commenti
riassunti
font
AA+
Chiudi

Il Tancredi

di Ascanio Grandi

Canto X

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 27.09.15 11:09

ARGOMENTO
Contendon soli Idro e Nilea in disparte
per gloria quegli e questa per amore.
Vinta l’armata egizia è d’ogni parte
e dassi a’ morti il funerale onore,
poi vèr Bizanzio, e di trofei cosparte,
liete ne van le vincitrici prore.
Il greco Augusto in mar Tancredi accogli
et indi il mena a sue cesaree soglie.

Nilea si innamora di Idro e lo sfida, ne è ferita, si scambiano doni (1-26,4)

1Su le sanguigne omai piagge marine
là nel corno miglior de la tenzone
ove assaltò le navi alessandrine
il re de l’antichissima Sidone,
di vera gloria avea scorso il confine
Nilea, cui virtù punse, onor fu sprone,
quando far meraviglie, oltre uman uso,
vide ella un cavalier ne l’armi chiuso.

2Chiuso d’armi il mirò, fuor che nel volto,
e pur la guancia era d’acciar coverta,
ma tutto il ciel d’Amor parea raccolto
tra la visiera disserrata et erta.
Idro, Idro è questi, ahi lassa, e ’l cor l’ha tolto,
et halle al sospirar la strada aperta,
misera, e ’n sì bel canape legate
sue voglie ella perdeo qui libertate.

3Qual maura leonessa allor che snella
si spazia e di ruggiti empie il gran monte,
s’improvise e mortifere quadrella
entro il suo fianco a penetrar son pronte,
resta tremante e ’n questa parte e ’n quella
guarda, e disarma di terror la fronte,
e la cervice dianzi aspra e superba
piega, et incerte stampa orme su l’erba,

4tal riman la gran donna marziale,
poich’i dardi d’Amor ne l’alma accoglie,
e già del grado suo più non le cale,
e son rubelle a lei tutte sue voglie.
Nel mal teso arco suo torpe lo strale
e vibrato non vola, o va e non coglie,
torpe in sua man la spada, e meno altero
su l’elmo è il cocodril ch’è suo cimiero.

5Scendon dal capo a traboccar per gli occhi
duo finti, et avvampar sente ella il seno,
fugge l’ostro dal volto e vien ei fiocchi
di neve in vece un bel pallor sereno.
La piaga è tra le vene e par la tocchi
morte col braccio, e tu l’arco hai ripieno,
tu dolce e fiero Amor, tu che raggiri
Idro nel petto d’essa e lei martiri.

6Ella sente su ’l cor dirsi: – O Nilea,
nel bel nemico tuo vive tua vita,
odia omai tu la gloria canopea
se da costui tu brami esser gradita.
A lui tradisci anco tue navi, e bea
con la sua grazia l’alma sbigottita -.
Tai voci sente, et a tai voci opporse
non sa, né può, né vuol, benché stia in forse.

7Poi migliore un pensier con lei favella,
miglior pensiero e pur servo d’Amore:
– Più tosto ti disperga aspra procella
che ’n lealtà difetto abbia il tuo onore.
Altr’armi, altr’armi, o in armi alta donzella,
impiega la fortezza, usa il valore:
acquistar con la spada a te conviene
questo sì raro tuo novello bene -.

8Per tai parole i sensi acqueta, e dice:
– A provata tenzone io sfide rollo,
e forse in qualche prossima pendice
vinto da me, mio prigioner farollo.
O me tre volte e quattro allor felice
s’avinceran mie braccia il suo bel collo,
e se, medica sua, poi le sue vaghe
membra toccando fascierò sue piaghe.

9O pur sua bella man darammi a morte
e sottrarrammi a cura aspra e sì grave -.
Tacque, e calossi per le sarte attorte
sopra spedita in mar picciola nave,
e verso dove il guerrier bello e forte
era trascorso, indi sospinta s’have,
e con cenni il disfida a singolare
duello in ermo scoglio entro quel mare.

10In ermo scoglio che ’n quel salso smalto
poco dal vicin lito si disgiunge.
Tosto in lieve battello Idro di salto
scende e trapassa, et a lo scoglio giunge,
indi cortese, a dismontar da l’alto
porge la mano a lei che sopragiunge,
a lei che chiusa è d’elmo e ch’a quel tatto
immobile riman di morta in atto.

11Sua man dentro la man del cavaliero
oh come langue e trema, oh come agghiaccia,
oh come e quella man s’apre un sentiero
più largo al core e più gli spirti allaccia!
Scende ella in terra, e del gentil guerriero
rimira gli occhi et smarrisce in faccia,
e quasi impetra e di soave e rio
cibo nudre il famelico desio.

12Oblia se stessa, e pur in lui guardando
le piaghe accresce ond’è d’Amor trafitta.
Quei grida: «Or che più indugi?», e fulminando
fa in aria balenar sua spada invitta.
Ma la guerriera allor più non badando
impugna come può, vinta e sconfitta;
d’Amor vinta e sconfitta il ferro impugna,
a tanta marzial solinga pugna.

13Irato, violento, risoluto
move Idro, ma non sa chi sia costei,
ben opre sopraumane ei n’ha veduto
e ben tardar la scerse i suoi trofei.
Ei, che da la gran pugna era venuto,
da lei sfidati, oh qual spera da lei,
stimandola eroe forte e pro campione,
in singolar duello alte corone!

14Et ella brama esserne ancisa, o ch’egli
restando prigionier sia suo signore,
brama legarli il cor con suoi capegli,
brama che ’l cor di lui viva in suo core,
brama che sue bellezze a lui sian spegli,
a lui c’ha suoi pensier nido è d’amore,
brama, tolto l’usbergo al suo bel petto,
mostrarsi in gonna a sì gentil diletto.

15Quei non così, ma ’l grave scudo imbraccia
e fulmina col brando e colpi avventa,
né perché schermi e non offese faccia
costei, di qua e di là punto ei s’allenta,
e freme irato e lei talor minaccia,
ma placida ella, e ciò che osò pur tenta:
cerca senza ferirlo, et in ciò pone
suo studio e suo valor, farlo prigione.

16O quante volte del guerrier la spada
essa, schifar potendo, in sé la tolse,
e visto poi con qual furor giù cada
ben sen pentì, ma con piacer sen dolse!
Quegli cerca col ferro aprirsi strada
entro il fianco, e più volte ivi il rivolse,
e spesso il fe’ cader grave e fischiante
su lo scudo e su l’elmo d’adamante.

17Sembra ella inferma tigre, ei fiero e crudo
leon che brami in lei figger gli artigli,
pur quanto il vede di pietà più ignudo
tanto d’amarlo più son suoi consigli.
Mille colpi gli diè su l’ampio scudo
tremando e sempre in lui pascendo i cigli,
e i colpi che gli diè tu, Amor, scemavi,
ch’esser dovean per sé fulminei e gravi.

18E ’l cavaliero intanto aveva ad essa
in varie parti omai rotto l’arnese,
ma nulla piaga in qualche loco impressa
l’aveva ancor quando il suo braccio ei stese,
e lei d’amore e da stupore oppressa
con l’aspro acciar nel gentil petto offese,
spezzò le piastre, ancor ch’adamantine,
la spada, e giunse a l’animate brine.

19L’amata spada il forte usbergo aperse
e su la destra mamma il sen ferio,
piagò quelle bianchezze e vi coperse
là sotto l’armi un bel purpureo rio.
Mortal non fu la piaga, e vi s’immerse
l’acciar pur dentro, e tepido n’uscio.
Idro il vibra di novo, ella ritira
sé alquanto indietro, e ’n esso anco rimira.

20Ma mentre mira in lui, mentre s’arretra,
mentre d’esso e di lei s’urtan le spade,
mentre ella nulla chiede e nulla impetra,
suo piè sdrucciola sì ch’ella ne cade,
e di modo percote in dura pietra
che le son chiuse al respirar le strade;
ahi misera, ella isviene e senza moto
corpo in terra riman non d’alma vòto.

21Morta Idro la stimò, ma veder volle
in faccia lei che d’altro sesso ei crede,
dislaccia l’elmo e da la fronte il tolle
e ’n treccie d’or non uom ma donna ei vede.
Stupisce, e per pietà l’occhio fa molle,
odio od ira in suo cor più non risente.
Ma la smorta fanciulla entro il gelato
labro serbava ancora un fievol fiato.

22Spruzzolle in fronte ei gelide acque, et ella
rivenne, il vide, e sospirò angosciosa:
«Tu non sarai del vincitore ancella,
né vinta sei, «disse egli «o generosa».
A così dolce et inclita favella
su ’l viso essangue s’avvivò la rosa,
e scese al cor gioia infinita e intanto
l’insoffribil piacer stillò il suo pianto.

23Colei s’affida, e già scoprir desia,
ma non osa però, l’interne pene,
pur a scarso piacer l’apre la via
il fiero Amore in disperata spene,
onde rispose: «O tu, che signoria
su me non vuoi, non togli a me catene,
con tante cortesie, ma giogo imponi
più che col vincer tuo con tai tuoi doni,

24però de la tua serva anco a te piaccia
gradir picciol presente in sua memoria,
e lasciarmi a l’incontro non ti spiaccia
qualche tuo pegno oltre la tua vittoria.
Io l’aureo cinto che ’l mio fianco allaccia
ti do, già l’acquistai con alta gloria
in Taprobana, e ’l tolsi al fiero et empio
gigante Armut quando di lui fei scempio.

25In fronte Armut sol un grand’occhio avea
e regnava colà dentro il gran mare:
in Memfi io poi da mano dedalea
nel cinto tutto ciò feci intagliare».
Tacque, et a sé il discinse, indi il ponea
del cavaliero entro le man sì care,
già s’era in piede omai riposta, et ei
fe’ caro don del suo pugnale a lei.

26Idro che dai? che prendi? Ah tu legato
in Colco, ah tu sarai con questo cinto,
e per tuo amor in Colco il tuo dorato
pugnal nel suo bel petto ella avrà spinto.
Ma mentre qui il duel seguì privato,Tisifone sprona i pagani e li conduce verso al vittoria (26,5-34)
su ’l mare ogni cristian quasi fu vinto,
scorrendo la tartarea Tisifone
per varie vie tra la naval tenzone.

27Scosse l’orrida furia di Cocito
gran fiamme et infiammonne i Saracini,
e facendo muggire il mare e ’l lito
sgombrò nostr’arme da gli egizi pini,
e senz’Idro sembrava impoverito
il campo pio nel mezzo e ne’ confini,
qual lampo e tuon senza splendore e suono,
qual fulmin senza lampo e senza tuono.

28Ne’ legni franchi ogni pagano legno
ricorse come? e cadde come Usmondo,
fatto ad arme infinite ei meta e segno,
garzon leggiadro a pochi eroi secondo?
Di fama esso a Brandizio altero pegno
lasciò per opre inusitate al mondo,
tutto ferite il corpo, e su l’acuto
rostro naval non vinto ei fu veduto.

29Gioventù del gentil Salento,
glorie infauste acquistò sotto costui,
ei bello ivi pugnò col bel Trivento,
ma feroci rotaro astri per lui,
e di negra beltà mostro Grigento
illustrò i pregi a gli Etiopi sui;
questi in fosca beltà vago e feroce
con Irlando facea battaglia atroce.

30Tisifone il conduce, ei sparge neri
lampi da la sua man di brando piena,
e giunge sopra i gallici guerrieri
quasi un notturno ciel ch’arde e balena.
Forze ministra a lui, gira i suoi fieri
colpi il mostro infernal che ’l guida e mena,
sì ch’a l’invitto Irlando il ferreo ammanto
ei rompe, e di piagarlo anche’gli ha vanto.

31E segna dietro al tergo ad Ermedoto
quel nervo ond’a le membra il senso passa,
e cader vivo e rimanere immoto
il fa, sì strana in lui ferita lassa,
e la parte ond’ha il riso, il senso e ’l moto,
colpo più strano, a Fidemon trapassa.
Fidemon ride e more, et è diviso
da la vita or versando e sangue e riso.

32Poi miete mani e braccia e spalle e teste,
e i corpi de’ guerrier tronca e disforma,
e fa che variamente informe reste
scema di qua e di là l’umana forma.
Così già tra frondose alte foreste
appar di turbo orrendo orribil orma,
qui senza fronde i rami, e con le fronde
qui traboccanti i rami e svelti altronde.

33De gli appuli guerrier più reo governo
faceva intanto l’atlanteo Grifante.
Ma l’empio Anserbo, che di Cristo a scherno
con ferri a popol pio preme le piante,
reo difensor de le ragion d’Inferno
qual nel suo corno trascorrea volante?
Ei le captive sue ciurme battendo
giungeva con assalto aspro et orrendo,

34sì che vedi trofei, vedi vantaggio
co’ duci egizi nel sinistro fianco,
e vedi vinti i nostri sotto il saggio
Giovanni, e dov’è duce il duce franco.
Dunque nel mezzo i pii morte et oltraggio
aveano, e nel miglior corno e nel manco,
et improviso e rapido venuto
Gilberto a’ Franchi in van recava aiuto.

Dio interviene, scaccia Tisifone tramite Michele, e i cristiani hanno al vittoria (35-97)

35Ma senza dir il tutto a parte a parte
ben trionfato avrian gli empi pagani
s’occupato a trattar l’arme di Marte
erano i sacerdoti de’ cristiani.
De le navi entro chiusa e bassa parte
questi atterrati unian mani con mani,
e coprian sacre cotte i brandi loro,
ché sacerdoti essi e guerrieri foro.

36È ver che spade e lancie esser divise
denno da sacra e venerabil mano,
cui per più degno officio il Ciel commise
offrir gli alti olocausti al Dio sovrano,
pur in quei tempi a gran ragion permise
onnipotente in terra il Vaticano
che man sacerdotale, non lasciando
sua dignità, trattar possa anco il brando.

37E già quei sacerdoti con alterna
voce fean risonar nomi alti e divi;
essi l’alma unità triplice eterna
a pietate, a mercé chiamavan quivi,
essi l’eccelsa ebrea, donna superna,
con le schiere de gli Angeli e de’ divi
chiamavan, perché impetri ella trofei
a l’arme franche incontro i canopei.

38Volaro al Ciel tai prieghi, e quivi alzati
furo a Maria de’ Serafin su i vanni,
et ella gli erse là dove i creati
spazi e i moti non giungono ne gli anni.
Vibrò verso costei raggi increati
suo figlio che sofferse umani affanni,
suo figlio che per noi fatto mortale
è sempiterno insieme e temporale.

39Egli diceva: «O Berecinzia vera,
madre di me, Dio vero e creatore,
questa di sacri eroi tanta preghiera
cresce per te che l’ergi e l’avvalore,
però scenda là giù di sfera in sfera
l’Angelo che del Ciel fu difensore,
e vada ove importuna aggrava d’onte
le navi pie la furia d’Acheronte.

40E lei spinga in Cocito, et altro aiuto
per gloria de’ cristiani ei lor non porga,
e quanto per sé vaglia or sia veduto
il valor franco e ’l mondo e ’l Ciel lo scorga,
e maggior scorno aggiane Stige e Pluto,
e ’l vanto de’ fedeli indi più sorga».
Così l’eterno, e si moveva a questi
detti il duce de gli ordini celesti.

41Costui, guardando in alto onde a lui venne
la voce senza fine onnipotente,
i raggi di quel lume non sostenne
ch’è sommo oggetto a’ guardi de la mente,
e velò gli occhi con le proprie penne
e poi spiegolle in giù rapidamente.
Trapassò i cieli penetrando in giuso.
i cieli ampi via più quanto più in suso.

42Passò l’elementar liquido ardore,
e lungo l’aria, precorrendo i venti,
giunse sopra l’Egeo, ma ’l suo splendore
a gli occhi ivi celò de’ combattenti;
pur se ’l vide, et orror n’ebbe e terrore
Tisifone, e bassò gli irti serpenti,
quei la fulminea lancia in sen l’affisse
e l’abbagliò col lume empireo e disse:

43«Torna colà dove io ti spinsi quando
sue giuste pene ebbe il primiero ardire.
Dio ti mandò da questa luce in bando,
et a misfatto tal ci osi venire?».
Tra questo dir, con l’asta fulminando
atrocissimo in lei vibrò martire,
martir ministro del rigore eterno,
che poi sempre restò seco in Inferno.

44Ad essa che fuggiva il mar s’aperse,
terribil vista, e tra l’ondose grotte
franti muggian gli abissi, e si sommerse
l’empia nel centro de l’eterna notte.
Stige si serrò, Dori coperse
di novo su ’l terren l’onde sue rotte,
e ’l duce de gli eserciti immortali
batteva verso il ciel sue fulgid’ali.

45Da’ petti de’ fedeli allor si scosse
un fiero orror, ch’ivi parea che tuone,
e con le proprie sue terrene posse
restò l’un campo e l’altro in paragone.
Il volto de le cose indi cangiosse
entro l’orrenda universal tenzone,
sì come di cangiati oggetti piena,
cadendo la cortina, appar la scena.

46Già qual nel mezzo al mortal corpo il core
alberga, e i membri frali indi ravviva,
che la lui al virtù, da lui il vigore
da lui fonte de l’anima deriva.
Tal de le squadre franche il conduttore
vita al suo infermo campo compartiva,
senso in quel loco ancor che già prescritto
nel mezzo s’ebbe del naval conflitto.

47Serbò sempre un tenor, mandò leggieri
picciolissimi pin sempre d’intorno,
con vari ordini suoi, con vari imperi
mentre a’ cristiani i Saracin fean scorno,
né desiste in mandargli or ch’a’ guerrieri
suoi la natia virtù fatto ha ritorno,
e che con atti risentiti e degni
fugano essi i pagan da’ propri legni.

48Da le prore di mezzo intanto a pena
il regnator d’Egitto era scacciato,
e quasi un mar d’irrequieta vena
quasi un mar da’ reflussi in sé agitato
fuggia quel re tre volte in vèr l’arena
e tre tornava in ordine schierato;
i legni onde scacciollo in lui sospinse
Tancredi, e li frenò poiché li spinse.

49Indi tutto ad un tratto aspro et orrendo
l’assalì tra ’l venire e tra ’l voltarsi,
e formò un cerchio e circondò tremendo
di lui, così vagante, i pini sparsi.
Ma quei sue navi accolse e, lor spingendo,
fu visto uscir dal cerchio e sprigionarsi,
poi scevre da duo corni anco in disparte,
troppo tai navi esercitava Marte.

50L’una con l’altra allor nave regale
pur riscontrassi, e tu gli aurati gigli,
Ermondo, allor con fama alta immortale
di sangue saracin festi vermigli.
Quivi al tuo fasto il tuo valor fu eguale,
quivi seguisti di virtù i consigli,
sì che non fosti ad opre eccelse acerbo,
sciogliesti i nostri e catenasti Anserbo.

51Anco nel corno manco il chiaro Afrone,
il semideo del calabro Appennino,
gli sforzi che gli oppon l’egizio Orsone
sgombra sì che i trionfi ha da vicino;
e troppo intanto accresce sue corone
Gilberto, il chiaro Ettorre salentino,
egli a Tancredi giunge, egli al sinestro
corno con presta aita et egli al destro.

52Tempestava i nemici e partia poi,
la vittoria iva seco et egli fea
passaggio inopinato, e sempre i tuoi
gorghi spargea di sangue, o Teti egea.
Cade per le sue man quel che ne’ suoi
foschi colori apria luce febea,
e di bruna s’ammanta e bella morte,
questi è Grigento, il sì leggiadro e forte.

53Cade il bello etiopo e chiude i tigli
e langue in suo bel volto un negro sole,
né smarriscono in lui le rose e i gigli
ma l’amorose e pallide viole.
Gilberto non vi bada e fa scompigli
sopra altre navi ostili, e par che vole,
e vola ove egli estingue altra bellezza
eccelsa per candor, non per negrezza.

54Dico Trivento, il bel garzon, ch’intatte
le rose have su ’l volto, have le nevi,
e cui su ’l collo, ov’è sì puro il latte,
le crespe chiome d’or pendon non brevi.
Cento a difesa sua fulgide e ratte
spade fur mosse pertinaci e grevi,
oppon Gilberto a cento brandi un brando
spezzando, rintuzzando, penetrando.

55Urta di qua e di là l’arme e i guerrieri,
et al sì vago lor duce s’appressa,
e tra gli alberghi di bellezza alteri
la spada ferocissima gli ha messa.
Ah forti la bellezza have gli imperi
su l’alme, ov’ella regna, ove sta impressa:
ecco fanno al garzon gli ultimi schermi,
feriti, i suoi baroni e quasi inermi.

56Quanti con ambe le man tronche? e quanti
il difendono ancor co’ rotti petti?
E ’l bel fanciul pur li sospinge avanti,
e di beltà e d’ardir mesce gli oggetti.
Ma tu, per polve far sì bei sembianti,
la forbice fatale Atropo affretti,
e ’l pro Gilberto entro il bel fianco immerge
il ferro e di bel sangue ivi l’asperge.

57Ruppe lo scudo che calò al riparo,
doppio di cuoio e d’osso opra contesta,
ruppe le maglie del minuto acciaro,
ruppe le fibbie d’oro e l’aurea vesta,
e portò dentro al core il colpo amaro
la spada in dar ferite ardente e presta,
e del fianco gentil l’avorio vivo
fece fontana di sanguigno rivo.

58E pria scemò d’un dito quella mano
ch’a limpidi alabastri il pregio tolle,
la qual già biancheggiando da lontano
trattava il duro acciar rigida e molle.
Ma cade il giovinetto, e preme il piano,
il pian che su la prora aspro s’estolle,
poi piega la cervice sopra il manco
omero, e resta il volto essangue e bianco.

59Tal piega il capo il giglio, e tal s’inchina
aggravata d’umor candida rosa,
quando più la rugiada matutina
cadendo in grembo a’ fior fassi odorosa,
ma corre e ’n varie parti il corso inchina
Gilberto, e sembra un turbo e mai non posa,
et a color ch’egli soccorre lassa
sue prede, e in dar soccorso oltre trapassa.

60Onteo, che seco va, già fin al mento
parte intanto a Gorgut l’elmo e la faccia,
parte per mezzo il busto al mauro Orgento
e fa ch’essangue e bipartito giaccia.
L’orror tra ’l brando have, e tra’ piedi il vento,
e tronca ambe a Rohan l’armate braccia,
rompe a Grifon quel mantice onde tira
l’aure vitali il cor mentre uom respira.

61Ma d’ora in ora del gran duce i messi
giungon su barche rapide a Rollone,
egli mai non tralascia al venir d’essi
tosto eseguir quanto a lui far s’impone:
egli rimanda al capitan gli stessi,
egli riforma al naval tenzone,
egli ciò che gli è imposto altrui comanda,
et or parlando impera, or nunzi manda.

62Pur qual Pindo mi chiama, o buon Giovanni,
per te, che ’l prisco senno ritenesti
e lasciasti vecchiezza e ’l giel de gli anni
e pria la spada santa in dono avesti?
Et a te pur non vegno, et anco i vanni
io per venire avrò pur lievi e presti,
e m’invio dove essangue e grave pondo
omai cade un baron d’un’altro mondo.

63Questi di là dal freddo Capricorno
per iscorta a Tancredi in pria s’unio,
e ’n molti mari et a gran liti intorno
sotto l’artico ciel poscia il seguio,
Perù s’appella, e già l’ultimo giorno
gli destina a sua gloria il sommo Dio,
e l’ascrive tra quei ch’in arme alteri
cadon per Cristo martiri guerrieri.

64Non lontano Perù dal sommo duce
a nostra usanza trascorreva armato,
fulminava ne l’armi e chiara luce
scotea dal brando e da lo scudo aurato,
e ’l conduceva quello onor ch’adduce
al ciel gli eroi per calle or mal calcato,
e del nilico re quasi era presa
la nave, et ei tentò sublime impresa.

65Tòr di sua mano a tanto re la vita,
o morir con gran fama è suo pensiero,
e poggia per rischiosa erta salita
et a quel regnator giunge primiero,
e colpendol su l’elmo impoverita
d’onor lascia la crista e di cimiero.
Tanto osò, tanto fe’, ma che, se giunto
ei fu da cento armati in su quel punto?

66Sta tra un bosco di spade, e più chi invitto
la sua destra a ferir move ben questi,
poi cadendo tra’ ferri ond’è trafitto
forza è che tutto piaghe egli vi resti;
né pur si sazia il califfe d’Egitto
e con barbaro piè vien che ’l calpesti,
ma l’antartico eroe ch’ancor non langue
disseli in su ’l versar l’ultimo sangue:

67- Già l’alma in mai vendetta altri ti toglie,
l’alma che piomba in vèr gli abissi omai -.
E ’l re: – Muori tu prima e su le soglie
dive ten va tu ch’i destini sai -.
A Perù intanto ogni calor si scioglie
et adombransi a lui del sole i rai,
ma gli occhi, che tra l’ultimo sospiro
serrar parve la morte, in Ciel s’apriro.

68E ’l reo monarca anco il calpesta e preme,
ma cessa tosto a un gran rumor che sente:
giuntò è Tancredi, e fulminando freme
e s’apre il varco e miete armata gente.
Ah de l’amico le parole estreme
udì da presso, e quasi fu presente,
ah vide il piè del barbaro regnante
in su l’estinto, et affrettò le piante.

69D’Africa al regnator manca ogni scampo,
giacciono i suoi più forti, ei gela e guata,
come il pastor ch’impetra al tuono, al lampo
lungo esso la sua greggia fulminata.
Vorria fuggir, ma troppo è stretto il campo
c’have su ’l giro suo trave spalmata,
e vede la gran spada che s’affretta
per terminare in lui tanta vendetta.

70Crede averla entro il seno e in mezzo al core
mentre ne gli altrui fianchi egli la mira,
né membra il grado suo, tanto è il timore,
e mercé chiede e con viltà s’aggira:
– O glorioso, invitto vincitore
deponi omai l’inclito sdegno e l’ira,
serba a te i vinti – dice, e gli s’atterra
e bacia i piedi e le ginocchia afferra.

71- Serba a te la mia vita, – indi ripiglia,
– già d’ogni parte a te la sorte arride,
volgi clemente al pregator le ciglia
me sommo re pur dianzi il mondo vide -.
Tancredi i detti e gli atti a sdegno piglia
e ’l re prostrato da’ suoi piè divide,
e grida: – E perché oblii tuo onor, tua gloria?
et ombri a me così tanta vittoria?

72Né ’l buon Perù la vita a te concede,
tregue d’altro tenor teco ei conchiude;
tutto è piaghe, e tu ’l calchi anco col piede,
e tue voglie in lui morto anco son crude.
Perù, Perù con la mia man ti fiede,
Perù t’ancide -, e ’n questo dir gli chiude
la spada in seno, e manda al tetro abisso
dal corpo, fatto un giel, lo spirto fisso.

73De’, benché vinto, invitto esser uom grande,
sempre integri i suoi fregi have il valore,
non si perdon per morte le ghirlande
ma ben le perde chi non forte muore.
Morto è il gran re di Libia, et ombre spande,
perch’ei muor con viltate, il suo splendore,
né degno è un re di tanta monarchia
ch’almen sepolcro il vincitor gli dia.

74Cadde ogni sforzo ostile in questa parte
poiché ’l libico re qui cadde anciso,
e co’ cristiani andò Bellona e Marte
di ferro ambo e d’orror coperti il viso,
l’egizie navi omai di sangue sparte
tra barbara ruina, e, già conquiso
ogni spalmato legno di Canopo,
l’Egizio ecco legarsi e l’Etiopo.

75Ma pur due navi resisteanvi, e prese
fur per virtù di duo famosi eroi:
lasciovvi l’alma l’uno e l’altro, e rese
più vivi l’uno e l’altro i pregi suoi.
Carafa è l’uno, oh Napoli, onde scese
pregio anco al pregio de’ Carafi tuoi,
Caracciol l’altro, ond’anco il bel Sebeto
i Caraccioli fanno altero e lieto.

76Caracciolo a due man rotò gran spada
e si spinse con pianta ardita e presta,
e ’n un di quei duo legni a sé fa strada
quasi impeto di turbo e di tempesta;
ma non così ch’essangue ivi non cada,
e, pur essangue, vincitor vi resta.
Cade, ma pria l’ardir fiacca a’ nemici,
e inondan dietro a lui gli stuoli amici.

77Carafa intanto con sua destra tenne
l’altro pin resistente, e ’n quello istante
la destra gli troncò maura bipenne,
né risparmiò la manca egli costante,
et a la manca il caso istesso avvenne,
et ei non cesse, e pur si trasse innante,
strinse co’ denti anco la nave, et anco
fu cagion di vittoria ei saldo e franco.

78Altrove sotto Afron nel tempo stesso
co’ popoli tebei pugnava Amberto,
di gloria alto sentier questi ebbe impresso
et a Napoli re lasciollo aperto.
A’ trofei di costui corse da presso
del roverese Arnaldo il chiaro merto,
ambo su i legni avversi e scudi a scudi
urtansi, e brando a brando i brandi ignudi.

79Ma ’l grande Afron grandissima bandiera
prende, e ’n ciò prischi essempi ei non oblia,
la scaglia infra’ nemici et anco altera
voce sciogliendo egli primier s’invia:
«Ivi segua il vessil chi palme spera,
ivi il difenda chi trofei disia,
ivi il ricovri», e tacque, et inondata
di sangue fu l’insegna e ricovrata.

80Quinci il sinistro corno dal sì chiaro
calabro semideo restava vinto,
ma il foco ch’i duo campi in pria vibraro
tutto era poi da’ vincitori estinto:
fin da principio a farvi ogni riparo
su i nostri legni ogni drappel fu accinto,
schermo minor vi usaro i Saracini
e troppo in fiamma andaro i lor gran pini.

81Corsero molti da l’incendio al mare
e poi, mancando lor la lena e ’l fiato,
strinser per non sì tosto essi affogare
in mezzo a l’acque ree legno infocato
(tanto valci un momento in vista stare
che tal momento in pene anco è cercato),
e ’n quei diluvi ardenti di Vulcano
morte di ferro anco fu chiesta in vano.

82Bellona intanto in mille atroci e diri
modi errava tra l’armi e incrudelia,
e pur vi framettevi i tuoi martiri,
ma per falsa cagion, tu Gelosia:
gli sguardi di Zendoro ahi dove aggiri
tu spesso a danno altrui fallace spia?
Col tuo falso veder tu l’ingannasti
e la sua dina et Idro a lui mostrasti.

83Stimò che tale eroe, che tal donzella
presi da bello et improviso amore
gisser su l’una e l’altra navicella
con gradito e gentil cambio del core,
e che li tragga fortunata stella
in erma parte a rallentar l’ardore,
misera, e ’n tai pensier un freddo gielo
gli strinse il sangue e gli arricciò ogni pelo.

84De le navi tra’ rostri e tra le sponde
egli i nemici avea, né facea schermi,
che geloso martir battaglia altronde
dava a gli spirti suoi stanchi et infermi.
Amare più che ’l mare ei piovea l’onde
da gli occhi, e tenea gli occhi ei dove fermi,
guardava vèr lo scoglio ov’egli avea
visto quel forte andarne e la sua dea.

85Così Zendor, finché in passando tese
grande arco e ’n lui scoccollo il chiaro Onteo,
il colse in mezzo al petto e ’l ferreo arnese
ruppe, et ampia nel sen porta gli feo.
Con quegli affetti a cui già ’l cor s’apprese
l’alma al regno n’andò flegetonteo,
né il vincitor restava, e con Gilberto
iva di qua e di là nemico incerto.

86Ma poi tal coppia a perseguir si volse
i navigi conquisi e fuggitivi,
e ratto dietro lor sue vele sciolse,
gli giunse, li assaltò, li fe’ captivi.
Cosmante d’altr parte a’ suoi si tolse,
piagato sì che i membri eran mal vivi,
pur guarì poi, ma no ’l suo duce or io,
il tirio re, né mie promesse oblio.

87L’età robusta è colma di baldanza
e molto osa et imprende, ma vecchiezza,
a la qual di sperar poco più avanza,
loda le cose fatte e loro apprezza.
Non così il tirio re, ma di speranza
empie la ripigliata giovinezza,
membra i suoi primi gesti, e lieto unisce
speme e memoria, e rimembrando ardisce.

88Ebbe costui cor franco e salda fronte
mentre i pagani de’ cristian fean scempio,
poscia ancor egli, e vendicò mill’onte,
scacciò da le sue navi il popol empio,
poi qual turbo di mar parve rimonte
su i legni de’ nemici, e vario essempio
diede sempre d’invitto alto valore
senza i duci compagni egli in quell’ore.

89Alfin d’aste e di spade un denso e duro
argine penetrando oltre si spinse,
e fessi a le sue squadre argine e muro
e di libico sangue il mar ritinse,
e contro lui, quasi tra’ nembi Arturo,
fu Grifante, e di rischi il chiuse e cinse,
e sempre egli avanzossi e sembrò palma
che poggia ove gran pondo a lei fa salma.

90Pur a me fugge il tempo e ’n breve io stringa
cose degne a fregiar lungo volume,
e già lasciato il sasso ermo e solingo
l’eroe ch’a la milizia è pregio e lume,
era tornato dal privato aringo
qual pro nocchier ch’al mar torni dal fiume,
e di bell’ira ardea ch’a lui già poco
restava in quel di Marte orribil giuoco.

91Così stimava, e pur nel suo ritorno
troppo era in forse anco il naval conflitto;
volò del suo venir fama d’intorno
e le falangi ne tremàr d’Egitto,
ma corse ei contro a quel medesmo corno
ove pugnato avea forte et invitto,
e ’l giungere e ’l salire e ’l por le sue
piante su i legni aversi un punto fue.

92Quivi ne l’armi un’altra volta splende
e la spada fatal rivibra quivi,
e di barbaro sangue ebra la rende
tanto che ’l vomita ella in larghi rivi.
Sdegna i paurosi, abbatte chi contende
e lascia tutti d’ogni senso privi,
col timor, con l’acciar, nunzi di morte,
ben toglie i sensi al non audace, al forte.

93Recisi traboccar fa colli e busti,
e sega usberghi e scudi, elmi e loriche,
e gragnuola tra viti e ne’ dì adusti
appulo metitor sembra tra spiche,
e del travaglio uman corre oltre i giusti
termini, e par che scherzi in sue fatiche,
e da lui passa un non so che che pare
far perditore ogni pagan su ’l mare.

94Già s’avanzava allor contro Grifante
Giovanni, et a trofei varco s’apria,
Idro verso costui volge sue piante
e con l’arme tra l’arme a sé fa via,
e ’l gemito anco a lui de le qui tante
squadre ch’ei svena, ei per saluto invia,
e più e più gli s’appressa, e fa che scoppi
via più il brando, e via più sgombra intoppi.

95Tanto de’ suoi guerrier strage e ruina
vede Grifante, e ’l re di Tiro in questa
gli chiude in sen la spada adamantina
e intanto anco qui giunge Idro e s’arresta,
et a quel re ch’è suo maestro inchina,
carca d’onor, la venerabil testa,
il re l’abbraccia e ’l bacia, e irrigatrice
di glorie usa lusinga altera e dice:

96«Anzi gli anni i virtù cresciuto assai,
sì che sopra ogni eroe splendi e sfaville,
o qua Chirone tuo sembrar mi fai
poiché ne l’armi tu sei più d’Achille!».
Così ’l fenice, et ammirava i rai
del bel ciglio guerriero e le faville.
Idro arrossiva, et opponea umile
a’ veri vanti un rifiutar gentile.

97Ma quando il gran fanciul vittorioso
poi dentro il fodro il brando alfin rimise,
barbari duce calpestò orgoglioso,
dolce et acerbo, e l’aria e ’l mar ne rise.
Un miracol pareva ei glorioso,
vago le membra e ricco le divise,
et amorosi pregi a lui giungea
l’effigiato cinto di Nilea,

Nilea prende la strada della Colchide (98-105)

98ammirabil lavor, ma questa vaga
che fe’, visto il suo ben da lei partito?
e come ella curò l’esterna piaga
onde egli il petto a lei lasciò ferito?
Di saper el virtuti essa fu vaga
de l’erbe, e trovò dittamo in quel lito,
poi l’usbergo e le vesti al petto infermo
tolse entro un antro solitario et ermo.

99Del suo bel sangue i liquidi rubini
allor mirò sopra i suoi vivi avori,
e medicò co’ diti alabastrini
quei rotti leggiadrissimi candori,
e distillovvi umori cristallini
che da’tristi occhi ella versava fuori,
non per dolor di tal ferita, ahi lassa,
ma de l’altra ond’Amor l’alma le passa.

100La medicata limpida mammella
con alquanti suoi crini avolse e strinse,
e l’aurea ivi d’Amor fascia sì bella
rifulse tra ’l candor dove il distinse.
Tal del più basso ciel l’argentea stella
veggiam s’un cerchio d’oro unqua la cinse,
e ’l primo albore ch’è del sol messaggio
tal è quando il circonda un aureo raggio.

101Rivestì, riarmò l’infermo seno
alfin la bella egizia, e poi diè baci
al pugnal ch’ebbe in dono, e colmo e pieno
tutto il trovò pur d’amorose faci.
Iniquo Amor, il tuo dolce veleno
ahi tu fin dove infonder ti compiaci:
anco ciò che toccò gli amati oggetti
serba l’empie esche tue, tuoi rei diletti.

102Baciò del bel pugnal l’aurea elsa e ’l pome,
baciò là dove il solea stringer la mano,
la bianca man, che ’n lei sì dolci some
pose, e ’n suo petto il cor lasciò non sano,
indi tornò su ’l lito, e vide come
perdean gli Egizi in su l’ondoso piano,
e co’ Franchi mirò gir la vittoria
ma col bell’idol suo la prima gloria.

103Da le catene barbare discinti
vide i cristiani affaticati e stanchi,
e ’n vece di costor presi et avvinti
dive gli Egizi, e trionfarne i Franchi.
Vide gittar ne’ mar di sangue tinti
corpi di color negro e corpi bianchi,
pagani tutti, et apprestare alteri
feretri per gli pii morti guerrieri.

104Scerse anco di Macon su gli abbattuti
vessilli i gran vessilli erti di Cristo,
e pur a gli occhi suoi chiedea tributi
Amor, che fe’ di lei sì intero acquisto.
pensò profondamente, et a’ veduti
danni rasserenò lo sguardo tristo,
pensò che ’n Colco riveder potea
il bel guerrier che i sensi e ’l cor le bea.

105E però in Colco andar tra sé conchiuse,
ma far terrestre disegnò camino.
Risalì su ’l legnetto, e mille accuse
diede al tiranno Amor, diede al destino,
e pur voltossi in dietro e pur confuse
ella il pianto e i sospiri, e nel vicino
porto giunse d’Abido, onde per terra
poi cavalcò fin a la colca terra.

Tancredi fa erigere a Sesto una piramide per i caduti (106-113,4)

106Ma l’armata su ’l mar vittoriosa
per sepellir gli ancisi in Sesto arriva,
a quanti ne raccolse essa pietosa
strana tromba vuol dar su questa riva.
Quivi in sepolcro lor vuol generosa
machina alzar d’ogni artificio priva,
mole d’innumerabili, infinite
pietre senz’arte in un sol corpo unite.

107Mole agreste et incolta, e che nasconda
tra’ nembi verso il ciel l’eccelse cime,
e che rozza piramide rotonda
sia ne le parti eccelse e sia ne l’ime.
Ma che tra le più scelte non seconda
opera de’ mortali ogn’uom la stime,
di non dedale mani altera figlia
meravigliosa e rozza meraviglia.

108Ma prima in ampio piano, ove inalzarsi
dovea tal mole, i morti eran sepolti,
i quai tra gli arsi incensi e i pianti sparsi
belli giaceano e ’n lucid’arme avvolti,
e verso il ciel non di pallor cosparsi
ma pieni di splendor volgeano i volti,
e le steste appoggiavan su gli stessi
scudi che furo in guerra arme pur d’essi.

109Ampi gli scudi, e tropo sporgean fuori
talché pareano incoronar gli estinti,
quai talor d’antichissimi colori
quei servi di Giesù veggiam dipinti,
che non temendo del martir gli orrori
volaro a lui del proprio sangue tinti.
Tancredi guardò tutti, e molto affisse
gli occhi nel prence antartico, e poi disse:

110«Ah tanto costa a te l’aver voluto
l’eccelse insegne accompagnar di Cristo?
et aver già per noi fatto rifiuto
de’ regni ove non va nostra Calisto?
Pur vivi in Cielo, e da i cristian tenuto
sarai per fede a’ martiri commisto,
e tra’ compagni eroi, mentre qui posi,
tuoi gesti voleran chiari e famosi.

111E voi, sì forti che per tempo uniti
qui gli starete e là su senza fine,
voi che belle orme entro sentier non triti
segnaste a l’alme franche, a le latine,
seco godete omai de’ bei compiti
vostri anni, e fatti stelle matutine
svelatevi a’ nostri occhi, e su da i cieli
guardate i vostri qui deposti veli».

112Tace, et a depredar ratto poi vassi
i monti alpestri, e ferve la fatica.
Già porta su le spalle ispidi sassi
l’oste franca e la vinta oste nemica,
et il sepolcro inusitato fassi
in cui le pietre arte senz’art implica,
e, già condotto a fine, ei vince i pregi
di vostre tombe, o prischi egizi regi.

113Pendean sculpiti in ferrei ampi temoni
i vinti regi al vasto avello intorno,
sotto esso i volti de’ guerrier baroni
ch’ivi giaceano e Lete empìan di scorno.
Intanto nove volte i suoi balconiPrende la via di Bisanzio, dove lo accoglie Augusto, che gli chiede del suo viaggio in Paradiso e di quello nell’altro mondo (113,5-139)
aperto avea Ciprigna al novo giorno,
indi la decima alba usciva al mondo
e ’l pio Tancredi arava il mar profondo.

114Correa per gir in Colco e pur a Sesto
gli occhi volgea verso i sepolti amici,
e dicea: «Vostre piaghe aperser questo
varco sì chiuso a nostre spade ultrici.
Pensando a ciò non dia, non dia funesto
pianto Europa ne’ secoli felici,
ma sculpisca in begli archi trionfali,
suoi gran trionfi, i vostri funerali».

115Tacque, e ripianse, e costeggiò poi tutta
la Propontide in su per dritto calle,
la vinta egizia armata era condutta,
seguace suo trofeo, dietro a sue spalle.
Giungeasi in parte omai dove ridutta
l’onda salsa in canal quasi fa valle,
indi apparea Bizanzio, e quindi uscia
nave ch’aurea le sarte a lui venia.

116Questa è la nave imperiale, e ’n essa
per accoglier Tancredi Augusto viene.
Ricca è la ciurma, e non da nodi oppressa,
e l’aurea vela in nodi d’or s’attiene.
L’aquila v’è che nel vessillo impressa
ha due teste, e tra l’unghie il mondo tiene,
e su la poppa co’ cesarei ammanti
sta il re de’ re tra cerchio di regnanti.

117Vista tal nave, il duce d’Occidente
abbassa il suo vessillo e s’avvicina,
Cesare ne gioisce e parimente
per farli onor l’auguste insegne inchina.
poi, sceso per la scala aurea eminente
l’accoglie, e crede in lui luce divina,
di novo su la poppa indi l’abbraccia
e petto a petto unisce e faccia a faccia.

118Stupisce su l’armata vincitrice
e su la vinta e in ciò stanca il pensiero,
e guarda pur nel duce eccelso e dice:
«Certo la fama a noi nunzia è del vero,
e benché ella ne sia divulgatrice
con cento lingue ancor no ’l narra intero:
sol a te l’opra tua premio esser puote,
o del gran sì Guiscardo alto nepote.

119Io del fatto sovran memoria eterna
ben lascierò d’Augusto a’ successori,
instituir vuo’ giuochi in cui si scerna
nobil guerra naval su questa Dori.
Franchi et Egizi in lor sembianza esterna
parranno, e fian patrizi i giuocatori,
giuochi annuali e ricchi assai farolli,
e dal tuo nome Tancredei dirolli.

120Terrommi al fianco la tua sede ogn’anno
di tai giuochi nel dì santo e giocondo,
segnata col tuo nome, e tal l’avranno,
miei successori, i correttor del mondo.
E tu nel mio teatro, entro cui stanno
statue spiranti, ancor ch’immobil pondo,
i duci che pugnàr per questo impero,
starai marmoreo e nobil magistero».

121Risponde il buon Tancredi: «I sudor nostri,
o monarca sovran, tu troppo pregi,
e largamente i tuoi favor dimostri:
risplenderanno in me, ma fian tuoi pregi».
Tacque, e tutti coreano in lucid’ostri
di qua e di là per riverirlo i regi,
a l’augusta città su quella cava
augusta nave Augusto indi il menava.

122Tolse la cena onde onorollo poi
di Lucullo a l’apollinee il gran vanto,
e quando l’alba gli orizzonti eoi
svelava, ei matutin pur gli era a canto.
i Franchi e lui menò tra’ grandi suoi
al tempio suo, ch’era sì altero e santo,
et a cui soggiacean chiese minori,
chiese c’han sotto sé mitre e pastori.

123E pur tal tempio, ahi lagrimando il dico,
al dio de’ Saracin fatto è meschita,
or che de’ Greci il patriarca antico
vive servile et esecrabil vita,
or ch’a Roma, anzi a Cristo egli nemico
stassi in magione angusta e insuperbita,
e vanta l’una e l’altra empirea chiave,
ahi lasso, e ’l pastoral proprio non have.

124Chiara et eccelsa Grecia, a che non togli
da gli occhi il velo onde il tuo error non vedi?
Lascia i tuoi contra il Ciel sì vani orgogli,
o generosa, et a tue glorie riedi.
Dio, Dio teco sarà sol che tu vogli
depor lo scisma onde tu ’l falso credi,
Dio, Dio clemente allor, Dio quanto or giusto
a te rendrà tua mitra e ’l solio augusto.

125Entro il suo sommo tempio, ove raccolti
dan prieghi al reo Macone oggi i pagani,
s’atterraro, e piegaro i cigli e i volti
co’ primi lor quei duo sommi e sovrani,
e ’n bianche e ’n auree spoglie i membri avvolti
al patriarca fur per altrui mani,
e fea su ’l ricco altare un ciel di stelle
al cera che nudria vampe e facelle.

126Al sacrificio altissimo s’accinse
quivi allor quel pontefice, ma quando
l’Evangelio egli lesse, Augusto strinse
de l’Evangelio il difensor suo brando.
le note sì possenti ei poi distinse
che sacramento fan tanto ammirando,
ma dopo l’opre pie riprese i suoi
deposti ammanti, e ’n piè sorser gli eroi.

127Su l’uscio indi del tempio in sedie aurate
di qua dal limitar s’assidon tutti.
Fiere istorie in musaico effigiate
calcan co’ piedi, e miran foco e flutti;
miran del Cielo in giù fiamme versate
et in faville i Sodomi ridutti,
mirano in qual maniera estinto giacque
il mondo quando il mondo absorser l’acque.

128Parea scoppiar l’incendio e muggir l’onda,
l’uno consumato, l’altra vorace,
ma ne la coppia vista non gioconda
di poco indugio l’occhio si compiace.
Succedea l’ora terza a la seconda
su ’l carro omai de la diurna face,
e chiudeva ad Augusto il lato manco
Tancredi, e ’l patriarca il destro fianco.

129Gli altri sedeanvi in giro, Alessio il guardo
volgea con meraviglia in quel Giovanni
ch’avea pur dianzi al corpo in fermo e tardo
reso l’abilità de’ robust’anni,
e – Vero o no ciò che ’n costui riguardo
somiglianza d’aspetto, o vien m’inganni? –
ei stupido a sé disse, e poi si volse
in vèr Tancredi, e tal sermon disciolse:

130«Quando scacciato già fuor del paterno
suo regno il re di Tiro in Tracia venne,
de’ tutori io vivea sotto il governo,
e molta età su lui battea le penne,
talch’egli or esser de’ per gli anni a scherno
s’ombra e polve però morte non fenne,
ma questo eroe che t’è da presso sembra
esser quel re, benché in non vecchie membra.

131Forse è nepote a lui? forse è suo figlio?».
«No, «risponde Tancredi «anzi egli è questi».
Alessio a tal parola inarca il ciglio
meravigliando, e grida: «O che dicesti?
qual di natura insolito consiglio
per costui svolge i tempi a fuggir presti?
come esser può?». Ma quei maggior gli fisse
stupor nel sen, quando così poi disse:

132«Rese a costui già per voler divino
quegli anni onde l’avean gli anni diviso
un pomo ch’io recai fin dal giardino
che per arra ebbe Adam del Paradiso.
Ei dianzi era su ’l mar gelido e chino
da vecchiezza lunghissima conquiso,
et ivi egli gustando il sacro pomo
cangiò se stesso in sì novo uomo».

133«Di stupore in stupor tu mi trasporte,»
Cesar soggiunse «o duce avventurato,
ma di’ se quegli orti in su le porte
sta il Cherubin di spada ardente armato.
Vedesti i tre cui mai non giunse morte?
fu segno a gli occhi tuoi l’arbor vietato?
e l’arbor de la vita? e i quattro ch’ivi
sgorgano da un sol fiume immensi rivi?».

134«Tutto ciò vidi, e d’altre lingue infusa
notizia ivi anco fummi «il re risponde.
Ma ’l re de’ re, con mente più confusa,
«Di’, di’ in qual modo «e ’n lui più i cigli stende.
E quei: «D’estraneo ardor pioggia diffusa
sculta su l’elmo al Cherubin risplende,
pioggia in giù dilatata e ’n su raccolta
et in lingue ardentissime disciolta.

135Lo sculto nembo è tal quale in pittura
veggiam scender da l’alto il divo ardore
su gli Apostoli uniti e su la pura
chioma di lei ch’è madre al Creatore.
Una di queste lingue a la scultura
per sé si tolse, e corse entro il mio core,
volar la vidi, e ’l seno penetrarmi,
e ’l sen restarne intero e intere l’armi.

136L’Angel vèr me gridava: «Or chi divelle
dal lavoro immortal de l’elmo mio
la lingua che ’n te passa, e su le stelle
nel volto de l’eterno or che vegg’io?
Questa t’infonde incognite favelle,
tu porti ad altro mondo il culto pio,
e quali altr’opre tu?», tacque, et a i suoi
oracoli seguian gli effetti poi.

137Però ch’ad altro mondo ir ne convenne,
parlai qual disse, oprammo opre diverse».
E qui Tancredi a fren le voci tenne,
e Cesare a quest’altre i labri aperse:
«Dunque a tue chiare avventurose antenne
anco altro mondo il sommo Dio scoverse?
e ’l mondo have altro mondo? e l’ampio seno
di Teti adunque d’altro mondo è pieno?

138Deh, tu che visto l’hai, dinne in qual parte
sta tal mondo, e quai genti have e quai riti,
di’ per quai vie girasti tu le sarte
su quelli di Nereo spazi infiniti.
Anzi il tutto ne di’ di parte in parte
da che partisti da gli esperi liti,
finché vi ritornasti». A tal proposta
successe memoranda alta risposta.

139Tancredi a gran sermon già s’accingea,
e ’n Augusto tenea gli occhi rivolti,
e dentro le sue labra Angel mettea
da le pecchie del Ciel favi raccolti.
Palpebra o fiato più non si movea
e pendean tutti dal suo volto i volti,
e poi narrando i casi eccelsi sui
legava col suo dir l’orecchie altrui.