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Il Tancredi

di Ascanio Grandi

Canto VII

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 27.09.15 11:19

ARGOMENTO
Tancredi usa gran senno in far che i figli
non ancida Matilde arsa d’amore,
poscia vaneggia egli e costei, ma i cigli
propizi volge in lui l’alto Fattore.
Egli al partir s’accinge, ella i consigli
saggi sprezza, e nel rio s’immerge e more.
Pianta ella è poi, ma su l’empirea sede
pria s’impetra per l’alma a lei mercede.

Tancredi con un inganno salva i figli della regina dalle mire omicide della madre (1-15,6)

1O notte infausta d’Anglia a’ chiari regni
se fia quel che ’n sé volve or la reina:
svenar del proprio ventre i cari pegni,
empio amor sì la sforza, ella destina.
Suo retaggio è Britagnia, e rei disegni
vi fa, per farne a’ figli suoi rapina,
e con tal dote offrir sé per isposa
al novo amante ahi tanto pensa, e l’osa.

2Va col pugnale ove dal sonno oppressi
stansi i duo pargoletti in ricca cuna,
e già l’armata man sospinge in essi
sì nel furore la ragion s’imbruna.
Spinge l’armata man, né per gli stessi
passa l materno sen pietate alcuna,
ma un subito pensiero al cor le scende
e ’l colpo reo, no ’l reo voler, sospende.

3Già dentro l’alma ella tai voci sente:
– Ahi stolta te, far ciò sempre tu puoi,
ma se questi a tue voglie non consente
pensa che lui tu perdi e i figli tuoi,
adunque fa ch’ei pria sappia tua mente
e ’l suo voler ratto eseguisci poi -.
Tra queste voci a lei vien presta e trista
sua balia, che ’n quell’atto empio l’ha vista.

4Sue fiamme ardenti la reina, e quanto
ha conchiuso non cela a sua nutrice,
ma costei sbigottisce, e scioglie il pianto
et ella la conforta e poi le dice:
«Salvo quel che bram’io, tu tanto o quanto
non voler, se tu me non vuoi infelice,
asciuga gli occhi, e rendi allegro il viso,
e vola ad eseguir ciò che io diviso.

5Vanne al gran peregrin ch’io per marito,
com’Amor vuole, ho tra mia mente eletto,
dì ch’anciderò i figli se gradito
fia tal mio dono e ’l marital mio letto,
dì che sua nova fiamma in me sopito
ha del morto Goffredo il casto affetto,
dì che col ferro in man tu qui mi lasce,
qui dove i duo bambin dormono in fasce».

6Tace, e piena d’orror la balia parte,
né porta lume, e l’aria è chiusa e nera:
stende la mano, e ne divide e parte
l’ombre, e la pianta poi stende leggiera,
la pianta ch’orme in terra mal comparte,
sì va sublime e mai non posa intera,
la pianta cui sospinge in loco dove
il gran re de’ Normanni ella ritrove.

7Non vuol ch’alcun la senta, e stringe e preme
del mesto sen l’anelito angoscioso,
e rincresce a se stessa e pur ha speme
in Tancredi, che grido ha di pietoso.
Giunta a lui tace, e poi sospira e geme,
alfin gli scopre il tutto in suon doglioso.
Restò Tancredi attonito, e se stesso
a tanto uopo in oblio non ebbe messo.

8Abborrì l’empia abbominevol dote,
e in più parti il pensier voltò nel petto,
qual, se mai per fenestre il sol percote
nel vaso ove pura onda abbia ricetto,
de l’acqua il lume tremulo non puote
in loco star, ma tutto scorre il tetto,
e cala e poggia e rapido onde parte
riede or per altra or per la stessa parte.

9Tancredi non vedea come ei salvasse
quegli infanti, e prendea mille consigli;
temeva non (quantunque egli il vietasse)
la regia amante anco uccidesse i figli,
ma sua bontate e sua prudenza il trasse
a trovar come lor tolga a’ perigli:
usò rara pietà, rara prudenza,
pur ciò ch’ei fe’ fu iniquo in apparenza.

10Disse: «Or tu reca qui ratta e spedita,
se vera è tal proposta, i duo bambini,
non vuo’ che moian qui, ma bel lor vita
spenta sarà sopra i miei regi pini.
Così le nozze a cui tal don m’invita
abbraccio in questi regni peregrini,
se gli infanti non rechi a me ritorno
non far, et io n’andrò col novo giorno.

11Sotto voci sì ree celò la pia
sua voglia di scampar quegli innocenti.
Allora la balia la calcata via
ricalcava angosciosa e con piè lenti,
e la risposta a la reina apria,
ma per non turbar lei non fea lamenti.
Lieta l’udì la forsennata amante
e vèr la culla accelerò le piante.

12Mira i bambini, e lor mandar già crede
a morte ella, che d’essi è genitrice
(cotanto ne gli eccessi Amore eccede),
e lagrime da gli occhi non elice.
Prende la cuna, e pur al duol non cede,
dura più ch’elce in su rifea pendice,
e la porge a la balia e su gli infanti
mette il pugnal che ’n lor strinse ella innanti,

13e dice: «Va’ veloce e resti pago
in questa sua richiesta il signor mio;
di’ ch’ei non taccia se pur d’altro è vago,
che suoi cenni ubidir pronta son io».
Iva la balia, e dicea: «Cor di drago
in questa, et è Tancredi empio, non pio».
Iva e la ricca culla a sé d’intorno
vinceva l’ombre et emulava il giorno.

14Sopiti in questa culla i pargoletti
diede al sovrano eroe la messaggiera,
né tacque gli altri affettuosi detti
di lei ch’è d’Amor serva e ’n Anglia impera.
Ne’ regali ei mirò piccioli aspetti
il regio onor che lunge indi non era,
mirò l’acciaro ignudo, e ’l pianto a pena
ritenne, e finse fronte aspra e serena.

15Giù ne le navi al buon re di Sidone
mandoli, e ’n ciò sua mente a quel re scrisse,
ma fe’ dubbio a la balia udir sermone,
che tosto il faccia al portatore ei disse.
Credeo la balia d’Anglia le corone
in Tancredi passar, né più s’afflisse,
s’accordò al tempo, e fessi in quell’ombrosaI due amanti godono del loro amore (15,7-37)
notte più cara interprete amorosa.

16Iva e tornava e lieta le commesse
voci portava, e trasportava i cori,
e l’alte nozze e le regal promesse
ella conchiuse infra i notturni orrori.
Anco troncò gli indugi, anco depresse
la vergogna, e diè bando anco a’ timori,
e dove volle Amor lieti e tremanti
ella condusse i duo sovrani amanti.

17Ma su la maggior torre in quel momento
fulmini in giù cadean per vie distorte,
e ’l Tamigi inondava e violento
a l’alta reggia percotea le porte.
In braccio al vago suo n’ebbe sgomento
Matilde, e nunzio a lei ciò fu di morte,
misera, e poi nasceva a pena il giorno
e la fama parlava a suo gran scorno.

18Misera, a l’apparir del primo albore
troppo stimata era impudica e rea,
ché quei notturni suoi furti d’Amore
la fama in chiaro suon palesi fea,
e dicea che per lusso e per furore
cruda ne’ figli fu più che Medea.
Così la fama, et è la fama un mostro
di cui mostro più stran non vien dimostro.

19Cento mai sempre vigilanti ciglia
questa raggira e con cento occhi vede,
e sì gli affari di plebea famiglia
spiando va come di nobil sede.
pria cheta e lenta e tosto ad aprir piglia
poi cento bocche, e i nembi a volo fiede,
vanni ha nel tergo et è pennuta, e quante
piume ha nel corpo orecchie have altrettante.

20Nacque quando su ’l ciel furon rubelle
tante al sovrano Dio squadre immortali,
quando locar suo trono in su le stelle
tentò superbo il primo autor de’ mali,
la terra la produsse allor tra quelle
ruine, e tra ’l gran crollo e’ mortali.
Nunzia è del ver, nunzia è del falso, e mesce
spesso l’uno con l’altro et ambo accresce.

21ma nulla seppe del pietoso inganno
onde salvò Tancredi i regi infanti,
però sol disse di sì buon normanno
l’empietà false, e Londra empìo di pianto,
e mosse a sdegno ogni baron britanno:
ma chi corregge i falli de’ regnanti?
o pur chi non temeva le famose
normanne insegne e l’arme gloriose?

22Toglie Matilde a le sue regie sale
ambo i ritratti de’ suoi morti sposi,
e mostra come ad essa or d’altro cale
e come entrambi a lei sono odiosi.
Già tutta è piena la città regale
d’atti e di scherzi dolci et amorosi,
ché ’l regio esempio i popoli trasforma,
et ora a’ vizi ora a virtuti è norma.

23Ogni guerrier normanno anco vaneggia
poiché il lor duce vaneggiare è visto.
Costui non esce or da l’amata reggia,
né manda in Colco il pensier grave e tristo;
s’invola al buon fenice, e non lampeggia
in grave arnese ei gran campion di Cristo,
ma in lieve acciaro e ’n ricca sopravesta
che di sua man Matilde halli contesta.

24Sempre egli a lei, sempre ella a lui presente
e sempre in riguardarsi ambo indefessi:
s’un punto essa no ’l vede essa è dolente
e ’l ricerca co’ piè, chiamal co’ messi,
e mentre il cerca e ’l chiama, il vede e ’l sente
là ’ve nel cor tien suoi sembianti impressi,
gode d’aver per lui tradito i figli
e splende in manti d’or, splende in vermigli.

25Salvo che nel bel sen, le pompe e i fregi
spesso a sé muta, e fa maggior le cene,
e vuol che finti personaggi egregi
empiano ognor nove amorose scene.
Brama ch’egli in oblio ponga i suoi pregi
e del zio eccelso i ceppi e le catene,
né vuol, per non membrar a lui sua gloria,
l’avanzo udir di sua promessa istoria.

26Non mostra a lui quanto per lei munite
son di milizia le sue regie mura,
né quanto son dentro e di fuor guarnite
esse di militare architettura,
né il porta a l’arsenal, c’ha in sé infinite
opre fabrili e gran dispendio e cura,
ma scaltra ella se ’l mena in suoi giardini
ad antri, a terme, a fonti cristallini.

27A tutte viste il toglie, e teme e pave,
chi ’l crede, anco de l’aria entro quegli orti,
gelosa anco è de l’eco e timor n’have
teme no ntra i sospir l’aura ne ’l porti,
e pur sen finge, e pur dolce e soave
sorride e parla, e varia i bei diporti;
or s’appoggia al suo vago, or lenta incede,
e di delizie informa il moto e ’l piede.

28Il contempla sovente a parte a parte
da gli omeri a le man, da’ piè a la testa,
e di natura l’eccellenza e l’arte
ammira, e i cigli suoi mai non arresta.
Ben mille volte il guarda in ogni parte,
ben mille volte attonita ne resta,
vorria palpebre immobili e più viva
vorria e più intensa la virtù visiva.

29Per poca ora talor se n’allontana
perché ’l riveggia con maggior desire,
ma lunga è tal breve ora a lei non sana,
ma star crede ella l’ombre e ’l sol non gire,
e repentina, impaziente, insana
si riconduce ove il suo ben rimire,
e crede aver penato cento e cento
lustri ad un batter d’occhio, a un sol momento.

30Ma quando ella è con esso allor le pare
troppo spedito il tempo e troppo alato,
e le par l’ombra sua tosto volare
e cangiar sito immantenente e stato,
ahi folle, et un tenor pur giusto e pare
a l’ombre, a l’ore il Mastro eterno ha dato,
essa varia e vaneggia,et in sua colpa
l’ombre e l’ore innocenti a torto incolpa.

31Stima s’ei parte mai l’aria turbarsi
e stima giunto in Occidente il giorno,
stima secchi i ruscelli e stima farsi
chiostro d’orror quel sì gentile giorno,
ma le nubi fuggir, l’alba mostrarsi
stima se l’idol suo poi fa ritorno.
Vede i soliti fonti, e ’n questa e ’n quella
parte vede fiori Tempe novella.

32Anco al tornar di lui fuggon le pene,
anco d’esso al partir tornan gli affanni,
e tra ’l duolo e ’l piacer paura e spene
sempre su ’l cor di lei battono i vanni.
Al vero, al falso insieme ella s’attiene
e lealtate agogna e teme inganni,
non è dov’è, vive et è morta, e vòta
di senno è saggia, e i pensier saldi ruota.

33Spesso per vezzo ancor cetra dorata
prende, e l’inalza in su l’eburneo petto,
ma non ne cela il cinto onde fregiata
ivi è la neve a sì crudele effetto.
Move le dita alabastrine e guata
le tocche corde no, ma ’l suo diletto,
indi a ballar si spinge e porta impresse
sotto i piè lettre a far sue voglie espresse.

34Sotto i sandali d’or lucide e belle
a stampar il terren tai lettre stanno,
e rette dal bel suon le piante snelle
in vaga danza or fan ritorno, or vanno.
Altri sensi d’Amor giù scrivon elle,
tanto gli ingegni de gli amanti sanno,
scrivono, e già lo scritto in terra vedi:
ARDE D’AMOR MATILDE, ARDI, O TANCREDI.

35Tra queste note il cavalier depone
l’anima, che per gli occhi ivi trapassa,
e pur guarda il bel piè che pur ripone
le stesse note ovunque ella ripassa,
et allor, qual se fosse ella il Gorgone,
d’immobil marmo il suo gran vago lassa,
o potenza d’Amor, e quei rimira
anco lei che danzando i passi gira.

36Qual zefiro ella va, che ’n dolce aprile
spiri tra verdi colli e non si stanche,
qual zefiro mai sempre a sé simile,
quantunque in mille guise or cresca, or manche.
Qui trapassa, qui vien, qui con gentile
giro rota costei le membra franche,
qui sembra stral, così vien che s’affrette,
qui balza, e donde il toglie il piè rimette.

37Talor sotto un bel mirto anco s’asside
e tratta aghi d’avorio, aghi d’argento,
e senza l’armi il suo normanno Alcide
tiene tra i bei lavor lo sguardo intento.
Ella porpore e bissi orna e divide,
et accresce l’industria e l’ornamento,
egli ministra a lei tersi e sottili
di color vario i preziosi fili.

Dio si sdegna, decide di far riprendere il viaggio verso la Colchide (38-45)

38Ma tra quell’ore il Correttor del Cielo
volgea lo sguardo altissimo e profondo,
e, quasi gran pittura in picciol velo,
tutto vedeva, opra sua grande, il mondo.
La zona ardente con le due di gielo
e con le due di sito almo e giocondo,
l’ardente in mezzo, estreme le gelate
e tra ’l ghiaccio e l’ardor le due temprate.

39E mentre il tutto in tal maniera ei scerse,
tutte distinte ancor vide el cose.
mirò co’ regni le città diverse
e i fiumi e i boschi e le campagne ondose,
e l’opre giuste e l’opre al dritto averse,
et anco dentro a’ cor le voglie ascose,
ma di zelante sdegno Egli s’accese
per quei sì vani amor nel regno inglese.

40E fermo in Anglia ei rimirò ma intanto
Maria l’umil suo sguardo in lui rivolse,
Maria, c’have di sol mirabil manto
e che ’l gran verbo eterno in grembo accolse.
Questa fe’ prieghi per Tancredi, e ’l pianto
per lui pietosa anco da gli occhi sciolse;
scuso l’umanità, né tacque il molto
sforzo d’Averno ella in sermon raccolto.

41E poi soggiunse: «O tu, che ’l tuo divino
verbo degnasti che mio parto sia,
sai quanto oprò nel regno palestino
Tancredi, e quanto la sua spada è pia,
deh membra ch’empio oltraggio saracino
sostien Boemondo in prigion tetra e ria,
e che Tancredi deve sciorlo», e fisse
ritenne in Dio le luci e più non disse.

42Rispondeva l’eccelso empireo sire,
e ’l Cielo allor temprava i suoi commenti,
e tremavan gli abissi e cadean l’ire
onde l’aria, onde il mar turbano i venti,
ché quella alta sua voce ei fea sentire,
quella che diè lor sede a gli elementi,
quella che ’l mondo sottopose a l’ore
e l’ombre separò dal primo albore:

43«O da me alzata qui sopra ogni coro»
disse «e più ch’Angel fatta e più che diva,
sempre gradite tue preghiere foro
né tua pia voglia unqua d’effetto è priva.
Prega mai sempre, io a prieghi tuoi ristoro
il ben là giuso, e la virtù fo viva.
Prega mai sempre, e più per quegli eroi
che liberaro il tron de gli avi tuoi.

44Così l’Eterno, e poi piegò il suo ciglio
verso l’Angel c’ha in guardia i re normanni,
e disse: «Or come di Ruggiero il figlio
sposo vaneggia e merca eterni danni?
Toglier tu nol potesti a tal periglio,
or nel toglio io; su su, dispiega i vanni,
scendi in Britagnia, impon ch’egli disciolga
le vele et al sentier primo le volga.

45Non già per tai diletti io volsi ch’abbia
ei dianzi il fren de’ venti in sua balia,
et a’ rei mostri et a marina rabbia
non a tal fin tu ’l sottraesti in pria,
ma perché quegli libertà riabbia
ch’aprì in Oronte a la pietà gran via.
Quanta stagion ciò brami? e ’n tal stagione
perché costui sue glorie in oblio pone?».

Manda l’Angelo custode, che lo sprona a ripartire (46-54,4)

46Così l’Onnipotente, e quel celeste
prende, svolgendo i vanni, il volo in giuso,
e trapassa lo smalto ampio celeste
che d’ogni parte circolar va in suso,
e giunge, quasi a un punto, indi con preste
penne in Britagna da’ suoi lampi chiuso,
e vi ritrova, come il Ciel destina,
Tancredi scevro allor da la reina.

47Gli si scopre ammirabile e dipinge
nel volto di splendor tranquilli sdegni,
e ratto verso lui tai voci spinge:
«Su su, le vele omai rendi a’ tuoi legni,
su su, Dio te ’l comanda, ei già ti scinge
da questi d’empio amor strani ritegni.
Ma come in Anglia a vaneggiar corresti
co’ venti tu, che da me in dono avesti?

48L’aure, mercé del Ciel, tu leghi e sciogli
come a te piace, e le tue glorie oblii?
così a colui tu le catene togli
che rese ad Antiochia i riti pii?
tu tolsi a’ vari mostri, a’ Sirti, a’ scogli,
et al foco infernal per te t’invii?
Quanto tempo bramai che ’n suoi decreti
Dio l’impresa di Colco a te non vieti».

49Così parlolli, e nel suo volto aprio
un lampo, entro cui vide il cavaliero
che con su amano egli al sì eccelso zio
fia ch’alfin toglia il giogo indegno e fiero,
e poi l’Angel disparve, e ’n ciel salio,
e ’l dianzi scorso ricalcò sentiero,
e da l’alto a Tancredi allor discese
grazia ch’interna libertà gi rese.

50DA’ lacci d’empio amor libero e franco
egli sentissi, et ire generose
e ferze di ragione ebbe su ’l fianco,
ferze possenti più de l’amorose.
Bramò la terra a lui venisse manco
o che quell’opre sue tenesse ascose,
e non ch’a Dio volle obedir, ma volse
sciolte l’antenne aver che poi disciolse.

51Cangia vestir, chiama Giovanni, e molto
domanda e molto apprende e molto impone.
Quei parte, ei verso il ciel dirizza il volto
poiché umil le ginocchia in terra pone,
oh meraviglia, e ’n lucid’arme involto
mira d’iride cinto un bel garzone,
che veduto gli sembra aver altrove
e stupido rammenta il quando e ’l dove.

52Vide con fronte già simile a questa
egli un garzon, benché d’altr’arme cinto,
nel dì ch’ei fu dal mar su la funesta
arca diletta a’ patri liti spinto,
quando a suo padre il rese aspra tempesta
di morto in atto e di pietà dipinto,
però stupido guarda, e tra ’l guardare
voce ode che più stupido il può fare.

53Diceali quella voce: «Or qui pon mente,
Tancredi, e col pensier qui volgi il ciglio.
Paterno affetto or il tuo cor non sente
questi ch’or miri tu, questi è tuo figlio.
Quanto è bel, tanto è forte, e di rea gente
tosto ei teco farà strage e scompiglio».
Così la voce, e i guardi e l’intelletto
ei fisse a contemplar quel giovinetto.

54Sparve la vision, Tancredi sorse
e disse: «Io come e cui son genitore?».
E su ciò col pensier molto trascorse,
e insuperabil dubbio ebbene al core;
poi tra sé volve come ei debbia tòrseTancredi compie i preparativi per la partenza, Matilde se ne accorge e va su tutte le furie (54,5-86,6)
a Matilde, e temprar d’essa il furore.
Ma per sospetto apprese ella leggiero
(chi può ingannar gli amanti?) il fatto intero.

55E ’n chiaro suon la fama omai le dice
che dal novello sposo è già negletta,
e ch’a le navi il cavalier fenice
l’oste di qua e di là sospinge in fretta.
Gela in quel punto e geme ella infelice
quasi a spirto maligno alma soggetta;
non pensa no, non resta, con lo stesso
furor giunge a Tancredi, e dice adesso:

56«Dissimulare, o crudo, anco potesti
tanta fuga, e partir senza commiato?
né l’amor, né mia fé vien che t’arresti,
né i traditi per te figli e lo stato?
Ahi crudo, e la stagion più rea scegliesti
anco al tuo corso, e mare aspro e gelato.
T’affretta il zio? ma se ’n tal fretta pèri,
chi poi toglie a tant’uomo i ceppi fieri?

57Dunque per me fuggir, da Londra parti,
et io per questo pianto onde empio il seno,
per le promesse tue, pe quanto io darti
potei d’affetto a cui disciolsi il freno,
per gli imenei non anco in sacre parti
da man sacerdotal compiti a pieno
prego, e se cosa mia dolce ti fe,
immote a non tener le voglie tue.

58Abbi pietà de la mia vita; ahi quanto
per te la Francia e ’l Ren deve oggi odiarmi,
per te già m’è nemica Anglia altrettanto,
e per te di che fama osai privarmi?
Avesse almen lo sponsalizio intanto
qualche pegno di te potuto darmi,
qualche picciol Tancredi, ond’io ingannassi
in quella imagin tua miei spirti lassi.

59Misera, ma di te solo mi resta
scherno e disnor; che dico?, ah pur rimane
ch’a quell’arme o cada io che Blesa appresta,
o che prema i miei piè catena immane».
Tace, ma scioglie, s’ella i labri arresta,
il cinto d’Asmodeo sue voci strane,
il cinto d’Asmodeo ch’empio et adorno
fea gentil fregio al suo bel petto intorno.

60Ben di quest’empio cinto le favelle
che di maga eloquenza hanno artifici,
e che rendon d’Amor l’anime ancelle
mute e possenti usciro a gli empi offici,
ben giro in fin al cor soavi e felle
ma non trovàr colà gli usati auspici,
ché schermito dal Ciel di là scacciole
ei, che rispose poi qual ragion volle.

61O per virtù e per sangue generosa»
disse egli «a che m’accusi? a che t’affanni?
Il Ciel vuol tanto, et io partenza ascosa
non fo, né in mie promesse orma è d’inganni.
Ascolta: anco i tuoi figli, o gloriosa,
vivono a’ chiari tuoi regni britanni.
Che vuol la Francia e ’l Ren? Non questi eccelsi
seggi in tua dote, ma te sola io scelsi.

62A’ miei serve l’Oronte, Etna e ’l Sebeto,
e qualche scettri ha nostra man conquisi
solo per far a’ tuoi furor divieto
gli innocenti da te dianzi io divisi.
Essi tosto rendran tuo sguardo lieto,
or Anglia fiane amica, io non gli ancisi,
né senza i modi debiti né senza
tuoi regali congedi io fea partenza.

63Corresti a ricovrar gli alti toi regni
e cingesti d’acciar l’illustri chiome,
e vinto anco il nemico, aspri ritegni
diesti a le braccia sue captive e dome,
qual dunque invidia or sia s’io vuo’ l’indegni
gravi ceppi a mio zio toglier le some?
Tempra per poco spazio i tuoi dolori
e nostre fiamme poi sian casti ardori.

64Già parto, e torno; a Blesa ogn’ardimento
credo torrà tal fama. Or io compire
con sacre cerimonie non son lento
tue gran nozze, et al Ciel poscia ubidire.
Reina, io giuro a te che ’l mio talento
era di teco star, né in Colco gire,
ma dianzi a me in disparte aureo le penne
ad imponer ch’io parta Angel sen venne.

65Parmi tenerlo innanzi a gli occhi, et anco
in nome comandò del Regge eterno;
ad ubidir a Dio ch’io venga manco?
Più tosto a chiuder me s’apra l’Inferno».
Mentre ei parlava, ella accendea su ’l fianco
indomit’ira, e prendea i detti a scherno,
fe’ biechi i lumi, e ’n lui non li raffisse
no, ma con essi circondollo e disse:

66«Né da’ regi di Dania empio tu scendi
né genitrice Alberada a te fue,
ma parto sei d’orrida iena, e orrendi
succhi in essa lattàr le labbra tue,
che ’n tale mostro io finga? o men tremendi
dolori denno a me l’impietà sue?
Certo che no, già non si mosse a pianto,
né la supplice amante il piegò alquanto.

67Che dirò pria? che poi? già qui non guarda
il Ciel con occhi pii, così mi paghe,
empio, di quanto io darti non fui tarda?
e barbaro sembrar così t’appaghe?
Ma mia lingua i tuoi enigmi a scior chi tarda?
or ai celesti a te con piume vaghe?
or si de’ tòr Boemondo a ree catene?
or al Cielo, ora a te di ciò sovviene?

68In arme, e ciò di più, pregio mi dai,
e corri a tanta impresa e me qui lassi,
perfido, i modi tuoi tardi imparai,
poiché ebbi entro tue reti avolti i passi.
Perché la sopravesta in te non hai,
mio lavoro? e ’n qual modo or da te vassi?
sì parti, e torni? e qui così assecuri
me da’ nemici? e ’l dritto sì misuri?

69Ma non t’indugio più, né più a’ tuoi detti
m’oppongo. Adunque or va’, sciogli le vele,
spero di qua da’ liti ove ir t’affretti
che piangerai tai colpe in mar crudele,
e che tuoi spirti, allor da morte stretti,
itereran “Matilde” in lor querele.
io segui rotti con ree fiamme, et elle
del gran nostro Imeneo sian le facelle.

70Tra questo dir rompe il sermon con ira,
e cade esanimata e sì vien meno,
ch’a pena dopo lunga ora respira,
sparsa d’acque e d’odori il volto e ’l seno.
Ma poich’a sensi riede e i lumi gira,
freme, né di ragion più sente il freno,
e scorre per le rocche, il crin discinta,
torva gli occhi, e di fele i labri cinta.

71Tal nel gentil Salento appo la bella
città ch’accolse i primi miei vagiti,
lungo le ville pastoral donzella
traggon di qua e di là musici inviti,
misera, in cui di furto Aracne fella
col sottil dente infuse atri aconiti,
poi ’l suono agita e il tosco, e ’l tosco e ’l suono
irrequieti al piè stimoli sono.

72Ma mentre la reina allor trascorse
in tempio entrò, ch’opra è di fabri egregi,
qui Paro i marmi per materia porse,
qui gli aurei lampi Ermo mandò per fregi,
e qui stanno attendendo, per ritorse
a morte, il fin del tempo, Anglia i tuoi regi,
ha ciascun re sua tomba, e sculto è il volto
di ciascun re su l’urna ov’è sepolto.

73Quivi de’ duo suoi sposi ella gli avelli
vide, e repente aprir vide i lor seni,
strano portento, et indi uscian ruscelli
e gridi che dicean: «Matilde vieni»,
onde di voce poi che la rappelli
credeo sempre essa aver gli orecchi pieni,
e le parve veder sempre acque, e intanto
mortifero il bubon sciolse il suo canto.

74Tancredi a lei tra strazi così fieri
casto in ben mille guise offrì conforto,
ma poiché nulla oprò, calcò i sentieri
che del Tamigi adducono al gran porto.
Qui conveniano in fretta i suoi guerrieri
e cresceano a quell’egra il disconforto:
se li vedea passar dinanzi a gli occhi,
e tu il duolo inasprito, Amor, ritocchi.

75In nome di Tancredi a lei venuto
poscia il buon Tirio le rendeva i figli,
e contro il gran dolor suo conceputo
indarno usò quel saggio alti consigli.
Partito il messo, ella con labro muto
rimase, e duri in petto ebbe bisbigli,
e tenne bona pezza immoti e chini
gli occhi, et alzolli alfin verso i bambini.

76«Figli, a me vi rimanda, ohimè «dicea
«uom contro le sue donne empio, spietato,
ei ne la santa guerra di Giudea
incrudelì col brando in petto amato,
e per lui fia che ’l vostro ferro bea
rivi sanguigni nel materno lato.
Ben ho stupor che per mia morte aspetti
egli il cresce di voi sì pargoletti.

77Crescete dunque, a saper già qual io
osai far tradimento a vostre vite,
crescete e poi rompendo il fianco mio
di questo micidial la voglia empite.
Contro la madre il colpi alme fia pio
se ’n lei chiudrà d’amor l’empie ferite».
Tacque, et allontanò sé da quei duo,
ma non la passion dal petto suo.

78Crudelissimo Amor, dove non tiri
l’alme soggette a te? Tu un’altra volta
sforzi costei, così la volgi e giri,
a ripregar colui che non l’ascolta,
tu la rimeni a lagrime, a sospiri,
tra la speranza omai morta e sepolta,
talché con occhi molli a Lodorica,
questa è la balia sua, forza è che dica:

79«Fedele mia, non vedi qual fortuna
mi preme? et a qual fine il mio tiranno
i suoi guerrier su quelle navi aduna
che saldai, ch’arricchii troppo a mio danno?
E pur questa sì rea sorte importuna
questa fuga improvisa e questo inganno
m’accingo a sostener, benché non mai
d’angoscia un tal tenor sperai.

80Or vanne a lui, tu in dono a lui portasti
i miei figli, e di me l’ottima parte,
vanne umile al superbo, tu ’l piegasti
quando largo d’amor fummi in disparte;
poco spazio a lui chiedo
a temprar mie sventure in tutto o in parte,
pochi dì meco ei resti, altro non voglio,
e saldo in suo voler sia più che scoglio.

81Scelta reina de l’Eoo beato
colga di nostre nozze il frutto intero,
poco è quel ch’io domando, e s’oggi dato
per te sarammi il giuderdon fia altero».
Tace, e del suo bel ciglio in giù piegato
terge con vel di bisso il lampo nero.
Ma la balia, ch’in van per sé già avea
quella impresa tentata, allor dicea:

82«Reina, a me convien non ch’eseguire,
ma prevenir tue voglie. Io quanto imponi
per me tentai, ma serpe che ritire
l’orecchie a non udir possenti suoni
ei sembra, e sembra dove Amor sospire
rupe in van tocca da’ fulminei tuoni.
Ma di selce abbia il cor, fugga da lunge,
che maga è ben fra noi che spetra e giunge.

83Questa il diamante del suo cor feroce
ammollirà per te, questa tirarlo
può fin dal Gange e da la caspia foce
per idolatra de’ tuoi sguardi farlo;
trema il globo terrestre a la sua voce,
orribil tra muggiti a riguardarlo,
e scende sopra i monti a sue favelle
la luna, e sole in ciel lascia le stelle».

84Così costei, ma la reina tolse
indi il suo aspetto, e sprezzò gli usi maghi.
Poi sormontò la notte, e i sogni sciolse
e questi in giù volaro incerti e vaghi;
Lete in suo petto ogn’animal raccolse
in nidi et in ovili, in tane e ’n laghi,
dormono i borghi e le città ma sola
a Matilde i riposi Amore invola.

85Tra sé contro sé dice: – In onor tanto
perché accolsi il crudel? perché l’impero
di me gli diedi? e non sublime vanto
cercai contro un tal mostro immane e fiero?
Forse io cadea: felice fin, se intanto
servo d’amor non era il mio pensiero.
Ah non servai la fé data a l’estremo
sposo, e ’l letto regal d’onor fei scemo.

86Che debbo far? donde soccorso attendo?
da re ch’io non degnai già per mariti?
o su le navi de’ nemici ascendo
perché in me scorni eccelsi il mondo additi?
Dura necessitate, a te mi rendo,
morte, et a te, perché in mio mal m’aiti -.
Così si duol, ma risvegliato in questaTancredi fugge nottetempo, Matilde si getta nel Tamigi (86-7-108)
altrove i duci suoi Tancredi desta.

87Splendeva ancor Boote, et ei le torte
ancore fea ritor da’ fondi cavi,
che di novo a partir vien che l’esorte
l’Angel c’ha in guardia il regno alto de gli avi.
Lui vedi, e vedi i duci le ritorte
segar co’ brandi e sprigionar le navi,
e la ferrea catena in su la bocca
romper del porto a piè de l’alta rocca.

88Porta le navi il fiume ove disserra
sé per campagne in giri tortuosi,
e quinci e quindi, chiuso da la terra,
le trae per lochi aperti e per ombrosi.
Il pianeta ch’a noi più prossimo erra
rotondi argenti intanto e luminosi
spiega, et aggiorna in su ’l castel britanno,
e tu ci volgi, Amor, l’eroe normanno.

89Pietoso pianto ei fuor da gli occhi manda
a quella vista, e poi volge la fronte,
e tiene in mente ciò che Dio comanda,
e frena i sensi e par dura elce in monte,
elce che scossa poche frondi spanda,
immota i tronchi agli Aquiloni a fronte.
Così Tancredi allora, ma quell’altra
non tanto o quanto nel suo mal fu scaltra.

90Essa, che in quelle notti i legni ingrati
non presso no, col primo albor sen gia
al sommo de la torre, ove inalzati
trecento gradi in giro apron la via;
giunse là suso, e vide abbandonati
i porti, che mirar lieta solia,
l’amate navi oh quanto indi remote
vide dal fiume in su le larghe rote!

91Le parve allor dal ciel caduto il sole,
et insoffribil doglia al cor le scese;
arse ella et alse, e intere le parole
non fur mentre ella il petto e i crini offese;
e poi proruppe: «In quai selvagge scole
tanta malvagità l’iniquo apprese?
O destra, o fé, questi il Sepolcro santo
liberò? questi di pietate ha vanto?

92Schernitor del mio letto e del mio regno,
trionfante sen va dunque il fellone?
e fia che porti oltre l’erculeo segno
le nostre spoglie, empio d’amor campione?
In van tra’ nembi, o Dio, serbi il tuo sdegno,
se ’n questo empio or non fulmini e non tuone.
Tu i templi e i monti, e che peccar l’altezze
de’ sacri alberghi? e le montane asprezze?

93Ma pur se differisci il già dovuto
supplicio, e così fisso è ne’ tuoi decreti,
né vuoi che ’l suo castigo unqua veduto
sia da quest’occhi, e tal piacer mi vieti.
entro il futuro il mio pensier fia occhiuto
sì ch’io predica almen fati non lieti,
e fa’ le voci mie fato a costui
s’a torto ei fugge e se tradita io fui.

94Pèra di qua da Calpe, o, s’a disciorre
il glorioso zio forza è ch’ei vada,
costretto a novi rischi il capo opporre,
vegga egli aprirsi il sen da turca spada,
e s’anco i suoi per lui mio core abborre,
cosa empia e strana in Antiochia accada,
e quel seggio ch’omai sorge in Palermo
ruini, o d’altri sia, se star de’ fermo.

95Di sangue in sangue egli trapassi, e voi
mai sempre i possessor, prego, n’odiate,
o di Britagnia mia futuri eroi,
e quasi draghi in mar contro essi andate.
Nasca qui re che vendichi co’ suoi
imenei nostre nozze oggi sprezzate.
Da quei re sposa ei prenda, e sia veduto
per donna non regal farne rifiuto».

96Tace, ma di morir già stabilito
pensa a’ modi onde uscir debba d’impaccio,
pensa se passi il cor con ferro ardito
o stringa al regal collo ignobil laccio,
o se d’altri stormenti senza invito
cader si lasci a precipizio in braccio,
e quest’ultimo modo a lei più aggrada;
ma che mira in suo sen che tienla a bada?

97Dal monil tra le mamme a lei pendea
dipinto del suo vago il bel sembiante,
ammirabil lavoro, e si vedea
la bianca man su l’elsa lampeggiante;
il volto intorno a sé raggi spargea
e ’ncontro al sol parea terso diamante,
limpido arnese, ignudo collo, e molta
lucida chioma in su le tempie involta.

98Dal suo petto se ’l tolse e ’l mirò fiso
et il coperse di doglioso umore,
poi disse: «E chi ’l tuo ver da me ha diviso
sì duramente, e non mi rende il core?
altrove ei porterà tal Paradiso
e godrà tanto ben barbaro amore?
No no, pèra egli pria; su su fian tutte
in lui mie navi a fiera guerra instrutte.

99Ferva il mar d’armi, a l’armi io ben son usa,
segua Britagna mia mio giusto sdegno.
Ma dove son? che parlo? io sì delusa
che sia più scorta a sì famoso regno?
Il guidai già di nobil armi io chiusa
e di figlia di re l’atto fu degno,
or so che vaglio», e sì dicendo core
a traboccarsi da sì eccelsa torre.

100Pur ferma il passo estremo in atto amaro,
e ’l morir ch’è vicin gli occhi l’oscura,
ma quel c’have in sua man pegno sì raro
co’ suoi rai tienla in vita e l’ombre fura,
onde ella grida: «O bella imago, o caro
segno a quest’occhi anco in stagion sì dura,
tu di poter morir mi vieti e togli,
ma di desir di vita ah non m’invogli.

101Dolce mio errore un tempo, ond’io bramai
l’idolo mio trovar né seppi dove,
et or ch’ei da me fugge, anco me ’l sai
mostrar qual prima in forme altere e nove;
per poter io morir, deh, piega omai
i dolci lumi, o li rivolgi altrove,
ma s’a te ciò non lice, almen tu il mio
caso precorri e divieni empio e pio.

102Cadi da la mia destra e questo immenso
spazio col corpo a misurar m’insegna,
e là nel mezzo ov’ha il bollor più denso
il fiume che gorgoglia orme mi segna,
ch’io giù nel fondo il tuo bel lume accenso
senza tardar fia ch’a seguir ne vegna»,
e intanto di sua man cader lasciollo,
quei l’aria e l’acque, poi roppe col crollo.

103Essa allor da le trecce un nastro sciolse
e con quello tra i piè legò la vesta,
così in morte obliar costei non volse
ciò che il decoro chiede in donna onesta.
Dopo questo i commiati ultimi tolse
e disse: «O Londra, e tu, regal foresta,
restate in pace, io parto, io già vi lasso,
et empio amor m’adduce a sì reo passo.

104Pur non fui sempre tal, ma gloriosa
tra le toghe e tra l’armi io già regnai,
e nove leggi ad Anglia generosa
in mia lingua normanna anco dittai.
Troppo, ohimè, tra reine avventurosa
io se ’n Londra costui non venìa mai».
E parte a lui lontan gli occhi volgea
parte al fiume là giù ch’ampio scorrea.

105Riprese alfin: «Morrem senza vendetta?
Ma già moriam; così, così dal core
sgombrar potrem la gran doglia concetta
se dopo morte pur cessa il dolore».
Tra queste voci in se stessa ristretta
da le cime de’ merli balzò fuore,
misera, e dentro il gorgo ampio e profondo
precipite la trasse il natio pondo.

106Ma pur l’alma di lei, con le sue tante
vergini in Ciel pregò la diva inglese,
e impetrò che la porti a fiamme sante
per tergerne d’amor le macchie apprese.
penne d’oro costei cinse a le piante
e con le sue compagne in Londra scese,
tutte con palme in man, con piaghe a’ petti,
con ale a’ piè, con luminosi aspetti.

107E precorse costor sopraceleste
grazia, et entrò de la reina al core,
e dielle in su l’estremo amare e preste
voglie contro il suo fallo e pio dolore,
talché tra l’omicide onde funeste
ratto pentissi e pianse ella il suo errore,
piansel come poteo, rapidamente,
di fuor con gli occhi no ma con la mente.

108Tal Matilde affogava, e tale ergea
ove Dio la tirava omai sua spene,
e poi spirava, et Orsola accogliea
lo spirto che col fiato ultimo viene,
et ad onta d’Inferno indi il ponea
tra purgatrici e salutari pene,
e con lei poi tornava allegra e snella
di sue vergini al ciel l’oste sì bella.

Il suo corpo è pianto dagli Inglesi, che si preparano a inseguire Tancredi (109-118)

109Ma i gravi membri di Matilde estinta
reggea su ’l fiume ancor l’ondosa gonna,
la gonna in cui molt’aura s’ebbe avinta
mentre precipitò sì eccelsa donna;
verso sua rocca or essa è risospinta
dal fiume, e ne la rocca ogn’uomo assonna,
solo la balia non dormiva e questa
d’alto la vide, e corse anela e mesta.

110Presume la cagion costei di tanto
male, e colma d’orror se l’avvicina,
ahi misera, e nessun si mira a canto
timida, sconsigliata e matutina.
Parte su l’acque sta col gonfio manto
ma più in terra l’esangue sua reina,
et ella a sé la tira, ma la vede
bella così che viva ancor la crede.

111Se l’adatta su ’l grembo, et opra imprende
vana, et asciuga il fluviale umore,
e dove il cinto d’Asmodeo risplende
puon la man tra le mamme e palpa il core.
Moto non già, ma non so che comprende
ivi d’incerto natural calore,
un non so che di caldo che fuggiva
da quella neve tepida, non viva.

112Chiama e richiama e nulla a lei risponde
e intanto vede biancheggiar più il cielo,
folle, e pur non dispera e pur de l’onde
ogni reliquia accoglie ella nel velo.
Ritocca il sen, ma rigide e più tonde
trova or le poppe, e fredde più che gielo,
talché del ver s’avvede, e grida: «Ahi lassa»,
e trema, e la regal soma non lassa.

113Sospira e geme, e par Niobe che tegna
de le sue figlie una su ’l seno,
e pria ch’alcun la senta o ch’alcun vegna
l’aer d’intorno d’aspri stridi ha pieno.
Con l’unghie il volto atrocemente segna
e col divelto crin sparge il terreno,
e sottomette il braccio a la cervice
gelida, e guarda il morto viso e dice:

114«Io tal ti reggo? io tal ti miro? ahi dove
del tuo volto , o reina, è ’l bel vermiglio?
Mute tue labra et è tua voce altrove,
anzi ita è pur a sempiterno esiglio,
né più il bell’occhio i negri lampi move
sotto il sereno tuo limpido ciglio.
Quanta bellezza ancidi? e qual valore?
Ahi teco anco Britagnia e Londra more.

115Ma come io resto in vita? Io già in dubbioso
moto d’armi fui teco armata in sella,
e poi ’l trionfo tuo sì glorioso
co’ duci accompagnai superba ancella,
e ’n morte or non ti seguo? Ohimè, a qual sposo
ti giunse dianzi iniqua e dura stella:
io le false promesse a te portai
de l’empio, a l’empio io con tuoi doni andai.

116I figli gli mandasti, il regno, il core
la notte dopo il dì ch’egli a noi venne,
prender potea con tali offici Amore
gli aspi di Libia e ’l cor di lui non tenne».
Qui Lodorica, vinta dal dolore,
su ’l corpo esangue abbandonassi e svenne,
e strepitose intanto e sbigottite
d’ogni parte correan genti infinite.

117Divulgato è il gran caso, e tal si sente
rimbombar trista la regal cittade,
qual se passate in lei da continente
fossero tutte le norvegie spade,
e trascorresse il vincitor fremente
con ruinoso piè per l’ampie strade,
ma giaceva in un fascio con la smorta
balia in terra la sì eccelsa morta.

118Tosto di Londra poi l’alte matrone
metton l’estinta in bara altera e d’oro,
e d’ululati il ciel vien che risuone,
e chiome e petti offendonsi costoro.
Ma d’ira e di vendetta acuto sprone
sono al sesso viril le strida loro:
corron gli Inglesi a l’armi, e rauco il canto
sciolgon le trombe, e cresce l’odio e ’l pianto.