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Il Tancredi

di Ascanio Grandi

Canto XII

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 27.09.15 10:56

ARGOMENTO
Tancredi ad opre pie dona molt’ori
e la mazza d’Alcide egli have in dono,
e del suo sangue alti futuri onori
e di quel d’Amedeo preditti sono.
Vari giuochi, e vi son d’Eusen gli amori,
fassi per lo traslato augusteo trono.
Ma giunge in Colco e del gran zio il riscatto
distorna il sommo duce, e rompe il patto.

A Bisanzio i Normanni incontrano Amedeo, che si aggrega alla spedizione (1-13)

1Indi, tolte le mense, ancor pensoso
stava pur tra quei grandi il re de’ regi,
e volgea gli occhi suoi verso un famoso
sovrano peregrin di sommi pregi,
verso il prence Amedeo, che generoso
orina il Piemonte, e vince i vanti regi,
et a Tancredi ei col girar del ciglio
mostrollo, e disse: «O di Ruggier gran figlio,

2questi, al cui sangue come al tuo già il fato
diede in guardia l’Italia altera e bella,
qui vien da Roma, altissimo legato,
per offesa io punir barbara e fella,
e mandar guerra in Colco, officio grato
di Pietro al successor, ch’a ciò m’appella,
e che non vuol né sa porre in oblio
quanto fu il gran Guiscardo invitto e pio.

3Ei sa che di tant’uom l’alta virtute
pur dianzi al Vatican diè libertade,
e ch’or il costui figlio è in servitute,
scorno sì grave a le cristiane spade.
A tal proposta ebbi io le labra mute
e mi punse vergogna, ira e pietade;
poi risposi co’ fatti, e ’n tutti i miei
regni sonar trombe di Marte io fei.

4Sonano ancor tai trombe, e varie schiere,
per farne campo, adunan frettolose,
e cadon lungo i monti e le riviere
per navi fabricar le selve annose,
e del novello esecito, ch’intere
non ha sue parti ancor né poderose,
per scioglier Boemondo io fei sovrano
duce un tanto baron, nunzio romano.

5Di te nullo era aviso, or poiché giungi
con tanta inopinata a noi vittoria,
te duce a questo duce or qui congiunge,
e sia d’entrambi unita in ciò la gloria.
Ite uniti a l’impresa, e lui tu pungi
de l’opre tue con l’immortal memoria,
et ei con sue prodezze a te sia sprone
in non più inteso et emol paragone».

6Tancredi rispondea: «Quai fian di Cristo
al vicario et a te grazie ch’io renda?
Non gli oblighi sciorrò se sarò visto
sparger la vita ove a servirvi imprenda,
et il tuo campo al mio commisto
fia, ch’anco in grado e che ’l compagno io prenda,
ma loderei, se ’l lodi tu, ch’un tale
duce sen vada incontro il clima australe.

7A soggiogar l’Egitto, il quale unito
or è co’ Turchi in lega, et io correndo
in Asia e questi in vèr l’egizio lito
fia nostro assalto a’ barbari più orrendo,
e ’l palestino acquisto stabilito
sarà, tu ’l chiaro Egitto a Dio rendendo,
che mal fia sua la sua città sacrata
senza in Memfi esser pia sede fondata.

8Io per ragion di guerra or ben m’avveggio
che quando libertà diemmo a Soria
convenne anco del Cairo il regal seggio
sommettera a cristiana monarchia.
Il solio di Sion cader preveggio
ove infedele il re nilico sia,
e ’l vede ognun ch’a’ regni d’occidente
lontani e al Nilo vicin unqua pon mente.

9Che se vicin sei tu, non sempre amore
tra i Greci e i re latini arde e sfavilla».
Parve in tal voce al greco imperadore
sentenza udir d’Apollo e di Sibilla,
e tosto cangiò voglie, e scritto il core
mostrò in sua fronte più che mai tranquilla.
Allor quei duo stringendosi le palme
unian le guancie sì, ma via più l’alme.

10Disse Tancredi: «Et a passar l’Eusino
per amor nostro or anco t’apprestavi,
e da Roma venisti? o pellegrino
germe di gloriosi et antich’avi!
Tu, prima gloria del valor latino,
con somma cortesia nostr’alme aggravi».
Replica l’altro: «E chi non nega a Boemondo
il primo italo onor? chi a te il secondo?

11Egli fondò ne l’Asia illustre impero
e d’Italia avvivò la gloria estinta,
tu l’emolasti, e tu sotto emisfero
poi gisti ove mai nave non fu spinta.
Pregio è mio se romano io messaggiero
venni con voglia a pro d’entrambi accinta,
e più s’io andava in Colco, o pregio, o prole
d’avi di cui maggior non vide il sole».

12Ma Cesar si frammette, et ambo abbraccia,
e dice: «Eccelsa paritate è in voi,
e così scior quel grande al Ciel già piaccia
come egli è il fior de’ più famosi eroi,
e come non sarà che mai si taccia
l’equalità tra i vostri e i merti suoi,
mentite in umiliarvi e la mentita
è somma cortesia ch’a virtù incita.

13Io re’ dei cristiani e non bram’io
altri tre duci d’eccellenza equale,
ma libertade a l’un de’ tr desio
e lunga a tutti e tre la vita frale.
un solo ovile, un sol pastore a Dio
voi far potrete, e per voi batter l’ale,
l’Aquila mia può in ogni parte», e fisse
paterni baci in ambo, e più non disse.

Il Patriarca profetizza a Tancredi ed Amedeo una felice discendenza (14-21)

14Ma ’l patriarca, il qual tra’ regi allora
era pur quivi, e che con l’ali interne
il futuro a veder s’erge talora,
folgoreggiò ne le sembianze esterne.
S’empìo di nume, e di se stesso fuora
sorvolò ratto le magio superne;
trasse a gli occhi altrui, poscia, col suo
profetico sermon disse a quei duo:

15«Udite, incliti eroi, ciò che a me ditta
celeste voce, e ciò ch’io miro, oh quali
d’ambi due voi la stirpe alta et invitta
a gli scettri darà pregi immortali!
Oh quanta a voi progenie, oh quai prescritta
serie è di cose in vostri eccelsi annali!
Odi tu pria, Tancredi: un tuo Ruggiero
già fonda a i re normanni illustre impero.

16Etna, Peloro, Lilibeo, Pachino
ubbidiranno a quel Ruggiero, e quanto
paese è tra i duo mari e l’Appennino,
dal Liri a l’alte rocche di Falanto;
ma, come Dio dispone in suo destino,
fine essi avran, da poi che il regio ammanto
fia che di Lecce ad un gran conte passi,
che pur fia stirpe lor, tuo nome avrassi.

17Gran donna poi, già sangue lor pur anco,
produce i re svevi al regno stesso,
né tal regno unqua fia per venir manco
pur trapassando per femineo sesso,
et Austria e Roma e ’l mondo ibero e ’l franco
molta e varia faran guerra per esso,
e de l’alta cittate al Ciel diletta
anco a i re di quel regno il regno aspetta.

18Ma tua progenie, or tu Amedeo m’ascolta,
orba non fia mai di viril famiglia,
finché la notte a l’ucid’indi tolta
da l’aurora sarà bianca e vermiglia,
e finché da le nubi iride accolta
spiegherà de’ color la meraviglia,
né dissimile a sé prole daranno
de’ figli i figli, e chi da quei verranno.

19Tra Emanueli e Filiberti il chiaro
tuo nome girerà novo et antico,
la scettro loro a’ popoli fia caro,
l’impero loro a la virtù fia amico.
Prezzeran più che l’auro essi l’acciaro,
l’acciaro marzial d’ozi nemico,,
più che regi per gli avi alti paterni
fiano, e fian sommi re gli avi materni.

20Ma quanto in arme un Carlo dopo cento
lustri? e quai trofei? quai suoi disegni?
Costui di Marte a l’inclito ardimento
porrà su l’Alpi sue gli ultimi segni,
avviverà il valor che già fia spento,
a glorie spronerà gli itali ingegni.
Genero il veggo del maggior monarca,
veggo altri stami d’or, veggo altra Parca.

21Veggio i figli di lui mirabilmente
accrescer suo splendor, ch’è sì sovrano,
duce altri in terra, altri su ’l mar fremente,
altri speme et onor del Vaticano».
Non più il santo uomo, e resta con la mente
sopra l’empireo ciel da sé lontano,
il corpo alto da terra, immote et erte
ambe le luci, ambe le braccia aperte.

Tancredi fa ricchi doni ad Augusto, riceve la clava di Ercole (22-26)

22Ma che fe’ de le tante egizie prede
Tancredi? et a qual uso ei le converse?
Già la metate a’ suoi guerrier ne diede,
e ’n voto a Dio l’altra metate offerse.
A suo pro nulla prese (oh chi me ’l crede?),
scarso in se stesso sol tanto si scerse,
pur in sì bel rifiuto ei fe’ maggiore
la sua gloria, il suo grido, il suo splendore.

23Quale la parte ch’a Dio offerse? Questa
fu gemme e fu ’l metal che più s’apprezza.
Ad Augusto or la lascia, Augusto resta
attonito in guardar tanta ricchezza,
et ei gli fa pietosa in ciò richiesta
(ma pria del voto suo gli diè contezza):
chiede che tal tesoro in ogni etate
rimanga per ministro a la pietate.

24Soggiunge poi: «Libero il tuo volere
questi tesori ad usi pii dispensi,
signor, ma bramerei, se pur sapere
brami in qual parte il mio voler più attiensi,
che captivi cristiani a dure e fiere
catene ne sian tolti e, qual conviensi,
che templi erti ne sian, che in sacre celle
n’abbian sostegno e vedove e donzelle».

25Tacque, e poscia donolli aurea e gemmata
la corona di Sur, che seco avea,
opra di fabri antartici e mirata
strana a gli occhi de’ Greci ella parea.
Di barbarici raggi tempestata
sembrava oriental vampa febea.
Lieto Augusto ne fu, ma don più altero
diede per essa al donator primiero.

26Gli diè la mazza del teban famoso,
quella onde ancisi fur mostri e tiranni,
vetustissimo legno, ma non roso
dal tempo per miracolo in tant’anni.
oggi ella è polve, e non v’è generoso
Ercole che soffrisca illustri affanni,
et ora l’idre, ora i nemei leoni,
ora gli Antei nel mondo e i Gerioni.

Augusto indice dei giochi, il sesto giorno i cavalieri si presentano: descrizione di una drappo e delle insegne araldiche (27-63,2)

27Alfin Tancredi al dipartir licenza
chiedea, ma disse a lui quel sommo sire:
«Prego, o duce sovran, che tua partenza
per qualche dì vogli anco differire.
Fresche le piaghe in tuoi guerrier, né senza
lor rischio a te saria sì ratto gire,
tu intanto di tua vista gli occhi miei
sazia, no ’l cor, ch’ivi scolpito sei.

28E se nel sesto dì non tenebrosi
i lampi del matin faran ritorno,
sì che le valli e i monti e i mari ondosi
lieto disserri a noi Febo in quel giorno,
allor celebreremo i gloriosi
cesarei giuochi, e fia vario et adorno
d’essi ogni aringo, e variati onori
avranno insieme i vinti e i vincitori.

29Fian misti i nostri duci, e i duci tuoi,
fia gli uni e gli altri a ciascun giuoco accinti,
tutti verran su ricco arcion, ma poi
che lor la sorte avrà scelti e distinti,
n’andran gli scelti ove ciascuno i suoi
arnesi cangierà schietti o dipinti,
indi, l’un dopo l’altro in vario loco,
il suo proprio teatro avrà ogni giuoco.

30Nel primo giuoco, e quattro i giuochi fieno,
retti sol per lo crine e senza sella
destrieri in erma rupe e senza freno
con pianta a gara andran rapida e snella;
ne l’altro i giuocator da teso e pieno
arco ad un segno avventerà quadrella;
nel terzo in chiuso agone incontro atroci
tauri contese fian dure e feroci.

31L’ultimo i carri avrà, quai già li vide
Pisa in contrasto ne l’antica etate,
lungo i suoi campi, ove il famoso Alcide
fatiche instituì tanto onorate.
E dopo i giuochi ancor, sotto due guide,
guerre finte faran due squadre armate,
e fian tai squadre i giuocatori e quanti
concorrerai ne’ giuochi eroi prestanti.

32In memoria del tron ch’a Roma tolto,
erto fu qui, tai giuochi qui si fanno
sempre che cinque volte in sé rivolto
le sue vestigie ha ricalcate l’anno».
Così quel sommo, e lui poco né molto
non contradisse il principe normanno,
ma l’alba sesta ch’attendevan pura
i traci eroi correa torbida e scura.

33Su ’l carro de la luce usciva fuore
da l’orizzonte il grand’auriga eterno,
e sorto era dal mar molto vapore
che poi converso in nebbia al dì fea schermo,
e toglieva a le cose ogni colore
quasi atra notte in iperboreo verno,
ombre d’umidità diffuse et ebre
per tutto, e senza fin dense tenebre.

34Disse Augusto a Tancredi: «E che non slacci
contro tal nebbia omai Borea stridente
tu, verace Eolo tu, che sotto lacci
tieni l’aure del ciel veracemente?
Rendi sua gloria a questo dì, tu allacci
con varie cortesie la greca gente,
su su, fallo per Dio, che Dio s’onora,
figlio tu ’l vedi, in tai membranze ancora».

35Non più quel grande, e ’l buon Tancredi sciolse
dal velo d’or l’indomito Aquilone.
Ratto l’aere a purgar Borea si volse,
pria rischiarando il suo settentrione,
e ’l grave umido impaccio al mondo tolse
e rise a’ novi rai Teti e Giunone;
stupio Bizanzio, e più dìun greco disse:
«Ceda l’itaco nostro a questo Ulisse».

36Eolo a colui concesse indarno i venti,
ma non in vano il Ciel dielli a costui,
e tra questo sermon gli occhi e le menti
di novello stupor s’empian per lui.
Ma già cortine seriche cadenti
svelan la sacra pittura a’ guardi altrui,
eravi Roma, et a versar costretti
lor sangue a fiero bagno i pargoletti.

37Di tal sangue dovea lavacro farsi
Costantin per la lebra ond’era oppresso,
ma pio di mille madri a’ pianti sparsi
l’empio decreto rivocava anch’esso.
Il Ciel tutto a pietate disserrarsi
parea per tal pietà nel punto stesso,
et a costui grazia superna et alma
medicina era insieme al corpo, a l’alma.

38Però che, d’alto sonno a lui gravato,
già compariva il primo uscier celeste,
et acqua gli insegnava onde lavato
s’ei fosse n’avverria che sano ei reste.
Silvestro a tanto officio indi chiamato
papale a sé vestia ma rozza veste,
e ’n lui guaria, mercé de le sacr’onde,
lo spirto sì come le membra immonde.

39La sanità di fuor ben chiaro segno
era de l’immortal salute intera,
quinci il popol latin con santo sdegno
esser falsi i suoi dèi parea che scerna,
e per acquisto di quel santo regno
ove in Dio l’alma vive e in Dio s’interna,
chiedea battesmo e largo a la sua fronte
il Tebro divenia mistico fonte.

40Tosto era poi l’idolatria sbandita
e gli idoli tacean bugiardi et empi,
e in Roma, già nel ver non più schernita,
dava il cristiano Augusto eccelsi essempi.
Ei sculta in marmi e ’n tele colorita
ergea l’imago entro veraci tempi,
di Cristo ergea l’imago e di Maria,
ahi l’una e l’altra ahi troppo ascosa in pria.

41Silvestro allor con manto aureo e fulgente
vedeasi, e con tre cerchi in su la chioma,
e quello Augusto in atto riverente
a lui cedeva i sette colli e Roma.
Facevansi e vessillo alto e possente
l’abbiette chiavi, e n’apparea qual soma
diè Cristo a Pietro, e ’l collocò in qual reggia
quando egli disse a lui: – Pasci mia greggia -.

42Trasportavasi eccelsa e gloriosa
poscia in Bizanzio la cesarea sede,
e più degna parea, più generosa
col novo onor de la verace fede.
Già per così magnanima e pietosa
memoria tal pittura or qui si vede,
et i giuochi previen, che son per questa
memoria altera memorabil festa.

43Muse del Ciel, se fra’ celesti è grato
di Costantino il così eccelso dono,
e se ’l zelo gradiste onde traslato
già fu da lui l’imperial suo trono,
a questi versi eterno suon sia dato
in cui tai rimembranze espresse sono,
fate in ciò begli anco i leccesi allori
et in ciò la mia Lecce anco s’onori.

44Fuor di Bizanzio le future scene
scorge anzi varie e sole in varia parte,
e le piagge la plebe avea già piene
e i degni spettator tutti in disparte,
e scevre quelle donne in cui s’attiene
nobiltà, ch’alterezza a i cor comparte.
Poi ricchi in sella e ’n armi risplendenti
venian de’ quattro giuochi i concorrenti.

45Scelto è per lor maestro generoso
principe ambasciador del Vaticano,
e giudici saran d’ogni dubbioso
caso Tancredi e ’l regnator sovrano.
Colui sopra un destrier grande e pomposo,
questi in gran palco, e quivi un prence in mano
tenea grand’elmo, in cui benigna e ria
chiusa la sorte i nomi altrui sortia.

46Questa elesse a sferzar cavai sfrenati
Pirro e Dirceo et Afron, Pirro che splende
per valor militare e ch’i gelati
domò paesi ove il sol poco ascende,
Dirceo, che spirti alteramente innat
have dal chiaro Alcide ond’ei discende,
Afron, che de l’armata empia d’Egitto
vinse il terzo pur dianzi et è sì invitto.

47In quattro brevi fuor de lo stess’elmo
tratti indi fur per contrastar con l’arco
l’inglese Oronzio, il belgico Guglielmo,
Linco da Creta e ’l bel corinto Assarco.
Poi contro i tauri a lo spartano Anselmo,
stirpe del re che chiuse a Serse il varco,
Idro anteposto è da fortuna, et altro
dispone Amor col suo veder sì scaltro.

48Alfin la stessa dea cieca incostante
per l’aringo de’ carri emuli feo
quattro pur grandi, e l’un fu quel che tante
spiega bandiere, siciliano Onteo,
l’altro tu, Ismar, ch’attici scettri vante,
e ’l terzo tu, splendor partenopeo,
te chiaro AMberto, e ’l quarto il bello e forte
or gloria d’Argo in fresca età, Nicorte.

49Ne’ padiglioni lor tutti n’andaro
costor che furo da la sorte eletti,
e ratto a’ vari giuochi s’apprestaro
aneli e con alteri e lieti aspetti.
Poi de le trombe preveniano il chiaro
suono, e ferza d’onor sferzava i petti,
ma quei ch’esclusi fur da ciascun giuoco
ne’ primi arnesi stan, né mutan loco.

50E biasmano il destin che restar falli
spettatori così contro lor voglie,
né discendono pur da’ lor cavalli
e mostra fan pur di lor ricche spoglie.
Stupido intanto a’ fulgidi metalli
ogn’occhio bada, e gran piacer n’accoglie,
stupisce su gli arnesi e più in quell’arme
ch’insegne son de gli avi in pace e ’n arme.

51Tronchi animali et animali interi
sono queste arme, e stelle, acque e verdure,
fior, frutti, iri, comete e magisteri
de l’arte e imaginate altre figure.
Sfavilla il tutto in artefìci alteri,
unisconsi gli intagli a le pitture,
alterissima vista, et or veraci
i color ne gli oggetti, ora mendaci.

52Eravi intento e fiso il bel Giovanni
ch’al sommo re de’ Greci unico è figlio,
et il cui senno precorreva gli anni
mentre sue guancie aprian la rosa e ’l giglio;
questi volgea de l’intelletto i vanni
in ciò pensando con immobil ciglio,
alfin si scosse, e vide oltre ei guardando
il dotto Esclapio, antico e venerando.

53Punse il destrier pomposo e là si spinse
ove stava colui grave e soletto,
alzò l’aurea visiera e sparse e tinse
d’un rossor generoso il vago aspetto,
e da’ bei labri un gentil riso scinse
pronto a crear ne’ cor pudico affetto;
poi disse: «Al tuo saper, ch’a tutti è speglio,
ricorre il mio imperfetto, o nobil veglio».

54E le staffe lasciò tra questi detti,
lieve più ch’aura, e da l’arcion discese,
e tolse al guanto i vivi avori schietti
de la mano, e la mano al saggio prese,
e così ripigliò: «Tu i vari oggetti
vedi in tanti vessilli e ’n tanto arnese?
Gli oggetti dolci al cor, dolci a le ciglie,
ch’adornano e distinguon le famiglie?

55Io sopra lor già spesse volte altrove
il mio pensier troppo ho stancato invano,
et or via più, ché lor qui spiega e move
di tutta Europa ogni baron sovrano.
In nostre insegne aureo è l’augel di Giove,
altre l’han negro, e color proprio e strano,
spesso in un corpo; ma su ciò tu vogli
parlar qual suoli e i dubbi in ciò mi togli».

56Tacque, e ’n suo volto sfavillaron gli ostri
via più che prima, e ’l vecchio: «O fresca spene,
o nova gioia de’ cesarei chiostri,
da fior d’ingegno un tal dubbiar ti viene,
ma tali invenzion più che tu mostri
d’altra difficultate anco son piene,
et a materia tal sermon non breve,
e più ch’or qui n’abbiam tempo si deve.

57Dir conviene anco e dove e in quai tempi
in pria gli scudi i cavalier segnaro,
e chi fur primi che con rari essempi
poi ne scolpiro i porfidi di Paro,
quando gli alti palazzi e i sacri tempi
con essi in Grecia e ’n val di Tebro ornaro,
et è da dir de’ dritti e de’ piegati
scudi, e perché altri lunghi, altri lunati.

58Né si deve tacer perché un lavoro
semplice adorna assai questi ornamenti,
ma breve a te parlando or io di loro
forse i desiri tuoi rendrò contenti.
Già gli eroi ch’inventori in pria ne foro
per materia ebber gli ori, ebber gli argenti,
e i color tutti fuor ch’i bianchi e i gialli,
che gialli e bianchi son tai duo metalli.

59Misticamente ancor diero al disegno
o color finto o natural colore,
e di schiettezza il color vero è segno
e d’aperto e magnanimo valore.
Ma là dove a l’incontro accorto ingegno
a mentire i color trasse il pittore,
mostra ch’impiegar volle ei cautamente
in guerra e ’n toga i pregi de la mente.

60E se il color sopra il metallo è messo
e ’l color del metallo è sostenuto,
pur aperto valor ne viene espresso,
pur di cauta virtute ivi è rifiuto;
e se ’l metallo e su ’l colore impresso
e sostegno il color farsi è veduto,
dinota ancor tal magistero egregio
esser colà l’arti d’Ulisse in pregio.

61In sì bel modo ora il metallo et ora
il color cangia sito et altro importa,
ma sopra esso il metallo alto error fora
se fosse di metal sembianza scorta,
e se sopra il color mai si colora
insegna difettosa anco si porta,
dunque il color sopra il metal si stampi,
stampa il metal s’hai di colore i campi.

62Campo s’appella quel ch’a l’arme stassi
sotto, et arme od insegna quel ch’è sopra,
pur dove l’arme e ’l campo in guisa fassi,
che pari il campo a l’arme avien si scopra.
Dubbio ivi è il campo e l’arme, ma porrassi
sottilmente pensiero al campo, a l’opra,
e se l’opera in su poggia da giuso
campo è quel che s’avanza e resta in suso.

63Ma se l’arme è tra l’uno e l’altro lato
il campo è quel ch’a destra man confina»,
né disse più, che ’n rauchi accenti il fiatoQuattro giochi e finta battaglia finale (63,3-128)
sciogliean le trombe a piè d’aspra collina,
et al giuoco primier quivi apprestato
traean le viste e fean de’ cor rapina.
Ma ’l gran fanciullo involontario e tardi
là dove guarda ogn’uom voltò suoi sguardi.

64Per ordine i tre eroi su tre veloci
destrier stan su le mosse et a gli stessi
il semideo de l’Alpi usa tai voci,
e d’onore ne fa stimolo ad essi:
«Il mondo v’è teatro, e per feroci
rischi convien ch’a gloria uomo s’appressi,
e premi degni a coi Cesar promette»,
e quei movean poiché ’l suo dir ristette.

65Ratti più che baleni in vèr l’alpestre
meta a gara sen vanno i tre baroni,
stringon per briglia i crin con le sinestre
e sol i nudi dorsi han per arcioni,
e per ferze e flagelli usan le destre,
e spronan senza spron, sol co’ talloni,
e turbini somiglian che de’ venti
i vanni dietro a sé parer fan lenti.

66Pur ne’ destrier disciolti ordine è tanto
che nulla più; son d’arte i moti pieni,
i moti di furor colmi altrettanto,
i moti regolati e senza freni.
Partenope gentil, che tiene il vanto
di far servi a le briglie i palafreni,
trattabili così sotto gli imperi
sol li mostra talor de’ cavalieri.

67Precorre Afron, ma giunti e in moto pari
Pirro e Dirceo gli van dietro le spalle,
qual duo legni talor su gli ampi mari
dietro fugace pin fanno egual calle,
mentre spiegando van contro i corsari
l’argentea croce o le purpuree palle.
Ma d’Afrone al destrier sventura avvenne
che ’l lasciò dietro a i duo, così il ritenne.

68Per natura là su selce divisa
a non capirvi il piede apria intervallo,
ma l’un de’ quattro suoi, non so in qual guisa,
imprigionovvi il precursor cavallo,
e su l’unghia rotò quasi recisa
egli ch non ponea mai l’orma in fallo,
rotò tre volte nel medesmo loco
né si svelse di là molto né poco.

69E ’l cavalier che ’l regge arte et ingegno
e forza immensa indi a sterparlo impiega,
ambe le gote per gentil disdegno
gonfia, e s’affanna e s’erge aspro e si piega,
né mica il toglie a quel crudel ritegno
che ’l piè con nodo adamantin gli lega,
a quella marmoreo impaccio ove l’avvinse
l’impeto generoso ond’ei lo spinse.

70Intanto, quasi gemina tempesta,
già gli altri duo gli son troppo vicini,
ma se ne scostano ambo, e ’n quella e ’n questa
parte s’allargan tra’ dirupi alpini,
e pur vola tal coppia eguale e presta
vèr gli alti de la meta irti confini,
alfin Dirceo s’avanza e sì trascorre
che Pirro dietro gli è, Pirro ei precorre.

71Né trapassò senza fatiche estreme,
e parve in su quel punto un ratto mare,
un ratto mar che rintuzzato freme
su la sabbia oltre cui non può varcare;
poi sembrò l’ocean ch’i campi preme
e lascia i liti in mezzo a l’onde amare,
quando a chi ’l pareggiava egli attergassi,
e là dal segno ei vincitor fermossi.

72Fu d’esso il guiderdon che su quell’erto
sian erti a sua memoria incisi marmi,
e poi Pirro ed Afron pari di merto
(non qui di sorte) ebber tesori et armi.
Ma dentro un campo d’ogni patre aperto
omai fean gli oricalchi udir lor carmi,
e su dorato arcion vi torreggiava
il prence alpino e legge al tutto dava.

73A nave egizia eccelsa antenna tolta
a l’alte nubi fer’a quivi inalzata,
e segno a’ quattro arcier, l’ali disciolta,
cornice eravi avinta e i piè legata.
Fia nobil fronda intorno al crine avolta
a chi me’ drizzerà la canna alata,
saetteran per ordine qual foro
tratti da l’elmo a sorte i nomi loro.

74Essi al rivolto segno, e ’n essi stanno
rivolti innumerabili mortali;
su el corde le cocche adattat’hanno
tutti, e sopra i lunati archi gli strali.
Ma primo in aria il cavalier britanno
a la saetta sue fe’ batter l’ali,
percosse in cima al legno ove non lente
ritorte il volator tenean pendente.

75Tremò l’antenna, e n’ebbe orror l’augello,
l’augel ch’indi gracchiar forte s’udia.
Guglielmo il fune poi preme e ’l quadrello,
le corna unendo a l’arco, e ’l dardo invia,
al fischio de lo stral rapido e snello
e che già la cornice omai ferìa,
ella voltossi, e ’l ferro in modo colse
i nodi che spezzolli e lei disciolse.

76Essa fugge tra’ nembi, e saettare
terzo doveala il semideo di Creta,
ma ’l corinzio il prevenne, e pria scoccare
fu visto, e colpir lei volante meta.
Tronca a la volatrice egli il volare,
e con fronte riman trepida e lieta,
per allegrezza in lui dolce smarrisce
la bella guancia, e dolce impallidisce.

77Linco dopo costui vibrò secondo
il pronto stral, né volto ebbe tranquillo.
Da chiaro sangue ei fu prodotto al mondo
in Candia, et a gran pregi il Ciel sortillo.
Trafigge egli l’augel, che grave pondo
fatto è per l’altro stral ch’or or ferillo,
gli passa il cor tra l’ale, e quella e questa
saetta in un sol loco affissa resta.

78Cade l’augello, et ambe i duo riporta
strali dentro una piaga quei duo arcieri,
ma tra’ duo stessi sagittari è sorta
forte contesa in su gli onor primieri.
Ragion possente il buon cretense apporta
ma il bello Assarco ha i difensori alteri,
i dolci pianti e la virtù che sembra
più leggiadra e più vaga in belle membra.

79Vive Assarco i begli anni in cui le gote
di fior bianchi e vermigli adorna il maggio,
e tra il bel duol, ch’egli frenar non puote,
grida: «E per qual cagion vinto io non aggio?
Chiaro è che ’l dardo mio primier percote
né pur io fatto a Linco ho qualche oltraggio,
che se veloce men l’arco io tendea
l’augel fuggia così ch’ei no ’l giungea».

80Ma replica il dicteo: «Tu il loco mio
usurpando ti festi perditore,
e s’attendevi ancor che vibrass’io,
dimmi, ove tu giungevi il volatore?».
Così costoro, e per costor seguio
giusta sentenza insieme e pio favore,
non fu posposto il bello Assarco et ebbe
Linco il pregio primier che gli si debbe.

81Ad Amedeo quei giudici supremi
disser che vincitori ambo ei chiamasse,
e ch’in un tempo con eguali premi
l’erculea fronda entrambi incoronasse.
Poi diersi i doni prossimi e gli estremi,
che furon gemme e preziose masse,
chi recise le funi i prossimi have,
gli ultimi chi colpì l’eretta trave.

82Entro sbarrata piazza indi era chiuso
feroce tauro, et Idro incontro valli,
il bello eroe da’ bei cubiti in giuso
nude ha le braccia, Amor in fronte stalli,
e d’ostro e di candor lume confuso
mirabil segno in su la guancia falli,
et in verde zendado i membri avolti,
qual vaghezza a veder liberi e sciolti?

83Ma non va contro il tauro, incontro cui
andar dovea, che ciò non volse Amore:
Amor con la beltà rara di lui
quivi anco avea tolto a gran donne il core,
avea dipinti i bei sembianti sui
entro i lor petti con pennel d’ardore,
ma su tutte infiammata egli n’avea,
vergine imperial, la bella Eusea.

84Dal suo tenero cor ben mille e mille
cadder diletti già, cadder dolcezze
quando essa il vide, e l’ore sue tranquille
finiro, e le sue semplici vaghezze.
Toccossi l’arso sen, ma le faville
passate eran più dentro e le bellezze,
quelle bellezze onde i suoi sensi e l’alma
ebber tempesta in lor soave calma.

85Bramò tra ’l dì la notte, e poi sue pene
crescean tra l’ombre e desiava il giorno,
e giorno e notte il suo sì amaro bene
fea contemplando a sé parer più adorno,
ma se ’l mirava avea di giel le vene,
e sentia scorrer morte al cor d’intorno,
e languiva tremando, et in tal guisa
visse quei pochi dì da sé divisa.

86Ma in questo giorno in loco alto et eletto
paurosa spettatrice ella salio,
temea scelto non fosse il suo diletto
a pugnar contro un tauro immane e rio,
e così avvenne, e le trafisse il petto
il primo grido che là su n’udio,
e restò immota e rassembrò di Paro
pietra gentil con magistero raro.

87Nel volto alabastrin vago e vermiglio
quanto l’ostro mancò crebbe il candore,
e biancheggiò via più che prima il giglio
nel seno e de le perle il bel colore;
né per lieve costei temea periglio:
oh quanto orrendo fu quel muggitore!
E stirpe era de’ tauri onde fu in Colco
il famoso Giason strano bifolco.

88Ma poiché in sé rivenne e ’n sé discorse
ebbe contro il timore occhio cerviero,
Amor le diè consiglio, Amor la scorse,
Amore le prestò scaltro pensiero:
altro finse, e partì, ma i passi tòrse
in parte ove sermon fe’ lusinghiero,
e minaccie impiegò tra quelle stesse
lusinghe, e di bell’or larghe impromesse.

89Et oprò sì che ben poi non fu posto
quel fiero tauro incontro il suo bel vago,
ma tornò, poiché ’l tutto ebbe disposto,
là donde tolse ella il suo aspetto vago,
s’assise in atto bello e non composto
e mai di nulla il guardo suo fu vago,
finché non vide entrar nel fiero agone
snello le piante il forte e bel campione.

90Di novo allor smarriva, et ei, credendo
ir contro il più reo tauro iva feroce,
e pur quest’altro è troppo aspro et orrendo
et intrattabil troppo e troppo atroce,
e tegli l’assalia, bello e tremendo,
e muta de le turbe era ogni voce,
muggia la belva e con girevol corso
scoteva il collo et inarcava il dorso.

91Treman per Idro mille cori et esso
usò o qual arte ad inasprir la fera!
Non degna egli, non degna a lei da presso
farsi, e non farla prima aspra e più fiera,
in vece d’arco il gentil braccio è stesso
a saettar con man dolce e guerriera,
e vibra lenti dardi e ’l fianco punge
del tauro, et a l’innate altr’ire aggiunge.

92Il muggitor gonfia le nari e freme
e crolla ’l capo, e contro i colpi salta,
ma colui più co’ dardi allor no ’l preme
e move e va con man provida et alta.
Eusea se ’l mira, e pur dubbiosa teme
e di novo pallor le gote smalta,
ma l’urto ei schifa, e stringe in su ’l passare
ambo le corna al tauro e ’l fa fermare,

93mirabil forza, et il raggira et anco
con somma agilità tosto l’atterra,
et indi gli divelle il corno manco,
il destro no, che ’l piega e figge in terra.
Sonori applausi il popol greco e ’l franco
scioglie, et il chiuso arringo si disserra,
e n’esce il vincitor leggiadro e forte,
e par ch’un novo giorno in fronte ei porte.

94L’altera vaga in lui gli sguardi invia
or senza tema, e più in amor s’accende,
e riede a lei la purità natia,
onde l’alba in suo volto arde e risplende.
Già qual se d’atra nube che ’l copria
esce il sole e ’l diadema aureo riprende,
da l’ombre del timor tal fe’ ritorno
il costei lume al suo primier soggiorno.

95Ogni occhio in lei si riconverte, et ella
forte arrossiva, et or piegava il viso,
or pur del ciglio l’una e l’altra stella
volgea vèr lui che tien ne l’alma inciso.
A la sua forma oltre misura bella
non mancava in quell’ora altro che ’l riso,
e gareggiar co’ suoi nativi fregi
de gli ornamenti suoi pareano i pregi.

96Duo zaffiri in sue orecchie, il cui baleno
di ceruleo color vampe dilata,
e di raggi e trapunti il lembo è pieno,
e sabea se ne scuote aura odorata.
Serpe un fil di diamanti in mezzo al seno,
scopre il ricco calzar pompa lunata,
e gli aurei crini avolti in perle e in gemme
empion di scorno l’eritree maremme.

97Nuda la mano, e pur tra la sua brina
sfavilla inda ricchezza in raro stile,
e dietro a la cervice alabastrina
fulgido il giro suo chiude il monile.
La gonna è d’ostro e d’or, talché divina
parea forma sì bella e sì gentile,
e tutti ella invaghia, salvo colui
che seco ne traea gli spirti sui.

98Il colco muggitor chiuso era in questa
entro le sbarre; ei non sa stare in loco,
e cupo mugge, e la terribil testa
crolla, e scuote le corna e vome il foco.
Anselmo l’assalia, ma non fu presta
sa mano ad irritarlo al fiero giuoco,
ben con provida fuga assalto dielli,
e de la coda gli afferrò i gran velli.

99Ei tira, et è tirato e ’n volte orrende
vane l’uom, vanne il tauro e nessun cede;
sciogliesi alfin l’uom da la belva, e stende
verso un riparo i passo, e vento è il piede;
s’appiatta sotto un carro, e quivi attende
la belva, che vi giunge, e freme e fiede,
questa del carro e quella rota scossa
sfavilla sì che par selce percossa.

100Anselmo uscinne alfin, ma più non bada
a’ vani colpi il tauro, e ’n lui s’aventa,
e mugge e fiamme spira e quegli a bada
il tiene, e vari assalti e schermi tenta.
Troppo imperversa il muggitore e strada
rapidissima s’apre e violenta,
e col corno ad Anselmo il braccio impiaga,
quei freme d’ira e scorno ha per la piaga.

101Più fero è de la fera, ei sotto il petto
abbracciò il tauro, e ’l tauro in lui s’avinse,
sta l’uno e l’altro in fiera lotta eretto,
qual farla Alcide et Acheloo si finse,
Acheloo fiume, e che taurino aspetto
prese quando il famoso Ercole il vinse.
Taccion le turbe e così intente stanno
che batter occhi e respirar non sanno.

102«Questo, «già grida ogn’uom «questo è l’immane
tauro», et Idro sel crede e se n’adira.
Anselmo accoppia forze et arti umane
contro la belva, et a vittoria aspira,
varia atti e moti, alfin le deretane
gambe batte a la fera, e sé ritira,
e lei sospinge, et ella con orrendo
crollo cade, ei i piè fiacca cadendo.

103Pur la ferocità serba e ’l muggito
onde fu atroce e formidabil tanto,
né tra le nari il foco ell’ha sopito,
benché di giuso or mal si mova alquanto.
Tal resta parte illeso e parte trito
il fier serpente ad erma rupe a canto,
se di giuso il pestò gran ferrea rota,
e fischia e tra ’l fischiar tre lingue rote.

104Ma qual rumor repente? Idro di scherno
duolsi, et al gran spartan non cede il pregio.
Fremono, e già da lor con grido alterno
chiesta è ragion per ischifar dispregio.
Nessun con gli occhi o col vedere interno
vide o spiò d’Eusea l’inganno egregio,
i giudici ascoltaro, al fin costoro
a la sorte cedean l’arbitrio loro.

105Fur posti in sorte i premi, e ’l don primiero
diè la fortuna ad Idro, e ’l dono fue
che ’l regio augel ch’insegna è de l’impero
ei fraponesse a l’alte insegne sue.
Sazio d’oro e di gemme, arnese altero
indi fu dato a le fatiche tue,
o tu che ’l tauro colchico atterrasti;
ma de’ carri seguian gli alti contrasti.

106Appo le già beate auguste mura
che de’ Cesari il seggio ebbero in seno,
quasi alta meta in mezzo a gran pianura
ampio sasso sorgea d’sprezza pieno,
senza arte umana ivi l’alzò natura,
rigido scoglio in molle e bel terreno:
intorno a questo raggirare il morso
denno i quattro carrieri emoli al corso.

107Stansi in disparte, e Stral s’appella
l’un, l’altro il Lampo, e gli altri il Veltro e ’l Vento,
ciascun quattro cavalli, e ’l regge in sella
nobile auriga ad isferzare intento.
L’asse è d’acciar, ferrea la rota e snella,
ma splendon sì ch’i rai sembran d’argento,
mirabil opra, oro è l’avanzo poi,
e su tai quattro carri i quattro eroi.

108Onte su Vento, sopra Veltro Ismaro,
su Lampo Amberto e sopra Stral Nicorte
i lochi si sortìr, poi diero il chiaro
segno le trombe con lor canne attorte.
I carri allora il carcere lasciaro
indi ferze, indi gridi usan le scorte,
et a le rote et a’ destrieri intorno
sorge nube di polve e invola il giorno.

109Rapidi van, qual rapidi son visti
gli armati pini da Venezia uscire,
i pin ch’ella non manda a indegni acquisti,
ma te, Italia, che dormi, arma a schermire.
Parvero i carri pria confusi e misti,
poi videsi Nicorte innanzi gire,
e scevrarsi da tutti, indi venia
Amberto, e con Ismar Onteo seguia.

110Vanno Ismaro et Onteo poco disgiunti,
e l’uno e l’altro or s’avanza or cede,
or d’ambo i corridor paion congiunti
fronte a fronte adeguando e piede a piede.
Stendonsi tutti innanzi i destrier punti,
da le schiere il sudor cader si vede,
stral, veltro, lampo, vento, onde già foro
nomati, or sono i carri al correr loro.

111Guarda in lor l’ampio e ’n sé inalzato
del piede si sostien su ’l maggior dito,
e più volte a l’applauso geminato
rimbomba la città, rimugge il lito.
Han de’ precursori il fumo e ’l fiato,
de’ precursori il tergo inumidito,
ora umili ora eretti, or quasi gire
sembran per l’aere, e l’aure e ’l ciel ferire.

112Era non lunge l’alta meta quando
gridò Nicorte incontro il suo cocchiero:
«Troppo a destra i destrier tu vai scostando,
i vaganti destrier premi, o Zendiero.
Quei che dietro ne van, corran vagando,
a questa rupe tu piega il sentiero».
Sì disse, ma Zendier temea quei sassi,
e de’ destrier pur n’allungava i passi.

113«Zendier, tu pur t’allarghi e t’allontani»
rigridava il baron, ma vide intanto
giunti innanzi a’ suoi primi deretani
corridori d’Amberto e tòrgli il vanto.
Si morse per dolor ambe le mani
il bel garzone, e non ritenne il pianto,
spinse di sella il carrettiero, e ’n vece
sua vi s’assise, e qualche indugio fece.

114Di trapassar costui qui nacque spene
ne’ duo ch’erano a dietro, Onteo converse
l’asse a la meta, e giù lasciò l’arene
ed a ruina aspro sentier s’aperse;
misero, ei così il carro a fiaccar venne
che tronchi e scheggie ambe le rote fèrse;
ecco senza rettore e senza gioghi
scorrere i corridori in vari luoghi.

115Saltò tra ’l collo, e ’n terra ambe le piante
Onteo già mise, e di furor s’accese;
l’eroe d’Atene allor si spinse innante
e tra questo e l’argivo il camin prese,
e de’ destrier suoi snelli la volante
gemina coppia a confortar s’intese,
e ’l vol doppiò, qual raddoppiare il suole
aquila ch’ad aeree alpi sen vole.

116passò tra i carri un rotto, uno mal retto
dal suo signor, che temonier sen fea,
e per l’umor sovran ch’ebbe diretto
vèr l’eroe di Campania e già il giungea.
Allor nacque in colui sdegno e dispetto
e la gloria membrò partenopea,
e rammentolla al suo gentile auriga,
et additolli l’emula quadriga.

117Ma l’olimpiche palme allor in mente
Ismar gridando al suo cocchier ridusse,
e ’l buon cocchiero a par del precorrente
asse ad andar suoi corridori indusse,
benché de l’avversario il carro ardente
più che turbo autunnal rapido fusse,
e già metteasi la vittoria in forse
allor ch’Amberto al Ciel tai prieghi porse:

118«Tu, che ’l gentil Sebeto in guardia tieni,
Angel, qualunque sei, deh se ti cale
di ciò, deh fa’ ch’io giunga a’ suoi terreni,
trionfi or questo carro trionfale,
orna in me gli avi miei, deh a spinger vieni
tu queste rote col vigor de l’ale,
orna il sangue aragonio, et io devoto
di marmo t’ergerò gran tempio in voto».

119Tal pregava, e dal Cielo favorite
invisibilmente le sue rote
così rotaro rapide e spedite
che per velocità parvero immote.
Applause il gran teatro, e furo udite
rimbombarne le rupi erme e remote,
il premio fu simile al premio ch’ebbe
Dirceo, ma con bell’or questo s’accrebbe.

120L’attico venne al guiderdon secondo,
l’argivo al terzo, a l’ultimo il sicano,
il sicano il cui carro inabil pondo
or giace, e tristi a piè stampa egli il piano.
Ebbe l’acheo tolte del Gange al fondo
perle, e sculti in due gemme Apollo e Giano,
diessi d’Argo al baron ricca armatura,
oro a l’inclito Onteo, ch’oro non cura.

121Ma dopo i giuochi, i vinti e i vincitori
e quei che dal giuocar scevrò la sorte,
in due schiere e su snelli corridori
regge Amedeo sotto due chiare scorte,
e fa che Marte scherzi in bei sudori,
mastro di guerre vere ei grande e forte,
serve a’ duo duci il doppio stuol d’eroi,
et ambo i duci a gli altri imperi suoi.

122L’un di questi è l’augusto e bel garzone,
e del color de l’oro è il suo cavallo,
se non ch’un bianco fiocco in su ’l tallone
have, e ’n fronte il candor mesce col giallo,
et ei vi splende su gemmato arcione
e sembra tolto al mar fresco corallo.
Ma l’altro è il forte eroe che tutte adombra
l’altrui bellezze, et or di duol s’ingombra.

123Per quella frode va tristo e doglioso
ch’a lui tolse i trofei del maggior toro;
sprona un corsier di seme generoso
nato in Britagna già da padre moro,
bianco astro in fronte, e ’l crin crespo et ondoso
a destra, e tutto è spuma il fren, ch’è d’oro.
Ma tai duo scelti duci e i lor distinti
ordini ecco a finte pugne accinti.

124Quinci e quindi essi et Amedeo in disparte
stassi, e ’l suo volto è legge a questi, a quelli;
tutta vuol de la guerra ei mostrar l’arte
in duo scherzanti e piccioli drappelli;
ei gli unisce col cenno, ei li diparte,
ei de le trombe il suon fa che gli appelli,
divide il sole, e con le fronti opposte
egli fa rimaner questa e quell’oste.

125A battaglia campale indi le spinge,
e poi la zuffa bolle in tutti i lati,
e rassembra esser ver quel che si finge,
e vedi violenze e vedi aguati,
vittorie e tregue e paci, et or costringe
necessitate a patti, or violati
sono anco i patti, e sempre novi e rari
simulacri di guerra in pugna pari.

126Quale già inestricabile compose
Dedalo il laberinto, e quali invia
il bel Meandro al mar l’acque giocose
e mille volte sé scontra tra via,
tai queste squadre son; ma l’amorose
sue pene intanto Eusea come soffria?
come or vede contrario et ora amico
al suo fratello il suo sì bel nemico?

127Invidia ella ebbe al suo germano, e quante
volte il bello idol suo con esso scerse,
tante sentiva il cor rapirsi, e tante
il seno a lei d’orrido giel s’aperse.
Bello il vedeva e finto guerreggiante
portar al suo fratel guerre diverse,
indi abbracciarlo amicamente, ahi lassa,
e dicea a sé con voce afflitta e bassa:

128- Col mio german l’eroe che ’l cor m’ha tolto
fa dolci tregue in guerre non veraci,
ma, mio mortal nemico, il suo bel volto
ben dammi assalti in disperate paci -.
Così si lagna, e ’l guardo tien rivolto
ne la bela cagion de le sue faci,
et intanto i duo stuoli avean compito
le diverse tra lor pugne mentite.

I Normanni partono, trattano con diplomazia per Boemondo (129-153)

129Ma dentro i gorghi de l’ibera Dori
Febo i destrier chiudea stanchi et aneli,
e notte che dal Gange usciva fuori
spiegava in alto gli stellanti veli,
e Lucifero poi co’ primi albori
di novo al mondo disserrava i cieli,
e i duci d’Occidente al gran viaggio
già confortava il matutino raggio.

130Alessio oro e cavalli e militari
stormenti e biade avea pria dato ad essi,
e poi discorso avea su gravi affari
Tancredi e ’l prence alpino in quei dì stessi,
come un debelli l’Asia e per quai mari,
e con quai forze al Nil l’altro s’appressi,
e s’avean tra se stessi ambo costoro
fatto cambio gentil de gli elmi loro.

131Poi come misti a’ paesani armenti
armenti peregrini errano uniti,
e de le lor sampogne a’ noti accenti
questi da quegli alfin son disuniti,
così le trombe franche alti concenti
dando, et al dipartir facendo inviti,
quivi da’ traci eroi gli eroi latini
separati ascendean su i cavi pini.

132Pur chi domò qui dianzi il colco toro
duci raccolse e popol d’armi onusto,
e s’accoppiò co’ Franchi e schietti foro
d’animo allora i Greci e ’l greco augusto.
Ma dentro la prigion del vello d’oro,
salvo il fiato che vien dal clima adusto,
taceano i venti, e già le vele l’aura
chiamava, e l’aura omai tutta era maura.

133Intanto al generoso e pio Tancredi
disse il monarca acheo: «Va’, va’ veloce
e sciogli al nobil zio gli incliti piedi,
o tu, per cui Babel trema la croce;
bacialo, o figlio, e ’n nome mio gli cedi,
e sia di scritto in vece or la mia voce,
cedigli in nome mio quante ho ragioni
sopra Antiochia, e suoi sian quei miei troni.

134La Macedonia in pace anch’ei si goda,
né seguan mai tra noi risse e contese».
Danno i Greci a tai detti applauso e loda,
con queste voci in una voce intese:
«Sì, sì, prudente un re prende et annoda
gli animi, e smorza il foco a l’ire accese,
tu d’ambe duo gli imperi in terra degno,
tu i saggi Greci tuoi vinci d’ingegno».

135Ma ’l duce occidental congedi tolse
tra risposte magnanime e partio,
l’armata dietro lui le vele sciolse
e l’aria diede stridi e ’l mar muggio.
Ma troppo a tal partenza Eusea si dolse,
e la speme mancar vide al desio,
la speme sopra cui fondò la base
de le gioie ch’Amor le persoase.

136De’ suoi dolci pensieri un fascio feo,
et a sé disse: – Od io morir convegno,
o chi rubarmi a me stessa poteo
meco sia giunto in marital ritegno -.
Tacque, ma di sì dolce alto imeneo
poca speme a sue voglie era sostegno.
Or che farà vergine amante e assai
mal consigliata e disperata omai?

137Fuggitiva seguir l’amate vele
brama, e le lunghe d’or treccie troncarse,
perch’ella il suo bel sesso occulti e cele
e d’abito viril brama ammantarse;
pur resta irresoluta, e di querele
unqua non sono le sue labra scarse,
di sospiri anco è prodiga et è pieno
sempre d’un largo pianto il suo bel seno.

138Pensa farsi stillar erbe nocive
e finir con quei succhi i suoi martiri,
pensa col ferro aprir le belle e vive
nevi del sen de’ suoi desiri,
pur no ’l consente Amor, che seco vive,
et a felicità vuol ch’ella aspiri,
e vuol ch’anco ella scriva al suo sovrano
padre i decreti del suo cor non sano.

139Fe’ lunga lettra la donzella, e forte
tremò dal crine al piè mentre che scrisse,
scrisse sua dura e miserabil sorte,
e come l’arse amor, come l’afflisse.
– A tal sposo mi giungi, o in braccio a morte
vedrai tua figlia -, alfin conchiuse e scrisse,
e con man fredda sigillò la carta
d’animosi caratteri cosparta.

140E pur non diella al suo gran genitore,
ma disegnò di dargliela in quel die
quando il bel vago suo pien d’alto onore
ritornerà da l’opre eccelse e pie.
Ripensando a lo scritto, ogni calore
fuggia dal corpo suo per mille vie,
et essa ove natura in lei divise
le mamme, a star celato il foglio mise.

141Nel canal de le limpide mammelle
la ripiegata carta ella nascose,
e spesso con sua man la strinse in elle
pur rimembrando quanto in essa espose,
e ’n quei momenti, da sue guancie belle
cadean non tocche le native rose,
e giorno e notte innanzi a gli occhi tenne
da lei lontane le normanne antenne.

142Ma quelle vele le due pietre opposte
che securo Giason varcò primiero
avean passato, e l’onde sottoposte
a rischioso colà stretto sentiero,
e dentro il vasto Eusin vèr le discoste
piagge correan del colchico emisfero,
e sempre lor seguia propizia e ratta
dal bel carcer de’ venti aura già tratta.

143Tracia a tergo, Asia a destra, e non appare
questa né quella, e l’aria è senza velo,
e termina gli sguardi il cielo e ’l mare,
e confin de la vista è il mare e ’l cielo,
e parte e torna con vicenda impare
del giorno e de la notte il caldo e ’l gielo.
Alfin di Colco comparian remote
l’alpi, quasi di fumo incerte rote.

144A tal vista tra torbido e giocondo
affetto i franchi eroi stringon le spade,
e membrando ivi avinto il gran Boemondo
stillan d’amaro pianto agre rugiade.
Fremon dogliosi, e ’l vento, ch’è secondo,
lor sembra averso a terminar le strade,
precorron col desire e già già in terra
credon l’armi trattar, finir la guerra.

145Indi scopri ansi insegne e genti armate
lungo il primo terren quasi infinite,
et eran quelle schiere che guidate
ebbe Satan, ministro empio di Dite,
e pur parte ne tien chiuse e celate
un monte steso assai sopra Amfitrite,
sopra il cui giogo in miserabil atto
di Boemondo allor feasi il riscatto.

146I primi d’Antiochia appendean l’oro
a Dasmano intrattabile in sembiante,
durissimo a vederlo, e pur costoro
con volto il sostenean saldo e costante,
et egli anco abusando il soffrir loro
la spada si scingea curva e pesante,
e n’accresceva a i pesi il grave pondo
empio et avaro, e ’l Ciel sprezzava e ’l mondo.

147«Signor, «diceano allor gli antiocheni,
«tu giungi il brando contro il patto a’ pesi,
e i giuramenti a violar ne vieni
et in te stesso irriti i Cieli offesi».
ma quel con detti di barbarie pieni
rispondea: «Patto sia quanto io non chiesi,
Dio col voler de’ vincitor s’accorda,
e l’orecchia del Cielo a’ vinti è sorda».

148Così l’iniquo, e ratto ecco spuntare
di fianco al monte antenne, arme e bandiere.
Tosto conosce l’alte insegne e chiare
et un fatale orror l’alma gli fère.
Tale teme l’orsa allor ch’ad essa appare
d’improviso il leon, re de le fere,
l’orsa ch’infelloniva in crude e felle
guise in que punto incontro armento imbelle.

149Dasman, quantunque egli il timor mal celo,
pur finge e dice: «De’ cristiani il Dio
certo a buon punto qui mena tue vele,
o buon nepote di sì eccelso zio:
fatto è il riscatto, e me chiamar crudele
in tant’anni ei non può, né ’l gran re mio;
teco anco il campo immenso che la miri
pace vuol, se di pace hai tu desiri».

150«Timor, «gli rispondeva il pio Tancredi
«timor le voci tue ditta, o Dasmano,
ma non temer, però che qui tu vedi
pregi vili sdegnante capitano.
Schermo t’è il disvantaggio, or colà riedi
tra tante squadre, e là emi mia mano,
ivi t’insegnerò, ma tu quest’oro,
altro riscatto or fia, rendi a costoro.

151Illegittimamente essi teco hanno,
sendo il lor re prigione, accordo fatto,
io lor convenzion colpo e condanno,
io del lor re sto in vece, io rompo il patto».
Così sgridava in lui l’eroe normanno
e ’l difese da’ suoi, magnanim’atto;
molti arrotavan l’arme, e impaciente
il suo figlio parea folgore ardente.

152Tornò Dasmano a l’oste immensa, e tutti
chiudea quella oste immensa i primi varchi,
parte su l’onde, e più su i campi asciutti
et in uso ponea zagaglie et archi,
e di sé facea sponde a’ salsi flutti
perché l’armata franca oltre non varchi,
e l’armata scingea le vele, e innanti
la sospingean veloci i remiganti.

153Superne Muse, or maggior tromba et arte,
or più nobil di cose ordin vi chieggio,
or tutto disserrate il ciel di Marte,
ove il gran Dio quando ei si sdegna ha seggio.
Ecco gli eroi, travolti in varia parte,
giunti, vostra mercede, in Colco io veggio,
e già ne’ versi miei per voi li mira
la bella Italia, e ’n lor sue glorie ammira.

Il poeta preannuncia propri Fasti Sacri come pegno alle Muse (154-162)

154Ma qual mio voto, e pur col favor vostro,
a voi, mie dive, io scior penso e disegno?
Inalzerovvi un tempio che d’inchiostro
magistero sarà tutto e d’ingegno;
et anco qui l’idea ne scopro e mostro
qual già molt’anni entro il pensier la tegno:
la frametto qual lampo che non lassa
di sé vestigio alcun, ma vola e passa.

155Io su la base de la fé di Piero
il tempio fonderò ch’a voi prometto,
né ’l titolo sarà senza mistero,
ch’i Sacri Fasti il titol suo fia detto,
e fian le carte che celaro il vero
e le Sibille il frontespizio eletto,
e le scole d’Aquin norma e misura
daranno a così santa architettura.

156Pur quivi tremerà lo sguardo e ’l core
ad uom che guarderà nel pavimento,
però che il caso angelico e l’orrore
vi sculpirò de l’infernal tormento,
e come l’ira eterna anco è dolore
mirabile là giù non che sgomento,
ma farò ciel del tempio il Paradiso,
bello et ardente, e ’n gemme ardenti inciso.

157Rubino le colonne e quivi impressi
splenderai de gli Apostoli i sembianti,
porrò d’elettro i nicchi, ergendo in essi
l’altre diverse e pie statue spiranti.
Saran pareti e fregi i fregi stessi,
saran lampe i piropi fiammeggianti,
e ’n avorio grandissimo fia visto
rotto da’ chiodi e da la lancia Cristo.

158Suo pulpito avrà Paolo, avrà il sì degno
cereal sacramento aureo l’altare,
e, d’empiree Sirene altero pegno,
triplicherò di cori armonie rare,
porrò le chiavi in mano e ’n fronte il regno
a lui che ’n potestate è senza pare,
e mostrerollo assiso in alta sede
qual nel gran tempio suo Roma se ’l vede.

159Irrorerò l’isopo e cristallina
darò bell’urna io del battesmo a l’acque,
darò colossi a l’immortal reina,
pingerò come e quando ella a Dio piacque,
e come dal suo grembo la divina
prole umanata ad scamparne nacque,
Le squille fian d’argento, e varieranno
gli apparati color volgendo l’anno.

160Farò trombe di pietre preziose
in cui con alto intaglierò scarpello
quelle d’ira e d’amor fiamme penose
che purgan l’alme e son sì pio flagello.
Maschi incensi arderò, merci odorose,
anch’io dentro sì eccelso e santo ostello,
giungendo a’ doni arabici e sabei
i fior de l’academie e de’ licei.

161Starà la porta in vèr l’occaso e fia
essa del sommo Sol l’alto Oriente,
e con numero impari argentea via
aprano i gradi a l’uscio aureo eminente,
per mettervi il piè destro umile e pia
con santo augurio la cristiana gente,
e ’l tempio con sì rara arte costrutto
forma di croce immensa avrà in suo tutto.

162Ma nel mezzo un gran velo effigiato
mostrerà come in sé sempre Dio fue,
e come ognor da lui vien generato
suo Figlio, eguale a le potenze sue,
mentre equalmente in fra di lor spirato
è l’amor d’ambo lor pur d’ambidue,
o menti alte del Ciel, ma voi pria l’armi
a me dittate, e date spirto a’ carmi.