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Il Tancredi

di Ascanio Grandi

Canto VI

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 27.09.15 11:21

ARGOMENTO
Dansi al sovrano eroe vanni immortali
e le Sirene ei vince e ’l ciprio incanto,
indi contro l’Arpie battendo l’ali
profetico in Parnaso ode alto canto.
Poi per sottrarsi a grandini mortali,
ond’egli in aria era già pesto e franto,
vola su i nembi; alfin su l’onda ispana
maga ei schernisce perigliosa e strana.

Prosegue il racconto di Tancredi: riceve un paio di ali dall’Angelo custode, supera le Sirene della maga e le taglia i capelli, liberando i suoi dall’incanto, Vafrino muore per mano della maga(1-40,4)

1«Rimase con pensoso immobil ciglio
il saggio di Fenicia, o gran reina,
e come se mancasse a lui consiglio
tenea la fronte irresoluta e china,
ma dentro un lampo candido e vermiglio
Angel scendea da la magion divina,
e tra sue tempie a lettre di splendore
scritto era: DE’ NORMANNI IL DIFENSORE.

2Battea grand’ali ei dietro il tergo, et ali
portava in man pur grandi e luminose;
queste mi diede, egli a me giunto, e ’n tali
voci il rigor divino allor m’espose:
– Dio, ch’a primi là su de gli immortali
anco i decreti suoi spesso nascose,
oh quanti affanni, oh quanti mar frapone
tra le tue navi e ’l tuo buon zio prigione!

3Pur non temer se per magia sì orrenda
di ferin volto è l’oste tua vestita,
che la sua forma a lei fia che tu renda,
et a gente altra qui quasi infinita.
Ma, per far ciò, convien che tronchi e fenda
tu quell’oro a la maga ond’è crinita:
così sciorrai l’incanto. Or da te lega
quest’ale, e poscia a tempo in lei le spiega.

4Mentre terrai tai vanni al tergo avinti,
parranno essi in tue spalle esser già nati,
e porteranti ovunque gli avrai spinti,
servi del tuo voler, da te spiegati.
Ma siano i sensi tuoi di marmi cinti:
quai vezzi or or in te siano impiegati?
quai canti quai bellezze? e quai diversi
a la ragion guerriera oggetti aversi?

5Usa tu la virtù, ma qui et altrove
ne’ rischi a Dio ricorri, e statue e tempi
prometti a lei ch’è madre al vero Giove,
e ’n ciò de gli avi tuoi segui gli essempi;
ella in Ciel la giustizia a pietà move,
toglie ella a l’uomo i minacciati scempi.
Ma sciolta la magia l’ale a te sciogli,
e per altr’opre pie serbar le vogli -.

6Tacque, e disparve, et a te, genitrice
de l’uman Dio, quai voti allor non fei?
– O santa (indi poi dissi), o beatrice
di là noi guarda, ove sì eccelsa sei -.
Ma su l’ali stupia l’eroe fenice,
io legati n’avea gli omeri miei,
io le scotea, et io librato in elle
sentia le membra agili in aria e snelle.

7Ma già i consigli poi tra noi distinti,
ei restò co’ guerrier fatti cavalli,
co’ miei guerrier, che per ferini istinti
pasceano l’erbe omai tra colli e valli.
io chiusi il seno a i vanni, e i passi spinti
ebbi in terra, e co’ piè calcai quei calli,
e tosto superai l’umil collina
ch’a le delizie magiche è vicina.

8Vidivi il lago, e scesi in vèr l’amene
rive sue molli per erbosa via,
argentee l’acque d’esso, auree l’arene,
e ’l sol con più bei lampi in lui feria,
e ruscelletti d’odorose vene
per tributari suoi la terra apria,
e fiori a piè del colle e frutto et erba
unian l’autunno a la stagione acerba.

9Scorgonsi fuor da l’acque al lito intorno
dal cinto in su dolci Sirene e crude,
e van tra le Sirene e fan ritorno
leggiadre anch’elle pescatrici ignude.
Ma quai mense su l’onde in bel soggiorno?
quai lussi ivi di gola? e quali chiude
ivi la maga giovinetti in gonne?
et in maschio vestir quai molli donne?

10Ciò che tranquille voglie informe e crea,
ciò che ne l’alma infonde ozi e diletti,
ciò che gli spirti adesca e i sensi bea,
ciò che maschi pensier toglie da’ petti
anco è su ’l lago, e quella vaga e rea
in sé d’ogni piacer mescea gli aspetti,
e su nave venìa che ’n bel lavoro
elettro ebbe in materia, ebano et oro.

11Seta le sarte, et ostro et or la vela
e pargoletti Amori i marinari,
finti Amor pargoletti, e ciascun vela
gli occhi, ma sembra lince in quegli affari,
e più d’un piglia l’arco, e ’l tende e de la
faretra tutti vibra i dardi amari,
la vibra in sua reina, e par che voglia
far serva a’ miei desii di lei la voglia.

12Tali i nocchier, né i remator son questi
no no, ma in fresca età scelte matrone,
somme in bellezza, e pur tu le diresti
non belle di Filidia al paragone.
Da la cintula al piè scendon lor vesti,
il resto a gli occhi altrui nudo s’espone,
e di perle eritree fili lucenti
son catene a’ bei piedi et ornamenti,

13Et un di quegli alati in esse scuote
di piume di pavon forza leggiera,
ferza di piume occhiute, in sui sue rote
par che raggiri la stellante sfera.
ma udir fean le Sirene in molli rote
armonia dilettosa e lusinghiera,
ch’a laberinti di soavi errori,
ch’a dolce oblio traea gli spirti e i cori.

14Troncaro il canto tosto che conversi
d’improviso vèr me fur gli occhi loro,
e pur di canto in sensi non diversi
muti messaggi i lor silenzi foro,
però che cominciò novelli versi
una che più vezzosa è tra costoro,
e tanto di beltà pria volse darmi
e poi, seguendo, armonizzò tai carmi:

15- Anzi che l’alma informi umana vita
bever in duo gran vasi a lei conviene,
di favi ha l’un soavità condita,
l’altro estreme amarezze in sé contiene,
ma semplicetta a qual de’ duo l’invita
volontate o vaghezza ella pria viene,
e non discerne, ahi misera, qual pieno
di nettare le sia, qual di veleno.

16Se prima assaggiò il mèle, e gioia n’ebbe,
ne l’altro vaso i labri apre e dilata,
che simile al licor che dianzi bebbe
crede essa l’altro, et ènne avvelenata,
e se prima col tosco al gusto increbbe
l’altra urna poi da lei poco è libata,
che tosco anco la stima, e così bèe
assai più ’l fel che le dolcezze iblee.

17Quinci è lo stato umano un fier tormento,
cui mista è di piacer minima stilla,
signor, ma te qui far queto e contento
può nova dea, ch’i sensi egri tranquilla,
dea che fuga le noie in un momento
e dentro i cori eterno ben distilla.
Mira sue mense, e di delizie carca
mira la nave onde tal dea ne varca -.

18Così cantava la crudel sirena,
ma l’empio canto era da me schernito,
ond’ella tutta di disdegno piena
un bel roseto m’additò fiorito,
e poi ricominciò: – Mira serena
l’aria intorno a quel cespo almi e gradito,
e pensa ivi in un dì fanciulla e vecchia
la reina de’ fiori, e ’n lei ti specchia.

19Stamane era bambina, et or che ’l giorno
giunto è al merigge, è giovane la rosa,
e pria che ’l sole al mar faccia ritorno
la rivedrai già vecchia et odiosa.
Non ha, non ha l’età saldo soggiorno,
e par che piè non mova e mai non posa,
cogli tu ’l fior de gli anni anzi ch’ei cada,
che invan sen pente poi chi a corlo bada -.

20Tra questi accenti oh quanto da vicino
su quella nave sua vid’io la maga!
Parea informata da splendor divino
l’empia, dal piede al crin leggiadra e vaga,
e vestiva di pregio pellegrino
gonna ch’alto lavor fu d’arte maga,
gonna che variava in guise mille
la materia, le foggie e le faville.

21Strana gonna, e sembrava in suoi stupori
or ella un bel cristallo trasparente,
or di porpora intesta e di begli ori
pareva, e ciò che aprio chiudea repente.
Ma non chiudea ’l bel seno, e di candori
vi disserrava un gemino Oriente,
or trapungeasi in suso, et a le ciglia
offriva altra amorosa meraviglia.

22Era il trapunto reo tutte figure
su le braccia, su gli omeri e su ’l petto,
e dove si fendea scopria le pure
nevi del corpo, e ricondia il diletto,
e ’n tante guise i cor parea che fure
in quante i raggi apria del chiuso obietto,
e de le membra al moto era più vivi
quei lampi imprigionati e fuggitivi.

23Ma traean le vezzose vogatrici
i remi a suon di cetra anele e belle,
et or volgean le limpide cervici
ora le candidissime mammelle,
ora le fronti di splendore altrici
ergean supine a riguardar le stelle,
sempre appressando a me de la navale
sponda la parte onde si scende e sale.

24Da tal parte pendea scala gemmata
e la maga ivi alfin sospinge i passi,
e per accoglier me, vèr me piegata,
tra gli imi gradi oh come muove e stassi!
Afflitta appar nel volto e dolorata
quasi il quadrel d’Amore il cor le passi,
et in un atto che tacendo geme
scioglie la lingua e poi le voci preme.

25Trema e sospira e langue e i lumi inchina,
e contendon per lei bellezza et arte,
e un non so che di lucido ch’affina
i colori, ond’Amor gioie comparte.
Schietta mi porge ancor l’alabastrina
man, che da ricco guanto essa diparte,
e la magica gonna apria in ben cento
modi in quel punto i bei membri d’argento.

26Allor novelli canti, allor feconda
crearo aura d’Amor l’arene e i rivi,
e sovra il lito a me corser da l’onda
le mense, et ogni ben parve esser quivi.
Non toccai le sue dita, e pur gioconda
finsi la fronte in atti allegri e schivi,
e che scioglia l’incanto io sol pregai
l’iniqua, e le sue ree chiome insidiai.

27Pregai ch’ella de l’uom l’alta figura
render volesse a nazion cotante,
ma perch’io la vedea guardinga e dura
strinsi la nave in torbido sembiante;
susurrò carmi allor con fronte oscura
costei, vera nemica e falsa amante,
turbò il viso seren, né venne meno
la bellezza in quel torbido sereno.

28Tra quel turbarsi e ’l mormorar suo mago
ecco il suo carro comparir repente,
avinto era al timon gemino drago
et era alato il duplice serpente.
Auriga ella sen fece, et aspro e vago
flagel la destra avea bianca e lucente;
le briglie ne la manca; io, che ciò scersi,
trassi il ferro in un punto e l’ali apersi.

29L’ali celesti, e mi levai sopr’esse,
e seguii l’empia; ella in me gli occhi tòrse,
ma le penne ch’ad uom non son concesse
vide, e le mani per dolor si morse.
Rallentò i freni a’ pennuti aspi, e presse
lor terga con la ferza e ’l ciel trascorse,
et io batteva i vanni alti e divini
che ’n me parean nativi e peregrini.

30Sembrava augel che fugge ella, et augello
che ’l segue in suo fuggir rassembrav’io,
e volgea e rivolgea rapido e snello
suo volo, ove il giungeva il volar mio,
ma con la spada io ricolpiva or quello
or questo volator vipereo e rio,
essi spiravan fumo in fiamme involto,
e n’era con la maga il carro avolto.

31L’empia formava ancor magiche note
ogni suo sforzo in me fiera impiegando,
né cessavan le sue, né le mie rote
sempre essa altrove, io sempre in lei girando.
Ma le ceraste omai di spirto vòte
erano sotto il mio fulmineo brando,
precipitava il carro, et io afferrai
de la maga il bel crin pien d’aurei rai.

32Strinsi quei morbidi ori, e d’essi il molle
tatto mandò fiera dolcezza al core,
ma tosto contro il senso avido e folle
il Cielo a la ragion prestò favore:
gli incanti a scampo suo rinfrescar volle
pur l’empia, e pur fu van suo reo valore,
per le chiome io la trassi e tòrsi il volo
colà dove annitriva ogni mio stuolo.

33Poi, mentre io l’affilato acciar conversi
a pro del mondo incontro i suoi capelli,
in sibili e ’n serpenti essi conversi
orrendi si mostràr quanto pria belli,
rivolgendosi in sé, facean diversi
strisci intorno a mie man gli angui novelli,
troncaili, e treccie io li rividi, e intanto,
troncato il mago crin, cadde l’incanto.

34Gloria il tutto al gran Dio: lor prime forme
fur rese a’ miei guerrieri in quello istante,
e d’animai diversi oh quante torme
ripigliavan d’Adam l’alto sembiante.
Già stampavan la terra con nostr’orme
come stampata già l’aveano innante;
chi ’l crede? e tra’ miei piè più d’una biscia
cresce, e torn’uom, mentre tra l’erbe striscia.

35Vidi in terra calar squadre d’alati
et in figura umana rimangiarsi,
vidi i pesci da l’acque irne su i prati
e de l’antica umanità ammantarsi;
ma correan tutti a me da vari lati,
colmi di meraviglia ad atterrarsi,
vari di lingue, e stupida la mia
oste sen venne ad abbracciarmi in pria.

36Tra gli altri a sé spogliò ferine
il re di Cipro, e me, ch’alato nume
ei stimava, adorò, come divine
cose adorar è santo e pio costume.
Sollevailo, e gridai: – Perché t’inchine?
Mortal son io, non mie son queste piume.
Giù l’eterno Signor per grazia scelse
il mio imperfetto ad opre così eccelse.

37A lui rendi tal dritto, e drizza cento
altari a lei che ’n terra il partorio -.
Così parlai, ma vergognoso e lento
girarsi allor tutto uom Vafrin vid’io.
Torva il mirò la maga, e con accento
fiero a magiche note i labri aprio
(duro a pensarlo) e ’n dure e strane guise
sol con suoi versi il mio scudiero ancise.

38Tutto sdegno e dolor vèr lei mi volsi,
gridando; – Ah pur ritenti? ah pur tant’osi? -,
e per punirla in gran pensier m’avolsi,
né dentro il petto il mio voler nascosi;
pur girai gli occhi in alto, e prieghi sciolsi
dal profondo del cor giusti e pietosi,
et a pro de’ mortali era su ’l Cielo,
mercé del Ciel, gradito allor mio zelo.

39A sinistra tonò l’ampio orizzonte
e terror n’ebbe l’empia et – Ohimè – disse,
poi fessi un marmo, e ’n sua cangiata fronte
restò la forma in cui sì bella visse,
E pietra effigiata al vicin monte
meravigliosamente ella s’affisse,
l’ale io mi scinsi, e nel funereo vaso
Vafrin fu posto, e scritto ivi il suo caso.

40Volsi che su la tomba anco pendesse
lo scudo e l’asta, ministeri suoi,
ma per futuro cibo, oh quanta messe
providi e tristi indi apprestammo noi.
Al fin furon le vele in uso messeLibera Corinto dalle Arpie (40,5-65,6)
e tu le apristi, Austro, co’ soffi tuoi,
e mi seguian d’Asia e di Grecia molti
guerrieri, a prieghi lor da me raccolti.

41Indi più giorni poi me la sovrana
providenza mirò con liete ciglia,
e con dolci aure io costeggiai la piana
e l’alpestre Cilicia, e la Pamsiglia,
e Licia portentosa, ove la strana
chimera f sì orribil meraviglia,
e quel lato di Caria, in cui dechina
la chiara Rodi, e la dictea marina.

42E de la Caria ancor vèr l’altra parte
fin al Meandro andai, fiume giocoso,
fiume che cala e monta e torna e parte
per mille calli incerto e flessuoso,
e su l’Egeo le Cicladi cosparte
vidi, e quasi tra lor l’Egeo nascoso.
Queste fanno su ’l mare un laberinto
né sai se ’l mar le cinge o se n’è cinto.

43Ma qui turbarsi la bontà divina
parve di novo e minacciarne morte,
tornò l’aquilonar pioggia e l’austrina,
e tutte aperse a’ venti Eolo le porte.
Mobil montagna allor l’onda marina
or nel centro or su ’l ciel parea ne porte,
frante l’antenne, e non avea più loco
l’arte di Tifi omai molto né poco.

44Battean l’acque le Cicladi et ardenti
scioglieansi indi, e dal ciel mille baleni,
e per vie torte i fulmini stridenti
cadeano anco essi di sgomento pieni;
le carine per gli urti violenti
tra le giunture apria gli interni seni.
Io, come appresi da l’empireo messo,
fei voti a lei ch’a Dio tanto è dappresso.

45A le Vergine e madre, e ’n doppia stella
col figlio in su l’antenne essa appario,
cessonne ogni tempesta, ogni procella,
e tai numi in due stelle allor vid’io;
poi l’ismo era da presso, ove la bella
opra tentò l’imperador sì rio,
e quinci e quindi a me veniano achei
eroi, con remi arando i flutti egei.

46Venian pallidi et egri, indi atterrati
et in concorde suono – Ahi noi (dicieno),
ah son l’inique Arpie portenti alati,
con volti di donzelle infino al seno
lor ventri senza fin sempre affamati,
di fetore ogni lor membro è pieno,
artigli ne le mani orribil hanno,
e recano a la Grecia oltraggio e danno.

47Tu, che di Borea i figli, e chi ’l destriero
alato resse in aria ombri col vanto,
tu, cui Mercurio no ma ’l gran Dio vero
diè vanni veri incontro il ciprio incanto,
scaccia tai mostri, e spingi a Scizia il fiero
loro digiuno insaziabil tanto,
o stirpe del grandissimo Guiscardo,
o novo a pro del mondo Ercol non tardo.

48Vola, vinci, ritorna. Esse predaro
qui greche prima e poi troiane mense,
e scacciate ne furo, e sai qual chiaro
indi in Grecia e tra voi grido ritiense.
Astolfo poi l’inglese eroe, ch’avaro
pur fu del vanto ch’a gran merti attiense,
le chiuse entro gli abissi e l’empie han rotta
la siepe ond’ei serrò la stigia grotta.

49Sono anco invulnerabili e le viti
van depredando, e i campi e gli orti ahi queste
Arpie sì orrende, e i bei giardin fioriti,
e lascian fame estrema e lezzo e peste.
Fugale, invitto eroe, da’ nostri liti,
fugale, e sembra messaggier celeste.
Ma dove l’ali sante? ove son esse,
l’ali onde in aria hai sì belle orme impresse? -.

50A’ Greci io volea dir ch’eran molt’anni
ch’io scorrea il mar per liberar Boemondo,
che soffrirei per lor tutt’altri affanni
tosto a colui di servitude il pondo,
e cinto allora di celesti vanni
discaccierei l’Arpie verso altro mondo,
poiché dritto non è ch’uomo a gli altrui
unqua posponga i gravi affari sui,

51ma repentine, rapide e frementi
venian l’Arpie versando un tetro odore.
In lor gli arcieri io fei scoccar non lenti,
e l’empie anco spargean lezzo et orrore;
giungean gli strali in lor, ma nebbie e venti
parean colpire, e crebbe indi il terrore,
ch’intorno a l’alte gabbie eterni giri
fean quei drappelli alati immani e diri,

52talch’a scacciarli allor da nostre navi
cinger l’ali celesti a me convenne;
spiegaile, e pria lasciai su i legni cavi
mia vice a chi la resse e la sostenne,
e, quasi tolti al corpo i pesi gravi,
presi a volar con le commosse penne.
Grecia stupì quand’io ciò feci, e quando
contro tai mostri in aria io strinsi il brando.

53Scacciaili a gran fatica, et a gli stessi
io m’attergai lungo l’aeree vie.
Erano i colpi miei fulminei e spessi,
ma che, se sempre illese eran l’Arpie?
Pur tra stridi battean vanni indefessi,
fuggiano, e pur fuggendo eran restie.
Verso Elide volaro, e poi su ’l monte
ove il destrier col piè fe’ ’l sacro fonte.

54Io vidi rinfrancarsi al mio passaggio
de l’alme Muse gli arboscelli e l’onde,
che da quei strani augelli un duro oltraggio
avuto avean quell’acque e quelle fronde.
Sudò tra i lauri e rinverdissi un faggio
e n’uscieno armonie gravi e gioconde,
di musici parean cori altercanti
e mie orecchie ferian poi questi canti:

55- O duce, che de’ duci in compagnia
a’ santi muri diesti libertade,
et apristi di Cristo e di Maria
verso i sepolcri al peregrin le strade,
sommo poeta eccelsa poesia
deve a tanta pietà di vostre spade,
poeta ch’eternando i vostri nomi
l’invidia empia di scorno e ’l tempo domi.

56Tal vel destina il vero Dio, ma quali
il mondo al suo cantar vedrà stupori?
Vedrà veracemente piegar l’ali,
muti per lui sentir gli augei canori.
A i sassi l’uomo, e l’uomo i sassi uguali
rendrà quel canto, a sé trarrà gli allori,
arresteransi i fiumi, e senza moto
fian l’aure per udirlo e ’l cielo immoto.

57Ma però che da ceppi alfin disciolto
sarà per la tua destra anco il tuo zio,
pur quell’altro tuo affanno a Lete tolto
fia da scrittor che schernirà l’oblio,
il qual non tacerà quanto travolto
in mar t’abbia il voler del sommo Dio,
e stirpe egli sarà del regal veglio,
cui consigli al tuo valor son speglio -.

58Ciò su Parnaso, et indi oltre io trascorsi
perseguendo l’Arpie, ma quando poi
volli, lasciando i lor seguaci dorsi,
tornar dove lasciai quei greci eroi,
no ’l permiser l’inique, e ben m’accorsi
o Re del Ciel d’altri decreti tuoi:
volesti tu ch’allor per me fugati
fosser di qua da Grecia i mostri alati.

59Già tosto si voltàr ch’io mi voltai,
talché pur rivoltarmi a me convenne,
di novo il ferro incontro lor vibrai,
di novo essi a fuggir torser le penne.
Tre volte e quattro in modo tal né mai
altro ch’indugio al mio travaglio avvenne,
sì ch’ostinatamente io poi disciolsi
il volo, e dietro più volto non volsi.

60Et intanto Acheloo vidi e i tre monti
che l’un su l’altro alzàr gli empi giganti,
quando superbi e con ardite fronti
guerra a’ regni portaro alti e stellanti.
Vidi la patria d’Alessandro e i fonti
d’Arcadia, e ’l chiaro Eurota io vidi inanti,
vidi i muri ove nacque il fiero Achille
e città varie et infinite ville.

61Alfin la squadra ch’orrida si spazia
pe l’aria innanzi al tuon de la mia spada,
piegò lungo Adria, e pria passò Dalmazia,
sempre girando per l’aerea strada.
Ah vèr l’Italia, in cui mai non si sazia
barbara fame e cui ’l suo male aggrada,
volavan gli empi mostri, atroce vista,
e l’alma io n’ebbi sbigottita e trista.

62Dissi: – Or dunque tal peste a recar vegno
nel mio natio paese io non volendo? -,
e ’n questo dir sferzai l’ali e lo sdegno
per divisarne quel drappel sì orrendo,
il qual, visto troncar suo reo disegno,
si strinse et aspro in me corse fremendo,
come un nuvol di pecchie et in mio volto
ogni suo artiglio era spiegato e volto.

63Duro a ridirlo, io ricolpiva in vano
i corpi invulnerabili, pennuti.
Forse vinceano ancor se l’Adriano
mare in tant’uopo non porgeami aiuti:
più che gonfiossi mai l’ampio oceano
intumidir quei gorghi ebbi io veduti,
anco ruggiro, e vidi a lor ruggiti
attoniti i rei mostri e sbigottiti.

64O tal propria virtù siasi in quell’onde
o qualch’Angel l’Italia ivi difenda,
Adria per lei fugò di tante immonde
e fameliche Arpie la torma orrenda,
e fu che molte intanto anco n’affonde
l’acqua sua troppo ad esse aspra e tremenda,
Adria schermio l’Italia, et a tal riva
tanta salute italica s’ascriva.

65Poich’Adria absorse e parte in fuga mise
l’Arpie, più bella in vista Esperia fue,
l’Italia esperia, e bella anco ne rise
Dalmazia in su l’arene ultime sue;
risero, o dura Epiro, in nove guiseViene quasi abbattuto da una tempesta, si salva atterrando in Puglia, l’Angelo lo informa degli inganni di Coridonia (65,7-81,2)
l’aeree balze ancor de l’alpi tue.
Ma tutto a un tratto, in nuvoli ristretto,
l’aria turbossi e cangiò il vago aspetto.

66Adombrò i monti e i mar nubilo velo,
e ’n fiero ghiaccio un reo vapor si strinse,
e dira pioggia d’indurato gielo
procellosa e sonante se ne scinse.
Già grandinando lapidommi il cielo,
e rischio insuperabile mi cinse,
tale su l’ali mie, su la mia testa
cadea d’umor gelato aspra tempesta.

67Membrai ch’egli sen va provvidamente
l’airon su le nubi allor che piove,
ci va perché là su splende lucente
il sol, né là su la nube avien si trove.
or contro tanta gragnuola cadente
alcun refugio io non avendo altrove,
imitai questo augello, e chiaro clima
trovai, giungendo a l’atre nubi in cima.

68Come quando la luna esce da eclisse,
uscii da’ nembi e sotto me remote
balenavano poi le nubi scisse
non mai tra ’l balenar di tuoni vòte.
Io mi reggea su l’ali, e tenea fisse
le luci verso le stellanti rote,
ma notte era sotterra, e tutta il sole
empìa di lume la celeste mole.

69Or qual lusinga lusingò le mie
voglie là suso con pensiero ardito?
Questa a varcar tutte l’eteree vie
dolce mi fece un temerario invito.
Per sentir et udir l’alte armonie
de’ cieli e i cieli anco palpar col dito,
e per mirar a l’un l’altro emisfero
congiunto, e n’ambo uniti il mondo intero,

70et anco per veder, piegando il ciglio,
come a tutto il terren l’aria è sostegno.
Ma sprezzai tra me stesso un tal consigli,
né mossi il volo audace a sì gran segno,
e mi sovvenne del caduto figlio
di lui che ’n farsi l’ale usò l’ingegno,
l’ale ch’ei trattò in aria e su Nereo
per fuggir la prigion del re dicteo.

71Alfin sotto i miei piè sparia ogni nembo
e i bei lampi del sol fioccavan giuso,
et indorando a l’aria il basso lembo
apria gli scogli e l’onde il lume infuso.
Io, per posarmi a la mia Italia in grembo,
scesi co’ vanni aperti al tergo in suso,
ella tra ’l Po m’accolse e la picena
orientale sua primiera arena.

72Esca dolce, ma semplice e selvaggia,
frutto d’arbore agreste, ivi gustai,
ma pria rifulse il ciel, tremò la piaggia,
e co’ piè fermi in terra Angel mirai.
il lume onde costui col volto raggia
vincea del giorno i più fulgenti rai,
et a me disse: – O glorioso duce,
tu mie voci ad udir qui ’l Ciel conduce.

73Per occulto mistero a Palestina,
sappi, tolto sarà l’alto e sacrato
ostello ove de’ Cieli a la reina
discese in terra il messaggiero alato,
e su questa ch’io guardo erma collina
per angeliche man sarà traslato,
e divino tesor per la tua bella
Italia esser dovrà sì dive cella.

74Intanto qui da me si toglie e vieta
ch’empio piè non imprima orme profane,
qui dove allor devote il gran pianeta
vedrà genti inondar basse e sovrane.
Verran qui scalzi i re, qui fia la meta
tra le miserie a le speranze umane,
ma tu volando or ritornar non dei,
già in Adria son tue navi, a’ liti achei.

75Verso l’Epiro halle Dio spinte, et esse
or corron tra i Cerauni e tra Salento,
ma strana maga affonderà le stesse
con dolce e mortualissimo portento,
s’avrai tu mie voci in oblio messe,
o s’i miei detti eseguirai pur lento,
o se colei che ’l Creator produsse
indi a scamparti allor pronta non fusse.

76Coridonia s’appella, e mille aspetti
prende in un punto la sì strana maga,
e si mostra a ciascuno in quegli oggetti
onde tolta a ragion l’anima è vaga,
talch’ogn’uom vede in essa i suoi diletti
e corre a lei, ch’è sì diversa e vaga,
ma tra sì dolci larve il tragge intanto
entro naufraghi sassi il fiero incanto.

77Chi vuol ricchezze in masse d’or la mira,
l’ambizioso lei crede il suo bene,
et il goloso attonito l’ammira
in sembianza di prandi anco e di cene,
e se l’amante i lumi suoi v’aggira
la fronte amata finge ella e ’l ritiene,
et al nemico il volto del nemico
mostra, si risveglia in lui l’obligo antico.

78Dunque ad indegno fin trarria costei
i tuoi compagni e te con tai suoi volti,
che la sua gioia ognun credendo in lei
tutti v’andreste forsennati e stolti.
Ma pur contro l’iniqua aer tu dei
intorno al cor marmi e diaspri avolti,
ratto allor quel temon metti in tua mano
che rege Celio, il tuo nocchier sovrano.

79Fugga l’armata, e sian, fuor che ’n tuo ciglio,
bende su gli occhi altrui su ’l tuo gran legno,
e dal ciel chiama nel maggior periglio
lei che fe’ nel suo grembo a Dio ritegno.
Di bei fiori cadrà biondo e vermiglio
nembo, e ’n calma starà l’ondoso regno,
quando vicin fia sì gran rischio -, e ’n queste
note il suo favellar chiuse il celeste.

80O gran donna regal, ma de le sue
voci, che ’n tante voci or io t’espressi,
non disteso il tenor, ma un fiato fue
ch’articolossi e più parole fessi,
ned io ridirlo a l’alte orecchie tue
potrei s’io qui lingua di vento avessi,
lingua che mandi dritto, unito e folto
un sermon vario in ratte note accolto.

81Poi quell’angel disparve, et io il terreno
baciai dove verrà l’ostel divino.
Alfin, partendo, apersi a l’ali il senoRaggiunge la flotta, un fortunale lo porta dalla Puglia verso la Spagna, qui grazie alla Madonna scampa alle insidie di Coridonia, ma finisce spinto oltre Calpe (81,3-98)
e costeggiai l’Italia in mio camino,
giunsi al Gargano, che di nume è pieno,
passai Bari e Brandizio, e da vicino
ebbi il leccese Idume, et indi il volo
tòrsi verso l’Eoo tra l’Austro e ’l Polo,

82verso gli Acrocerauni, e poi cercando
iva mie navi io su la patria Dori,
né lunge da l’Epiro erami quando
queste mirai tra procellosi orrori.
Su la poppa regal calai rotando,
ove era il pegno de’ miei duri amori,
io dico l’arca in cui giaceva algente
colei che fu per me fiamma sì ardente.

83Scinto avea l’ali, ah quando un turbo immane
quella dolce a me tolse urna funesta.
Che membro, ohimè? Ma sì spietate e strane
doglie tralascio, e dirò quel che resta,
però ch’a dir omai poco rimane,
or sappi ch’aspra indi io soffrii tempesta,
là dove in cupi mari estrema sporge
Iapigia, e col suo tempi in alto sorge.

84Su promontorio naufrago e scosceso
da lontano a’ nocchier tal tempio appare
vetusto e venerando, e ’l nome ha preso
da lei che dienne il parto salutare.
Qui gli avi miei barbaro arnese appeso
lasciaro, e son quai spoglie a Dio più care,
ma lunge mi sospinse in vèr Peloro
Borea, cui cesse allora Africo e Coro.

85Soffrii Scilla e Cariddi, e i fochi e i tuoni
di Mongibel, di Mongibel ch’avvampa
la notte e fuma il giorno, e i cari doni
seco ha di Flora e ’l ghiaccio in lui s’accampa,
mirabil monte, in cui vien che perdoni
a l’arsura la neve, al giel la vampa,
et ambo a’ fiori, e cui sempre d’intorno
il dì si cangia in notte e l’ombra in giorno.

86Ma l’ira d’Aquilon girommi e tòrse
là da Sicilia, e trapassai Melite,
e, di salute un’altra volta in forse,
fui dentro la gran libica Amfitrite.
Alfin l’aura cessò che vien da l’Orse,
et Euro tempestò l’onde inasprite,
e per molta indi liquida campagna
mi spinse aspra tempesta al mar di Spagna.

87Quivi repente in disusato stile
miste a’ gigli cadean piogge di rose,
quai non versolle il più vezzoso aprile
su l’acidalie mai piagge amorose,
e ’n dolce calma un zefiro gentile
sospirando batteva ali odorose;
ma io membrai quanto a mio pro già disse
l’Angel, che questi a me segni predisse.

88E fuggir fei le navi, e bende avolsi
in fronte a tutti in su ’l mio pin regale,
et a Celio il temon di mano io tolsi
e ’l ressi tra quel rischio empio e mortale.
Ma qual vidi, ove in pria gli occhi rivolsi,
imagin falsa al suo bel vero eguale?
ah ne gli affetti miei come internassi
quella maga, e ’n qual volto ohimè mostrossi?

89Sotto la forma de la bella e forte
donna ch’ancisi io sventurato amante
l’empia m’apparve, e finse tolto a morte
il già tant’anni estinto almo sembiante,
nuda la fronte e de le trecce attorte,
nudo il crespo oro e ’n nodi folgorante,
nuda la man, che bianca e vaga
nel cor mi riapria l’antica piaga.

90Bella e rea mano, e mi tornava a mente
l’atto onde contra me la spada strinse,
quando al volto gentil l’elmo fulgente
incauta l’asta mia tolse e discinse.
Dubbiai su ’l vero, e di mie luci intente
gli sguardi Amor nel finto obbietto avinse,
stupii nel falso, e senza spirti et alma
insensibil rimasi e grave salma.

91Sopra immobil delfin tra i salsi umori
ma su l’ali d’Amore accolta e presta,
stava la beltà finta e de’ bei fiori
la sì dolce su lei cadea tempesta.
Qual fior su l’armi e qual su gli splendori
a posarsi scendea de l’aurea testa,
qual con un vago e leggiadretto errore
girando parea dir: qui regna Amore.

92Perdei tre volte i sensi e tre rivenni,
e tre pur non soffrii d’essa i bei rai,
d’essa che ben tacea, ma gli atti e i cenni
ogni facondo dir vincean d’assai.
Chiamai la somma diva, e fermo tenni
la briglia de la nave e ’n ciel guardai,
e lo strano, crudel, possente incanto
pur l’intelletto m’adombrava intanto,

93quando ecco in aria a me comparve quella,
pregio di Nazarette, imagin santa,
ma viva, ma volante e splendev’ella
credo co’ raggi onde su ’l ciel s’ammanta.
In tal punto la larva empia e sì bella
con timida fuggì rapida pianta,
e ’n mar s’immerse, e ’l mar su lei si chiuse
né più nembi de’ fiori in ciel diffuse.

94Restai d’ogni inganno in quel momento
e del passato rischio ebbi paura,
ma successe altra tema, altro sgomento
subito in vista formidabil, dura.
Turbato intorno il liquido elemento
vidi, e vidi aspri scogli et ombra oscura,
e bianco il vicin lito era per molte
di naufraghi nocchieri ossa insepolte.

95Ratto tutti svelar fei gli occhi allora
né pur ripresi i miei primieri affari,
ma vice di nocchier sostenni ancora
et additai il periglio a’ marinari.
L’antenna essi calàr senza dimora
e s’opposer co’ remi a’ gonfi mari,
poi schifavano, ansando, i remiganti
tra l’acque i sassi ciechi e risonanti.

96Ma finché non uscimmo in gorghi aperti
la Regina del Ciel sempre appario,
né tolse anco al naufragio e poi coperti
suoi raggi ebbe ella, e tra’ suoi rai vanio.
Allora i rematori forti et esperti
cessaro, et il temon più non ress’io,
e con velate antenne indi i compagni
cercando andammo in su i marini stagni.

97Alfin co’ duci miei, con la mia armata
nel gran porto io m’unii di Cartagena,
ove contro il furor d’onda turbata
stansi i navigi, quasi in chiusa scena.
Tosto ogni vela a’ venti era poi data,
già d’aure occidentali ingombra e piena,
sì ch’io credea tornar ne l’Oriente,
ma conchiuso era in Ciel troppo altramente.

98Però che procelloso allor si mosse
incontro le mie navi Euro rifeo,
il qual più giorni le travolse e scosse
infra l’ispano e ’l libico Nereo,
poi le spinse oltre Calpe ei con sue posse
in virtute di Dio tanto ei poteo.
Ma di quanto promisi al fin son giunto,
o gran reina, onde al mio dir fo punto».

Fine del racconto di Tancredi, i convitati vanno a dormire (99-100)

99Qui si tacque l’eroe sommo e sovrano,
né cessò di mirar l’eburneo petto,
e Matilde il bel volto in su la mano
si mise, e rimirò l’amato aspetto.
Poi fan partenza, e dentro il cor non sano
portan speme e timor, doglia e diletto,
ma come partono essi? Ahi quegli, ahi questa
parte col corpo sì, con l’alma resta.

100Pur ella men di lui sa qualche freno
imporre a gli avidissimi desiri,
e cerca men qualche riparo e meno
chiude ella il varco a’ fervidi sospiri.
Anzi il troppo furor sì l’ange il seno
e lei premon così gli aspri martiri
che per comprar l’amor d’un tanto vago
ella d’atroci eccessi il cor fa vago.