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Il Tancredi

di Ascanio Grandi

Canto XI

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 27.09.15 11:03

ARGOMENTO
Il santo legno affisso è in alto monte
et indi l’ocean varcabil fassi.
Bevuto è mortal riso in vago fonte,
ma d’Adamo a’ begli orti in prima vassi.
Bianca divien dal piè fino a la fronte
vergine bruna a cui battesmo dassi,
l’ale divengon stelle, e nove genti
son ritrovate, e strani mostri spenti.

Tancredi narra del proprio viaggio nell’altro mondo: giunto a Calpe ha visitato il paradiso terrestre (1-19)

1Le chiavi oggi ancor voi, prego, volgete,
o Muse eterne a disserrar quell’arche
ove cose non mai sommerse in Lete
serbansi ad ischernir gli anni e le Parche,
e i tesor di memoria indi togliete
e porgeteli a me con man non parche,
talché quanto ad Augusto il re normando
narrò, tòrre a l’oblio possa io cantando.

2«Altissimo monarca, oh quali, oh quante
cose a narrar m’imponi (egli allor disse),
e quai nostre opre in cui sia che si vante
sol Dio, ch’a ciò n’elesse e ciò prefisse.
Ma tra le guerre e l’armi e ’l mar muggiante
poco lessi io chi d’eloquenza scrisse,
e però sermon semplice udrai
quanto udir brami, et io comincio omai.

3Lungo colà dove a’ nocchieri pose
termine il gloriosissimo tebano,
noi spinti da procelle imperiose
fummo, e indietro tornar tentammo in vano,
e tra sponde ivi anguste, alte e spumose,
muggiva il mare libico e l’ispano,
Abila quinci e quindi Calpe, e rea
tempesta con le navi al ciel sorgea.

4Tra un tanto orror gran voti e prieghi ardenti
mandammo al Re de le stellanti soglie,
e pur su ’l rotto mar fremeano i venti
come quando a battaglia Eolo gli scioglie.
Ma ’l buon Gualtier, che tra guerriere genti
i sacri crin sotto aurea mitra accoglie,
di nume, io già me ’l credo, allor s’empìo,
e così a me parlando i labri aprio:

5- Re, tu hai l’ale celesti, altero pegno,
e parte hai di quel tronco in cui svenato
restò l’Agnel che col suo eccelso e degno
sangue aperse a nostr’alme il Ciel serrato,
vola, e ’n quest’alpe affiggi il divo legno
tu contra un mar sì atroce e sì turbato
(or chi move mia lingua), e ’l vedrem tòrre
l’editto anco ch’Alcide osò qui imporre.

6Qui trae fin da Siria a tanta impresa
Dio, ch’umana virtù fa gloriosa,
Dio ch’oltre Calpe dilatar sua Chiesa
vuol, ch’oltre Calpe ancor terra è nascosa -.
Così parlommi, et io non fei contesa
a sua voce magnanima e pietosa,
ma quelle che ’l Ciel diemmi ale mi cinsi
devotamente, e ’n aria mi sospinsi.

7Volai d’Abila in cima, et il sì santo
legno col mio pugnal là suso affissi,
per forza d’Aquilon mie vele intanto
passàr d’Alcide i termini prefissi,
l’alte colonne riverite tanto
et allor questa voce in aria udissi:
– Già tolto al mondo è quel divieto ch’era
ritegno a’ naviganti e meta altera -.

8Non più la voce; e poi là su vid’io
l’Angel ch’è difensor de’ re normanni,
e ’l vidi qual in Cipro m’appario
quando recommi i sì ammirabil vanni.
– Pria che tu giunga a liberar tuo zio
(disse) oh quant’altri mar, quant’altri affanni!
Ma per grazia del Ciel convien che veggia
prima d’Adam tu la frondosa reggia.

9Alto pro avraine, e già v’andrai con queste
penne, e luce avrai in guida aurea e novella,
e reggerà tuoi legni il Re celeste
securi intanto in questa parte e ’n quella -.
Tacque, e batteo le penne a fuggir preste
e nova a me rifulse altera stella,
né comparian mie navi, et ubidendo
al Cielo io quel novo astro iva seguendo.

10Ei splendea tutta notte, e scherno e scorno
tutti n’aveano i bei notturni vampi,
e non potea col suo fulgore il giorno
parte eclissar a sì bel lume i lampi.
Ei stava s’io restava a far soggiorno,
s’io volava ei fendea de l’aria i campi,
e sempre col suo moto ivami innante
verso donde esce il sol ch’uscite ha tante.

11Così, senza saper dove io mi fosse,
dopo vario e lunghissimo camino,
quel lume che scorgeami alfin fermossi
su ’l limitar di quel sovran giardino,
da cui tanto gli uomini rimossi
tien col brando di foco il Cherubino.
Io frenai ’l volo, e ’l Cherubin condusse
entro quei chiostri me, non che introdusse.

12Ma qual facondia di terreni accenti
potria narrarne i pregi alti e sì rari?
Ivi più bei del cielo gli elementi,
ivi i cieli più limpidi e più chiari,
ivi non le stagion calde e l’algenti,
che sì noiose son co’ lor contrari,
ma con doppio tenor giunta e commista
primavera ad autun sempre ivi è vista.

13Zefiri rugiadosi, e le rugiade
più che mel dolci, e nettare i ruscelli;
da’ cespugli l’odor su l’erbe cade,
sorge l’odor da l’erbe a gli arboscelli,
e vien ch’ad armonia l’udito bade
ch’intorno l’aure fan, l’acque e gli augelli,
e le forme che varia a l’acque, a’ rivi,
l’arte in regi giardin son natie quivi.

14In modo i pomi e i fior cangian tenore
che qual cresca non sai, non sai qual manchi,
e tra le frondi loro ispuntan fuore
persi, vermigli, aurei, cerulei e bianchi,
e ciò che giunge con diletto al core
sazia gli spirti e lor non rende stanchi,
e imparadisa i sensi, e pace a l’alma
reca e letizia dilettosa et alma.

15Taccio gli erbosi pavimenti e taccio
le cupole di pampini vestite,
le cupole che lievi a l’aria in braccio
tra pioppe e pioppe fa la torta vite.
le vie son dritte et ampie e senza impaccio,
e lunghe a terminar vanno l’uscite,
ma cedri quinci e quindi in lor verdure
diverse sacre e pie forman figure.

16Ciò che si legge in quelle dive carte
che ’n pregio fur sol tra la gente ebrea,
istoriato è ne la manca parte,
e sol con isperanza i cor ricrea.
A destra il Dio fatt’uomo e le sue sparte
grazie, onde l’alme egli a sé chiama e bea,
e le frondi ch’effigian tal mistero
son più belle in sì santo magistero.

17Qui col decreto de l’eterna pace
in Nazarette Gabriel discende,
et a’ tre Maggi qui stellante face
nel verde e natural lavor risplende.
Qui con la madre il Dio bambin fugace
per celarsi in Egitto il camin prende,
e qui nel figlio e ’n lei cangiarsi a gara
quasi ognuno per natura impara.

18In varia etate e ’n varie guise Cristo,
e ’n varie guise e ’n varie età Maria,
si rallegra Maria se nasce Cristo,
e di cristo al morir trista è Maria,
e Maria lascia il duol se sorge Cristo
e se va Cristo in Ciel lieta è Maria,
e con Maria su gli Angeli sta Cristo
e vicino a Maria suo trono ha Cristo.

19Sì per se stessi intesti e figurati
quei rami sono, e l’aura che vi spira
si frange, e vari accenti articolati
presta a l’imagin tante in cui s’aggira,
e cangia tra lor labri i suoni e i fiati
a la favella, e poi talor sospira,
e par ch’informi ella quei begli e santi
simulacri che rende ella parlanti.

Ha superato la fonte del riso alle Isole Fortunate grazie a Dio (20-28)

20Ma già visto et avuto et anco inteso
quanto, o gran re de’ re, dianzi accennai,
come al Ciel piacque il volo ebbi ripreso,
e pur seguii di quel novo astro i rai.
Col remigar de’ vanni in aria steso
altri e pur vari poi climi io varcai,
finché giunsi in mie navi, e qui la bella
scorta disparve, o cessò d’esser stella.

21Folto cerchio mi fean trepidi e lieti
tutti i miei duci, et io scingeami l’ale,
e là da Libia entro l’immensa Teti
tra l’Occaso eravamo e ’l cerchio australe.
Dissi onde io vengo, e dissi qual decreti
per noi destina il Re sommo immortale,
e poi soggiunsi: – O sempre invitti, o scorti
meco gran tempo da l’empiree sorti,

22altra stagione a liberar Boemondo
destinata è su ’l Cielo, oh chi no ’l vede?
Dio ne raggira fuor del nostro mondo,
e vela a dietro dar non ne concede.
Dunque ubidiamo a lui, né ’l suo profondo
senno spiam, ch’ogni sapere eccede -.
Così parlai, ma non più intesi e vari
casi poi scontravamo in quei gran mari.

23Ne l’Isole famose di Fortuna
sparse là tra l’Atlante e l’Occidente,
un crudo fonte naturali aduna
toschi di riso in acqua trasparente.
Chi ne bee si rallegra, e senza alcuna
posa ride, e ne mor lieto e ridente.
Quivi a ritrarne e quivi a scior le vele
gran sete ne costrinse e ’l mar crudele.

24Ma chi ’l fonte sapea? Già l’aspettato
esercito gustò l’acque omicide,
e da folle allegrezza indi agitato,
senza cagion ch’appaia, ecco uom poi ride.
Non può le voci articolar più ’l fiato,
un indefesso ansar gli spirti ancide,
irrequieti i fianchi, ah gioie avverse,
e i corpi omai non ponno in piè tenerse.

25Altri si gitta in terra, altri sostegno
fa d’un sasso o d’un tronco a’ membri suoi,
di sì fiera letizia il petto è pregno
sì reo piacer forza è che l’alma annoi.
Ma quivi un messo del superno regno
in forma di pastore apparve a noi,
– Fuggi (egli disse a me), fuggi che questo
del riso è il fonte, a chi ne bee funesto.

26Ancide cotal riso, or chi bevuto
hallo, beva in quell’altra opposta riva,
contro ’l mortal diletto ivi è l’aiuto,
chi bevve qui, là bea, s’ei vuol ch’ei viva -.
Tacque, e fonte da noi non pria veduto
mostrò, con sembianze altre spariva:
vento e lume si fece, e ’l lume e ’l vento
mischiàrsi e poi vaniro in un momento.

27Et io vèr lui: – Deh qual tu de’ beati
Angelo o spirto uman ? Fanne ciò noto,
sì che marmorei templi a te drizzati
siano, o gradisci almen questo mio voto:
altari io ti prometto alti e dorato,
e scriverò sopra essi: A divo ignoto,
e tal t’intaglierò qual n’aitasti,
qual n’apparisti e qual ne ti celasti -.

28Intanto quei guerrieri entro il cui seno
nudriva l’acqua iniqua il mortal riso,
spegnean nel fonte d’alta virtù pieno
l’empia virtù del fonte ond’avean riso,
lo scuoter de’ lor lati venne meno
e fu da’ petti lor l’ansar diviso,
e i mossi spirti s’acquetaro, e poi
partimmo, et Eolo sciolse i venti eoi.

Ha salvato una fanciulla rapita da un mostro (29-53,4)

29Era io sospinto ove per alto affare
conchiuso era su ’l Ciel ch’io pur m’invie,
e correa verso il torto e circolare
sentier ch’è strada a Febo in tante vie.
Giunsi a Cancro, che nostre ombre a celare
non sorge, e pur ne fa tant’alto il die,
e questa stella ch’è di fiamme albergo
fummi su ’l capo e poi rotommi a tergo.

30Ma pria c’oltre io men varchi io vuo’ narrarte
che per miracol natural verace
nembi a l’adusta zona il ciel comparte
sempre, ch’ivi il merigge arde in sua face
e di tai pioggie ivi ogni dì comparte,
e certo a l’opre sue schermi Dio face,
ché senza lor credo che ’l mondo tutto
arso già fora e ’n cenere ridutto.

31Prima che ’l ciel si turbi, oh come gravi
i rai d’Apollo in falde accese e spesse!
Di qua da l’Equatore eran mie navi
e più che foco il sol parea ch’ardesse.
Egre languian su le spalmate travi
le nostre vite da quel caldo oppresse,
ma io sovente in fra l’atroce e rea
orrida arsura a’ miei guerrier dicea:

32- O forti, o invitti, il vero Dio, che rese
l’umana forma a voi volti in cavalli,
non ne fia schermo incontra a queste accese
sfere, s’egli dirizza i nostri calli?
Già vedete i suoi aiuti, ecco l’appese
nubi ogni giorno liquidi cristalli
versan dal negro lor gelido grembo -,
e spesso tra ’l mio dir seguia gran nembo.

33Per tanti nembi eccelsamente ombrosa
fan dense selve ogn’isola in quel clima,
una noi n’afferrammo, alta e frondosa,
che con eccelso nome or si sublima.
Era ’l dì che la pioggia preziosa
mai su le donne non piovuta in prima
in Maria scese, e noi di tal mistero
a quest’isola diemmo il nome altero.

34Ersi aureo altare, e ristorar fei l’alme
col pan divino, et – O Vergine madre
(dissi), nel cui bel sen l’umane salme
prese oggi il figlio de l’eterno Padre,
degna di tue preghiere eccelse et alme
queste pietose tue devote squadre,
talch’io loro in servigio ognor di Dio
regga, et a rea prigion tolga il mio zio -.

35Poi l’ancore tirammo, e le maggiori
vele, Maria chiamando, aprimmo a’ venti,
et – O reina de gli empirei cori,
tu le governa -, erano i nostri accenti.
Ma ne spingean verso i più adusti ardori,
di Dio ministri, i fiati violenti,
e nel mezzo arrivai de l’universo
d’ardentissimi rai chiuso e cosperso.

36Ambo i duo poli volti a fronte a fronte
di là son visti, e ’l nostro è sì piegato
che tocca il lembo a l’artico orizzonte
e spunta l’altro da l’opposto lato,
né vien che vi trabocchi e vi sormonte;
retta sfera è colà l’orbe stellato,
come qui dove egli col polo s’erge
tanto quanto verso Austro in mar s’immerge.

37Pur sempre ivi equinozio, ancorché ’l sole
a questo od a quel Tropico s’appresse,
e l’anno con duo verni iv’è che vole
e matura ei due volte ivi la messe.
Tale è nel mezzo suo l’eterna mole,
ma ne sospinser oltre aure indefesse;
passai l’ardente, et indi a la temprata
altra zona pervenni a noi celata.

38È basso in tale zona, e reca il verno
Cancro, et arde e sormonta il Capricorno,
o magistero del gran fabro eterno,
e le tenebre nostre ivi fan giorno.
E pur oltre spingeane il Re superno,
omai tutti i sentier chiusi al ritorno,
e d’ora in ora più irrequiete penne
d’aspri venti ei legava a nostre antenne.

39Anco l’ampio ocean vidi infinito
sotto quel ciel non arso e non gelato,
o s’avea qualche termine il suo sito
dal cielo era tra l’onde ei terminato.
Ma scersi alfin, quasi montano lito,
scorrer su l’acque un corpo smisurato,
un pesce che sembrava un’alpe informe,
circolare, terribile, difforme.

40Antri cento in suo giro e son tai cento
antri cento sue bocche, onde muggendo
fa rimbombar il liquido elemento
in cento parti a un punto esso tremendo,
vorace e rapidissimo portento,
e per cent’occhi ancor fiero et orrendo,
che ciascun occhio suo fornace etnea
sembra, e cometa portentosa e rea.

41Eccelso il tergo et a quel tergo in suso
strana donzella dolorosa e trista
gia per lo sole incontro a lei diffuso
s’offrì quasi dappresso a nostra vista.
Quai produrle Etiopia have per uso
negra i nembi, ma quasi angelo in vista,
e battendo le mani unir con mozzi
stridi parea le lagrime e i singhiozzi.

42Per la distanza il lamentar non senti,
ma ben gli atti di lei gridan mercede,
e i visti e non uditi suoi lamenti
destan quella pietà ch’ella ne chiede.
Intanto tutti in mar cessano i venti
e ’l cielo quivi a me nulla concede,
salvo scampar la misera et opporme
co’ legni a quel sì vasto orror difforme.

43Cingo l’ali superne, e insieme appresto
contro il gran mostro insolita battaglia,
ma di noi, benché ratti, egli più presto
s’è mosso, e repentino in noi si scaglia.
Ogni sua bocca, or quinci pensa il resto,
par che più d’una nave inghiottir vaglia,
et ove balza così frange l’onde
che in più mari su ’l mare il mar diffonde.

44Qual s’a l’antica soma de le stelle
il monte mauritan si sottraesse,
e di sua mole in queste parti e ’n quelle
vive le parti et animate avesse,
sì che con membra orribilmente isnelle
orridi salti in ocean facesse,
tai balzi fea la belva, e noi curvammo
l’ordin navale, e cerchio ampio formammo.

45Restò in mezzo la fera smisurata
et archi io scoppiar fei, baliste e frombe,
e ’n ogni bocca un’ancora gittata
anco fu, e dati fur fiati a le trombe.
Ogni sua bocca allor rotta e piagata
in sembianza di tuon parve rimbombe,
e sparse un mar di sangue e tra le scisse
gole tutte restàr l’ancore affisse.

46Erano a’ funi lor l’ancore avvinte,
e i funi tra le prore anch’essi avvolti,
e tosto ebber le prore in dietro spinte
ad arretrarsi i remator rivolti,
ma restàr quasi imprigionate e vinte
le navi, e nulla allor pareano i molti,
sforzi di tante ciurme, e i molti e vari
in uso posti ordigni militari.

47Già per tirare i remator sforzarsi
il Tauro, che del mondo è sì gran parte,
credi, e credi le tante arme lanciarsi
contra un monte, aspra selce d’ogni parte.
Rota tre volte il mostro, e col rotarsi
tre volte fa rotar le cento sarte,
s’erge e s’attuffa e tira mentre e’erge
le cento navi, e mentre in mar s’immerge.

48Ma su l’armi lanciate andava a volo
io, che l’ali celesti aveami cinto,
e giunsi ove colei carca di duolo
in fronte il tristo cor scopria dipinto.
Col volto e con le voci io la consolo,
da poi che l’afferrai nel ricco cinto,
ma prevenne ella le mie voci, e ’l mio
nome appellando di stupor m’empìo.

49E mi dicea: – Non è, non è la strada
questa che tenti, invan tanta tenzone.
Vibra, vibra, signor, vibra la spada
e fendi ove tengo io fermo il tallone.
S’ivi non fendi tu, non fia che cada
l’orribil mostro, e credi al mio sermone -.
Così parlommi, e lei con la sinestra
reggendo, io raggirai l’armata destra.

50Percossi ov’ella volse, e ’l ferro immersi
quasi in materia molle, et (oh stupori!)
tutta la vasta belva a un punto io scersi
ferma restar su i regni ampi di Dori.
Tacquer le bocche onde d’orror cospersi
cento tonanti fiati uscivan fuori,
e quegli immensi suoi rimbombi e moti
come stiansi non sai cheti et immoti.

51Tale, se pareggiar lecito fora
cosa a cosa sì immensa e così fiera,
il tauro i sensi suoi perde qualora
il coltel su la nuca avien che ’l fera.
Oh quanto mare ivi inghiottiano allora
le cento bocche de la vasta fera!
Et oh come affondando i suoi sì gravi
membri, al fondo traean l’avvinte navi!

52Ma le lor fiammeggianti et affilate
spade trasse veloci i duci tutti,
e tagliaron quei funi onde tirate
ivan le prore in sen de’ salsi flutti.
Con fronti di vittoria incoronate
poi su ’l pino regal s’ebber ridutti,
ove con al fanciulla ancor tremante
io sceso mi reggeva in su le piante.

53De’ lagrimosi umori il volto asperso
terge costei col velo e i lumi inchina.
Io scingo l’ali, e tutto al ciel converso
rendo alte grazie a la bontà divina.
Poscia le ciglia stupide pur versoL’ha battezzata, rendendola nuovamente bianca (53,5-73);
Ha visto tramutarsi le proprie ali in stelle (74-82)

la donzella rivolgo peregrina;
men tremava ella omai, ma intenti e fissi
sendo in lei mille sguardi, io così dissi:

54- O bruna giovinetta, che nel viso
scopri in fortuna acerba assai di regio,
chi sei? come di noi ti giunse aviso?
e quale è di tua gente il nome e ’l pregio?
e chi su ’l mostro, a’ tuoi consigli anciso,
espose a rischio tal tuo corpo egregio?
Dinne se ’l tuo natio cielo è lontano
o pur se qui d’intorno è germe umano -.

55La faccia, ov’un bel sol di lampi neri
sfavillava, ella alzando allor rispose:
– O tu, ch’a’ nostri antartici emisferi
giungi a grand’uopo, come il Ciel dispose,
entro un giro di casi atroci e fieri
odi altro in breve oltre le chieste ose,
ch’oltre quel che domandi anco altro a dire
riman, s’intera vuoi l’istoria udire.

56America son io, figlia di Norte,
ch’a questo mar s’ immenso il nome ha dato,
e che rimase, ahi dispietata sorte,
ne’ regni suoi da ceppi empi aggravato.
Seco anco è in nodi Platia sua consorte,
et altro mondo a voi qui sta celato.
mezzo di questo mondo a Norte ha tolto
Sur, che ’n servil catena il tiene avvolto.

57Anco è di Sur qui l’altro mezzo mondo,
e parte pur n’avea Platia in retaggio,
orfana verginella, e ’n cui giocondo
natura apria d’alta bellezza il raggio.
Ma sua rara beltà trarla nel fondo
dovea de’ mali e d’ogni estremo oltraggio,
ché Norte e Sur, quasi in agon per lei,
concorreano a’ suoi degni alti imenei.

58Nobiltà somma in ambo e sommo impero,
ma rari pregi in Norte e volto vago,
ma Sur empio e crudel, superbo e fiero,
brutto di membra e formidabil mago:
girò di Platia il casto e pio pensiero
in Norte, e ne rimase ardente e vago,
scelse Norte in suo sposo, e Sur sprezzando
ahi gir vide ella ogni sua gioia in bando.

59Però che ’l reo inasprissi a tal rifiuto
e gelosia fu spron, ferza e flagello,
ei mosse guerra a Norte, e fu veduto
pien d’arme il regno in questo lato e ’n quello.
portò di sangue umano al mar tributo
ogni gorgo molt’anni, ogni ruscello,
et io concetta e nata in doglie e ’n pianto
crebbi tra strage e tra ruine intanto.

60Da quel crudel mia patria alfin fu presa
e sciolse il freno egli a sua crudeltate,
né fu ritegno a l’ira sua raccesa
maestà umile o supplice beltate.
Ah stava Platia da catene offesa
innanzi a lui, né loco avea pietate,
Platia reina un tempo, e Norte anch’esso
legato, et io legata ad ambo appresso.

61Quai rampogne egli in ambo, et in quai modi
gonfiò le gote, intorbidò le ciglia?
A lei poi disse: “Or tu tra questi nodi,
degna mercé da me sprezzato or piglia.
Anch’io farò che s’aborrisca et odi
de le bellezze tue la meraviglia,
t’abborrirà costui, tal diverrai,
anco in odio ei ti fia, tale il vedrai.

62Lunga stagion tu ad esso, egli a te piacque,
or l’uno incresca a l’altro, io ne sia lieto”,
e terribil fremea poiché si tacque,
et eseguiva il suo crudel decreto.
Pur tardò alquanto, e guatar si compiacque
in lei, quantunque torbido, inquieto,
forse il placava Amor, ma che che fue
fu debil freno a le fierezze sue.

63Di magico velen tazza ripiena
fe’ bere a la regal coppia infelice,
e l’una e l’altra faccia alma e serena
negra ne diventò più che cornice.
Fèrsi brutte le membra, indegna pena,
grosse le labra, ahi quanto a’ maghi lice:
ahi tòrre la bianchezza a i corpi umani
ponno, e farli restar difformi e strani.

64Bianchi ben noi nasciamo, ma nel volto
di Platia quasi luce era il candore,
e v’era in modo un bell’ostro raccolto
che pingea le bianchezze ivi il rossore.
Rise Sur, che mirò cangiato e volto
in brutte forme di beltate il fiore,
ma gridava vèr me: “Tu tu anco bevi,
tu parto iniquo, e premio equal ricevi”.

65Poscia mi fei bevendo, ma dal mio
misero corpo non fuggìa bellezza,
non me n’accorsi, e no ’l curai pur io,
che ’n me da me sola onestà s’apprezza.
Ma Sur del suo velen magico e rio
più volte a me gustar fe’ l’amarezza,
e perché qual volea mai non mirommi
ove tu mi trovasti alfin portommi.

66Portommi, io non so come, e “Qui ti lasso
(mi disse), poiché a una ancor sei bella:
di navi absorbitor questo è Talasso,
qui resta a lunghe pene, o rea donzella”.
Partì ’l crudele, et io con egro e lasso
pensier rimasi, e dissi: “Ahi cruda stella!”.
Tre dì senza cibo alfin chiamai
chiunque è Dio verace, e lui pregai.

67Et ecco allor dal ciel giovane alato
scese, e diemmi di voi contezza a pieno,
e ’l loco m’insegnò dove impiagato
dianzi il mostro marin qui vène meno.
Disse anco ch’acqua è teco, ond’inalbato
mio spirto fia, non che ’l mio viso e ’l seno,
e che lo stato renderanne e pose
tra mie man divo pomo egli e s’ascose.

68Da l’odor di tal pomo a me la fame
finor vien tolta e l’importuna sete,
e sento indi dentro il cor novelle brame
e nova fede, e voglie ardenti e liete,
sì parmi che per grazia il Ciel mi chiame
e ’l viver primo mi contenda e viete.
Ma l’acqua or dammi tu che bianco farmi
puote lo spirto e i membri anco imbiancarmi.

69Contemplerò, me candida mirando,
l’alma senza quel brun ch’a me più noce -.
Io per tai detti al buon Gualtier parlando
col volto espressi più che con la voce,
ma i sacri arredi ei chiese, e scinse il brando
e mitrò il capo e fe’ inalzar la croce,
et al grand’atto s’apprestò con quella
fé ch’i monti venir fa se gli appella.

70Compadre io de la vergine et a fronte
stavano i duci con intese ciglia,
Gualtier orò, poi l’onda alzolle in fronte
et io le dissi in suo linguaggio: “O figlia,
toglie de l’alma il brun ben questa fonte,
no ’l negro che di fuori in uom s’appiglia.
Pur abbi fede”, e intanto quei l’asperse
d’acqua tra sacri accenti, e ’l Cielo aperse.

71Ben egli aperse il Ciel, ch’altronde uscire
un sì raro miracol non poteo,
la fanciulla gioì, che divenire
bianca si vide e più nel ver credeo.
Recati a mente, o sommo inclito sire,
ciò che il battesmo in Costantin già feo,
e pensa che così quest’onda estinse
il bruno ch’a costei le membra tinse.

72Fin a’ cubiti bei nude le belle
braccia, che dianzi fur limpidi inchiostri,
e le rotonde e picciole mammelle
ove gli ebani schietti eran dimostri
trasfigurate in queste parti e ’n quelle
avventaron bianchezza a gli occhi nostri,
bianchezza appo cui perde il puro latte
e ’l giglio e ’l lampo de le nevi intatte.

73Avvolto in perle il già negro suo collo
bianco or vince quei candidi tesori,
e ’l volto suo di foschi rai satollo
or d’alabastro e d’ostro apre i colori.
Il crin, cui corto fe’ quando annegrollo
l’incanto, anco s’allunga in lucid’ori,
e parte splende in treccie e parte il gira
su l’eburnea cervice aura che spira.

74Ma su le treccie, altissimo ornamento,
verdeggia un smeraldo effigiato;
ne gli intagli io restai col guardo intento,
che l’antartico mondo evvi intagliato,
et ella, che spiò nostro talento,
tal fregio da’ suoi crin s’ebbe slacciato,
et a me il porse, et io in guardarlo appresi
il sito de gli antartici paesi.

75Et indi a lei: – Ben rara è tal scultura,
e tra duo mar qui vostra terra appare.
Ma mira tu le se tue regie mura
ne l’intaglio gentil saimi additare -.
Et ella di sua man la neve pura
sovra il verde lavor fe’ biancheggiare,
e toccando colà sol con un dito
disse: – Quella è mia reggia, in su quel lito -.

76- Quell’altro mar come s’appella? e quale
questo universo ha nome? – io ripigliai,
et ella: – Ohimè, quell’onda occidentale –
disse, e turbò de’ suoi begli occhi i rai
– da Sur si noma, onde cotanto male
venne a’ miei regni e troppo io ne provai.
Questo universo è senza nome, e ’l mio
nome destina a lui pur l’alto Dio.

77Tal cosa ancor mi rivelò colui
che dal Ciel venne -, e tacque la donzella.
Poi scaltro in più domande io seco fui,
e raccolsi altro pro da sua favella.
Volli saper quai sian ne’ regni sui
l’armi, e quai le trincee, quai le castella,
e seppi che colà senz’arte è l’arte
de la milizia, e quasi inerme è Marte.

78Quanto pietà dittò promisi a lei,
e porse a gli egri spirti ella ristoro,
ma lo smeraldo che mi diè costei
e che cosperso è di sovran lavoro,
poi rivolgendo io verso i duci miei,
– O generosi e pii – dissi a costoro -,
da qui dov’or noi siam poco è remoto
il mondo a Libia, ad Asia, a Roma ignoto.

79In questa gemma effigiata il veggo
confrontando con lei le stelle e ’l sole,
e del voler superno or più m’avveggo:
dunque eseguiam ciò che là su si vuole.
Anco a voi quell’onore io ne preveggo
ch’accompagnar l’opere eccelse suole,
e creder vuo’ che ’l Ciel, che l’ha sospesa,
poi trarranno a compir l’antica impresa.

80Mancamento di cibo anco n’è sprone
vèr questo continente sconosciuto,
oltre che girerà lieta stagione
tanto affanno a narrar già sostenuto,
e ’l popol franco e ’l popol di Sione
udendo rimarrà stupido e muto,
che scorso ignoto mar, che visto abbiamo
altri sott’altro ciel figli d’Adamo -.

81Tacqui, e notte appendea le sue fiammelle,
ma ’l polo di là giù sempre era oscuro,
però che intorno a lui non creò stelle
chi tante dienne al nostro pigro Arturo,
e vacillava senza tai facelle
Celio, il mio buon nocchier; ma come furo
trasfigurate l’ammirabil ale
che ’n Cipro diemmi il nunzio alto immortale?

82Per sé s’incrocicchiàr quell’auree piume,
o chiaro Augusto, e via più sfavillaro,
nova opra e rara del sovrano Nume,
et in quattro begli astri si cangiaro,
anzi spiegando incrocicchiato lume
per sé verso quel polo elle n’andaro,
e rimaser sublimi ivi a rotare
senza piegar, senza attuffarsi in mare.

Ha liberato il padre della fanciulla dal re nemico e convertito il suo popolo al cristianesimo (83-108)

83Testimonio è il mio campo che le vide
stellarsi e ’n ciel volare, e noi le stesse
appellammo Crociero, et alte guide
là da Libia a’ nocchieri oggi son esse.
Chiunque i segni varcherà d’Alcide
vedralle, s’unqua fia ch’ivi s’appresse,
et ovunque in quel mar poi Dio ne scorse
esse furo per noi l’antartich’Orse.

84Già solcavamo i gran campi marini
per ritrovar gli Antipodi, e sei volte
aveva il sol co’ raggi matutini
da la faccia del ciel l’ombre ritolte,
e verso i liti incogniti vicini
le gonfissime vele eran rivolte,
là dove sotto Sur sostenea dura
servitù Norte entro sue regie mura,

85volgea ’l settimo giorno e ’n Austro l’ombre
giano, e gli sguardi in vèr l’Occaso australe,
quando a noi pria tra nebbie alquanto sgombre
scoprissi il chiuso mondo occidentale.
Allor con fronti di stupore ingombre,
l’oste e i nocchier in un tenore equale,
«Mondo, mondo» gridaro, e di quel mondo
«Mondo, mondo» rispose il mar profondo.

86Poi la reggia apparia, ch’ampia s’estolle
a piè del lito e si ripiega in arco.
Stavvi davante una isola, e vi tolle
a le tempeste, a le procelle il varco,
e v’assicura, quando il mar più bolle,
ogni navigio, o siasi onusto o scarco,
e nobil per palazzi e per castella
parte è de la città l’isola anch’ella.

87V’entrammo d’ambo i lati e le bandiere
ferìa ’l vento, e gli arnesi il sol lucente,
e scesi noi da le celesti sfere
credeva e stimò dèi noi quella gente,
solo a’ lampi d’acciar, sol di guerriere
machine a fiero strepito innocente
mi s’atterràr gli Antipodi, e non tinsi
di lor sangue il terren, ma vidi e vinsi.

88Non ferro ivi, per farne elmi e loriche
cocesi, e son di legno ivi le spade.
Chi con arme v’andrà poche fatiche
avrà per farsi re d’ampie contrade.
Già ne l’Europa incerte eran le spiche
lussureggiando in erba ancor le biade,
e in quel mondo era autunno allor ch’eressi
la croce e liberai quei regni oppressi.

89Io tolsi le tiranne empie catene
a Norte, a Platia, e nova meraviglia
essi, ch’ambo parean nati in Siene,
ebbeno in riguardar bianca lor figlia.
Ella narrò il miracolo, e ripiene
tenea di pianto pio le caste ciglia,
et essi l’emularo in cangiar legge
e candidi fe’ lor chi ’l tutto regge.

90De l’acqua salutar furon cosparsi
e quell’acqua di fuori anco imbiancolli.
Visto ciò, correan tutti a battezzarsi,
e lasciavano i culti iniqui e folli.
Fur idoli diversi in terra sparsi
ne le meschite, ove empio rito alzolli,
e diemmo noi con generosi essempi
al Dio di Nazarette altari e tempi.

91Solo restava Sur duro e ritroso,
né s’inchinava a la verace fede,
ond’io tai voci a Norte: – Or glorioso
tu regna, e tien costui con ceppi al piede
finch’egli, fatto a sé giusto e pietoso,
ad eterno suo pro battesmo chiede.
Scioglilo allora, et anco rendi a lui,
qual ragion ditta, il tron de gli avi sui -.

92- Anzi tu, tu qui impera (il re rispose),
tu che dai libertate a’ regi, a’ regni,
tu che ’l ver de le carte a noi nascose
per mezzo or qui di sacerdoti insegni -.
Ma ’l mio voler al suo voler s’oppose,
e volsi pur ch’egli comandi e regni,
et ei, ch’i suoi per me scettri riprese,
con regia cortesia meco contese.

93Anzi vinto io ne fui, però ch’ei tolse
a la città regal l’antico nome,
e ’n mia memoria Tancredonia volse
ch’ella con novo suon s’appelli e nome.
Né si ciò sazio, a maggior segno ei volse
il suo gentile affetto, e trovò come
senza ch’i regni antartici io mai regga
antartico monarca ognun mi vegga.

94A la statua di Sur, che di regnante
già stava in atto appo il castel maggiore,
e sorgea qual colosso torreggiante
di bronzo no ma del metal migliore,
recise il volto, et aureo il mio sembiante
vi pose, e me parer fe’ regnatore,
gridando: – Io non così pago infiniti
oblighi, ma mio re qui ogn’uom t’additi -.

95Voleva anco a sua figlia egli comprarmi
con gli antartici regni artico sposo,
ond’io gli dissi: – O re, ben troppo parmi
tra i re tal matrimonio avventuroso,
et a tanto reame indi ad alzarmi
essere io non dovrei schivo e ritroso.
Tu ’l brami, io ’l vuo’, ma che se ’l Ciel ne ’l vieta?
Saggio l’uom che col Ciel sue brame acqueta.

96D’obligo e di pietà molt’opra ancora
già ne l’artico mondo a me rimane,
talché restar no qui difetto fora,
come nozze chiedrian tanto sovrane,
e poi quando qui è sera ivi è l’aurora,
ond’io se ’n region tanto lontane
portassi donan tal, tanti imenei
al tuo mondo et a te torto io farei.

97Arrogge ancor difficultà maggiore,
benché grandi sia troppo queste due:
io la figliuola tua tenni, o signore,
nel fonte ov’ella battezzata fue,
e ’n quell’atto mi fe’ suo genitore
l’alto mistero con le forze sue,
or ella, ella m’è figlia, o chiaro Norte,
esser non può di me figlia e consorte -.

98- A qualcun de’ tuoi duci (egli ripiglia)
siami io socero almen, deh tu il consenti -.
Io ciò promisi, ei serenò le ciglia,
ma gli eroi miei n’eran pur troppo ardenti,
et io vèr loro: – O marzial famiglia,
o chiaro sangue di supreme genti,
scegliere un sol tra voi chi può, chi vale,
se tanto il merto vostro in pregio sale?

99Voi scritto ne le fronti il cor mostrate
e ben sublimi son vostri desiri,
se con voglie sì belle e sì onorate
a scettri così eccelsi or vien s’aspiri,
ma la sorte su voi gittar vogliate,
né d’elettor terreno alcun s’adiri,
e la sorte tra voi sia l’elettrice
di chi de’ per tai nozze esser felice -.

100Tacqui, e poi la fortuna elesse Ibero,
et augusto in sembianza egli comparse,
e forse fu celeste un lampo altero
che nel suo volto maestà comparse.
indi al tempio sovran, dove il Dio vero
degnò con nostre mani albergo farse,
venne per le gran tede coniugali
calca d’innumerabili mortali.

101Il popol di quel mondo in quel dì scerse
il primo sponsalizio in nostri riti,
e gli occhi al bacio marital converse
tra i sacri accenti, ivi non prima uditi.
Poscia in suo stile barbare e diverse
allegrezze condian gli alti conviti,
ma Colco io rimembrava, et a partenza
traeami omai l’eterna Providenza.

102Largo allor de gli antartici tesori
de gli Antipodi il rege era vèr noi,
e de la messe che gli estivi ardori
maturan lungo gli emisferi suoi,
e vari cibi e dolci almi licori
pur largo ne donò, ma quando poi
accomiatonne, ei squallido abbracciommi
tutto tremante e ’n tal sermon parlommi:

103- Tu gran salute mia, dunque tu parti,
e togli a noi la tua presenza? ahi lasso,
et iscontrar tre mostri in varie parti
potrai fieri non men che ’l fier Talasso?
Ma scelta e fida scorta almen vuo’ darti
per torti a vario e periglioso passo.
Quali gli empi tre mostri? uno è Toone,
che lezzo ne le mense e morte pone.

104Toon col fiato micidial crudele
su gli spalmati pin l’esche avvelena,
e ’l suo così ne’ cibi infuso fele
impesta a chi ne gusta indi ogni vena.
Per l’altro sparge ohimè maggior querele
il germe uman, et è l’orrida iena,
questa più orrenda ahi d’uomini si pasce,
e diserte le navi ella è che lasce.

105Di ferro il terzo mostro si nudrisce
e del ferro lontan corre a l’odore,
e da’ navigi in mar così il rapisce
ch’essi, schiodati, ogni nocchier ne muore.
Quinci nessuno in questo mondo ardisce
o raro uscir da’ natii liti fuore,
or per non incontrar mostri sì orrendi
un baron ch’io ti do tu in guida prendi.

106Questi è Perù, del buon Brasil figliuolo,
di Brasil mio fratel, Perù ch’armato
scorso ha più volte in su ’l ceruleo suolo
di là da l’equatore arso infiammato.
per lui notizia abbiam del vostro polo,
egli n’appalesò quanto è stellato -.
Così ’l re di quel mondo, e ratto in questa
Perù mi s’inchinò, nudo la testa.

107Era anco quivi, e pur dogliosa e pia,
Platia, e trista la figlia anco con ella,
ma le vaghezze sue tutte scopria
la beltà variamente in questa e ’n quella.
La figlia quasi Cinzia che s’invia
da Calpe in vèr l’Eoo vaga e novella,
la madre un plenilunio, allor che suole
gli astri celar Cinzia emulando il sole.

108I seni pudicissimi gentili
di pianto ambo spargemmo, e i lembi d’oro
e troppo illustri i doni feminili
in pria m’eran recati in nome loro.
Ibero allor quei scettri ebbe assai vili
che tanto dianzi desiati foro,
ei con le braccia in su l’estreme arene
or a questo or a quel facea catene.

Sulla via del ritorno ha affrontato tre mostri vincendoli (109-173)

109Ma noi tosto al soffiar d’aure non lente
diemmo le vele, accolte ancore e sarte,
i liti andaro indietro, et equalmente
ne chiuse l’acqua e ’l ciel poi d’ogni parte.
Fu il corso verso il nostro imo occidente
che raggi orientali ivi comparte,
navigammo così finché africano
Aquilon sorse, e scosse l’oceano.

110L’ampio ocean non rotto è in onde quando
da’ procellosi venti è tempestato,
ma ’l suo pelago immenso egli gonfiando
s’alza e s’abbassa orribile e turbato.
Già parve divorarne imperversando
tutto in se stesso svolto et agitato,
portando di speranza inermi e vòti
noi sotto cechi d’orizzonti ignoti.

111Dopo più dì, non più ruggendo i venti,
quella vasta Amfitrite alfin temprossi,
ma tal ch’a lato suo poco frementi
sarian nel verno i nostri mar più scossi.
In ridrizzarne allor non fummo lenti
con vele oblique, et io primier mi mossi,
ma diceami Perù: – Signor, assai
l’onda n’ha torti, ond’io pavento omai.

112Ahi l’empia belva che con carne umana
scaccia de l’empia fame il reo disio
tra l’acque omai vicine ahi da lontana
parte su dal mio pin talor vid’io -.
Risposi: – Non temer, noi la sovrana
providenza cui trae del sommo Dio,
noi Dio difende -, e poi come si suole
diemmo nova materia a le parole.

113Allor del mio parlar subietto fue
nostro mondo, e Perù stupido intese,
ma poich’io tacqui, ei così de le sue
antartiche contrade a narrar prese:
– O re, dal tuo crocier fino a le due
vostre Orse giunge il nostro almo paese,
ampio verso i duo poli e stretto dove
tra Cancro e l’Equatore il sol si move.

114Verso settentrion forse al terreno
vostro s’unisce, e forse il mar ne ’l parte;
a noi finor non è ciò noto a pieno
non girammo tanto oltre ivi le sarte,
ma da questo oceano isgorga un seno
vasto entro terra ne l’opposta parte,
e rompe il continente e fa gran porte
per girsi al mar di Sur dal mar di Norte.

115Tai porte, magellaniche appellate,
fur da Magel che le varcò primiero,
da Magel, padre a Norte, ma gelate
balze serran verso Austro ogni sentiero.
Forse ivi region non abitate,
e forse sì, finor non sassi il vero,
ma tra noi de’ celesti e de l’umana
origine ben fu credenza vana.

116Tu sai quai furo i nostri numi, or senti
onde l’uom noi stimammo esser pria nato:
da l’acque d’un bel fonte ancor sorgenti
il credemmo prodotto e generato;
e chi creduto avria mai d’altre genti
a noi l’uman lignaggio esser passato?
Benché n’era, e di ne abbia atra coverto,
d’antichissima fama un suono incerto.

117Ma già verso qual parte a sceglier cose
degne che l’oda tu drizzo il sermone?
a l’acque di duo fiumi spaziose
che co’ mar vostri ir ponno in paragone?
Duo grandissimi fiumi appo noi pose
il Creator, la Plata e ’l Maragnone,
Platia a la Plata, al Maragnone diede
nome il tiranno onde il reo Sur fu erede.

118E de la Plata ancor dico che quando
sgorga ella inonda le provincie e i regni,
e ch’i popoli allor vanno abitando,
absorte le città, su i cavi legni.
Soli i duo venti qui, mentre girando
tutti trascorre il sol gli aurati segni,
l’un vien dal Sur, l’altro dal Norte, et hanno
preso indi i nomi e s’han diviso l’anno.

119Alto giudizio di natura; or essa
che fece a noi sì smisurato il mare,
se d’aure vi mettea vice più spessa
ogn’uso ne togliea del navigare,
ma se ’l Zodiaco a voi tanto s’appressa
ch’ambo i Tropici può su voi rotare,
taccio che unque avienne sotto quelle
a noi non men ch’a voi sublimi stelle.

120Sì che trapasso il raccontar che l’ombre
or a manca or a destra ivi son volte,
tralascio, e quando iv’esse in tutto sgombre
perdonsi e sotto i piè restan sepolte,
ma solo ne dirò cosa ch’ingombre
voi di stupore ove da voi s’ascolte,
et è che sopra a noi tutto l’ardente
cerchio anco aggira e non crea negra gente.

121Pur Mori ha qui, ma d’essi io non so d’onde
gli avi sospinti a noi nosco restaro,
e per virtù che l’arso seme infonde
fosca progenie a noi quei generaro.
Ohimè, ma l’empia iena ecco tra l’onde -,
tacque et additolla, e i membri suoi tremaro,
ch’uscìa da l’acque ella, ch’immenso pesce
et orso immenso in sé confonde e mesce.

122O quanto copre del ceruleo campo
questa d’orrore abbominosa imago,
arde infausto ne gli occhi un doppio lampo,
sembra l’aperta bocca ampia vorago;
poco a la fame sua di Serse il campo
di sangue uman non la disseta un lago,
e ratta è sì ch’appo di lei par lenta
la canna che l’arcier partico avventa.

123Atto indegno non è, non è viltade
la fuga ove sovrasta un vil morire,
et ivi non valeano a noi le spade,
miseri, e n’era tolto anco il fuggire.
Oh quanto osar dura necessitade
femmi, e pietà prestommi, oh quanto ardire!
Pietà de la mia armata, e non orrendo
mi fe’ parer il mostro empio e tremendo.

124Io dissi in un pensier rapido e pio:
– Disteso in un battel che non mi gitto
perché ’l mostro m’inghiotta? e che perd’io
se ’l nostro fine io qui veggio prescritto?
Forse a l’orrida iena il crudo e rio
cor fia ch’io svella, e se ciò m’è interditto
almen intanto in su i marini stagni
troveran qualche scampo o miei compagni -.

125Tal pensai, tal conchiusi, e ’n chiari accenti
tosto mia voglia apersi a’ miei guerrieri.
Essi ubidian, ma troppo tristi e lenti
e svolger fean le vele essi a’ nocchieri,
e, svolti i rostri e fatto scherno a’ venti,
transversi in ocean correan sentieri,
ma solo io su la barca e con liev’armi
restando, un remo sol fatto avea darmi.

126Da prora a poppa io stesi il remo, e poi
nel modo stesso i membri miei locai.
Giacea supino, e non negarmi i suoi
favori onnipotenti il Ciel pregai;
dissi: – Aita, Signor, se ’l tutto puoi,
se con la destra tua tu qui mi trai -.
Ma l’empia iena l’ampia gola apria
e quella ov’io giacea barca inghiottia.

127Quale allor che sen corre al vasto Eusino
per questo vostro mar nave spalmata,
né tocca ella l’Europa né ’l vicino
lito in cui da Nettun l’Asia è bagnata,
io tal passai con tutto il cavo pino
nel ventre de la belva infuriata,
e ’l pino non toccò dente né zanna,
né parte alcuna de l’orribil canna.

128Spelonche entro il suo ventre e per le nari
largo scendeavi il giorno, et io spedito
premea col brando i seni informi e vari
del core immenso, e sangue ecco infinito.
Muggìa l’offesa belva, e i liti e i mari
rimbombavano orrendi al suo muggito,
alfin moriva e l’ultimo suo moto
d’intorno e suso e giù parve tremoto.

129Tra quel tremor giù colà dentro allora
per l’ampie fauci traboccò molt’onda,
sì come quando de la riva fuora
diluvioso il Po sgorga et inonda,
ma ’l remo io strinsi, e già l’aspra e sonora
acqua ne fransi, che pur troppo abbonda,
e ch’empie in tutto omai tutte l’interne
de le viscere cave ampie caverne.

130Vogando io contro il mar, ch’aspro muggìa
fuor da la bocca uscii pur d’acque ingombra,
e ’n quel punto affondò l’orrida e ria
belva, ch’anco d’orror l’alma m’ingombra.
Tosto l’armata allor lunge apparia,
a me tornando, di timor già sgombra,
e de le trombe allegre i chiari accenti
portati era da l’aure precorrenti.

131Ma lasciate lor poppe i capitani
sopra ratte barchette a me venieno,
questi ’l remo mi tolser da le mani
e sopra il regal pin meco salieno.
Piangean per allegrezza e sopraumani
vanti darmi gridando essi s’udieno,
e dicevan concordi: – Angelo è sceso
dal Ciel, già noi ’l mirammo, e t’ha difeso,

132quando correva in te l’orrida iena,
sire, ben la tua barca un raggio cinse,
Angel quel raggio fu, se più serena
ei l’aria intorno fe’, s’egli il sol vinse -.
Tacquero, et ogni vela indi era piena
del vento che colà dianzi ne spinse,
et io a Perù, di cui poi ripigliai
l’interrotto sermon, così parlai:

133- Se, qual dicesti tu, l’ardente strada
de l’anno in vostro mondo si rivolve,
come esser può che ’n voi l’ardor non cada
che ’l sangue adusto in color brun dissolve?
Tal via su nostra Libia anco è che vada,
et ivi di negrezza i corpi involve,
anzi ivi il sol con sua propinqua face
non una a noi ma due Etiopie face -.

134- Messico, il buon de l’empio Sur fratello
– Perù rispose -, uom fu di colto ingegno.
Con la costui dottrina or io favello
in risposta, o signor, del dubbio degno.
Sotto il Zodiaco in questo lato e ’n quello
ben troppo avvampa ogni stellante segno,
e sotto tanto ardor negri sembianti
dovriano aver gli antartici abitanti.

135Ma terra angusta, e spaziosa Dori,
e fresche auree perpetue, ombra e verdura,
e larghi in ciascun dì piovuti umori,
providi accorgimenti di natura,
vietan che non imprima atri colori
colà ne’ corpi l’apollinea arsura,
che temprata ella vien da queste stesse
contrarie al suo calor cose framesse.

136Or qual stupor se le superne rote
lascian confusi ognor quegli intelletti,
i quai credon ch’i fati il ciel ne ruote
e ch’a le stelle noi nasciam soggetti?
Non basta, no, ch’alcun misuri e note
le magion de’ pianeti e i lor aspetti,
ch’uom saggio gli astri a sé può sottoporre
e Dio può nove leggi a gli astri imporre -.

137- Ciò che dice un tant’uom ben troppo acqueta
il mio pensier – risposi al cavaliero;
– ma segui tu, già nulla or più nel vieta,
quell’interrotto tuo sermon primiero -.
Et ei: – Molto riman, lunge è tal meta,
poco narrai, pur quanto è più d’altero
dirò, poiché dirne or tu comande,
e quanto più di scelto e più di grande.

138Non giunse il vostro Bacco a nostre arene
per darne il bel licor de l’alma vite,
il bel sangue de l’uve, e non sostiene
di Cerere il bel don le nostre vite,
ma per gioia de’ cori a noi già viene
nettare da gioconde erbe bollite,
e ’l maiz anco a noi ne’ campi nasce
di biade in vece, e le cittadi pasce.

139E d’animai terrestri e di marini
e d’augei larga fu l’eterna mano
al nostro mondo, e ’n esso i suoi giardini
Pomona e i boschi suoi piantò Silvano,
e pregne di tesori pellegrini
a noi le conche crea l’ampio oceano,
talch’abbondiam di perle, e son di gemme
feraci e di molt’or nostre maremme.

140Tra questi di natura a noi concessi
e tra mille del cielo altri favori,
noi de le cose ancor co’ prezzi stessi
cangiando siam compranti e venditori,
che non ha ’l re col proprio volto impressi
ad uso universal gli argenti e gli ori,
stimoli d’avarizia; oh noi beati
se fan gli anni avvenir come gli andati!

141Finor duo regni han nome: uno appellato
Brasil è per Brasil, mio genitore,
Messico l’altro per colui cui dato
fu per pregio d’ingegno eccelso onore.
Non l’isole dirò di questo lato,
né pur quell’altre ove il dì cade e more,
chiare tra noi ben queste, ma di quelle
sol qualche fama a noi recò Magelle.

142Questo di stelle già povero e vòto,
questo polo assai nocque a nostre antenne,
signor, ma lito alcun non fiane ignoto
or che per polo abbiam l’auree tue penne -.
Così parlava, e poi lo sguardo immoto
a riguardar nostre ale in alto tenne,
il dì cadeva, et esse a poco a poco
quasi lume apparean d’incerto foco.

143Ma dissi io tra mio cor: “Anco altra terra
da scoprirsi riman, qual costui dice,
e sì vasto in giro si disserra
il gran padre ocean, creder ciò lice.
Oh come apre qua giù le cose e serra
l’onnipotente destra creatrice,
svela qua giù l’opre create, e l’opre
create ella qua giù nasconde e copre.

144Quelle non san queste isole, et un mondo
è nascosto ad un mondo, et uom si duole
che sua fama col ciel non gira a tondo
e mandarla su ’l cielo agogna e vole”.
Io ciò tra me, finché dal mar profondo
sorse, e i novelli rai seminò il sole,
e pur vedeano ancor sol cielo e mare
quanto il guardo potean gli occhi allungare.

145Ma con fronte tra mesta e tra serena
parole anco Perù formò non liete:
– L’onde che ne portar vèr l’empia iena,
l’onde – diss’egli – orrende, irrequiete
ne torser sì ch’a forza il ciel ne mena
non lunge omai da la crudel Magnete,
tal è il nome del mostro che ’n sua fame
have di ferrei cibi innante fame.

146Talché convien ch’alcun preceda e spie
e che gli sguardi suoi sian duci e scorte,
se ’l comandi, io ’l farò, nulla è le mie
navi arrischiar, sol ch’a voi scampo io porte -.
Lodai le voci generose e pie,
ma dicevan gli eroi: – Sceglia al sorte,
la sorte elegga e non uman consiglio
chi debba andar a così stran periglio -.

147Gittaro i dadi, et al tuo prence avvenne
punto propizio, o mia gentil Salerno,
et ei troncò gli indugi, alzò l’antenne
e prender parve il sì gran rischio a scherno.
Ma tetro noviletto a cinger venne
di sua visiera d’or l’orlo superno,
annunzio di sua morte, e Perù intanto
il consigliava, e mal frenava il pianto.

148Correa Sanseverin (così fu detto
quel prence) a vele aperte e d’aura piene,
e ’n tre navi ’l seguia stuolo ch’eletto
lungo i bei liti fu de le sirene.
Ma noi ne’ minor lini Eolo ristretto
avemmo, acciocché lenti esso ne mene,
e lenti andando seguivam remoti
le precedenti gabbie in dritti moti.

149Quattro dì nulla occorse, ma nel quinto
i legni precursori ecco disfarsi,
ivi ogni lin ch’era a l’antenne avvinto
caduto, ecco su ’l mar gli arbori sparsi,
Perù con volto di pietà dipinto
in marmo per timor parve cangiarsi,
et – A l’empia Magnete ohimè vicini
siam – pur gridava -, ecco schiodati i pini -.

150Io subbiti consigli allor non presi,
ma provido vi fui, quanto animoso,
che già deposto aveva i ferrei arnesi
e di ceto vestia cuoio squamoso.
Sopra una barca a ratto piè discesi
e strinsi con due man cerro nodoso,
et a la barca pria fatto avea porre
chiodi di legno, e quei di ferro tòrre.

151Su tal battel sei remator veloci
portanmi a quelle orribili ruine,
de le tre navi a le sventure atroci
che farian pie le ciglia saracine.
Traea Magnete entro sue strane foci
gli interni chiodi ancor da le carine,
armati i guerrieri vivi ahi divorava,
e morti e inermi ahi poi lor vomitava.

152Gittano oh quanti l’armi in lor salute,
ch’a salvarsi non è ch’altro lor vaglia,
et allor qual de l’ambra la virtute
le fila trae de la minuta paglia,
tale quivi tirarsi eran vedute
le piastre sparte e la gittata maglia,
impedian qui meschini anco le travi
de le medesmo lor schiodate navi.

153Corpo immenso è Magnete, e in giuso e in alto
ha braccia senza fin, bocche infinite,
e son sue bocche adamantino smalto
e le sue bocche son sue man, sue dite.
Digiuna, non curava il nostro assalto
finch’ella tutte l’arme ebbe inghiottite,
ma poi mosse vèr me, come da stella
maligna in aspro mar sciolta procella.

154Rotò sue braccia tante il mostro insano
e me e la barca e i vogatori avvinse,
et a gran salti in su l’ondoso piano
vèr l’armata noi trasse e sé sospinse.
Scudi, elmi e spade col poter suo strano
indi tolse, et un ghiaccio il cor mi strinse,
allor – Maria – chiamai gridando -, accogli
mie voci, eccelsa in su gli empirei sogli.

155Scampo n’impetra a cotant’uopo, o fonte
d’inesausta pietà; tu sai già quante
marmi sculpita la tua diva fronte
d’altro mondo io lasciai ne’ templi santi -.
Fur per tal priego salutari e pronte
a me sue grazie, e vidi i suoi sembianti,
quali nel mar di Spagna anco al mio ciglio
si disvelaro in non minor periglio.

156Ma lungo l’ocean, quasi baleno
ella volava allor con fulgid’ale,
e tenea su la man presso al suo seno
picciolo il Dio grandissimo immortale.
Poi, qual stella che fugge in ciel sereno,
ben s’incentrò ne l’orizzonte australe,
e momentanea, io non so come, sciolse
i nodi, onde il crudel mostro m’avvolse,

157oh meraviglia, e diede anco a mia clava
virtù d’alta virtute in quel momento.
Ma cento Briarei già rassembrava
in me con le sue mani il reo portento,
e vibrando la mazza io n’avventava
procelle d’ammirabile sgomento.
Or tu, sovrano Augusto, odi maggiori
di somma meraviglia alti stupori.

158Fischiava il cerro, et al suo fischio io scersi
tremar Magnete, e scoglio alpestre farsi,
qual se tra quel fischiar, duri a vedersi,
gli aspi de la Gorgon fossero apparsi.
Restaro intorno ad essa i mar cospersi
e sol da’ fianchi in suso or può mirarsi,
pur non lasciò, benché di sensi priva,
la sì del ferro sua fame nativa.

159Ma quei natanti ancor pochi guerrieri
io raccolsi, et al duol fine non posi.
Essangue era il lor duce, et a quai fieri
flutti tolto l’aveano essi pietosi?
Sacre lugubri spoglie il buon Gualtieri
in su ’l petto affibbiossi, e noi dogliosi
d’armi vestimmo il morto, e dentro aurato
drappo a lugubre fine ei fu serrato.

160Tosto ch’entro tal velo egli fu messo,
gli fu nel tergo un grave sasso avvinto,
poi con le fronti non rivolte in esso
da le più antiche mani in mar fu spinto.
Or l’ocean gli è tomba, e là da presso
gira il celeste altar di stelle cinto,
anzi il cielo ivi a lui tempio è rotante
s’ogni notte gli adduce altar stellante.

161Ma l’antartico eroe, da poi che vide
spenti i duo sì voraci orridi mostri,
sì come un ciel che si rischiara e ride
ne l’egra fronte sua fu che si mostri,
e verso me gridava: – O novo Alcide,
di belve domator ne’ liti nostri,
o schermo de gli Antipodi e salute,
che così lor sventure in gioia mute,

162presumo anco sperar ch’anco porrai
la morte di Toon tra i vanti tuoi,
e per necessitate a lui ten vai,
verso tal clima in mar son gli antri suoi.
Ei sotto l’Equator stassi e dovrai
trapassar l’Equator se pur non vuoi
torcer tua vi, ma se di là venisti
io non so tra ’l venir come il fuggisti -.

163- Dio, Dio – risposi lui – sì strani e vasti
mostri estinse, et è sua tanta vittoria,
ma poiché hai detto ov’è Toone, basti
fin qui ’l tuo corso, o de’ tuoi pregio;
torna al gran zio, troppo per noi girasti,
torna e porta di noi teco memoria -.
E quei: – No no, tornin le vele mie,
qui sanno i miei nocchier tutte le vie.

164Io seguir bramo il tuo vessillo altero
et altro anco m’invoglia alto desio,
ch’è d’adorar la sede alta di Piero
e l’alta tomba del Figliuol di Dio;
anzi, se fama a noi predice il vero,
destinato è su ’l Ciel tal venir mio,
fama è che detto fia Perù il mio regno,
da me passato in altro mondo in pegno -.

165Non contradissi, et indi a l’infiammata
zona tornammo, e Capricorno n’arse,
Capricorno, ch’è qui stella gelata
e per lui può quel mondo incendio farse.
Poi di dì in dì la machina stellata
noi vedevamo in dietro a noi piegarse,
finch’al cerchio tornai ch’equali libra
le notti e i giorni in Ariete e ’n Libra.

166Correa per dritto allor su nostre teste
ivi il pianeta che distingue l’ore,
e i corpi non fean ombre e intera veste
era a le cose il sol col suo splendore,
ma reo contagio e repentina peste
uscia da’ cibi entro un malvagio odore,
cedea la fame al lezzo, e ’l lezzo ingrato
corrompeva i suoi sensi a l’odorato.

167Io rivolto a Perù – Figlio – dicea -,
or posso dirti, or già compreso io l’aggio,
perché tal qualità fetida e rea
qui non sentii quando ci fei passaggio:
io poche et aride esce allora avea
cui far non può tal pestilenza oltraggio,
ma dove, ove il portento orrido e diro
di cui provo gli effetti e cui non miro? -.

168- Celata dentro il mar – Perù risponde
– stassi la belva infettatrice e fella,
di fuor n’offende, e celasi entro l’onde
circolarmente in questa parte e ’n quella.
Tal non veduta i toschi suoi diffonde
e noce in campo aperto e s’appiatt’ella,
ma credo, o re, ch’al tuo valor sovrano,
mercé del Ciel, l’empia s’asconde in vano -.

169Ei tacque, et io restai grave et incerto,
ma il saggio di Fenicia allor mi disse:
– Tenta, o signor, tra questo mal qui certo
anco mete d’onor lasciar qui fisse.
Gitta in mar d’esche infette amo coverto
perché in esse Toon la gola affisse,
e l’esche da lui guaste or traggan lui
a morte, e sian cagion di vita altrui.

170Ogn’altro cibo livido e corrotto
spargi anco in mar, perché nessun n’assaggi,
ch’a noi tutti il maiz resta incorrotto,
talché compir potrem nostri viaggi -.
Io de le vele il volo ebbi interrotto
per tai voci, e lodai sì detti saggi,
fermai l’armata, e di cigniale tolsi
carne, e di cervo, et amo ampio n’avvolsi.

171E ’l traboccai ne l’acque, e tosto absorto
fu da l’orrendo e fetido Toone,
egli muggì, né tanto o quanto scorto
sembrò là giù nube ch’avvampi e tuone.
Tirava un capo del gran fune attorto
io de la prora in su l’estremo sprone,
tratto l’altro con l’amo era da l’empio
mostro, non vista in quel mortal suo scempio.

172Già di qua, già di là svolse mia nave
e me con essa, e non cangiò mai loco,
né so come in caverne umide e cave
tonasse, o come ivi accendesse il foco.
Immobil poi rimase, e cupo e grave
strido pria diede, formidabil, roco,
e traboccò di sangue un negro fiume
che negre fe’ del mar l’onde e le spume.

173Così Toon fu morto, e i morti suoi
membri restàr sott’acqua, immobil peso,
e ’l suo fetor non più ne nocque poi
se non se quanto il senso indi era offeso.
Quei cibi dentro il mar gittammo noi
in cui ’l fiato crudel rimase appreso,
spiegate eran le vele, alfin le nari
nulla sentian, salvo l’odor de’ mari.

Quindi è giunto in Groenlandia, quindi in Inghilterra (173-180)

174Ma lungo esso il medesmo arso orizzonte
in mezzo de le stesse onde marine,
alabastrino scoglio erge la fronte
e d’ambo gli emisferi alto è confine.
Con antartiche e greche in questo monte
gran lettre, e con gran lettre anco latine,
scrissi quanto in quell’infimo oceano
per mezzo nostro oprò l’eterna mano.

175Tali memorie in vece di trofei
io sotto il grande arso Equator lasciai,
et a Cancro di là poscia co’ miei
legni, e da Cancro a’ miglior ciel tornai.
Rividi Calpe, ma da fieri e rei
Austri fui spinto, e verso il polo andai,
giunsi sotto Boote, et ebbi a tergo
Gorlandia, d’aspri ghiacci eterno albergo.

176Sei mesi aggiorna ivi e sei mesi è notte,
e gira il sole a l’orizzonte intorno,
e tra procelle mai non interrotte
errai sei lune intere in sì gran giorno.
Tile m’accolse alfin, dove entro grotte
notturno e lungo han gli uomini soggiorno,
il dì cadeva, e vidi congelarsi
i mari, e più che dur marmo indurarsi.

177Orrido giel miei legni avvinti tenne
in quest’isola altissima polare,
e vi trovai molte olandesi antenne
altre venianvi, anzi parean volare.
Ma ’l fiero ghiaccio il lor venir prevenne
e legò prore e poppe in mezzo al mare,
pur i nocchier su l’agghiacciato flutto
snelli veniano al porto e col piè asciutto.

178Poi tutti a me porgean splendidi doni
e i doni e più gli affetti io ben gradia,
e largo era con tutti e di sermoni
varia vicenda indi tra noi seguia.
Fu chi disse aver visto in regioni
fiorite ognor ciò che non credea pria,
i Pigmei sì minuti, in cui natura
cotanto impicciolì nostra figura.

179Forse già non han mente, e forse l’hanno,
benché in corpi sì piccioli, costoro,
se providi et armati a predar vanno
i nidi de le gru, nemiche loro.
Ma poco men dopo quasi mezz’anno
basso girava il dì su ’l carro d’oro,
e stempravansi i ghiacci, e noi partendo
in che mare entravam freddo et orrendo?

180Lungo questo ocean rotto e gelato
da turbini fui scosso aspri e frementi,
finché a me diede entro un bel velo aurato
alto messo del Ciel rinchiusi i venti.
Poi, comandando a l’aure, io rivarcato
ebbi il divieto de l’umane genti,
quello d’Alcide, che sol santo legno
varcabil resi, innavigabil segno».

Fine del discorso di Tancredi e pranzo (181-182)

181Qui tacque alfin Tancredi, e i Greci in sassi
per quanto ei detto avea parean conversi.
Sorsero tutti, e tenea chini e bassi
di stupor lungo i volti lor cospersi.
S’inchinaro al gran tempio, e gravi i passi
poi verso il solio augusto ebber conversi,
e ’l patriarca per cesareo invito
con lor, cui dubio alto, attendea convito.

182Vinse quel prandio la passata cena
quanto più con chiarezza arte poteo,
farsi l’ambrosia per l’uom l’esca terrena
parve, e cangiarsi in nettare Lieo.
Di canto soprauman l’aria fu piena
e trattò cetra d’or più d’un Orfeo,
ma s’avvolgea in gran pensier profondo
il greco augusto, correttor del mondo.