesi in mar tanto frenarmi
potei ch’io la lasciassi entro quei marmi.

9Su ’l mar portaila, e pria dentro novella
di cedro io la serrai cassa odorosa,
e da questi occhi poi sempre su quella
urna d’amor versai pioggia dogliosa,
e quando sorge l’acidalia stella
e quando esce dal mar la notte ombrosa.
Ma del suo anniversario io ne l’amaro
giorno che dea là tra Canopo e Faro?

10Quivi il dritto annual dare a l’amato
cenere con amor pietà mi spinse,
e mostrossi doglioso il campo armato
et ogni duce elsa imbrunita cinse.
A brun le tempie infra lo stuol sacrato
mitrò Gualtieri, e l’aurea spada scinse,
et al Dio vero in quella egizia riva
l’ostia divina in suon lugubre offriva.

11Sopra spalle d’eroi, lungo infiniti
lumi l’arca funebre e intorno ad essa
di molto arnese ostil tronchi vestiti
e prezioso vel sopra la stessa,
fur gli oricalchi in rauco suon uditi
e piangendo io tenni io fronte dimessa,
finch’a l’alma gentil tristi e devoti
compiro i santi offici i sacerdoti.

12Fu dopo l’opre pie l’arca ridutta
con pianto ancor sopra il regal mio legno,
e marmi alzai, né pur con guancia asciutta,
a la mia morta diva anco in quel regno.
Vòta, marmorea tomba ebbi costrutta,
vòta ma d’alterissimo disegno,
e ’l bel nome colà scrissi di lei
e le sventure sue ne’ casi miei.

13Roppi la sponda ancor del sì famoso
fiume, e ne svelsi un ramo ampio e profondo,
e ne cinsi il novello e generoso
sepolcro, onde have onor l’egizio mondo.
Ma mentre io diramando il flutto ondoso
novo letto gli dava e novo fondo,
chieder di Tiro i regni al re d’Egitto
obligo mio stimai non che già dritto.

14Questo re là dal Gange il patrio impero
ha steso, e fien a guerre unqua non pone,
questi mandò grande oste empio et altero
per impedir gli acquisti di Sione,
e questi usurpa al mio buon consigliero,
al buon Giovanni, i regni di Sidone,
e fortissime rocche eretto ci have,
ché de l’armi francesche ei teme e pave.

15Dunque per tal cagion scelti messaggi
ne la sua reggia a tanto re mandai,
ma l’impresa di Colco e i gravi oltraggi
del mio buon zio fèr sì ch’io sol pregai,
et i mandati messi, i lor viaggi
compiti, fatto avean ritorno omai,
duo furo i messi, e Ponzio, che ’l maggiore
fu in dignità, parlommi in tal tenore:

16- Già vista varia terra e vario lido
e scorse strade incerte e perigliose,
sire, giungemmo a la città c’ha grido
d’aver le mura sue sì popolose.
Di provincie raccolte un vasto nido
sembra, e confusion vasta di cose,
qual se ’l Franco e l’Ispan da largo cinto
di muraglia e ’l German fosse mai cinto.

17Nel regal solio noi fummo intromessi
ma d’ogn’intorno, ond’a quel solio vassi,
di prodigo tesor ben mille eccessi
scontri con gli occhi ovunque aggiri i passi.
Quivi Etiopi armati in globi spessi
del palagio sovran guardano i passi,
et in vece di paggi oh quanti quivi
del vigor generante eunuchi privi.

18Vi si veggono in mandre anco e ’n armenti
animai vari e misti di figura,
d’insolito stupor mostri e portenti,
opere in cui scherzar volle natura.
Così confonde lupi, orsi e serpenti
scherzevole talor pur la pittura,
così talor le nubi in aria sparse
veggiamo in varie guise effigiarse.

19Che de’ fonti dirò? Già rari effetti
l’arte scopre ne’ rivi e sé nasconde;
finge l’onda il cantar de gli augelletti
e i veri augelli inganna in su le sponde.
Fingono un suon di trombe i ruscelletti
e vera al finto suono Eco risponde,
calchi la terra, ispiccian l’acque, e miri
l’acque or liquido velo or nembo or iri.

20In orti, in logge, in parchi esposte sono
a’ guardi altrui cose sì varie e tante
e ’l pensier non el mette in abbandono
quando esse a’ guardi poi non stan davante.
Ma velato, chi ’l crede, in ricco trono
siede sublime il memfico regnante,
qual s’egli fosse simulacro o nume,
vano, superbo e barbaro costume.

21Pur quando ei mostra sé, come a divina
cosa un satrapo in pria vien riverente,
e innanzi a la frammessa ivi cortina
gitta umil su ’l terren spada fulgente,
et umil le ginocchia e ’l volto inchina,
e la terra anco bacia umilemente;
s’abbassa allor quella fraposta tela
e ’n aureo seggio il chiuso re disvela.

22Così l’alto tiranno canopeo
talora vien dimostro a gli occhi altrui,
e così a noi mostrossi, e su ’l febeo
carro seder ben stimeresti lui.
Tosto ad esso per noi chiaro si feo
chi siamo, a che veniam, chi manda nui,
e ’l tuo gran nome anzi il cospetto regio
grandi ne fa parer, dienne gran pregio.

23Né tacemmo però con quante prore
e con quant’arme or sopra il Nil tu sei,
ma rispondea d’Egitto il regnatore:
“Comuni son con voi gli scettri miei,
rendo il regno a Giovanni e ’l prisco onore,
e più per amor vostro anco farei”.
Così parlò, ma la sua fede in pegno
ne dava in modo disprezzante, indegno.

24Egli la destra ne porgea velata,
o che mentir volesse o che sdegnasse,
ma ciascun di noi due mostrò turbata
fronte a quell’atto, e ’l braccio indietro trasse.
Dicemmo o che sua man vèr noi svelata
stendesse, o che da te guerra aspettasse,
e ’l dicemmo così ch’ei la scoperse
rapidamente, e nuda a noi l’offerse.

25Nunzi e lettre mandava anco in Soria
egli per sue promesse empir d’effetto,
sì che poi come a re, non men che pria,
Tripoli desse al suo signor ricetto.
Regi doni indi avemmo e compagnia
lunga per farne un cavalier fu eletto,
questi ne traviò, credo, a mostrarne
meraviglie, e gran cose ebbe a narrarne.

26Ei toccò de gli Egizi ogni più raro
vanto, e vario sermon drizzò ad un segno.
Disse che con le toghe essi fregiaro
non meno che con l’arme il proprio regno,
e che le statue lor già favellaro
disse, e ch’essi mille arti ornàr d’ingegno,
che mistici i lor scritti e ch’essi primi
numero a gli astri dier, misura a’ climi.

27Anco narrò, questi il suo dir seguendo,
sì come tien sua fonte il Nil celata,
come assorda i vicin d’alto cadendo
e come have su ’l ciel riva stellata,
e come ne l’età forze prendendo
con fecondo involar l’onde dilata.
Parlò de le piramidi, e di limo
disse ch’è la minor, c’ha ’l pregio primo.

28Tolto tal limo fu del Nilo al fondo
con punte d’aste, et indurato al sole,
e marmo a’ pari marmi non secondo
fessi, e materia a così illustre mole.
Ma questo stesso Nil che tanto mondo
trascorre, ahi dove tragge or mie parole?
E pur meglio è tacermi -, e qui si tacque,
e tremava, e del Nil mirava l’acque.

29Creò quel suo tacer, quel suo tremore
di voler più sentir in noi desio.
– Tu mostri a chiari segni alto timore,
narra ciò che ne taci -, a lui diss’io.
Et ei: – Ben te ’l dirò, ma d’altro orrore
di quel che credi è pieno il petto mio.
Il nostro, il nostro nume ohimè n’offende,
e ’l mar ne turba, e mal per ben ne rende.

30Pietà non giova a noi, né aver tant’anni
travagliato con l’armi in suo servigio.
Il nostro Dio, non di Dasman gli inganni,
ha fatto Boemondo uom servo e ligio,
et egli stesso è per colmar d’affanni
noi, che mai non lasciammo il suo vestigio -;
né qui finiva, et io: – Dove t’aggiri,
o Ponzio, col tuo dir? come deliri? -.

31Et egli: – Odi, signor, noi fummo in parte
ove questo ampio Nilo have alta sponda
che Pelusio si noma, e pur comparte
vasta indi al mare inessiccabil onda,
però che immenso si divide e parte
e con più Nili il Nil l’Egitto inonda;
or quivi giunti noi, la nostra scorta
a tentar strano oracolo n’esorta.

32Diceane: “Alta mirar voi meraviglia
già potrete, e saper quanto bramate,
ché de’ gran ceti l’orrida famiglia
mena a pasco un gran Dio d’antica etate.
Proteo s’appella, e con divine ciglia
ei le cose avvenir mira e l’andate,
non che pur le presenti, e qui a posarsi
vien su ’l merigge, accolti i ceti sparsi.

33Molto ardir chiede l’opra, e ’n essa accinto
non paventolla lo spartano Atride,
egli il dio di ritorte ebbe ricinto
e ’n varie forme trasformarsi il vide,
che se tal dio non è da nodi avinto
dal proprio aspetto suo non si divide.
Già già ne viene, or se cotanto ardite,
tra ’l primo sonno qui voi l’assalite.

34Stringa un di coi la spada a sgomentare,
se non dormo, le foche e le balene,
l’altro il vecchio indovin corra a legare
che risposte non n’ha chi no ’l ritiene.
Ben tosto il legator vedrà ’l passare
in varie fronti di sgomento piene,
ma quanto il dio più cangierà sembianze,
tanto più in rilegarlo egli s’avanze,

35né cessi mai, finché ’l vedrà nel volto
nel quale il vide in prima, e poi il domande”.
Tacque, e noi volontari ascose in folto
bosco, entro cui suoi raggi il sol non spande.
Ivi anch’egli celossi, e dienne molto
fune, et ecco l’armento immane e grande,
l’ampia greggia di Proteo, et ei precede,
reggendo col baston l’annoso piede.

36Lungo un bel colle a gelide aure esposto
giunto ei si gitta, e grave sonno il prende,
e dorme anco il suo stuol poco discosto,
suo stuol di belve smisurate, orrende.
Impugna il ferro et esce di nascosto
il mio compagno sì, ma non offende
gli addormentati ceti, et io mi spingo
a Proteo con le corde, e ’l lego e stringo.

37Tosto svegliossi, et in leone e ’n drago
tra mie man si converse, e ’n fiamma etnea.
io giunsi nodi a nodi, e fiume e lago
et orso e tigre e pardo egli si fea.
Alfin tornò ne la sua prima imago,
torbido in vista, e torbido fremea,
poi stridendo co’ denti aspro in me fisse
i glauchi lumi, e furioso disse:

38“Onde ardir tanto? anco qui lacci e brando?
senza fine importuni or che volete?”.
Io tento di placarlo, e poi domando
onde è ch’a gir in Colco a noi si viete,
e qual destino al Nil ne manda errando
se i servigi di Dio son nostre mete.
Questo a lui domandai, che me col mio
compagno ciò saper prese desio.

39Ma Proteo rispondeva: “O quanto velo
s’avolge ne le menti de’ mortali!
mentre di pietà pieni essi e di zelo
cercan quai siano i dèi veri immortali.
Ogn’uom volare a dio, volare in cielo
di sua nativa fe’ pensa con l’ali,
et è pronto a morir per quel ch’ei crede,
e se s’inganna o no non sa né vede.

40Or dunque voi, che sopra i re regnante
e dio di tutti dèi vostro Dio fate,
e che ’l credete eterno e per cui tante
contro i re di Babelle arme impiegate,
ne’ vostri affanni, o di lui forti e sante
schiere, a gli altari suoi che non andate?
e perché voi, s’a voi tanto è interditto
l’idolatrar, venite a’ dèi d’Egitto?

41Ma poiché tanto osaste, io de’ divini
oracoli in risposta, io v’apro il vero,
il ver ch’udiran lieti i Saracini
però che ’l vostro Dio v’è ingrato e fiero.
Già non distornan voi fati o destini
dal gire in Colco, e per crudel sentiero
inclemenza di mar non vi travolse,
ma vostro Dio gli Austri sì orrendi sciolse.

42Tutti i mar, tutti i liti egli vi nega,
e i mari e i liti tutti ei vi disserra,
ei vi persegue, e di Guiscardo ei lega
il sì gran figlio ne la colca terra,
ei vi dà mal per bene, ei non si piega
per vostri prieghi, anzi sue orecchie ei serra,
ei che morì su l’infamato legno
e voi ’l chiamate Re d’eterno regno.

43Né senza mio piacer pur vi paleso
o che voi non vedrete unqua Sidone,
o se v’andrete mai, mai non fia reso
quel regno a lui che n’ebbe le corone”.
Tra questo dir, benché da’ lacci offeso,
fuggendo da mia man ruppe il sermone,
e ne l’onde del fiume si sommerse
e di spruzzato umor l’aria cosperse -.

44Qui tacque il mio messaggio, et io da santo
zelo commosso ripigliava: – Ahi lassi,
qual terger le vostr’alme onda di pianto
unqua potrà? dove volgeste i passi?
Per desio vano traviaste ahi quanto,
ahi del gran fallo a maggior fallo vassi.
Correte al sacerdote, ei con migliori
detti darà compenso a’ vostri errori -.

45Essi ubidiano, et io turbato e tristo
diceva: – Ohimè, dunque a l’Italia bella
noi porterem, noi cavalier di Cristo,
de’ falsi dei d’Egitto ahi tal novella?
Quanto era meglio aver qui cerco e visto
ove fatt’uom di Dio impresse orma novella,
o dove ei pria per Israel qui feo
tanti prodigi incontro il canopeo.

46Non venne in queste piagge ei pargoletto
col santo vecchiarel ch’ei chiamò padre
su l’animale imbelle? e ’l puro petto
ei non lattò qui di sua diva madre?
E qui creder dobbiam ch’al suo cospetto
riverenti scorrean l’empiree squadre,
e che piegando gli arbori frondosi
co’ fior poneanli in man pomi odorosi.

47E ben questo è quel Nil che ’n sangue volto
fu dal Dio ch’illustrò l’ignobil croce,
dal Dio cui vide il mondo in uman volto
e ’l mondo ei pur creò con la sua voce,
né del vermiglio mar ch’ebbe già involto
tra l’onde faraon lunge è la foce,
la marittima foce che s’aperse
e di Giosef strada a’ nepoti offerse.

48Chi sa se questi boschi non son quelli
ove tanti eremiti ebbero albergo?
Forse il buon divo Antonio incontro i felli
spirti qui fe’ di pazienza usbergo,
e ’l primo solitario in questi ostelli
forse al Ciel voltò il viso, al mondo il tergo.
ben tai cose cercar dovria in Egitto,
non i demoni, il fedel campo invitto -.

Resta insabbiato nelle Sirti (49-58)

49Io così dissi, e su i velati pini
rapido ascesi co’ guerrier, co’ duci.
Lasciammo il Nilo, et i disciolti lini
Austro gonfiò e ’n alto mar n’adduci.
Passò sei volte poi Cinzia i confini
ove ella avviva le sue spente luci,
e sotto vario ciel, sopra diversa
onda travolse noi sempre aura aversa.

50Appo Cirene in su mai poppa unire
fe’ ragion di milizia i capitani,
e ’n concilio eravam quando per l’ire
de’ venti dier muggito i mari insani.
Disperse vidi allor l’antenne gire
sopra gli incerti e rei flutti africani,
ma su la maggior Sirte, oh come io spinto
restai, d’arene circondato e cinto!

51L’armata no, però che molto atroce
turbo allargolla da l’orribil sabbia.
Fissa mia nave in terra, e senza voce
ciascun di noi parea ch’alma non abbia,
e tramontava il sole e pur feroce
de l’armato Orion crescea la rabbia,
ma ’l re di Tiro, alzando il vecchio ciglio,
animoso ne diede alto consiglio.

52Disse: – O duce et eroi, poich’ogni calle
è piano a’ forti, e perché noi portare
da terra non potrem su nostre spalle
la nave, come i Mini anco, nel mare?
Virtù ne’ cor gentili unqua non falle
e suol necessità l’opre far chiare,
e de la nave il peso smisurato
puote a bell’arte esser da noi scemato.

53Facciam ch’i remiganti anco e i nocchieri
portin su ’l dorso lor l’armi marine,
e i bei doni di Cerere i guerrieri
non men che le lor arme adamantine -.
Lodammo tai magnifici pensieri
e le luci attendemmo matutine,
pi l’alba era su ’l Gange, e tosto allora
troncammo per quell’opra ogni dimora.

54Vedi i soldati e i marinar con grave
e presto piè sotto i diversi pesi
ma rari noi sotto l’immensa nave
vedi, e né pur dal sì gran pondo offesi.
Sfondan le gambe entro l’arene cave
e pur non rallentiamo i passi stesi,
chi la carina e chi la prora abbraccia
e tutta l’amia poppa è tra mie braccia.

55Grandissimo d’etate il buon Giovanni
anco esso contendea co’ vigorosi,
et intrepido ad onta egli de gli anni
sotto il peso ponea gli omeri annosi;
dicea: – Novi argonauti, eroi normanni,
questo sudor ne fian gloria e riposi -,
e tal parlando e travagliando tutti
la nave alfin rendemmo a’ salsi flutti.

56La vela allor rapidamente al vento
diemmo, e fuggimmo entro gli ondosi chiostri,
e verso noi l’armata in quel momento
correva ancor con adequati rostri.
Disciolse ella di trombe alto concento
e chinò sue bandiere a’ segni nostri,
ma con antenne oblique essa venia
che l’aura per traverso in lei feria.

57Tornaro i duci a’ lor navili, e tosto
dietro a la poppa mia ciascun si mise,
tanto di qua e di là da me discosto
quanto l’officio suo da me ’l divise.
Indi piegammo i remi, e ’l sottoposto
pelago richiudea l’acque divise.
Taceano i venti, e poco era remota
quella Sirte crudel troppo a me nota.

58Errammo in vari liti, e variamente
poscia anco altre sei lune Eolo ne tòrse,
e ricoverarne in vario continente
e ’n isole diverse anco n’occorse.
Spesso anco fummo a rischio in mar fremente
e noi dal cielo invan reggevan l’Orse,
l’Orse di cui fa scorta la minore
a’ nocchier tiri, a’ greci la maggiore.

Raggiunge Cipro, dove i suoi compagni sono mutati in cavalli da una maga, lui no perché ha con sé un pezzo della croce (59-95)

59Dopo girar quasi infinito, ogn’aura
n’abbandonava, e Cipro era non lunge,
e volgea la stagion ch’i dì ristaura
e che sì lieta a l’equinozio giunge,
e sorgea l’ora quando Febo inaura
le cime a’ monti, e ’n India i destrier punge,
e col fulgor che dal diadema scuote
a l’aurora i begli omeri percote.

60Le vaghe region di Citerea
col primo raggio il novo sol n’aperse,
e là ’ve regna l’amorosa dea
la stanca armata il corso suo converse.
Ma più che ’l rotto mar, più che la rea
Sirte, quel bel terren d’orror m’asperse.
Or odi strani casi, odi stupori
di tutti altri stupor forse maggiori.

61Le belle idalie rive ecco già a pena
l’oste mia tocca discendendo, ahi lassa,
e non so che da la calcata arena
che ratto ogn’uom trasforma, in lei trapassa.
La fronte umana, ohimè, chiara e serena
mie squadre invitte e i duci lor già lassa,
e forma di destriero (oh che rammento!)
miseri ingombra tutti in un momento.

62Le mani fatte piè raspan la terra
et è ciascun de’ piedi un’unghia sola,
e la bocca nitriti aspri disserra
e non più articolar può la parola.
L’occhio non guarda il ciel, ma i guardi atterra
lunga dal curvo busto esce la gioia,
e ’l crin nasce su ’l collo et ampio pende
e dietro infino a’ piè la coda scende.

63Solo io rimasi ne l’aspetto umano
e ’l re di Tiro, il qual mi disse: – Fiero
egli è caso, o signor, quanto già strano
restar così cangiato ogni guerriero;
pur facciam prieghi e voti al Dio sovrano
che renda egli a costor l’esser primiero,
e che ’l ritenga in noi, come il ritiene;
ma di qual profezia qui mi soviene?

64Nel dì che per dar fine al santo acquisto
le sacre mura il Re del Ciel n’apria,
tra l’arme in vèr la tomba alta di Cristo
Pietro Eremita a ratto piè ne gia,
et io, che del pensier suo m’ebbi avvisto,
tosto il seguì con destra armata e pia,
temei non fusse offeso e ’l giunsi dove
giacque sepolto il sempiterno Giove.

65La guardia de’ pagani indi fuggita
era, e non fu chi lui contesa faccia,
ma io restai con mente sbigottita
però che un vivo sol parea sua faccia,
e da lui la gravezza era sbandita
e l’aria il sostenea con le sue braccia,
e ne’ ruvidi ammanti si vedea
candor quale non l’ha neve rifea.

66Scese anco allor dal sempiterno regno
un messaggier di fiammeggiante aspetto,
che fece a sé con l’ali sue sostegno
e sparse di più lami i muri e ’l tetto.
Questi a lui pose in mano il poco legno
ch’or dal tuo collo a te pende su ’l petto,
inestimabil dono, e vi pos’anco
la spada che per grazia arma il mio fianco.

67Il legno e ’l brando poi diemmi il buon Piero,
e “Questo legno è parte (egli a me disse)
di quel troncon santamente altero
ove Giudea l’alto suo rege affisse,
e ’n questa spada, eccelso magistero,
parte è del chiodo ch’i suoi piè trafisse:
porta a Tancredi il legno et a te cingi
la spada, e, voto pio, la tua qui scingi.

68Tienloti a mente: in loco ambo verrete
ove i guerrier di lui daran nitriti,
e contro orrido incanto ivi sarete
da queste alte reliquie ambo scherniti”.
Così parlommi, e poi con labra chete
non stette egli, che ’l pregio è de’ romiti,
et altre a me svelò future cose
e cose altre che fur, ma stanti ascose -.

69Tacque il re di Fenicia, et io lung’ora
senza alcun moto gelido restai,
e di quel ch’io vedea dubbiai talora
e talor ch’io sognassi anco pensai,
e là dove le fonti e i rivi infiora
l’erba, i nostri destrier correano omai,
e le giube scuotean su le cervici,
già non più miei guerrieri, essi infelici.

70Lagrime io traboccava, ma novello
portento tosto a sé m’ebbe rivolto:
vidi con fronte umana un grande augello
e ’l mirai fiso, e riconobbi il volto.
Stava sopra ampio fico appo un ruscello
e tutto ei sporgea fuor de l’arbor folto,
e mirando i destrier parea gioire
e ch’io destrier non fossi aver martire.

71- Ben riconosci il tuo scudier Vafrino
(egli a me disse), o re sì chiaro in armi.
Io tra tue rotte navi un rotto pino
strinsi (oh che dico!) e qui venni a bearmi,
misero, e pur non so qual reo destino
lasciommi il viso uman nel trasformarmi,
lasciommi e questa voce; ahi perché bruto
la voce e ’l viso umano anch’io non muto?

72Felici i tuoi drappelli, che cangiato
han volto, et a cui d’uom nulla rimane,
ma te col re di Tiro iniquo fato
ritiene ancor ne le sembianze umane.
Se provassi un sol punto il nostro stato
sotto pel, sotto piume o sotto lane
in te l’umanitate a sdegno avresti
e fortunati noi troppo diresti -.

73Sospirando io risposi: – Ahi tu ben mostre
col tuo parlar ch’a te tolta è la mente -.
E quegli: – Io senza mente, io pur le vostre
qualità tutte io pur mi tengo in mente.
Ascolta, io narrerò quanto a le nostre
cedon le sorti de l’umana gente -.
Stetti ad udirlo io contro voglia, et esso
il suo concetto ebbe in tai detti espresso.

74- Miseri voi, voi nudi in pria nascete
senza idioma alcun, senza linguaggio,
e qualunque sermon poscia apprendete
nulla vi giova in far lungo viaggio,
che ’n altro clima non intesi siete
e tale è il vostro natural retaggio,
miseri, e dopo breve anco camino
ovunque arriva l’uomo è peregrino.

75Non così i bruti, ch’essi han natie
spoglie a le calde et a l’algenti stelle,
né da lor madri affettuose e pie
ma da natura imparan le favelle.
Quinci lieti e securi, e per più vie
noi trapassiamo in queste parti e ’n quelle,
e ’n tutto il mondo a noi senza contese
comune è ’l suolo e patria ogni paese.

76Ma come inganna quel giocoso vetro
il qual fa travedere, e come andare
vede le terre e le cittati indietro
nocchier che lascia il porto e solca il mare,
così a falso veder voi gite dietro
delusi, e vi credete il ver mirare.
Quanto di voi mi pesa or che già informa
me trasformato altro ch’umana forma.

77Inermi anco v’espone a questa luce
l’universal benigna genitrice,
e quanti armati el animai produce?
e sol tra tutti l’uom lascia infelice.
Arare a voi conviene, e noi conduce
il senso a ritrovar nostr’esca altrice,
e di prudenza il vostro gusto è privo
e di ciò che n’offende il nostro è schivo.

78Ma per non di più in general de’ bruti,
le gru nel vigilar chi di voi eccede?
e chi ha di voi qual lince i guardi acuti?
e chi le pioggie come il bue prevede?
come usignuol chi ha sì gli accenti arguti?
e chi come la tigre ha ratto il piede?
chi vive quanto il cervo, e chi agguagliato
ha ’l ragno al tatto? o ’l veltro a l’odorato? -.

79Io qui messi le labra, e come questi
non son de l’uom gli elogi io volea dire,
e che concede a l’uom doni celesti
et anima immortal l’eterno Sire,
ma l’augel mi pervenne, e – Indarno appresti
le voci, o re (mi disse) a contradire;
non minacciar col volto, uom più non sono,
uom fui tuo servo, et a tuo pro ragiono.

80Le virtù ch’esser denno umane doti,
dimmi, non son da l’uom quasi sbandite?
Ma certo da le nostre più remoti
i vizi stan che da l’umane vite:
voi el gran tombe ergete ov’a’ nepoti
ambizioso il vostro fral s’addite,
ma noi del sepelir lasciam la cura,
provida de le cose, a la natura.

81L’auro non reca a noi gioia e diletto,
né per trovarlo andiam vivi sotterra,
né de la povertà l’orrido aspetto
temiam, né ingiusta unqua facciam noi guerra.
Che dirò ch’anco ad uom uomo è soggetto
e ch’inequale è vostro grado in terra?
e ch’è fra voi la nobiltate altera,
temeraria la plebe, ampio chi impera?

82Uom vince, impone leggi, e poi son esse
zoppe, cieche, enigmatiche e venali,
anzi or figge, or disfigge egli le stesse
e sempre a pro di sue ragion regali,
e ne flagella le città sommesse
e ministre le fa d’orridi mali,
e ’n lor difesa armarsi e per la fede
dice, ove in guardia e ’n armi egli si vede.

83Anco fonda gran ricche in piano e ’n monte
non per ischermo suo contro i nemici,
ma per minaccie e per offese pronte
contro ogn’ardir de’ sudditi infelici.
Così, qui trasformata or la tua fronte,
tu fossi uno di noi lieti e felici,
come è ver ciò ch’io dico e come a torto
inaspri il ciglio, e fier mi guati e torto.

84Quai pretension non forma e finge
su gli altrui regni un re di gran reami?
e tra’ discordi re come si spinge
là dove il men possente avien che ’l chiam?
Quei consumansi intanto, egli poi stringe
spada ch’al reo voler squarcia i velami;
opprime i quasi oppressi, e monarchia
chiama la crudeltà, la tirannia.

85Quinci quanto il tributo? e son misfatti
e son delitti il farne unqua lamenti,
e le convenzioni e i regi patti
fur per inganno, e’ regi giuramenti.
Così a rea servitute or vengon tratti
de l’infelice Adamo i discendenti,
noi tra noi ci lasciam pria l’alma tòrre
ch’alcun ne sforzi libertà deporre.

86Ma per lungo uso l’uom ceppi e catene
non sente, e soffre insopportabil soma,
né scote il giogo che su ’l collo ei tiene:
Spagna oggi il dica, e prima Italia e Roma,
et apprende (et un altro egli diviene)
barbare usanze e barbaro idioma,
e spesso cangia fé. Ma udir ti resta
gran ose, e torvo pur crolli la testa.

87Passar non sanno ereditari gli odi
ne gli animai che voi chiamate belve
come in voi, figli d’Eva, e ’n diri modi
orrende anco per voi fansi el selve.
Vostre l’empie opre son, vostre le frodi,
ogni città per voi par che s’inselve;
voi siete e bruti e fere, e de la gola
e del lusso v’è nota anco ogni scola.

88In voi lussuria fa l’ultime prove,
anzi coi siete a lei stimolo e sprone;
ma noi per generar natura move
con tal diletto a debita stagione.
Arte di Coco in noi non è chi trove
ch’è di sì vari morbi a voi cagione,
né basta a nudrir voi l’aria e ’l terreno
e del fecondo mar l’immenso seno.

89Ogni cibo c’+ cibo, et il vorace
lupo l’erbette pur lascia a l’agnelle,
e non usurpa l’aquila rapace
l’esche minori a volatore imbelle.
Tazze di gemme e coltre d’or vi face
il lusso, e ’l lusso vi fa specchi e celle,
vi preme l’uve, e toglie i fieri ghiacci
a’ monti perché a voi Bacco s’agghiacci.

90Dunque a voi tra sventure e tra difetti
dura è concessa e miserabil sorte,
et anco voi cangiate in rei diletti
da la natura a coi le gioie porte.
Or che vi val con colti alti et eretti
mirar il cielo e gir per vie sì torte?
che vi val la ragion se l’abusate
et esser bruti voi che non bramate? -.

91Tacque lo strano augel c’ha d’uom la faccia,
ma ’l saggio re di Tiro a lui rispose
gridando (e pria fe’ segno a me ch’io taccia):
– O dolci, o rare, o non più intese cose!
Perché l’umanità che sì m’impaccia
non lascio in queste piagge avventurose?
Ma tu narra, o Vafrin, chi fa qui tanto
stupore -, e quei risponde: – Arte d’incanto -.

92Giovanni replicò: – Scopri tu ancora
chi sia il mastro gentil d’arte sì bella -.
E l’augel: – Donna è desso, e fa dimora
sovra un lago, e Filidia essa s’appella,
e serpi alate ancor giunge talora
ad un carro che sembra aura e procella -.
– Come alberga su ’l lago (allor ripiglia
il buon fenice), e qual seco ha famiglia? -.

93- Su quel poggetto (il volator gli dice)
s’ascendi tu, per te tu te ’l vedrai.
Pur tal maga se stessa a far felice
non so per qual cagion non cangia mai;
né trasformarsi a’ servi suoi pur lice,
et ella ogni beltà vince d’assai.
Forse a sé, forse a’ suoi costei, che bea
qui tante genti, altre qui gioie crea -.

94E ’l cavalier: – Dunque altri qui lasciaro
oltre i nostri compagni i lor sembianti? -.
E lui, l’augel: – Ben quanti qui abitaro
o son pesci o quadrupedi o volanti,
e quanti ancor qui l’ancore gittaro;
ma mi chiama ella a sé con novi incanti -,
né più formò parola, e i vanni scosse
pauroso, e l’aria a ratto vol percosse.

95Ma di maga sì fella a che non lasso
in silenzio io le cose empie e diverse?
e perché ratto a dir io non trapasso
come ciascuno in uom si riconverte?
Ciascun che di sua forma era allor casso,
ciascun che ’n altra imago ella converse».
Così Tancredi, e de la cipria maga
l’istoria ei trapassava orrenda e vaga.

La regina, ingelosita, lo esorta a proseguire (96-101)

96Ma la tanto d’amor arsa reina
per quello trapassar prese sospetto,
e ne sentì la fredda e viperina
ferza di Gelosia tra ’l caldo affetto.
A la percossa algente e repentina
ella tremò la fronte e ’l grembo e ’l petto,
et al tremar de le sue bianche poppe
il sermon del suo vago ella interroppe.

97Pur in quei tersi avori egli rimane
fermo con gli occhi, essa di lui nel viso,
ghiaccio e foco ella, ei tutto fiamma e insano,
le voglie d’ambo e ’l senno e ’l cor conquiso.
«Signor, «gli disse «e non sia tra sì strane
ree meraviglie il tuo parlar reciso:
dimmi, signor, ciò che l’iniqua feo,
quanto a te nocque e quanto in te poteo».

98Chiuse con un sospir queste parole
e si coperse di sudor di gielo,
e sembrò stella cui col raggio invole
ne’ pleniluni suoi la dea di Delo,
e sembrò l’alba se la giunge il sole,
ma ’l bel collo asciugando ella col velo
parea sua man, ch’è limpido alabastro,
lungo la via del latte un candid’astro.

99D’essa il geloso affetto il regio amante
tosto conobbe et affidarla volse,
né di mira cessò nel biancheggiante
limpido seno, e tal sermon disciolse:
«O su i corpi e su i cor donan regnante,
per le doti che ’l Cielo in te raccolse,
dirò il tutto de l’empia e piacer forse
per lo caso n’avrai ch’ad essa occorse.

100Come io vinsi i suoi vezzi e contro lei
anco udrai come il Ciel diemmi favore».
Matilde a queste voci ebbe tra i rei
moti di gelosia requie nel core,
e qual s’incalma a’ zefiri sabei
il mar cui tempestò d’Austro il furore,
tal cessando il timor, vaga et allegra
costei si mostra, e i guardi altrui rallegra.

101Ridon gli occhi leggiadri, il collo ride,
ridon le chiome inanellate e belle,
ride la fronte e ridon l’omicide
dal cinto d’Asmodeo cinte mammelle,
né rider così dolce unqua si vede
Venere in Cipro o tra l’erranti stelle.
Ma tutti in vèr Tancredi erano intenti
et ei ricominciò con questi accenti.