ARGOMENTO
Mandansi tre di notte a un tempo stesso
esploratori, un turco e duo cristiani,
questi al turco dan morte, e più cose esso
scopre, e biasma i cristian, loda i pagani.
Donna ch’è specchio del femineo sesso
poi sovra giunge in ornamenti strani,
e scorta a tai duo fassi, e memorande
altre opre tosto fa coppia sì grande.
Selim si offre per condurre nottetempo Dronte, re di Scizia attendato poco fuori Fasi, fino alla città, chiede in cambio l’armatura di Idro quando l’avranno vinto; Nilea gli dona il suo elmo lucidissimo perché venga scoperto (1-22)
1Sente che la tende era partito
quasi uom fugace il suo sì invitto figlio,
e bench’ei ne rimanga egro e smarrito
pur mostra speme nel doglioso ciglio.
Con più guardie indi stringe il fiume e ’l lito
che d’allungar l’assedio è suo consiglio,
ma vari prima i funerali offici
diede a’ barbari morti, a’ morti amici.
2Poi manda a le marittime frontiere
e lungo il continente orribil guerra,
e fa girar per tutto arme e bandiere
e tutta empie d’orror la colca terra,
e dentro el normanne ampie trincere
diversa preda ognor si chiude e serra,
e la prudenza ostil feroce e lenta
entro lor torri i barbari sgomenta.
3Finite era quell’opre e già vestia
notte il manto suo bruno al ciel d’Atlante,
ma Dronte, che con molta oste venia,
per duro annunzio non marchiava innante:
la gran rotta de’ Turchi allora udia
ei da più d’uno fuggitivo errante,
notizia ebbe del tutto, e restò quasi
uom folle, e s’attendò di qua dal Fasi,
4Re de la Scizia è Dronte, e mosso lui
con inviti e con doni avea Dasmano.
Qual colosso egli estolle i membri sui,
feroce, formidabile, inumano.
Or mentre irato s’accampò costui,
di notte tempo a la città lontano,
di sua venuta al turco re novella
con lettera mandò volante e snella.
5Però che un fortunato e cauto arciero
a pennuto quadrel legò lo scritto,
e calcò inaccessibile sentiero
tra le rocche assediate e ’l campo invitto,
e col favor de l’aere ombroso e nero
fino al fosso mural fece tragitto,
qui scoccò l’arco, e con al canna alata
la regale vibrò carta vergata.
6Il dardo messaggier giunse ove dato
era al re turco; il re la carta lesse,
chiamò i suoi duci, e del novello e grato
aviso egli a costor la somma espresse.
Un susurrar seguì, come se ’l fiato
d’Austro e di Borea in selve o in mar fremesse;
ma vuole il re ch’uom scaltro a veder vada
qual men da l’armi franche ingombra è strada.
7E vuol che questo stesso anco sia scorta
a quei Sciti, e gli adduca in vèr le mura,
ch’egli gli attenderebbe in su la porta
er unir ambo i campi a l’ombra oscura.
Brama anco, et i suoi duci anco v’esorta,
ch’imprenda alcun di lor sì nobil cura,
ma tra’ duci è un baron cui sferza il petto
con ferza assai diversa un doppio affetto.
8Questi è Selim, ch’è d’Ottoman fratello,
ei per Nilea si strugge in cieco ardore,
ma poco osa, et ognor più bello il bello
sguardo gli sembra, e più n’infiamma il core;
né l’altra voglia ond’ha pena e flagello
gli reca pur difficultà minore:
ei desia l’arme d’Idro, e già poterle
crede, o pensier suo folle, in premio averle.
9Stima sconfitti i Franchi or ch’è da presso
con tante schiere il re de l’Aquilone,
et a condur quei stuoli offre se stesso
et a compir quanto altro il re qui impone.
Parlò superbo, audace, e così anch’esso
soggiunse allor, seguendo il suo sermone:
«O difensor de la verace e grande
fede, quai premi fian ch’oggi io dimande?
10L’armi d’Idro io vorrei; deh a me negate
non sian nel dì de la tua gran vittoria».
Di pianto il re ciglia ebbe bagnate,
e disse: «Salda ancor dunque è mia gloria.
Odi, Selim: provincie a te fian date,
non che quell’arme, e fin ad or ten gloria».
E l’abbracciò tra questo dir, ma fiera
turbossi allor del Nil l’alta guerriera.
11Turbossi, ché così costui chiedea
l’arme del suo gentil dolce diletto,
e per punirlo arte sagace e rea
il subito odio le spirò nel petto,
are di scaltre insidie, onde gli fea
pernicioso don del proprio elmetto;
splendido è questo, e noce ad uom la luce
ch’a celate e notturne opre s’induce.
12Finse addolcir lo sguardo, ond’ella infuso
gli avea ne l’alma il sì mortal veleno,
e disse: «Questo è l’elmo che per uso
mio fabricò l’incantator Zeleno,
infrangibil temprollo, or ne sia chiuso
il volto tuo, che d’alte glorie è pieno:
signor, tu ’l porta a tanta impresa», e mille
da gli occhi in questo dir versò faville.
13Tacque, ma di quell’elmo le sì spesse
fulgide vampe il re dannava intanto,
et a Selim: «Ma temo io de le stesse
tempre sì forti il folgorar cotanto:
male in quest’ora a te convengon esse,
e mai con lor vassi a notturno vanto,
et ad altr’uopo far, non al presente,
tal donna a te potrà sì bel presente».
14Grave restò la vergine d’Egitto
de’ regi detti al provido tenore,
ma ’l misero Selim ben fu trafitto
da gioia quasi a un punto e da dolore;
pur a sua lingua et a suo spirto afflitto
tal risposta dittò l’audace Amore:
«O regnator de l’Asia, e che paventi
de l’elmo di tal donna a’ rai lucenti?
15Non vedi tu quel lampeggiar divino
che dentro sua beltà star non può ascoso?
dunque perché qual fato e qual destino
non prendiam l’elmo suo sì luminoso?».
A queste voci la donzella chino
tenne il bel volto in atto disdegnoso,
ma non per tai ragioni il re s’acqueta,
e pur patre concede e parte vieta.
16«Or tu con lieto augurio «ei disse «prendi
l’almo gentil, ma i chiari rai ne vela
e fuor che sopra la visiera stendi
intorno ad esso tenebrosa tela».
Non più il tiranno, e gli amorosi incendi
troppo il turco amator discopre e svela;
ringrazia ei la sua diva, indi s’allaccia
coverto a brun quel fulgid’elmo in faccia.
17Poi dandoli il suo brando il re l’onora
et altra a sé non cangia egli armatura.
L’abbraccia il suo germano e ’l bacia e plora
quasi presago di crudel ventura.
Ma di qual fel la guancia si colora
a te, Nilea? E tu con la benda oscura
vedi in fronte a Selim l’elmo tuo altero
e fra te stessa incolpi il tuo pensiero.
18Deh no ’l dannar, deh no ’l dannar, già quanto
desiasti avverrà, sii lieta omai.
Ma Gazerse il piacer converta in pianto
e gli Sciti a suo pro non vedrà mai,
e pur armato ha il campo, e i duci a canto
cerchio gli fan sotto i notturni rai,
gli usci aperti e de’ merli in su le cime
più d’un speculator stassi sublime.
19Ma ’l turco amante omai fuor de le porte
suo ben non cape, e pur nel falso ha fede,
che l’ami la donzella altera e forte
poiché l’elmo donolli ei stima e crede:
ma ch’ella volse procacciarli morte
con quel suo dono, ahi misero, no vede.
Egli gioisce, e baldanzoso inalza
la palma aperta, e tocca e ’l cor gli balza.
20Tocca l’elmo velato, e sua vaghezza
non sazia a pieno ei desioso e folle,
e l’atra tela ne divelle e spezza
per non riporla più donde la tolle.
L’auree tempre indi palpa e di dolcezza
empie l’alma, e superbo il capo estolle,
e crede omai tener chiuso et avolto
entro piastre divine il mortal volto.
21Un refrigerio indi passò ne l’ossa,
che fu nova esca a l’amoroso foco,
et ogni tema dal suo cor fu scossa
sì ch’ei si spinse ov’ha più rischio il loco.
Già dal raggio lunar vede percossa
la terra, e non s’appiatta o molto o poco,
va senza mente, e ’l folle amor ch’è seco
di sé, ché lui conduce, il fa più cieco.
22Cinzia ch’or vario ha il viso or vario ha il corno,
e scontra varie eclisi in vario clima,
rotonda allora et emula del giorno
anch’ella co’ suoi rai gli astri copria,
e ’l bell’elmo onde va lieto et adorno
Selim alto da fronte essa feria,
e ne splendeva in modo il cocodrilo
che ben diresti: «Or egli esce dal Nilo».
Giovanni e Amberto sortiscono al contempo per controllare il campo di Dronte (23-28)
23Ma dato de gli Sciti aviso incerto
avean le sentinelle al re normanno;
disse: «Tutto il terren d’armi è coverto,
sire, e fumi e faville al ciel sen vanno.
Nova oste è giunta, et altro a te di certo
dir non sappiamo, e nulla abbiam di danno».
Amberto con gli eroi tai detti intese
e verso il duce a dir così egli prese:
24«Signor, se quando ad osservar d’Egitto
l’armata mi mandasti andai non lento,
e s’adempii l’officio a me prescritto
e fu legge il tuo cenno al mio talento,
or m’impiega pur anco, o duce invitto,
il tutto eseguirò con piè di vento,
vogliasi così in Cielo, e scompagnato
sarò lo stesso o con compagno a lato».
25Risponde il capitan: «Te troppo onora
quell’opra, e d’altro ancor degno ti face,
però vanne a buon punto, e scegli ancora
compagno, et in ciò fa quanto a te piace».
Ma su l’elezion qualche dimora
Amberto poi framette, e pensa e tace;
indi, poiché in Cosmante i guardi affisse,
precipitò i silenzi e così disse:
26«O germe diomedeo, te glorioso
già meco in simil rischio io non oblio,
né credo che rimanga or tu doglioso
s’al buon re di Sidon te pospong’io,
e s’aveva in quei tempi ei tanto annoso
l’età, che poi gli rese il sommo Dio,
tu restavi anco allor queto s’avessi
scelto io lui, dove te fra tutti elessi.
27Anzi per duce or prendo io lui che gli anni
vecchi ha deposto, e ’l senno ha ritenuto,
seco confido, e senza scorni e danni,
anco da’ regni ritornar di Pluto».
Tacque, e poi consigliarsi con Giovanni
e vestir arme turche ei fu veduto;
Turchi sembrano entrambi, ma ’l fenice
parla in più lingue, e i detti suoi ridice.
28Udir fa il suo gentil patrio idioma
e ’n lingua il cangia poi di Babilone,
e sé diversamente infinge e noma
col suon di questo e quel vario sermone.
Stupido ognun dicea: «Ben ogni soma
è lieve incarco a sì regal barone».
In linguaggio latin poi da Tancredi
egli e l’italo eroe prendean congedi.
Incrociano Selim, ricavano molte informazioni e lo uccidono (29-60)
29Indi uscian da le tende, e molto lume
vedean dal ciel diluviar febea
un merigge notturno il mondo allume,
tant’era il plenilunio, allor parea.
Verso gli opachi e cupi orli del fiume
l’esploratrice coppia s’avolgea,
per oltre andar, quant’esser può, celata,
quando ecco un lampo argenteo in piastra aurata.
30Per lo novo fulgor ch’in essi scende
lasciano i duo baron l’impresa traccia,
ma quella piastra è l’elmo d’or che splende
a Selim trascurato in su la faccia,
l’elmo su cui s’estolle e ’l collo stende
e vien ch’ad uom che ’l mira inganno faccia,
de la donna del Nilo insegna altera
sculta in argento la niliaca fera.
31Credon quei duo mirar veracemente
la marzial d’Egitto alta donzella,
ma raccolta d’amor fiamma possente
n’aveva Amberto, e mille aspre quadrella,
e pascea notte e giorno, egro e languente,
gli spirti col membrar forma sì bella.
Or come egli rimane? e quali sensi,
quai voglie, quai consigli in lui tu pensi?
32Tremò sì come l’uom che d’improviso
cosa vede apparir ch’ei brama e teme,
et ogni polso allor sentì reciso
e colme d’aspro giel le parti estreme.
Molto pensò, restò da sé diviso,
poi tra sé disse: – Ahi qual destin mi preme?
Angustie ho d’ogn’intorno: obligo, onore
me premon quinci, e beltà quindi e amore -.
33Ma ’l buon Giovanni, a cui nulla è celato
quanto arda Amberto per sì nobil vaga,
finge ciò non saper, e simulato
usa sermon ch’alteramente appaga,
e fa non dal piacer costui sforzato
trabocchi al male, onde sua gloria è vaga,
talché gli dice: «O gloria de l’altero
Sebeto, or tu pon mente al mio pensiero.
34Vedi? Quegli è Nilea, germe de’ regi
incliti de l’Egitto, e ’n armi chiara.
Non la conosci del bell’elmo a’ fregi?
Ancider non si de’ donna sì rara,
dunque togliamo a lei, ma con egregi
modi, la libertà diletta e cara;
pur vuo’ ch’io pria con arte a lei favelle,
forse n’accoglierem care novelle».
35Così parla a l’amante, e quei ben crede
al parlar finto, e pur tra sé s’adira,
né sa dove s’appigli et empia vede
fortuna, e più che dianzi i pensier gira.
Dice in suo cor: – Dunque catena al piede
pongo a mia dia? Ah dove il Ciel mi tira! -.
Et intanto Selim con l’elmo altrui
moveva verso loro, essi vèr lui.
36Quando da presso fur, così dicea
Giovanni, e favellava in saracino:
«Ove notturna, o forte, o gran Nilea,
a somme imprese, o scelta dal destino?
Pagani noi d’origine caldea,
io m’appello Ariel, questi è Serino,
e cerco abbiam, sottratti a la gran rotta,
chiusi il dì, scampo in van, quando più annotta.
37Ma ben tu fosti vista e per bellezze
e per valor far meraviglie estreme,
dritto è che ’l nostro re t’onori e prezze
e che t’’impieghi ad opre alte e supreme.
Servon gli eroi di Cristo a le vaghezze
del tuo volto, e ’l tuo acciar gli affligge e preme,
di sangue un mar su ’l greco mar spargesti
et a maggior trofei poi qui corresti.
38Dunque menane teco, o forte, o bella,
se bella e forte ogn’erto calle appiani».
E quei: «Voi certo a l’armi, a la favella
saracini assembrate, non cristiani,
ma se vi sottraeste a l’aspra e fella
rotta campale, e ’n ver siete pagani,
dite quale in quel dì ch’ei fu sconfitto
segno d’armi a noi diè vostro re invitto».
39Così Selim, ma il buon re di Sidone
sapea tal contrasegno militare,
tolto da bocca a colchico prigione
l’aveva ei, scaltro in ogni scaltro affare.
Quinci, e pur con barbarico sermone,
no ’l tacque, e voci usò pronte e chiare,
che ’l turco n’ebbe inganno, e più non scerse
e cui celar doveasi il core aperse.
40«Amico, «disse «il vanto alto che dai
a tanta donna è pellegrino e vero,
ma dessa non son io, tu error preso hai
per l’elmo troppo noto in suo cimiero.
Adoro anco io de’ suoi begl’occhi i rai,
e, sua mercede, il porto e vonne altero,
nobil premio m’attende, e dritto parmi
a voi ch’amici siete io non celarmi.
41Fratello d’Ottoman, Selim io sono,
e ’l capo a’ rischi ho volentier sommesso,
né tanto a ciò mi spinge o premio o dono
quanto il turchesco onor da’ Franchi oppresso.
Ahi lasso, noi chi siamo? essi chi sono?
Essi un ritratto del femineo sesso;
o vergogna de’ Turchi, a noi che manche
virtù contro tai Franchi, anzi tai Franche!
42S’avvide Amberto che costui non era
l’alma beltà dove abita il suo core,
serenò il volto, in cui sì fosca sera
avea con l’ombre sue posto il timore,
vuol far di quella limpida visiera
acquisto, e ’n pegno averla alto d’amore,
ma perch’il sermone arabo gli è ignoto
frena la lingua, e tiene il braccio immoto.
43Sì che guarda il bell’elmo, et anco attende
ch’a Selim parli il cavalier fenice,
il qual: «Certo a ragion ben si difende
da te l’onor de’ Turchi «a colui dice,
«se ’l tuo sangue tra lor sommo risplende,
o forte, o de gli eroi lampo e fenice,
ma femine perché tu i Franchi appelle
se l’Asia han vinto e fan tremar Babelle?».
44Et ei: «Donne essi son, s’effeminati
quasi donzelle han ne l’orecchie i fori,
e i cerchietti colà d’ori filati
e se del crine inanellati han gli ori.
Mira i lor colli inermi, anzi fregiati
pur de le chiome co’ lascivi errori,
mira bianche lor man se sono ignude,
mira qual guanto poi le scopre e chiude.
45Di trapunto di perle anco fan fregio
essi a’ calzari lor, non ch’a’ cimieri,
né portan scudi in cui sodezza è pregio,
ma scudi pinti e vanamente alteri.
Stiman che sol de gli avi il merto egregio
possa i nepoti far chiari e guerrieri,
e credon che virtù sia bassa e vile
s’ella non vien da sangue alto e gentile.
46Noi non così, però ch’eccelsi e bassi
verso la gloria andiam, ch’a tutti è meta,
e caminar con generosi passi
a chi ha valore ignobiltà non vieta.
A’ corpi travagliati e non mai lassi
diamo picciola requie irrequieta,
e su la terra un sonno incerto e breve
dormiamo, e non curiamo arsura o neve.
47Immerge il padre entro agghiacciati fonti
noi nati a pena, perché ’l giel n’induri.
Fanciulli andiam cacciando in ermi monti,
posto a’ destrier freni tenaci e duri,
poi, giovinetti, a faticar siam pronti
i buoi con l’asta e con l’assalto i muri,
sempre il ferro n’è in mano, e ’n gran tragitto
su gli omeri portiamo e l’armi e ’l vitto.
48Vecchiezza a noi vien tardi, né ’l vigore
n’invola de le membra o de le menti,
onde canuti non temiamo orrore
e guerreggiam decrepiti et algenti.
Son nostri vanti il tòr con sommo onore
regni et imperi a le cristiane genti,
et or fia da tai Franche a noi ritolto
quanto mondo a i cristiani abbiam noi tolto?».
49replicava il fenice: «Alto è il pensiero
tuo nel biasmo de’ Franchi in nostre lodi,
e mentre così parli io l’aspro e fiero
destin de l’Asia oblio, né so in quai modi.
Pur dove corri a lucido emisfero
d’elmo gentil sotto sì belle frodi?
e qual anco gentil premio t’attende?»,
e tace, e così a dir Selim riprende:
50«Il re m’offre provincie, io chiesto ho l’armi
del guerrier forte a cui padre è Tancredi,
io ch’a condurla a’ muri or corro a farmi
scorta a quell’oste che colà tu vedi».
E quei: «Largo è il re nostro, et anco parmi
eccelso il don che ’n guiderdon gli chiedi,
ma de l’oste di là nulla sapemo,
ben repentine fiamme ivi or vedemo».
51E ’l turco: «Or giunte qui son queste schiere
da l più estrema Scizia in nostra aita».
E ’l tirio a lui: «Ma tu vèr le trinciere
franche ten vai, forse hai la via smarrita?».
E Selim: «Anzi vo cauto a vedere
se la guardia de’ Franchi ivi è sopita,
e dopo ciò n’andrò ratto a gli Sciti».
E quei: «Pur anco a domandar m’inviti
52chi recar di tal campo al re novelle
poteo, se ’l franco custodisce i passi?.
Noi, sì furtivi, a nostre piante snelle
loco ancor non troviamo onde si passi.
Molta custodia in queste parti e ’n quelle
ingombra i cali eccelsi, ingombra i bassi».
Tacque, e l’altro scoprì qual su le penne
d’un dardo al turco re lettra pervenne.
53Ma come quando vaga e rugiadosa
nube sotto aspre stelle alquanto appare,
e poi di brun s’ammanta ruinosa
scioglie venti e procelle, e turba il mare,
così in terribil fronte e disdegnosa
ei quel ch’uom suo credea vide cangiare,
stringer la spada il vide, altre udì voci,
udì scaltre mentite in modi atroci.
54Pur impugnò ancor esso e membrò il vanto
che diessi innanzi al re, membrò il suo onore,
e membrò la sua donna, e ’n ferrei ammanto
mosse le membra e balenò splendore.
Con l’ombra sua l’adombra il tirio intanto,
cui dietro il tergo era il lunar fulgore,
et ei ne prende inganno e fiede l’ombra,
l’ombra che par gran corpo e nulla ingombra.
55Ma quei, mentre i suoi colpi ei sparge al venti,
fa che non s’urti mai spada con spada,
e ’l copre pur con l’ombra, e in ciò fu intento
perché de’ ferri il suon lunge non vada.
Tra l’elmo e tra l’usbergo ei violenti
e tra le fibbie al brando apre la strada,
e colpisce di punta e sempre illeso
resta il nemico arnese e ’l corpo offeso.
56Si ritirava e poi giungea improviso
con ratto piè che rassembrava alato,
e ripiagava, et ogni ostile aviso
schernia tra l’ombra il colpo inaspettato.
Alfin nel turco attonito e conquiso
tutto il fulmineo acciar mise entro il lato,
entrò nel destro, uscì da l’altro fianco,
e fe’ due strade a l’alma il ferro franco.
57Ove, Amor, non hai loco? e come fasci
con tue dolcezze inique anco i terrori?
come, o crudel, non abbandoni e lasci
anco i mortali in fra gli estremi orrori?
Cadea Selim, e tu, che pur ti pasci
di spirti infermi e di svenati cori,
informavi di gioia i suoi martiri
e ne traevi i soliti sospiri.
58Cadea trafitto, e s’udia tra gli algenti
singhiozzi egli chiamar Nilea,
e la gelida voce iva tra i venti
qual nome ad iterar come potea.
Ma per Amberto fur strali pungenti
tai gemiti al nomar de la sua dea,
pur non potendo in su ’l rivale anciso
altro egli più, vuol disarmarli il viso.
59A tal preda amorosa Amor lo spinge,
ma ciò tace al compagno, e pur con finto
sermone alta lor gloria esser dipinge
tòr quella spoglia a pagan tanto estinto.
Indi, tutto pauroso, a scior s’accinge
l’almo di lei che ’l tien preso et avinto,
s’abbaglia a quei bei lampi, il cor gli manca,
gioisce il tatto, egra la guancia e bianca.
60Sembra tremula verga, e pur fuggito
il moto è da sue mani a scior l’elmetto;
alfin lo scioglie, e lieto e sbigottito
fu in un punto nel cor, fu ne l’aspetto,
e, per non gir col braccio egli impedito
di quel notturno officio a l’alto effetto,
l’elmo al cinto legò, lasciollo appeso
su ’l fianco suo tanto d’amore offeso.
Incontrano Ermedora, fuggita dal campo di Dronte: costei dice loro che il re scita è ubriaco, come tutto il suo campo (61-81,4)
61Ma notte in mezzo al ciel l’ore partia,
e cadean gli astri che già fur sublimi,
e con trepido piè ratto venia
donna c’ha di beltate i pregi primi.
Serva di Cristo in sorte aversa e ria,
ma in sue gran pompe lei barbara stimi,
Turchi costor cred’ella a prima vista
e l’egra fronte sua rende più trista.
62Nudo il bel petto, e pende dal gentile
collo un fil di lapilli orientali,
fil che vi forma un gemino monile
in duo cerchietti tremuli et equali,
e poi si snoda e pur doppio e sottile
va tra le mamme e Amor vi batte l’ali,
ma due gemme eritree, celesti semi,
de l’orecchie ornar giù gli spazi estremi.
63Aurea la chioma e si divide e lassa
solco d’avorio in mezzo a l’aurea testa,
e mentre si rintreccia eccelsa e bassa
parte tra sé, ma più tra perle resta;
alquanto in su le tempie arte n’abbassa
e lasciva per vezzo aura il tempesta.
Scema è la gonna in su, perché non celi
gli omeri begli, e non v’han loco i veli.
64Ma de la gonna rilevata il lembo
scopre in ricchi sandali il bianco piede,
e di vari splendori ondeggia un nembo
nel manto ove ricchezza e lusso eccede;
stringer gli angusti fianchi e su ’l bel grembo
cinto quasi balen scender si vede,
cinto che ’n aurei spazi or verdeggianti
smeraldi aggroppa, or indici diamanti.
65Non senza gemme i diti e splende avolto
su le braccia tesor, mercé del Gange,
ma troppo conturbato è ’l suo bel volto
per lo martir che ’l cor le preme et ange.
«Uccidetemi, «dice «o da voi tolto
a me non sia il fuggir», e prega e piange,
e Giesù in basso suon, guardando in cielo,
chiama, e Maria con lingua ella di gielo.
66La donna parlò armeno, et in armeno
così l’eroe che scettri ebbe in Sidone:
«Noi crediamo in tuo Dio, tu fa’ sereno
il ciglio, e del tuo duol di’ la cagione».
A la vita di lei, che venìa meno,
fu scampo inopinato un tal sermone,
scintillò de’ begli occhi il lume adorno
e fe’ l’ostro a la guancia allor ritorno.
67Qual da nubi veggiam Cinzia velarse
e di luce vibrar vedovo raggio,
e poi serena e lucida mostrarse
sottratta a quegli orrori ond’ebbe oltraggio,
tal fra la nebbia del timore apparse
questa, ch’è di bellezze un’India, un maggio,
e tal si serenò, ma trista e bella
tra l’ombre indi del duol pur rimas’ella.
68Poi disse: «O tu, che pio sì mi conforte,
e la cagion saper vuoi di mie pene,
odi, bench’arme barbare tu porte,
odi, poiché dal Ciel luce a te viene,
odi le mie sventure, odi di morte
stato peggior; in vita ahi chi mi tiene?
involontaria, ohimè, fregio et adorno
le membra, e d’un trapasso a un altro scorno.
69Di Gabriel son figlia, ch’a Boemondo
soccorso domandò contro Dasmano,
e che nacque da’ padri a cui l’immondo
spirto al fonte lavò sacrata mano.
Caspia è mia madre, io l’alma al re del mondo
e ’l corpo offrii non per mia colpa or vano;
Ermedora m’appello, e quel crudele
è primiera cagion di mie querele.
70Dasmano io dico; ei, poiché in ceppi avinse
il grand’uom già da lui preso in aguato,
senz’altro intoppo incontro noi si spinse
e tolse al mio buon genitor lo stato,
ma la virginea zona a me discinse,
superbo, inesorabile, spietato,
e poi quattro e sette anni imperioso
soffrii di lui l’orgoglio aspro e fastoso.
71Ma quando il virginal fiore mi colse
le bende mi squarciò, sacrati pegni,
e sua lascivia in mia persona volse
d’oro e di gemme ahi quanti fregi indegni.
Più volte gli sterpai, così men dolse,
e n’irritai più volte i suoi disdegni,
ma n’avrò premi in Ciel, se salda e franca
rimase l’alma, e credo intatta e bianca.
72Di me per fama era invaghito innante
Dronte, che tanti Sciti ha qui condutti,
Dronte fiero et orribile gigante,
Dronte mostro peggior de’ mostri tutti.
Con lettre alfine un così degno amante
chiesemi a chi teneami in pianti e ’n lutti,
a Dasman non amante, il qual per dira
superbia in me sfogò lussuria et ira.
73L’empio a quel mostro mi promise, e chiese
che co’ suoi fieri Sciti egli s’armasse,
e sé con essi di giesù ad offese
a l’arme di Gazerse accompagnasse.
Dronte partì con oste ah poich’intese
sì rea risposta, così affetto il trasse,
e me, che contro Cristo il prezzo fui,
guardata entro un castel lasciò colui.
74Dasman lasciommi entro la rocca, et egli
ratto andonne a le persiche contrade.
In Armenia è tal rocca, e di duo vegli
eunuchi ivi soffrii pur crudeltade:
ambo traeanmi a vagheggiar gli spegli
(ahi perché piacque al Ciel darmi beltade?),
voleano a Dronte appresentar più vaga,
per mercé averne, la donata vaga.
75Dronte qual lupo poi corse a l’odore,
misera me, di macolata agnella,
qual mostro io vidi? e scosse con terrore
strano imeneo qual infernal facella.
Temei l’uom smisurato, ebbi in orrore
non intesa da me la sua favella,
e forza fummi anco celar la tema
per far mia doglia in nulla parte scema.
76E fui costretta ancor, qual prima, ornarmi,
ma rato ei di colà partir convenne,
partì col campo scitico, e menarmi
infra le quadre volle, e qui sen venne.
Giunse pur dianzi e ree novelle d’armi
udì, e forse però qui si ritenne,
udì che da Tancredi in gran conflitto
il campo oriental restò sconfitto.
77Udì che ratto a la città fuggio
il Turco, e che d’assedio il Franco il cinse;
bestemmiò per furore il cielo e Dio,
l’empio, e di novo orror la faccia tinse.
Poi lui dar chiusa carta anco vid’io
a presto arcier, ch’ad un quadrel l’avinse,
poi cenò lautamente, e poi su ’l letto
gittollo il vin che gli bolliva in petto.
78Egli nel dì che possessor si feo
di questo corpo fral, non di mia voglia,
gustò in gran mensa i doni di Lieo,
benché gli usi del vin Maomet gli toglia.
L’imitaro i suoi duci, e sì poteo
l’esempio loro entro non chiusa soglia
ch’ogni guerriero un tal licor poi bebbe,
e di Macon le leggi a scherno n’ebbe.
79Quinci i custodi de la regia tenda
vidi io pur ebri, e pur dal sonno offesi,
onde pregai Giesù che mi difenda
e per trovar cristiani il piè distesi,
e ’n voi m’incontro, e par che ’l Cielo intenda
il suono omai de’ miei sospiri accesi.
Passai per mezzo de le schiere et esse
giacean dal sonno anco e da Bacco oppresse».
80Così l’afflitta armena, e del suo ciglio
piovean nembo di perle i bei zaffiri,
e gli atti di beltà senza consiglio
davan celesti some a’ suoi martiri,
e un lungo ohimè, che d’alta angoscia è figlio,
dolce era tra’ dolcissimi sospiri,
e ’l vario scolorir dolce e soave
tanta a fregiar il duol beltà forz’have.
81Giovanni rispondea: «Ben qual dicesti,
o donna, a te su ’l Ciel palma si deve,
che ’l fior virgineo accogliono i celesti
quando a forza qui ’l corpo onta riceve,
ma ritornar donde partenza festiGiovanni e Amberto si fanno portare al campo di Dronte e lo uccidono, mozzandogli il capo nel sonno (81,5-119)
in servigio or di Dio non ti sia greve.
Rimembra ch’anco ornata e con invitte
voglie contro Oloferne andò Giuditte.
82Ricalca l’orme tue, ma noi celati
lungo quell’ombre seguirem tuoi passi,
e giunta a’ primi stuoli addormentati
tu ferma il piè, noi là farem trapassi.
Indi n’andremo ove gli empirei fasti
Dronte han condutto ove sopito ei stassi,
noi troncherem l’empia sua testa e noi
guida al campo cristianti sarem poi».
83La donna replicò: «Così il valore
di Giudit fosse in me come il vorrei,
che per vendetta al manco or del mi onore
l’abomievol testa io troncherei,
ma se forti io non ho la destra e ’l core
almen farò non vili i passi miei,
e là vi guiderò». Non più Ermedora,
e tronca con le piante ogni dimora.
84Ma i detti di Selim e i detti d’ella
ad Amberto in latin colui ridice,
né tace quanto impose a la donzella,
e n’è lodato, et ei ripiglia e dice:
«Parmi fedele la costei favella,
ma può di scaltri inganni essere altrice:
siam cauti, e se mai segue altro accidente
i consigli e ’l voler cangiam repente».
85Tace, e là dove l’aere era più nero
verso selvaggio orror prendon la via,
e la donan in aperto ampio sentiero
l’orme sue prime ricercando gia.
Quasi in merigge era anco l’emisfero
per la gran luce che da Cinzia uscia,
ma tra gli alni e le sponde essi del fiume
involan sé quanto più ponno al lume.
86Giva discosta la donzella, et essi
seguendo s’avvolgean per calli ombrosi,
quasi coppia di tigri che s’appressi
a muggitori armenti in valle ascosi,
s’incentravan ne l’ombre ove più spessi
eran virgulti e tronchi ampi et annosi,
sempre il piè in moto e sempre in giro i guardi
aveano, e traean fiati o nulli o tardi.
87Ma ciascuno atto de l’afflitta armena
guatano, e stiman lei specchio di fede,
l’orme sue ricalcava, et ecco a pena
su ’l primo colle ella ritenne il piede,
e la raggiunsero essi, e vider piena
quivi la piaggia d’infinite prede,
vedean dal sonno in su ’l terren distesi
gli Sciti, e già languenti i fochi accesi.
88Spinsensi allor, di strage desioso,
Amberto ove ampio stuol sopito stasse,
ma ben da quello assalto infruttuoso
Giovanni distornollo e ne ’l ritrasse;
poscia dice: «Tu sai qual generoso
altro proposto a qui venir ne trasse»,
e con quella leal drizza e con lui
a tanta meta egli i vestigi sui.
89Passan tra l’armi scinte e ’n terra sparse,
e tra l’oste in cui sonno alto s’indonna,
ma scerse il padiglion di Dronte e farse
parve d’un marmo immobile la donna.
Sol co’ cenni mostrollo e pianti sparse,
e tremò i membri et allentò la gonna,
poi le disse il fenice: «Al ciel t’inchina,
e manda prieghi a la pietà divina».
90Devota e pur tremante ella s’atterra
e giunge palma a palma et erge il viso,
e l’Empireo, ch’a prieghi si disserra
apre, e fa forza al Re del Paradiso.
Sei Siti e sei dormian prostrati in terra
da le forze di Bacco ognun conquiso,
smisurati di membra essi custodi
regi, et armati in lor barbari modi.
91Corpi sì vasti il buon Sidonio ammira
e ’n voce senza suon parla ad Amberto:
«Su su, le spade qui, qui troppo spira
terrore, o cavalier d’eccelso merto.
ne’ volti di costoro e chi non mira
de le squadre de’ Franchi il danno aperto?
quante Dronte esse de’, s’altri tra tante
vaste membra lui sol chiama gigante?».
92E quegli: «Or vogli tu con la tua spada,
poiché già doppia impresa a sé n’invita,
a questi, i cui gran corpi or tanta strada
ne chiudon su ’l terren, toglier la vita,
o tu fa che di Dronte il capo cada
spento, e reca a Babel doglia infinita:
quel che tu scegli io lascio, e quel che lassi
io sceglio, arresta dunque i spingi i passi».
93«Tu troncherai il capo, a te conviene
tanta mole d’onor «l’altro rispose,
«et io rendrò rotte a costor le vene,
quest’erbe orribilmente rugiadose».
Tacque, e come il leon che ’n mandra viene
e l’unghie atte al terror fa sanguinose,
ei mosse ne’ sopiti e strinse il brando
a feroce silenzio orror mischiando.
94Ad alcun tronca il collo e senza moto
gorgoglia in terra poi la tronca testa,
altrui nel sen trafigge e tutto immoto,
cangiato il sonno in morte, il corpo resta,
in altro de la bocca al varco vòto,
spinta la spada, a non parlar il desta,
anzi a morir, e segna altrui per mezzo
e sparge tutti d’atro e mortal rezzo.
95Duo si svegliaro, Afro et Ermin, ma corse
Ermino a la difesa, Afro a celarsi,
trasse ad un punto Ermin la spada e sorse,
ma l’impugnante man vide troncarsi;
volle gridar, ma d’altro colpo tòrse
sentì la voce e l’alma, e ghiaccio farsi.
Così il nemico acciar, rotta la gola,
a lui tolse la vita e la parola.
96Afro dietro il gran calice di Dronte
si ricovrava e si stringea pauroso,
ma non così ch’ lati e che la fronte
fuor non lasciasse e il corpo mal nascoso.
Colui piagollo, e d’atro sangue un fonte
trasse dal fianco armato e luminoso,
tra le fibbie il passò del terso usbergo,
ei supin cadde e presse in terra il tergo.
97Volan cinque e sette alme in vèr l’Inferno,
e diresti i cadaveri ancor vivi
mentre versano in lor dal grembo interno
l’aperte piaghe sanguinosi rivi.
Acqua piovuta in su l’estremo inverno
rassembra il sangue che trabocca quivi,
e fa di sangue un lago, ma di sangue
un mar fa Dronte, omai già fatto essangue.
98L’eroe latino il ritrovò su gli ampi
letti, et ambe le braccia isporgean fuori,
tempestava dormendo e fieri lampi
scotea dal viso orrendo e fieri orrori.
Ruttava, e ’l tuono in lui parea s’accampi,
gli indigesti di Bacco aspri licori,
e sei paggi reggean dietro il suo tergo
sei torchi, e d’altra luce empian l’albergo.
99Impugnò Amberto, e i bei garzon tremar,
et egli, con due man l’elsa afferrando,
tre volte alzava, glorioso acciaro,
e tre calava l’aragonio brando.
Tronche le fauci ampissime restaro
e fiera andò l’anima atroce in bando,
e lasciò fredde e lasciò immenso pondo
le membra immense e sì temute al mondo.
100Per l’irto crin l’orrido teschio piglia
quegli, e parla co’ cenni e lega i paggi,
e perdona a l’etate in cui s’appiglia
beltà, ch’è schermo a sé contro gli oltraggi,
beltà ch’è muta e di colori è figlia,
e lingua ha di splendor, voce ha di raggi,
ma con la tronca formidabil testa
dentro il gran padiglione ei più non resta.
101Portolla al buon fenice, e già veloce
(finito avea d’orar forse Ermedora)
mira ella spento il volto orrido atroce,
e membrandolo vivo il pave ancora.
Teme in sua gioia, e de l’allegra voce
tronca il suon mosso e ’l lume discolora,
il lume d’ostro, il lume alabastrino
natio in suo volto e mai non peregrino.
102Ma quel suo scolorir vinse in vaghezza
l’iride allor che più le nubi adorna,
e cesse al suo pallor la splendidezza
d’Espero quando in Oriente torna.
Ardir costei bramò, bramò franchezza
contro quel teschio ov’anco orror soggiorna,
per far qualche vendetta incontro l’empio,
non per lasciar di sé sublime esempio.
103Così la donna, e ratto i duo guerrieri
ponean su l’alta tenda il capo immane,
il volto esanimato e che i primieri
spirti ancor spira in guise atroci e strane.
preziosa è la tenda, e magisteri
sonvi di tessitrici soriane,
e don fu di Dasmano, e divien tutta
per lo gocciolante sangue or sozza e brutta.
104Ma stan con selle al dorso e rodon fieno
quattro destrier lungo esso il padiglione,
e pende a ciaschedun lo scinto freno
con le redini avolte in su l’arcione,
tutti asciutti le gambe e larghi il seno,
tutti di pregio eccelso in paragone,
tal sotto cielo barbaro natura
rara mise in produrli arte e misura.
105Irte l’orecchie, alteramente angusto
il capo, occhi vivaci e spirti arditi,
di crini il collo adorno e non onusto,
e cinto d’acutissimi annitriti;
rota l’amie nari, un fumo adusto,
vedi il pie pronto a prevenir gli inviti,
gli inviti de le trombe, ch’a’ cavalli
son fiere cetre ne’ guerrieri balli.
106E stella have un di lor candida e grande
in fronte, e ’l manco piè di neve asperso,
e chiare e fosche per lo corpo spande
le lane, e par in notte aurea converso.
L’altro di bianco e brun ruote e ghirlande
spiega nel pelo luminoso e terso,
l’altro è fiamma al color, ma l’altro vedi
candido e rosso, eccetto il capo e i piedi.
107Lo sguardo girò in tutti et istimolli
scelti il prende aragonio e vigorosi,
e «Ben saremmo noi mal cauti e folli»
disse «a lasciar destrier tanto animosi.
Campania piena di tai glorie i colli
non pasce corridor sì generosi».
Tace, e qual vogliono ambo ambeduo mena
al palafreno suo la trista armena.
108A questo a cui l’arcion pur non è tolto
le staffe un de gli eroi, l’altro la briglia
adattan tosto, et ella con disciolto
lembo v’ascende e con modeste ciglia,
e la porpora intanto del bel volto,
fugato ogni candor, più s’invermiglia,
le redini ella regge e d’ambo i lati
le vanno a piè quei duo baroni armati.
109Poi de’ quattro corsieri a duo bendaro
essi le ciglia, a duo misero il morso:
quei duo con doppi canapi tiraro,
a questi duo saliro essi su ’l dorso,
e lunge da’ cadaveri giraro
con provido consiglio e lento corso,
e vallavano anch’essi il destro e ’l manco,
a lei che giva in sella inerme fianco.
110Ma da le guardie scite eran già spenti
i fochi, e già costoro in gran pianura
smarrian la via, benché i lunari argenti
aggiornassero ancor tra l’ombra oscura,
ma ’l re di Tiro, il qual con le lucenti
stelle a’ sentier qua giù sa far misura,
emenda col bel raggio ivi vicino
col bel raggio polare il suo camino.
111Tra tanti bei notturni aurei splendori
per farsen guida ei sol guarda Calisto,
e volge a destra i duo suoi corridori
poiché le strade apprende e ’l polo ha visto.
Anco il compagno ad emendar gli errori
lento non è, di ciò ben tosto avvisto,
e va tra l’uno e l’altro anco Ermedora,
quasi di beltà afflitta altera aurora.
112Ma ben questa a se stessa or più che mai
incresce così ornata, e guata e geme,
guata i suoi propri e i peregrini rai
e se ne sdegna e ’n sé medesma freme;
alfin gridò: «Che non mi toglio omai
a questi obbrobri? o forse altro si teme?
Già più Dasman non mi costringe o Dronte
a comparir con addobbata fronte.
113Dunque libera io sono, e pur rimango
avolta tra quest’ori e ’n queste gemme?
Ben le mie colpe a’ falli altrui accompagno
se così resto, or che nessun ritiemme.
Non fia, non fia, nulla è se sol mi lagno
cerchiamo altri tesori, altre maremme».
Tacque, e di viva fiamma il volto aperse
et a l’opra di Dio grata si converse.
114A’ limpidi lacerti, che confini
son de le bianche man, pria tolse i fregi,
e poi sgombrò da’ diti alabastrini
avvinti in oro de le gemme i pregi,
ma sterpò gli ori et i tesor marini
da le sue orecchie con furori egregi,
sì che le franse e ’l bel sangue cadeo
su ’l collo, e i gigli ivi purpurei feo.
115Forse ne l’una e l’altra sua ferita
al dea di Pafo un tal spettacol diede,
quando la rosa candida arrossita
fu dal sangue gentil del suo bel piede,
dolce a vederla, e quando ella ferita
restò in sua bella man da Diomede,
ma l’armena però nulla s’arresta
più vaga di Ciprigna oggi e più mesta.
116Dal collo anco divelse e non discinse
il fil ch’ivi splendea sì prezioso,
e che già due fiate ivi s’avinse
e scendea tra le mamme a star nascoso.
Alfin sfregiò le chiome, e poi le strinse
in nodo schietto e sol per sé pomposo,
et a la destra ad or ad or porgea
aita l’altra man che ’l fren reggea.
117Ma quanto toglie a sé più d’ornamento
tanto leggiadra più ben riman’ella,
qual de l’aria il traslucido elemento
quanto semplice è più forma ha più bella.
Vorrebbe veli a ricoprir l’argento
del collo e de la gemina mammella,
et a chiuder le chiome, e vorria un cinto
rozzo, e non quello onde il bel fianco è cinto.
118Brama ruvide spoglie, e nobil ira
ha per le ricche onde è sì mal coverta,
e per l’adorno piè non men s’adira
la cui neve tra’ fregi anco è scoverta.
Tal la dolente donna, e tal si mira
sotto ampia luna in gran campagna aperta,
et agguagliava intanto il suo destriero
l’andar de l’uno e l’altro cavaliero.
119Non guarda il tirio re le pellegrine
forme di lei, cauto in amore e franco,
Amberto have altre fiamme e porta chine
le luci, e trema sbigottito e stanco,
trema in mirar le tempre adamantine
di quell’elmo ch’a lui pende su ’l fianco,
la man stende a tocccarle, e poi il ritiene
vergogna, e intanto Amor cresce sue pene.
Tornano al campo, Amberto si abbandona a sognare sull’elmo di Nilea (120-131)
120Tal fean ritorno al vallo i duo baroni
con l’armena sì mesta e così bella,
e giunti al capitan lascian gli arcioni
né rimane in arcion pur la donzella,
ma lodi il tuo compagno e ’l tutto esponi
tu, Amberto, e breve e chiara usi favella.
Colei sta china, e piagne, e benché avolto
in doglia un ciel d’Amore è suo bel volto.
121Ma Giovanni dicea: «Signor, deh rendi
questa a gli ozi suoi santi a Cristo cari,
e da’ suoi prieghi aiuto empireo attendi
incontro i colpi di fortuna amari.
Chiudila in cella, e ’l campo tuo difendi
anco da lampi di beltà sì rari»,
così ’l fenice, e del fenice a i detti
fea tosto il sommo eroe seguir gli effetti.
122Or che dirò di lui che seco porta
l’elmo gentil de la sua bella diva?
Ei con l’ali d’Amor per la più corta
strada del vallo a la sua tenda arriva,
accender fa più lumi, e con ismorta
guancia sé di compagni intanto priva,
scinge quell’elmo dal suo fianco e ’l tiene
in mano, e ghiaccio ardente ha tra le vene.
123Resta quel uom ch’è di se stesso in bando
e senza moto alcun suda et agghiaccia,
mira l’aurea visiera che calando
copriva in guerra l’amorosa faccia,
mira il bel cocodrilo, il quale alzando
l’argentea fronte in dolce orror minaccia
e del bel lume ond’ei nudriva il core
crede mirar l’imago in quel splendore.
124Guarda gli orli de l’elmo e dice: «Quivi
chiuse il bel collo l’alabastro intatto?
Felicissimo acciar, s’a begli e vivi
avori giunse il tuo insensibil tatto».
Tace, e da gli occhi fuor versa duo rivi,
rotto un sospir che fin su’ labri è tratto.
Poi col pensier trapassa ne l’interna
parte, e quivi in amor via più s’interna.
125In pensando ei dicea: «Qui il crin, qui il ciglio
celò le chiare stelle e i lucid’ori?
qui nascose la guancia il suo vermiglio?
e qui nascose il labro i suoi rossori?
Il labro che ’n aprirsi apre del giglio
le pompe, anzi del Gange i bei tesori;
qui la fronte e le tempie a sprigionarsi
vennero? e qui l’orecchie ambe a piegarsi?
126Dopo ciò colà dentro avido mette
la man prosuntuosa e vi la gira,
ma reliquia gentil de el dilette
chiome vi trova, e trema e fuor la tira.
Son le virtuti sue quasi costrette
a venir men quando capelli ei mira,
riconosce il lacciuol che ’l cor gli lega,
e ’n bel servaggio libertà gli nega.
127Un dolce amaro da quei crini uscia
formato di memoria e di splendore,
che per gli sguardi al sen varco s’apria
ch’attoscando addolcia tra lampi il core,
e singhiozzando il misero gioìa
et in suo volto avea vario colore;
poi, suo ben non capendo, ei gli occhi fisse
nel bell’or ch’avea in mano, e così disse:
128«È questa, Amor, del biondo amato crine
lunga, vaga, gentil, lucida parte?
questa del collo l’animate brine?
e le tempie fregiar solea senz’arte?
O chiome sempre schiette e pellegrine,
e de l’oro natio ricche e cosparte,
deh chi v’ha tronche a sì beato farmi?
Oh qual ricchezza era in sì nobil armi!
129È ver che siete d’esse? e ’n voi, ch’io guardo,
è ver che lece a me figgere i baci?».
E con tai detti a chinar non è tardo
gli avidi labri suoi, perché le baci.
Poi s’arresta, e non osa, et al suo sguardo
dice: «Tempra, qual puoi, tu el mie faci,
ben altro non dev’io che riverente
mirar questo d’amor pegno lucente.
130Ei così parla, e cose non terrene
crede mirar la stupida pupilla,
la stupida pupilla che con piene
urne di gioia or lagrime distilla.
Poi, vèr la man che ’l bel tesor sostiene
ove tanta d’Amor luce sfavilla,
grida: «E tu, man, tu fa’ che ’n lacci esterni
io mostri al mondo i miei legami interni».
131Tace, e sei volte e più cinge e ricinge
il braccio con quel crin vago e diletto,
et in più servitù l’alma ne stringe
colmando di follia suo folle affetto,
e fassi (ahi tanto più, tanto costringe
Amor quando s’indonna in uman petto!)
di quel nodo servil quasi idolatra
nebbia a’ suoi fatti eccelsi indegna et atra.
All’alba gli Sciti vedono Dronte morto e fuggono (132-134)
132Ma l’auree stelle che sorgeano in cielo
quando a gli Iberi il sol fece ritorno,
giunte eran poi con la rugiada e ’l gielo
in Occidente in su l’uscir del giorno,
e già caduto de la notte il velo
vide l’oste di Scizia il proprio scorno,
il gran teschio regal ch’atro et essangue
l’alta tenda chiazzava ancor di sangue.
133Dal sommo de le torri anco la stessa
testa videro i Turchi in quel momento,
vider Selim giacente, e restò oppressa
da timor la cittate e da sgomento,
e si doppiaron le custodie in essa,
gli usci richiusi, e cadde ogni ardimento,
e per fuggir mise anco in quello istante
la paura a gli Sciti ale a le piante.
134Fuggian rapidamente, e tosto n’ebbe
Tancredi aviso allor, ma non si mosse,
né giunto quelle fughe unqua egli avrebbe
se spinto a perseguir ratto si fosse.
Correan gli Sciti, e sì la tema crebbe
che trombe udir credean, sentir percosse,
chiudeano a schermo lor poi contro il forte
franco l’alpi rifee, scitiche porte.