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Il Tancredi

di Ascanio Grandi

Canto VIII

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 27.09.15 11:16

ARGOMENTO
Scaccia col vento austral gli inglesi pini
Tancredi, e porto alfin prende in Melita.
Parla a vanto sovran de’ Saracini
Satan, e i Turchi stuoli anch’egli addita,
e dice quante nevi in su i marini
flutti spinte ha l’Egitto, e tra l’ordita
congiura Idro vien tolto a gran periglio,
e Tancredi il conosce alfin per figlio.

Tancredi giunge a Compostela, mette in fuga gli Inglese liberando i venti, quindi prosegue per Malta (1-24,5)

1Aperto è l’arsenale, e già tirati
ecco indi in fretta in su ’l regal Tamigi
quelli che da Matilde fabricati
furo ad uso di guerra alti navigi,
ammirabil lavoro, et intagliati
dietro le poppe stan gli Angeli stigi,
quando Dio fulminolli e da le stelle
svelse quella d’error prima Babelle.

2Su questi pini le londresi schiere
fremon dogliose, e negro e tenebrato
il vessillo sovran tra le bandiere
di sanguigne là su lettre han vergato.
Scritto hanno di lor voglie audaci e fiere
la sì amara cagion, né cessa il fiato
a dar spirto a le trombe, a sonar carmi
tristi e guerrieri al vario suon de l’armi.

3Forse mai tale la città di Marte
le ferree porte al tempio apria di Giano
quando, più le catene in pezzi sparte,
sciolto usciane il Furor fiero et insano,
ma, rallentate al navigar le sarte,
lascian Londra le navi e ’n oceano
entran dopo molto girarsi in terra
su ’l fiume re de’ fiumi d’Inghilterra.

4Volan l’antenne e volo a volo aggiunge
l’industre cura ognor de’ naviganti.
Spezzasi l’aria e l’onda, e preme e punge
l’alme il dolor, né cessan l’ire e i pianti.
Ma chic cerco è da lor molto è da lunge
che ben più giorni ei fe’ partenza innanti.
Corre ei di qua dal mar normanno a cui
nome, et a Normannia, dier gli avi sui

5Indi mira, in passando, il Pireneo
ch’i regni iberi e i gallici divide,
mira Biscaglia, ch’a sé d’alpi feo
schermo a grand’uopo e servitù non vide;
indi passa a quell’ultimo Nereo
ove non giunse il glorioso Alcide,
ove più in ocean Galizia sporge,
ove a Maria tempio sì estremo sorge.

6L’ancore qui gittò devotamente,
che ’l santo albergo visitar gli calse;
presse con pianta umile e riverente
le sacre soglie a piè de l’onde salse,
le ginocchia atterrò, ma con la mente
a l’alta diva in su l’empireo salse,
pregò ch’ella omai purghi e tenga sani
con sua potenza in lui gli affetti umani.

7Disse sue colpe al sacerdote, e prese
in cibo il pan divino, e regi doni
non senza il suo ritratto in alto appese
e gli occhi ebbe mai sempre umidi e proni.
Tre volte intanto gli astri Espro raccese
e tre l’aurora aperse i suoi balconi,
nel quarto giorno ei risalì su l’alto
liquido di nettuno ondoso smalto.

8Sciolse le vele, et indi a tergo egli era
mediterranea Compostella, dove
tomba have il divo che portò la vera
fede in Ispagna, e grazie in essa or piove.
Ma, fuor che gli Aquiloni, prigioniera
tenea Tancredi ogn’aura, e ’n guise nove
securo arava i mari, et aureo e vago
poi da’ nocchieri s’additava il Tago.

9Allor colui che su la gabbia stassi
gridava: «Un non so che veggo remoto,
che d’ora in ora più visibil fassi,
ma sembianza distinta in lui non noto;
di noi più ratto ei par ch’i mar trapassi
e da tergo ne vien». Tancredi immoto
non stette a questa voce, ma stormento
mirabile ad oprar già non fu lento.

10È d’oro, è lungo, è tondo, et avvicina
lontanissime cose al guardo umano
un tale ordigno, e doppia ha cristallina
estremi tate, e dentro è vòto e vano.
Il fabricò in germanica fucina
e d’intagli il fregiò dedala mano,
ma dove il fece d’oro, ivi intagliollo,
e ne’ duo vetri suoi schietto lasciollo.

11Sotto un de gli orli il nobil fabro incise
de gli stellanti segni il cerchio adorno,
e fe’ gir per le parti onde il divise
i carri de’ pianeti e l’alba e ’l giorno.
Sotto l’altro, a rimpetto, iride mise,
iride incontra il sol co’ nembi intorno,
ma nel mezzo scolpì l’immobil terra
e ’l mar che la rinchiude e la disserra.

12Tancredi per colà dove sta impressa
la terra e ’l mar quello stormento prende,
e l’un de’ vetri al miglior occhio appressa
incontro a cui l’altro cristal risplende;
l’altr’occhio intanto dal suo officio cessa,
ch’intorno a questo ei la palpebra stende,
e su le piante egli s’inalza e resta
immobile dal piè fin’a la testa.

13Da l’un cristallo la virtù che vede
passa ne l’altro, e verso Borea guata,
per l’arte oh quanto in nostri sensi eccede
la virtù natural ch’a’ sensi è data!
Già s’appresenta al guardator (chi ’l crede?)
per quei duo vetri la londrese armata,
e lunghissimo spazio ella da lunge
rimane, et in un punto a gli occhi giunge.

14Mira Tancredi, quasi a sé vicini
i guerrier su quei legni e i capitani.
Stavan con occhi lagrimosi e chini
e mordeansi per ira ancor le mani.
Vede, non al suo sguardo peregrini,
i vessilli de’ prischi avoli dani,
ma guarda la regal nave che spande
sanguigne note in negra insegna e grande.

15Quivi egli lesse, e con dolor n’apprese
de la reina il fin tanto infelice,
e intenerissi e sparse in su l’arnese
pianto, qual traboccarlo a pietà lice.
Ma le minaccie altere in gioco prese
e la guerra mortal ch’Anglia l’indice,
più cose in sé girò, molte n’escluse,
e non offender Cristo ei ben conchiuse.

16Conchiuse ei dentro il velo aureo riporre
i già di sprigionati indi Aquiloni,
e da lo stesso vel quei venti sciorre
che van co’ nembi in compagnia de’ tuoni,
e questi al corso de’ nemici opporre
e verso i sette gelidi Trioni
svolger lor vele, e svolte rincalzarle
con lungo soffio, e ’n Anglia rimandarle.

17Ciò che scerse, ei non cela; indi sua mente
scopre, e chiede i consigli a’ duci eroi;
ma sottomettono essi unitamente
i lor giudici a tai giudici suoi.
Un sen di terra opposto al clima algente
poi l’ancore afferraro, e quivi poi
legar l’are che spiran da Calisto
ratto, e ratto slacciar gli Austri ei fu visto.

18Usciron con furor l’aure che sciolse
e tutto scosser l’ocean profondo,
ma dal core ei mandò prieghi ch’accolse
nel seggio eterno il gran Fattor del mondo.
Dio per quei prieghi il troppo impeto tolse
al mar commosso dal più interno fondo,
e tra procelle sì, ma senza offese
fece in Londra tornar l’armata inglese.

19Tal quello eroe, di cui fu pregio e gloria
non assaltar unqua i pagani in vano,
fu co’ Britanni et istimò vittoria
non tra’ fedeli insanguinar la mano.
Oh con che dura a’ posteri memoria
di strage sparso avria l’ampio oceano,
se quanto invitto fu, tanto men pio
ponea in non cale egli il timor di Dio.

20Erano al mondo intanto otto e sei volte
fosche girate le diurne rote,
e la notte altrettante avea rivolte
anco le sue d’ogni sereno vòte,
e Tancredi chiudea l’aure disciolte
e sciogliea Borea a rischiarar Boote.
Poi l’ancore toglie ansi a’ fondi cavi,
e fean le sciolte vele ale a le navi.

21Costeggiavan la Betia, e d’ora in ora
disserravansi or fiumi or porti or colli.
Danno ivi al mondo oriental l’aurora
de l’Esperidi gli orti erbosi e molli,
et ella, inanzi al sol correndo allora,
fea di bell’ostro i suoi candor satolli,
e sorgea su lo stretto ove confina
Europa e Libia in picciola marina.

22Mira Tancredi le colonne e lega
l’aura ch’agghiaccia gli iperborei regni,
e dal carcer de’ venti altr’aure slega
e n’empie i lini e fa volare i legni.
Il corso de le navi egli in giù piega
e del tebano eroe ripassa i segni,
e poich’al mar mediterraneo torna
gli par più bello il ciel, l’aria più adorna.

23Poi s’attergava a le contrade ibere
e tenea i Cauri fuor de l’aureo velo,
e drizzava de l’alba in vèr le sfere
tra Libia il corso e tra l’ausonio cielo.
Inturgidivan l’onde opache e nere
sì sotto il sol come al notturno gielo,
e l’armata correa sempre su ’l mare,
e ’l mar parea venir, l’armata stare.

24Corse oltre dove di sì vario aspetto
già Coridonia comparir solea,
alfin giunse in Melite, e qui ricetto
d’aure non tocco i pini suoi accogliea.
Ma l’empio cinto di Matilde al pettoSatan manda Tisifone a velocizzare gli Egizi, intanto narra ad Asmodeo le vicende dei regni musulmani in Medio Oriente (24,5-41,4)
con suo scorno Asmodeo rivolto avea,
e da Britagna in Persia a ratto volo
giunto era ei d’ira pien, carco di duolo.

25Satan ei qui trovò con la compagna
e d’Inghilterra i novi casi aperse;
ma qui schiere infinite in gran campagna,
accinte a mostra far, già fean vederse:
quanti guerrier dal suol che l’Indo bagna
fin a le region di giel cosperse
allor nodriva a Macomet la terra,
qui riteneva editto aspro di guerra.

26Tisifone e Satan quasi in balcone
stavan tra nembi a riguardar le schiere,
ma poiché udìr quanto Asmodeo qui espone
l’un fu visto parlar, l’altro tacere:
«Va’, va’, «disse Satan «va’ Tisifone
dove d’Egitto in mar son le bandiere,
va’, né fraporre indugio, e ’n questa e ’n quella
parte mutiam proposto a tal novella.

27Fa tu che non danneggi più quel campo
i liti a noi già tolti di Soria;
tanto sforzo naval svolgi, et inciampo
il figliuol di Ruggier n’abbia tra via.
Ma perché, mal mio grado, o palma o scampo
dare a costui l’empio destin potria,
però contro il medesmo a mover questo
esercito terrestre io qui mi resto.

28Ir doveva a Sion, ma vada dove
in carcere per noi stassi Boemondo,
e duro intoppo in terra alfin ne trove
Tancredi, ov’abbia in mar fato secondo».
Tace, e la furia stigia i vanni move
e vola, e donde passa è noia al mondo:
viperea ferza in mano e viperini
dietro gli omeri suoi strisciano i crini.

29Questa che non farà su l’onda egea?
Ma in rassegna i pagan moveansi omai,
e ’l fier Satan ad Asmodeo dicea:
«A i regni colchi tu meco n’andrai,
altro per vendicarti (or ti ricrea),
senza impiegar tuo cinto, oggetto avrai:
vergine invitta in armi e di leggiadre
forme guerreggia a noi tra queste squadre.

30Ma guarda la metà de’ tanti nostri
sforzi di guerra, altera vista e cara.
Gli altri son quelli che con remi e rostro
spezzan, qual dissi, il sen de l’onda amara,
e pria ch’io di costor t’additi e mostri
gli ordini e i duci, altro da me tu impara,
de la stessa materia a più chiarezza
e d’altro che d’amori abbi contezza.

31Macomet nostra legge a’ Saracini
già ne la chiara Arabia a scriver prese,
ma non dentro gli arabi confini
lasciolla il Saracin poiché l’apprese;
troppo in Asia ei la sparse, e pellegrini
pregi el dier per militari imprese,
e la colmò d’onor sommo, supremo,
in questo nobil regno ove noi semo.

32La fede a noi nemica egli qui estinse
e chiamò saracini i regni persi,
ma qui poi venne il Turco, e ’l tutto vinse,
e ’l prisco nome lor qui rese a’ Persi.
Maometan si fece, e poi si spinse
contro i cristiani al nostro impero aversi:
la spada turca al persico valore
unissi, e n’ebbe Roma onta e terrore.

33Tal qui de’ Turchi il regno allor fondossi
e domò la cittade al Ciel diletta,
et a re grandi aspro vicin mostrossi
e fe’ gran parte d’Asia a sé soggetta,
ma un turco re, che vecchio disarmossi,
alta in suo schermo ebbe difesa eletta;
ei creò contro Memfi e contro i Traci
quattro governi a stabilir sue paci,

34duo soldan, duo tetrarchi: a l’un soldano
l’Armenia, a l’altro il bel Damasco ei diede,
e ’l fren d’Aleppe ebbe un tetrarca in mano
e l’altro in Antiochia alzò la sede.
L’armen soldan fu detto Solimano,
ma conquistò Nicea, tolse gran prede
a’ Greci in Asia, et aggrandì suo stato,
sempre duce e guerriero in sella armato.

35I Franchi in tanto a far l’empia rapina,
ch’essi chiamano acquisto, il mar passaro,
ma pria ch’essi assalisser Palestina
egli Egizi Gierosolima occuparo;
poi la tolser quei ladri, e di reina
nome le diero e sede in lei fondaro.
A gli Egizi la tolsero, e leggiero
sforzo fu tòrre un novo infermo impero.

36Ma però che l’ingiuria i re possenti,
come è destino uman, senton più greve,
quando d’una fé stessa ambo credenti
sono chi fa oltraggio e chi ’l riceve,
i danni avuti da cristiane genti
il Turco trapassò qual cosa lieve,
ma quei ch’ebbe dal Cairo in marmo scrisse,
anzi nel centro del suo cor li fisse.

37Ahi cieco, ei da’ cristiani oppresso e cinto
volea guerra portar di Memfi a i regni,
ma tra i contrasti lor ben s’avria spinto
il franco, a sommi far suoi furti indegni,
avrebbe di Macone il nome estinto
posto avria su Babel di Cristo i segni,
Mauria già l’Asia tutta, avria l’arene
scorso de l’arso Nilo oltre Siene,

38ma da l’Inferno a fortunato punto
allora usciti Tisifone et io
al turco re, sì da sue furie punto,
togliemmo quel pensier folle e sì rio.
Vide egli il meglio, e fu per noi congiunto
con Califfe che lieto a lui s’unio,
col re dico d’Egitto, e per costoro
fèr lega e giusti patti i messi loro.

39I patti fur ch’a quel questo re fosse
schermo, et a questo quel contro i cristiani.
Quinci il tiranno memfico poi mosse
navi e guerrieri in su gli ondosi piani,
e i turbator de l’Asia egli percosse
con terrore, et affida oggi i pagani;
vuol le rocche marittime ritorre
in Siria a’ Franchi e i Turchi ivi riporre.

40Il Turco d’altra parte, il qual già messe
ben mille squadre in Asia insieme avea,
folle, e ch’al nostro Nil tosto con esse
fiera guerra civil portar volea,
or raccolte halle qui, queste son desse,
e ne fa mostra, e gir pensa in Giudea,
pur da me in altro modo or si dispone
quel grande e il re su quel pomposo arcione.

41Figlio è di Belchefon, che ’l re già fue
che creò i duo tetrarchi e i duo soldani,
et or che polve son le membra sue
regge costui gli scettri alti e sovrani.
Pasci di gioia tu le luci tueSatan mostra l’esercito persiano in rassegna ad Asmodeo, poi gli dà notizia dell’esercito africano (41,5-82)
là ’ve passan le squadre e i capitani,
distinte le nazion da le nazioni
vanno co’ lor destrier, co’ lor pedoni.

42Nazione anzi nazione oggi qui mostra
i fanti e l’arme gravi e le leggiere,
ma in altro dì tutti i cavalli in mostra
scevri vedrai da le pedestri schiere.
Gazerse il re s’appella, et è dimostra
la somma in lui de le virtù guerriere;
ei duce, ei re, ma nel mestier di Marte
di comandare e d’eseguir sa l’arte.

43Or non guardar più lui, guarda primiero,
principio a la gran mostra, un nobil duce;
Gorgondo è questi, e ’l popolo guerriero
di Persia unito a i Medi esso conduce.
in mezzo a’ Persi ecco il vessillo altero
che per glorie antichissime riluce,
par che ’n questo vessil la gloria spiri
d’un Serse e di duo Dari e di duo Ciri.

44Giuda Arzù i Medi, Argut Persi altrettanti,
venti mila ambo, e grandi archi e faretre
dietro le terga lor pendon sonanti,
e glebe i lor destrier spezzano e pietre.
Vuoi veder l’uom che chiuse tra pesanti
ceppi Boemondo in prigion cave e tetre?
Questi è ch’è scorta a’ cavalier seguenti,
dammi anco orecchio e ’n lui tien gli occhi intenti.

45Egli è sovran machinator d’aguati,
Dasman s’appella, et è soldano armeno,
successor di colui ch’a nostri fati
giunse con più provincie il tron niceno.
I bianchi lin su l’elmo alti e rotati
che turco ei sia danti notizia a pieno,
e de lo scudo suo l’aurea scultura
che l’origin de’ Turchi in sé figura.

46Tutto mirar da giù fino a la cima
(volto è vèr noi Dasman) possi il lavoro:
armentari in Iscizia i Turchi in prima
mira, e mira cangiar patria costoro.
Passar lor mira il Tauro, e sotto il clima
perso lor mira e i tanti armenti loro,
e tra le selve persiche cosparsi
mira infiniti i lor nepoti farsi.

47Questi quelli non san, né quelli questi
divisi da pendici e da riviere;
alfin si immensa quantità d’agresti
viene in sospetto a le città guerriere.
Persia ne pave, e poi spediti e presti
ecco gli araldi e trombe aspre e severe,
ecco quei Scizi per regale editto
verso il fiume Comar tutti in tragitto.

48Chi di qua, chi di là, tutti in un loco
arrivano improvisi, ma stupore
essi in vedersi tanti hanno non poco
e poi lo scorno in lor ferza è d’onore.
Alto desir di gloria a poco a poco
ne’ popoli selvaggi entra nel core,
già l’ardimento in su le fronti appare,
re, per regno essi aver, voglion creare.

49Vedi l’elezion? Cento famiglie
scelgonsi, et una è da le cento eletta,
e cento uomini d’essa ond’un si piglie
a sorte a cui lo scettro si commetta,
ma non possiamo a pien pascer le ciglie
ne l’intaglio gentil che sì diletta,
perché Dasman trapassa; or mira i vari
stuoli che seguon lui famosi e chiari.

50Parti e Niceni son, Colchi e Celici,
e quei de l’alta Armenia e quei de l’ima;
Nicea pochi e Cilicia, ah da’ nemici
ah Cilicia e Nicea vien che s’opprima,
pur di buon duce in ambo usa gli offici
e di vigor l colma il forte Agrima;
duo mila questi e quei, ma sotto tale
inclita guida ognun per cento vale.

51Precedon misti, e dietro le lor spalle
mira anelanti i colchici destrieri,
scelta milizia, e n’è rettor Garzalle,
Garzalle ch’anco impera a’ Parti arcieri.
Il saettar de’ Parti unqua non falle
e saettan fuggendo aspri e leggieri,
i Parti e i Colchi una adunanza fanno
e pieno a venti mila il numero hanno.

52Ma l’oste di Dasman chiudon l’armene
ordinanze seguenti, or tu le guata.
Squadre pur grandi, e ’l freno Alì ne tiene,
duplice gente anco in arcion locata.
il soldan di Damasco indi poi viene
e pedestre con lui sua gente armata,
tolte al frondoso Libano le selve
fan che di lancie qui l’aria s’inselve.

53Tu pia guarda il soldan, questo è pur esso,
come il soldano armen, sangue regale,
ma porta ne lo scudo il volto impresso
di Cinzia scema a picciol arco equale,
e s’appella ottoman, nome promesso
da nostre sorti a noi sommo e fatale,
nome a i cristiani re sgomento eterno
se gli auguri non mentono d’Inferno.

54Da lui verrà quella ottomana gente
che da Bizanzio scaccierà gli Augusti,
e prima farà suoi ne l’Oriente
de’ ladroni francesi i seggi ingiusti.
Udito il puoi tu aver se con intente
orecchie a tai novelle unqua già fusti.
Gli stuoli ch’arma a noi sì gran soldano
divoran qui sotto duo duci il piano:

55Dragut è l’uno, i Damasceni ei mena
che manda il bel Damasco e non il Parto,
damasceno a cui fu tolta l’arena,
materia informe, onde fu l’uom formato.
Numerose falangi et a catena
legan le spade, ond’è lor fianco armato,
taglian tai spade ogni ferrigna tempra
il fabro damascen così le tempra.

56Olferne è l’altro, et i Fenici scorge
squadre chiare via più se non più folte.
Sparso d’auree piramidi si scorge
il lor vessillo, altr’erte, altre in giù volte;
ma tal bandiera un fier dolor mi porge,
tra queste genti a’ rei cristian rivolte,
però che ancor deposta esse non l’hanno
e pur l’insegna fu del lor tiranno.

57Ma dritto è ben ch’io per costui mi doglia
e che l’empio destin colpi e condanni,
se più costui che la sua regia soglia
servo io vorrei, bench’ei sia carco d’anni.
Questi, ohimè, sotto i Franchi or vien s’accoglia,
questi è quel fuggitivo empio Giovanni,
ch’empie Tancredi di consigli e ’l rende
invitto. Ma qual oste or qui si stende?

58N’è duce Oron, d’Aleppe egli è tetrarca,
ma fu costretto abbandonarla quando
per farsi d’altrui stato empio monarca
il franco iva la Siria depredando.
Duo duci han duce lui, Trimarte e Darca:
Darca i guerrier d’Assiria vien guidando,
Trimarte i Babiloni, e gli uni e gli altri
trentamila, et audaci in guerra e scaltri.

59Nel vessillo regal de’ Babiloni
mira nostra Babel spiegarsi il alto,
e su la region poggiar de’ tuoni
e dar in nome nostro al ciel l’assalto.
Ma passati d’Oron tanti pedoni,
con triplicato stuol qual vien Grifalto?
Vien con tre schiere, e son diversi e vari
di sua milizia gli ordini e gli affari.

60Grifalto di tetrarca il titolo have,
ebbelo già da poi che giacque estinta
la prole di Cassano, e presse il grave
giogo Antiochia, ahi da che frodi vinta.
Grifalto con parlar dolce e soave
la voce a lusingar tien sempre accinta,
spia l’altrui voglie, e d’esse oggetto face
a le parole ond’egli adula e piace.

61 Quinci il re l’ama e quinci anco il re molta
altra parte del regno a lui commise.
Questa da sue provincie egli ha raccolta
oste varia in tre squadre ampie e divise:
la prima squadra a la doppia India è tolta,
e s’arma in guerra in disusate guise,
sopra elefanti impone torri e sopra
tai torri ella sublime avien si scuopra.

62Fieri in tenzon questi indici elefanti,
e son le torri lor di cerri annosi,
sei sostiene ogni torre armati fanti
da l’umbilico in giù là su nascosi.
Quel duce è ’l duce lor, ch’ad essi innanti
scuopre eguali a sue forze atti orgogliosi,
e ch’a grande destrier gran tergo aggrava,
e lega a grande arcion gran ferrea clava.

63Su tutti i cavalieri orrenda estolle
egli la fronte, anzi le spalle e ’l petto,
e, impotente a temprar l’ira che bolle,
tutto è sdegno e furor, rabbia e dispetto.
Tormonte ha nome, e fama e pregio tolle
a quanto incontro Cristo odio han concetto.
O qual contro i Normanni il rivedrai
su ’l Fasi tu, s’essi v’arrivan mai!

64Ma l’altra squadra è di pedoni arcieri,
e ricca vien da l’eritrea pendice,
Melce n’è duce, e ’n suoi vessilli alteri
pinta è la rinovabile fenice.
Snelli il terzo squadron punge destrieri,
stanca la fama n’è tanto ne dice,
pur questo stuol non è sesso virile,
ma fiera in arme audacia feminile.

65L’amazzoni son queste, aspre donzelle,
dura progenie, marzial famiglia:
ogni lor genitrice arde et isvelle
la destra mamma a la lattante figlia,
vi nasce il maschio a servitute imbelle,
scettri et armi tra lor la donna piglia,
et è reina loro e loro scorta
la vergine ch’io dissi, or ti conforta.

66Dolce a vederla, il nome suo Tigrina,
oh quante al suo rigor dolcezze unisce,
oh come dolce e fiera al re s’inchina,
oh con quanto splendore impallidisce.
Mira in qual briglia d’or, che alabastrina
mano ella avvolge, e quanti cor rapisce,
mira qual elsa cinge, e come scarco
porta al tergo gentil lo scitico arco.

67Nacque su ’l fonte onde quel fiume nasce
che doppio scorre in rive raddoppiate,
e quasi tra le cune e tra le fasce
si spezza e fa di sé Tigre et Eufrate,
però d’essa il bell’elmo avien si fasce
di quattro erette in su ripe intagliate,
Eufrate e Tigre ha per cimier costei,
ma Tigre sol diede il bel nome a lei.

68Pien di speme n’andrai tu con sì bella
donna, Asmodeo, meco per lunga via,
Ma guarda alfin picciola squadra in sella
che la gran mostra a terminar s’invia,
falange avventuriera, e sappi ch’ella
uguale have servaggio e signoria,
quanti dì ha l’anno ella ha guerrieri, e in uno
dì ne l’anno tra lor regna ciascuno.

69Tra questi eroi per molto pregio alteri,
benché non poco ecceda il fier Torrento,
Meonte vuol per sé gli onor primieri,
de’ secondi non mai vago e contento,
e di speme empie l’Asia il bello Algieri
ch’apre nel volto i rai d’ostro e d’argento,
ma chiaro et ammirabil d’ogni parte
sembra Eufrante fra tutti Alcide e Marte».

70Non più Satan, e lieto infra il dolore
l’orride labbra sua restar fe’ mute;
a cui disse Asmodeo: «Gloria e splendore
è ne le tante qui squadre vedute,
e s’han l’altre d’Egitto equal valore
onde Tancredi attenderà salute?
Veder vorrei quelle anco, or danne almeno
contezza, ad addolcirne anco il mio seno,

71ché in veder qui schiere sì invitte e tante
mirar sconfitto quell’iniquo parmi,
quel che fu in Anglia sì lascivo amante
e ’n Anglia scorno tanto ahi poteo farmi».
Tacque, e Satan rispose: «Anco altrettante
son glorie in quei guerrieri et in quell’armi.
Già con Egitto Africa in guerra accolta
di vele ha pieno il mari, tu lieto ascolta.

72Quando sì grande, a pro d’Inferno, ordita
la lega fu tra’ Turchi e i canopei,
tanta africana avemmo a’ fari unita
gente quanta di Cristo odia i trofei.
Indi, navi a compor, cadde infinita
selva tra i climi mauri e gli eritrei,
e tra Memfi e Cirene, e bollì tutto
d’armati legni il gran niliaco flutto.

73Al Nil venne ogni antenna, e già su ’l mare
di tante navi il re del Nilo è duce,
ma tra i primieri suoi vanto ha di rare
forze alta donna e d’amorosa luce:
Nilea si noma, e grande e bella appare,
e torreggianti legni ella conduce,
e vien da la città che fondò il chiaro
greco, tanto di gloria in terra avaro.

74Su cento minor duci essa ha l’impero,
e su guerrier ducento ognun di loro,
troppo è grave d’acciar, troppo è guerriero
tal campo, et ogni eroe sfavilla in oro.
Poi con suoi pini il liquido sentiero
duce a memfici stuoli, ara Zendoro,
ma tolse i pini al monte ove combusto
del gran roman fu ’l sì negletto busto.

75Cento d’infimo grado capitani
regge anco questi, et arde per NIlea,
oblia se stesso e i suoi da lui lontani
spirti costei forte agitando bea.
Ma in Meroe, dove annegra i corpi umani
la face cocentissima febea,
armossi tra duo fiumi il bel Grigento,
cui bello l’eban fa, se non l’argento.

76Comanda a squadre ottanta, e titol regio
have, e di beltà bruna è raro mostro.
Gioventù fosca è sua milizia, e ’n pregio
non è qui nel bel viso il giglio e l’ostro,
ma ne le terse guancie è gentil fregio
con foschi raggi l’ebano e l’inchiostro.
Asmodeo te ’l sai tu che quanto nera
più la bellezza è in lor, palma ha più intera.

77Dietro a l’invitto Orson van poppe e prore
pur d’altrettanti pugnator guernite;
sua Tebe have l’Egitto a cui l’aurore
sì belle apre l’arabea Amfitrite.
Quivi egli scelse i fabri a dar maggiore
altezza a l’alte travi riunite,
a le selve recise, e coprì l’onde
del fiume egizio e n’adombrò le sponde.

78Diece mila su i monti le cui cime
lascia e i vicini assorda il Nil cadendo
guerrier armò Trivento, e poi ne l’ime
piaggie sue, navi fe’, bello e tremendo.
Questi stupio mirando più sublime
il polo, e destre andar l’ombre vedendo,
e questi il volto a meraviglia imbianca
tra gente negra no ma poco bianca.

79Di sangue e di beltà pregio e vaghezza
l’alme serve et ancelle a costui rende,
che nobiltà regal giunta a bellezza
su ’l fior de gli anni a favor suo contende.
Ciascuno a pro di lui sua vita sprezza
e l’emulazion tutti più accende,
tanto d’avoli illustri il lume puote
misto a lampo gentil di belle gote.

80E te, Marocco occidental, cui bagna
di là d’Abila il mar, votò Grifante,
e impoverio di selve la montagna
in cui fu trasformato il mauro Atlante.
Poi lo stretto passò tra Libia e Spagna,
passò Sardigna, e si sospinse innante,
e di ferro e di gente onuste e gravi
menò le sode atlantiche sue navi.

81Ma ben d’Europa prigioniere genti
sotto i remi a catene Anserbo avinse,
e scelse aspri e feroci combattenti
là dove Elisa per amor s’estinse.
Già queti i duci son che su i frementi
mar i l?Egitto incontro Siria spinse,
e che contro Tancredi or Tisifone
corre a sferzare, e fian tosto in tenzone.

82Dunque sii lieto e pensa a l’alte offese
che l’empio avrà da noi s’ivi non père,
pensa che fia sconfitto nel paese
colchico poi da queste invitte schiere.
Tu nosco intanto a le tue degne imprese
le forme appresta di Tirgrina altere».
Tacque, e poi spinse tanto armato mondo,
e ’l carcer ne vallò di Boemondo.

Egla salva Idro da una congiura dei baroni francesi e lo trasporta a Malta (83-104)

83Ma vero l’Austro, ove si spiega e face
bel cinto il mar di Libia a te, Melite,
a te che cangierai, così al Ciel piace,
già già il tuo nome per età infinite,
Tancredi incontro a la diurna face
nubi guardava di splendor vestite,
et al garzon che n’Anglia entro lucente
iride egli mirò, volgea la mente.

84Membrava anco la voce ch’egli intese
e dicea: «Come questo esser può vero?
Fu fin al dì ch’io giunsi al solio inglese
vergine il corpo e casto il mio pensiero».
Tacque, ma quali al suo figliuol son tese
insidie sotto il gallico emisfero?
Ah contro lui pudico ad ampia e ria
voglia or move alti eroi la Gelosia.

85Ei le matrone, ei le donzelle franche
ch’avean posto in non cale i risi e i canti,
ei lor bellezze in nulla parte manche
ch’invaghir potean gli aspi e trarne pianti,
nulla curava, e tenea salde e franche
le voglie sue verso sì degne amanti:
sprezzò i lor doni, a’ messi lor non porse
orecchio, e da lor viste i guardi tòrse.

86Ma quei che da la sua rara beltate
non da’ suoi portamenti offesi furo,
mentre le donne lor tanto infiammate
ahi ne vedean, grave a soffrirlo e duro,
con menti irrequiete e congiurate
s’uniro incontro lui, casto e sì puro,
e strano e formidabil giuramento
munio i decreti del lor mal talento.

87Libaron sangue uman essi e giuraro,
già stabilito i modi al reo disegno,
ancider il fanciul, che fu sì raro
di natura e del cielo unico pegno.
Inusitati eclissi il sol celaro
di ferità sì rea presagio e segno,
e l’aere fulminò sendo sereno,
e fosche l’acque fur, tremò il terreno.

88Alfin rotava il dì che spettatore
esser dovea del fatto indegno et empio,
e cresciuto era l’odio e già il furore
sferzava l’alme al dispietato scempio.
Appo la sbarra in cui d’alto valore
Idro diede alto e non più inteso essempio
adempirsi dovea l’abbominando
voler, con diro effetto et esecrando.

89Quivi per torneare Idro in quel giorno
venne, come solia, senza sospetto,
stavano i congiurati a lui d’intorno
e ’l pregio di beltà stava in suo aspetto.
I suoi crini, che ’l sole empion di scorno,
scota su ’l bianco collo un zefir etto,
solleva vali poscia, e ’n guise mille
gli inanellava e ne sciogliea faville.

90L’elmo teneagli un paggio, e in quel momento
egli il prendea per porlo in su la fronte,
pioveva la sua man lampi d’argento
quali non l’ebbe mai l’ido orizzonte.
Ostro e perle le guancie, e perle il mento,
ne gli occhi un doppio sol parea sormonte,
e di tanti bei rai nessun cadea
in terra no, ch’Amor no ’l permettea.

91Accoglievan quei rai su da fenestre
le sprezzate da lui donne e donzelle,
e dicean: «Come un cor duro et alpestre
cela costui tra forme alme e sì belle?»
O pur: «Perch’ei non è cosa terrestre,
ei sdegna ogni beltà sotto le stelle?
sopra l’ali d’Amor come camina?
come passa entro i cor, né s’avvicina?».

92Così ciascuna, e tutte eran rivolte
in lui pur sempre da diverse parti,
e l’aure de’ sospiri accese e folte
usciano, e ’n larghi fiumi i pianti sparti.
Oltre l’usato le bellezze colte
industrie non più intese, insolit’arti,
anco gli occhi lo stibio ha qui dipinti,
e di Venere qui son mille cinti.

93A’ cor di quei gelosi aspro flagello
furon tai viste, e, come ira gli incita,
senza aspettar il segno iniquo e fello
forse avrian la sì cruda opra compita,
s’Egla su l’ammirabil suo battello
a l’innocente non recava aita:
comparve disdegnosa ella su l’onda
di Senna, e l’acque uscir fe’ da la sponda.

94Da la sinistra ripa uscì repente
il rivo con ritorte onde improvise,
et urtò sopra quegli aspro e fremente
e per tema de’ petti i cor divise.
Egla ciò con incanto oprò possente,
ma su la barca Idro e Giosia rimise,
poi, senza ch’alcun sappia ove sen vada,
pur tra stupori al suo fuggir fe’ strada.

95Lungo quest’onde a’ congiurati avverse
fuggir non fe’ la conca sua dorata,
ma secura entro ’l gorgo la sommerse
ella, ad eccelse meraviglie usata.
Strana via sotto il fiume indi s’aperse
per sott’acqua così girsen celata,
e fe’ che nulla a’ duo l’acqua nocesse
e che fin giù nel fondo il dì splendesse.

96Iva allargando i fluviali umori
di su e d’intorno al suo battello altero,
e passava ne’ regni anco di Dori
sotto acqua a far più lungo ivi sentiero.
Pensa quai dentro il petto avea stupori
ivi allor l’uno e l’altro cavaliero,
et era ad ambo la cagion nascosa
di tanta fuga lor meravigliosa.

97Di stupor in stupor passano, e vari
miran tra l’onde i popoli squamosi,
parte tal quale alberga in questi mari
che stansi qui quasi tra terra ascosi,
parte che sola a sé trova ripari
in quei gorghi sì vasti e meno ondosi,
da cui si bagna d’ogn’intorno e serra,
isola lor, tutta l’immensa terra.

98I vitelli del mar nasconvi, i quali
spargon solo in dormendo i lor muggiti,
e i delfin, che s’inarcano e poi strali
sembran correndo rapidi e spediti,
e le balene, ad isolette equali,
che co’ lor corpi in mezzo al mar fan liti,
le balene i cui sguardi han debil luce
e cui sì grandi un picciol pesce è duce.

99Sonovi ancor mille e mille altri ceti
già tutti senza nome orridi mostri,
che seco tien quella sì vasta Teti
et indi unqua non manda a’ mari nostri.
Non paventano e questi aste né reti
e ’n tutti varietà vien che si mostri,
altri informi, altri immani, e versan fonti
altri da l’alpi de l’orrende fronti.

100A guisa di terrestri anco animanti
figlian costoro, et hanno alvo e mammelle
(tanti produr l’alma natura e tanti
diversi soggetti può sotto le stelle);
dietro le madri i parti lor lattanti
vanno entro i mari in queste parti e ’n quelle,
mirabil vista, e i gorghi trasparenti
son paschi ondosi a’ natatori armenti.

101Queste che potean l’occhio e ’l cor rapire
cose sì rare i duo baron udieno,
pur Egla sopra ciò non prese a dire,
di stupor tanti al suo figliuol ripieno,
ma toccò l’amoroso aspro martire
de le galliche donne, e poi dal seno
trasse un sospiro, e rivelò la dura
ordita contro lui sì rea congiura.

102Turbossi Idro e gridò: «Sì dunque a morte
con fuga mi sottraggi? O me infelice,
perché non me ’l dicesti? ove mi porte
con tanto scorno, o saggia genitrice?».
Et ella: «In altro tu, tu franco e forte,
serba al tuo genitor tua spada ultrice;
sai qual vendetta il chiama, ma non sai
perché in menarti a lui tanto indugiai.

103Già mentre fummo in Francia ahi come in esso
prevalse in Anglia un messaggier d’Averno!
Pur venne a lui dal Ciel mirabil messo,
et indi il tolse e fe’ scorno a l?inferno.
or giunto egli è in Melite, ov’ha da presso
i patri liti, o figlio, et io lo scherno
a’ congiurati fei, come là suso,
ove Dio regge il mondo, era conchiuso.

104Ma n’andrem noi per qui ’n centro e intanto
per me di novo un cupo sonno avrete;
sol perché non v’offenda il moto tanto
de la mia barca il fo, ben ve ’l sapete».
Tacque, e sopiti per virtù d’incanto
e sensi d’ambeduo sommerse in Lete,
e ’n poche ore il battel fin a Melite
spinse giù per lo fondo d’Amfitrite.

Qui è congedata dall’Angelo, che le impone di tornare in Salento (105-111,4)

105Quivi giunta il mar rompe, e sopra il mare
con l’aurea barca ascende, e ’l mar riserra,
et in quel punto le dilette e care
navi mira non lunge avvinte in terra.
Si colmò di conforto, e dolci e rare
paci indi attese a l’amorosa guerra,
ma giusto et immutabil si frapose
il Ciel, che regge e volve umane cose.

106A lei dentro un balen si discoprio
l’Angel ch’i re normanni in guardia tiene,
e disse: «A pianger tu torna al tuo rio,
Egla, e lascia costor su queste arene.
A te i casti diletti il sommo Dio
nega, et al tuo fallir ciò si conviene:
con vil piacer tu precorresti i santi
riti, e dritto è che ne rimanga in pianti.

107Pur non perciò il regal, che senza errore
del padre diesti tu, parto innocente
illegittimo fia, che quel valore
il legittima omai ch’è onnipotente».
Tacque, e sparendo l’avventò terrore
et essa restò attonita e dolente,
si franse il crin, mentre svegliò quei duo
e i candori oltraggiò del petto suo.

108Et intanto fuggir ben la vedresti
né licenziarsi pur dal dolce figlio,
ambo lasciò su ’l lito e le celesti
ire fuggiva, vergognosa il ciglio.
Amari fiumi ad irrigar fur presti
le guancie in cui spariva il bel vermiglio,
e sentiva tremar ella in sue vaghe
orecchie ambe le due perle sì maghe.

109In quella onde sperò lieti imenei
i suoi diti inalzò candidi e tersi,
toccolla, e disse: «Ohimè, in te sola i miei
male impiegai sì generosi versi».
E costeggiando i mari lilibei
gli occhi non vèr Sicilia avea conversi,
ma volti li tenea vèr le spiegate
su le navi in Melite insegne armate.

110Crede quivi mirar ciò che rischiara
le tenebre de l’alma e i sensi allegra,
e ciò che raddolcir fortuna amara
puote, e quetar la mente inferma et egra.
Fugge, e riguarda insieme e insieme impara
quivi ella essere in un trista et allegra,
e in quei dolci oggetti intanto il core
resta, e gli spirti in lei sol regge Amore.

111Da terra Idro e Giosia vedeanla, e molto
stupor n’aveano, et ella sbigottita
pur dietro il tergo rivolgeva il volto,
più che strale in sue vie ratta e spedita.
Tosto si dileguò, ma il duol raccoltoIdro è attaccato dai cristiani ma riconosce il padre e si salva (111,5-130)
lunga stagion poi tormentò sua vita.
Idro mira da presso le paterne
navi, ma cader morto un guerrier scerne.

112Vêr l’estinto sospinse il guardo e ’l piede,
poi molto intorno e più su ’l morto guata:
ricche arme ornan l’essangue, onor gli siede
in su la fronte pallida e gelata,
sanguigno il collo, e fissa vi si vede
dira saetta allor allor vibrata.
Ma chi vibrolla è in mare, e ’n mar su ratta
saettia fugge, e in alto mar s’appiatta.

113De l’armata del Nil questi è la spia
che sembra amico a gli atti, a le divise,
e tra un monte che l’onde ivi copria
vibrò lo stral ch’ivi il barone uccise.
Ma ’l baron, cui lo stral con aspra e ria
piaga del viver suo così divise,
uno è di quegli che non soggetti a’ suoi
scettri guidò Boemondo itali eroi.

114Vanno innanzi a costui mille chiari avi,
et oh quai seguiranno alti nepoti,
che reggeran su ’l Vatican le chiavi
ch’a par de’ prischi duci ancor fian noti:
costor sono i Farnesi, e tu segnavi
orme in sentieri non do gloria vòti,
tu di cui parlo, e tu con gloria e luce
a l’armi d’Antiochia eri qui duce.

115E Gozo t’appellasti, e scuro e solo
gli sguardi al mar di Libia, a l’europeo
mandavi in vèr Sicilia, ahi quando a volo
morte ti giunse e ’l dardo canopeo.
Idro pieno riman d’ira e di duolo
per non saper chi l’empio eccesso feo;
ma quei d’Oronte, o nostro veder corto,
contra esso e ’l suo compagno escon dal porto.

116Come l’api lor code velenose
arruotan tra’ susurri aspri e sonori,
quando elle più feroci e sospettose
van contro a chi s’appressa a’ lor tesori,
così le spade e l’aste luminose
stringono e fan sonar bronzi canori
i guerrier d’Antiochia, e l’innocente
coppia assaglion fremendo unitamente.

117Stimano rea la nobil coppia, et essa
omicida non è del lor signore.
Idro ne gli atti primi e su la stessa
orma rimane, et apre in fronte il core,
ma troppo sopra lui, troppo s’appressa,
troppo ostinato quell’ostil furore,
et ei contro l’indomito e feroce
drappel, pria ch’altro opponga, oppon la voce:

118«Al vostro er n’andiam «dice «e su questo
margine questo eroe troviamo anciso.
Ben in fuga il feritor fu presto
sì che nullo possiam noi darne aviso.
Deponete vèr noi l’animo infesto,
già testimonio è il Ciel s’io il ver diviso».
Così, qual sallo, espone il ver, ma quelli
fremean pur anco impetuosi e felli.

119Idro più non sofferse, e svolse e strinse
la lancia, et a Giosia gridò: «Rimanti»,
indi a colpir, non a ferir, si spinse
ne guerrier che ’n lui fremean cotanti.
Li roppe, li disperse, li rispinse
col cerro, con la voce, co sembianti,
spettacolo ammirando, e n’ebbe molti
in mucchi e ’n globi anco sossopra volti.

120Qual Borea contro nembi, o tra minute
gregge quale è il leon su ’l lito moro,
tale e via più la marzial virtute
d’Idro fora a vedersi oggi in costoro;
le schiere de gli eroi stupide e mute
stan lungo il porto, e se paura in loro
non giunge, ognun ben crede che non possa
esser cosa mortal la costui possa.

121Vorrian tutti assalirlo, ma gli arresta
vergogna, e solo andar nessun pur osa.
Stan confusi e pensosi, e ruota in questa
Idro pur l’asta invitta e disdegnosa.
Scosse a tal vista il capitan la testa
e l’ampiezza del cor non tenne ascosa,
e corse contro il figlio a lui mal noto
che d’onte il campo empìa, guerriero ignoto.

122Elmo have in fronte, elmo che lascia ignude
le gote, e d’asta armato oltre si caccia,
come il piombo dal grembo ove essa il chiude
impetuoso la bombarda scaccia,
o quale arruota l’unghie atroci e crude
ircana tigre e inorridisce in faccia,
quando non atti ad arruotar gli artigli
nel fier covile a lei son tolti i figli.

123Fortunoso Tancredi, e che non miri
ove cerchi trofeo? Deh ferma i piedi;
tale fu il bel garzon che cinto d’iri
vedesti, or gli occhi in lui fisa, o Tancredi.
Membra quanti versar pianti e sospiri
altro errore ti fece e poi qui fiedi;
or non fraponsi l’ombra opaca e nera,
né ’l bel volto or celato è da visiera.

124Idro conobbe il padre, ma repente,
ah, se ’l vide venir nemico irato.
Rimase senza polsi e senza mente
e sermon breve a pena ebbe snodato:
«Figlio ti son, morto il baron giacente
trovai, questi guerrier m’han provocato»,
né parla più, ma gitta l’asta in terra
e senza schermo il sen gli offre e s’atterra.

125Affetto in sé sentio di genitore
Tancredi a quelle voci, a l’atto umile,
e, mandando congiunti il guardo e ’l core
intensamente nel garzon gentile,
trovollo a quel ch’ei scerse da splendore
d’iride circondato esser simile.
Tremò, ristette, e ’l sangue allor gelante
trapassò per le vene al cor tremante.

126Qual sta gelido e fermo un marmo dove
nobil fabro locò gran magistero,
e col fulmine in man vi scolpio Giove
o rotante la spada il dio guerriero,
tal gela il re normanno e non si move
e tale in atto sta torbido e fiero,
e tal sembra spirar e non ispira,
et esser pien di sdegno e non s’adira.

127Prostrato, e da’ piè d’esso non lontano,
tenea il buon figlio ambe le braccia al petto,
ma quei tornando in sé stese la mano
ove prono giaceva il giovinetto,
e fe’ che sollevasse ambe dal piano
le ginocchia, e ’l baciò poiché fu eretto,
et intanto gridò: «Chi concepio?
chi ti produsse al mondo, o sangue mio?

128Certo io no ’l so, ma che tu fossi uscito
dal sen de l’ossa mie dubbio io non aggio,
sì per l’opre che fai su questo lito,
che son de gli avi nostri in te retaggio,
sì perché l’ho da voce empirea udito,
né falso unqua esser può del Ciel messaggio».
Così Tancredi, e somma meraviglia
tra strana gioia a tutti empìa le ciglia.

129Ma ’l buon re di Sidon gli fe’ palese
come sotto il ruscello Idro a lui nacque,
e di quelle ch’amando Egla gli tese
dolci frodi d’amor nulla gli tacque.
Fur con novo stupor tai voci intese
ma Tancredi membrò la vaga e l’acque,
e saper volle onde al buon re svelate
fusser cose sì occulte e sì celate.

130«O duce invitto e pio, «quei rispondea,
«a me l’alto eremita anco ciò disse
allor che quanto avenne per la rea
Filidia a’ tuoi guerrier già mi predisse.
Fra tante meraviglie il sol cadea
e ingemmavano il ciel le stelle fisse,
poi dormian le città, ma il campo desto
s’accingeva ad officio almo e funesto».