ARGOMENTO
L’acque il campo fedele al fosso toglie;
un morto avviva, e n’ha risponsi il mago.
Costretto da Tigrina, ad Idro scioglie
l’incantator medesmo il nodo mago,
ma trafitto è da lei, ma le sue doglie
amorose ella scopre al suo bel vago,
e, de l’arsa prigion Nilea poi scorte
le fiamme, arso Idro stima, a sé da morte.
Cosmante è caduto dal tronco nel fossato, si salva grazie al suo scudo (1-12)
1Ma per uscir dal fosso ampio e profondo
i caduti ne l’acqua eroi guerrieri
quasi alleggiato de’ lor corpi il pondo
ivano a nuoto rapidi e leggieri,
tutti sorti in un punto infin dal fondo
dal fondo di quei flutti orridi e neri,
et a difesa lor stanno impiegati
mille esercitator d’archi lunati.
2Già securi natar sotto un stridente
nuvol di strali i cavalier vedresti,
ratte di su e di giù, non che non lente,
le membra, e i balzi sdrucciolosi e presti,
talché de la squamosa umida gente
men pronti in mar gli eserciti diresti.
Scacciano i fossi l’onda, e vanno innanti
le braccia, e regge l’onda i sen natanti.
3Fu tra gli eroi che ne l’orribil caso
col franto legno ruinaron quivi,
l’alta guerriera, per cui nostro Occaso
or ha suoi pregi più famosi e vivi,
e Cosmante, e tu, Afron che già rimaso
non sei tra gli altri, e prima in terra arrivi.
Ma qual l’aspra donzella? Ella parea
di Palla in vista l’amatusia dea.
4Tutta è chiusa di piastre, e ’l suo gravoso
scudo in natando pur non abbandona,
e guizza qual delfin su ’l campo ondoso
la sua sì vaga et agile persona,
suo collo no, non è suo petto ascoso
dal molto umor, né la sua fronte è prona
mentre la bianca man rompe con arte
l’acque, e ’l bel piede le rispinge e parte.
5Giunge alfin su ’l terren dogliosa e bella,
felice dianzi, or disperata amante,
tal senza il vago suo la Tortorella
resta e geme e non par quale era innante.
ma come natator non qualche snella
abilità di moto ebbe Cosmante:
eransi tutti in su la riva, e solo
ahi sopra un tronco egli è lontan dal suolo.
6L’arte che nel natare i pesci imita
molto o poco un tanto uom mai non apprese,
però tra ’l precipizio, a darsi aita,
ratto a la rotta trave egli s’apprese.
Scontrar la morte e non curar la vita
ben sa tra l’alte e perigliose imprese,
et or trema e singhiozza, e stringe il grande
tronco che ’l regge, e poi tai voci spande:
7«Ben somma colpa è inver ch’uom non imparo
a regger sé nel liquido elemento,
stagni e laghi per tutto e fiumi e mari,
lasso, e ’n poca acqua l’uom restar può spento».
Tace, e scosso da l’acque ei pensa a’ chiari
suoi vanti, e d’orror s’empie e di sgomento;
poi guata intorno, e vede assai vicino
natar lo scudo suo vòto e supino.
8Ampissimo è tal scudo, e sette e sette
globi di cuoio il globo suo contiene,
e par che quasi barca in sé l’aspette
e pensier di salirvi a costui viene,
e ’l tenta, e tosto in piè là su si mette,
et a più rischio intanto egli s’attiene;
poi là su più vacilla, e poi di strano
remo a suo scampo arma l’invitta mano.
9Per remo usa la spada, e vèr la sponda
di quel navilio insolito s’inarca,
e remica col brando e batte l’onda
sotto la nova inusitata barca.
Ma già questa trabocca e quasi affonda
in vèr la parte ov’ella è presta e carca,
ei muta loco, e pur non tanto o quanto
trova rischio minor ne l’altro canto.
10Fa strani crolli ovunque egli calpesta
e i peli gli s’arricciano e i capelli,
e solo mira in quella parte e ’n questa
volumi d’acqua ruinosi e felli.
Svegliar vuol suo coraggio e pur no ’l desta,
e i suoi spirti guerrieri sembrano imbelli,
e ’l rincorano indarno anco infiniti
gridi in quel punto in un sol grido uniti.
11Ma ’l grandissimo Afron di smisurata
lunghezza asta gli porge, et ei l’afferra;
poi, qual nave da canape tirata,
tirato egli ne vien verso la terra.
Solca il suo scudo l’acqua, e l’acqua arata
s’apre dinanzi e indietro si riserra,
e su la riva oh come stan pendenti
tutti a raccorlo i primi duci intenti.
12Alta e curva è la ripa, e questi stessi
quivi dianzi a’ natanti aita diero,
e tutti or quivi attendon che s’appressi
lo scudo, ch’è battello al pro’ guerriero.
Egli alfin lascia l’asta e balza in essi
di salto rapidissimo e leggiero,
e s’avince in lor mani e insieme aggira
tra’ piè l’ampio suo scudo e seco il tira.
I cristiani procedono al taglio del canale, sotto una fitta pioggia di dardi (13-35)
13Ma ’l sommo eroe, tristo e severo in faccia,
guarda gli eroi dopo tal fatto e dice:
«Audacia a cui ragion freno non faccia
a’ magnanimi, a’p forti si disdice,
e sfrenati ardimenti a voi rinfaccia
di folle impresa il fin tanto infelice,
non ch’a mio figlio, al troppo osar di cui
dobbiam vendetta e non soccorso or nui.
14I decreti de’ duci a’ duci, al campo
sono vigore, e nerbo, anima e vita
e i privati guerrier trovano inciampo
se vanno ive il voler proprio gli incita.
Perché in voi di virtù men bello il lampo?
perché v’è la ragion di mente uscita?
Tòr l’acque al fosso et indi empir di terra
il fosso e’ ben m’insegna arte di guerra.
15Così già con maturo e pro consiglio
da voi pur dianzi fu detto e conchiuso,
da poi ch’io mossi a misurar col ciglio
le mura, e ’l sito lor d’alto e di giuso».
Tacque, e ’n suo cor parlando ei disse: – Ah figlio,
sei busto essangue? o in rea prigion rinchiuso? -,
e stette incerto e intanto da le grotte
cimerie sorse e i monti ombrò la notte.
16Egli de l’ombre la stagion poi tutta
vegghia, e sempre al figliuol manda il pensiero:
se ’l pensa ucciso, e non ritiene asciutta
la guancia, e ’l brama in ceppi e prigioniero.
Ma su bianco destrier l’alba condutta
tornava da l’antartico emisfero,
e innanzi al sol correva la sì bella
che ’l seguì ne l’Occaso idalia stella.
17Allor de’ duci suoi chiama i maggiori
duci il gran duce, e dice: «Or dividiamo
l’esercito in due parti e i vangatori,
e schermo a’ vangator doppio facciamo.
Recider dessi il fosso, a trarne fuori
l’ampio del fiume ivi intromesso ramo,
e con molto terren la rotta sponda
chiuder dobbiam del fiume onde vien l’onda,
18tanto che ’l fosso alfin rimanga asciutto,
o generosi, o forti, e potrem noi,
gli argini anco appianando, o parte o tutto
di solida materia empirlo poi,
che qualunque fia guerra in tòr quel flutto
scherzo sarà, sarà trastullo a voi.
Or baliste, archi e fionde, e sia ch’or bade
il bell’uso de l’aste e de le spade».
19Qui tace, e le ginocchia e ’l core inchina,
e promette a Maria sovrano altare
ne la paterna reggia salentina
tra l’alto de l’Italia e ’l basso mare.
A’ piè de’ sacerdoti umile e china
l’oste allor diffondea lagrime amare,
e tutte divenian candide et alme
l’anime con quel pan ch’è cibo a l’alme.
20Ma del gran duce i militari imperi
poscia esegui anzi, e già vanghe infinite
infra baliste e fionde, archi et arcieri
a la doppia opra stansi bipartite.
Da l’altra pare i barbari guerrieri
fremon sopra le mura alte e munite,
pur in due parti anch’essi, e doppio e vasto
fassi con iscagliate arme contrasto.
21Tutte intento dal ciel tre giorni il sole
quelle guerre mirò, mirò quell’opre,
e Lete, onde virtù spesso si duole,
finor dentro l’oblio el volve e copre.
Ma voi, Muse veraci, empirea prole,
cui quanto il tempo cela anco si scopre,
ditemi parte di sì degni affanni
e girateli omai col vol de gli anni.
22Nel terzo dì tra casi aversi e rei
Mare di qua e di là l’ire inaspria,
e già cresciuti ambo i lavor plebei
eran su ’l fosso e su la fasia riva.
Ma de l’indiche fionde e de’ dictei
archi Roberta allor come fu schiva?
Misera, ove su ’l fosso ardea la guerra
ella con vanga vil fendea la terra.
23Diceale Amor: «Nulla schifar, deh affretta
tal opra se veder vuoi ’l tuo signore,
fama è ch’egli è tra ceppi, ei là t’aspetta,
ei che ben sa ’l tuo affetto e ’l tuo valore.
Così su gli occhi suoi tu in sua vendetta
di sangue turco avrai sazio il tuo core»,
e forte esercitava ella tra queste
parole lo stormento aspro et agreste.
24Divorar le fatiche infra i perigli
vedeasi, e profondar le dure arene,
nuda i bianchi lacerti, or già vermigli,
e vaghe inumidian l’anguste vene;
il bel collo inostrava i natii gigli
d’infocato rubin le guancie piene;
fumava il gentil capo e de le dite
porpora divenian le margherite.
25La vergine avea tolto il ferreo arnese
tra quegli affanni al petto generoso,
sfibbiato era anco il seno, e fea palese
tra ’l moto onesto il bel candor nascoso,
et insidie di sguardi alcun vi tese
e n’attrasse velen dolce amoroso.
Ella sol guarda a penetrar con l’armi
rustiche al duro suol l’interni marmi.
26Fa schermo ad essa il glorioso Onteo,
e, de’ gallici re progenie, Ermondo,
che stornar l’uno e l’altro non poteo
lei da quel vil lavor sì a lei giocondo:
«Ecco il Turco colà, l’Indo e ’l Caldeo:
altr’arme tu, non tal ti vegga il mondo,
o donna eccelsa», ambo diceanle invano,
e d’archi in sua difesa empian la mano.
27L’arco d’Ermondo è d’ebeno gemmante,
e son le punte sue d’elettro e d’oro,
e tante volte n’uscì morte quante
tratte le punte e rallentate foro.
Ma tra’ colpi onde fia ch’egli si vante,
Amurat ei trafisse e Cangedoro,
rotti gl’usberghi e i petti, et a Cambise
tra l’elmo adamantin la fronte incise.
28Tira la corda Onteo fin sopra il petto
e l’uno a l’altro corno urta et accoppia,
e su ’l lentar l man l’occhio ha diretto
là dove i colpi invia l’arco che scoppia.
Le tempie ad Isbal ruppe e l’elmetto,
e passò tempra adamantina e doppia,
ma restò tutto entro la piaga il cerro
se non s’alquanto ch’uscì fuor col ferro.
29Al tetrarca d’Alep, ch’alzò la mano
tra gli occhi e ’l sol, la man su gli occhi affisse,
né fu digiun del sangue d’Ottomano
benché di lieve assai piaga il ferisse.
Qui da la fionda in lui scagliò il soldano
ferro, non sasso, e l’arco gli arse e scisse,
ferro che da sua fionda in aria vole,
scaldarsi in aria et infocarsi suole.
30Ma ben con pietre nel medesmo die
fiondator amoroso egli già fue,
mentre, o Roberta, in te voglie empie e rie
fingeva, e ’n te drizzar le selci sue,
e queste o non giungeanti accorte e pie,
o feale Amor quasi custodi tue,
amator scaltro e scaltro frombatore,
sol ch’altri non t’offenda egli ha timore.
31Intanto il tirio re, che con iscorno
de le parche e mercede alta del Cielo
a la robusta età già fe’ ritorno,
e lasciò di vecchiezza il peso e ’l gielo,
da poi che franse al suo forte arco il corno,
la cui materia fu tolta al Carmelo,
e poich’insanguinò con varie offese
cento saette, indica fionda prese.
32Di lino incombustibile è contesta
tal fionda, et ei n0avventa ispidi marmi,
sta su l’orlo del fosso ove il tempesta
ruinoso e sonante un nembo d’armi.
Opre eccelse egli qui, ma scarsa e presta
comparte in questo dì Musa i miei carmi:
con armonico suon succinto e breve
dar vita a varie cose oggi ella deve.
33Tesi e scoccati in varia guisa eguali
da’ Saracini e da’ cristian son gli archi,
stridon di qua e di là gli alati strali
e dove si fan via morte tu varchi.
Portano in giuso e ’n su colpi mortali
e schiudon de le maglie i densi varchi,
entran per le visiere e tra i confini
de gli elmi e de gli usberghi adamantini.
34Né di qua né di là nel tempo stesso
de’ fiondatori il doppio stuol desiste.
Fischiano, e d’ogni gragniuola più spesso
fanno un nembo le pietre a’ piombi miste,
e romban da lontan, piomban da presso
palle et aste ch’invian l’aspre baliste.
Gli eroi scaglian pur aste, e solo in questa
guisa l’uso de l’aste or non s’arresta.
35Franto in sì duri modi e ripercosso
l’aer rimugge, e d’atra morte oppressi
traboccan giuso i rei pagan nel fosso
e i campion di Giesù cadonvi anch’essi.
Il flutto per lo sangue è caldo e rosso,
ha nel sangue l’orror vestigi impressi,
et al romor de l’armi, a’ suon di trombe
tu dentro e fuor de’ muri, Eco, rimbombe.
Gli eroi di entrambi i campi compiono varie imprese, Afrone muore (36-58)
36Rollon quanto Tancredi unqua imponea
tanto eseguia ne’ cavalier primieri,
e molte squadre anco locato avea
pe guardia a tergo a’ pugnator guerrieri,
oltre molta custodia che chiudea
da lunge tutti i colchici sentieri,
ma de le due battaglie ei con iscaltra
prestezza era or ne l’una ora ne l’altra.
37I barbari or più folti in questa parte
or in quella vedeansi, et egli pare
sempre rendea l’imparità di Marte
con regola e con norma militare.
Opponea forza a forza et arte ad arte,
e talor si fermava egli a pugnare,
ma combattea d’arco e di fionda armato,
nel giorno terzo al re di Tiro a lato.
38L’arco pendeagli a tergo, ei da la cava
fromba sciogliea palle marmoree, et elle
mentre il sangue pagan l’imporporava,
feansi insegne de’ Medici più belle.
Con la fionda talor l’arco cangiava,
l’arco che par per gemme arco di stelle,
e morte velenata tra mortali
ferite n’avventava in aurei strali.
39Ma sforzo oggi maggior Gazerse ha posto
ne l’altro canto, e mai non frena il piede,
eseguisce et impone, e ciò che imposto
egli have egli rincalza, egli rivede,
et aveva con fionda a lui risposto
Rollon, cui di saetta in prima ei fiede;
né mai tra tanta guerra e tanti orrori
cessano un sol momento i vangatori.
40E, già compita alfin fossa profonda
ove l’acqua del fosso omai sen passi,
e rotta al fosso omai tutta la sponda,
l’acqua in giuso sen va tra’ rotti sassi.
Spuma il sonante flutto e si profonda
ove son più precipiti i trapassi,
e Saracini insieme e Franchi spenti
volve sossopra, et elmi e scudi ardenti.
41Or mentre qui contrasto e sudor tanto
pur contrasto e sudor ne l’altro lato,
là dove gli altri guastatori intanto
toglieano il ramo al fiume diramato.
Questi molto terren già volto e franto
aveano, e dentro il rio l’avean versato,
et anco erto n’aveano un novo monte
a sé davante, a la cittate a fronte.
42Da tal monte costor già son difesi
e guerra da tal monte i guerrier fanno;
vaganti in giuso i fiondator distesi,
quasi onde a piè del mar, tornano e vanno,
e con grandi archi or rallentati or tesi
tra ’l sommo e l’imo i sagittari stanno;
e su la parte eccelsa invitto e solo
d’Alberada s’accampa il gran figliuolo.
43Si chiude ei ne lo scudo, ove era impresso
già creante le cose il Creatore,
sotto sì altero schermo egli indefesso
di frassini pesanti è lanciatore.
Spezza usberghi, elmi e scudi a un colpo, e spesso
svelle i merli da’ muri, e al maggiore
balista e la minor non è che scaglie
mai con impeto tal travi e zagaglie.
44Anco da questa guerra atroce e dura
cadaveri infiniti avran le tombe,
per le quadrella il sol pur qui s’oscura
e per le sempre mai scoppianti frombe.
Qui baliste anco in terra e su le mura,
e quinci e quindi ancor rauche le trombe,
Eco pur qui in due parti, Eco ch’ascosa
tace s’intorno a lei tace ogni cosa.
45E tra l’aeree region ripiene
anch’esse tutte qui d’arme volanti,
urtansi dardi e sassi, e su l’arene
cadon da l’alto rintuzzati e franti.
Qual sasso torna là donde sen viene,
così è respinto, e molti vanno innanti,
molti sassi commisti a molte alate
saette, aguzze i ferri e velenate.
46Ma ben su d’alta torre invitte e belle
temprano a gli occhi il marzial sgomento
le due pugnaci barbare donzelle,
nude i lacerti e i capei sciolte al vento.
Deposti gli archi d’or già trattan elle
seriche fionde con el man d’argento,
et or globi d’acciar leggiadre e ree
n’aventan lunge et or selci rifee.
47E l’una d’esse (e questa è la guerriera
del Nil) già la vittoria assai desia,
ché ’l bel prigion in premio ella ne spera
e al re chiederlo in dono anco oseria;
ma di costei ne la rivale altera
lo stesso affetto altre lusinghe cria:
obligarsi ’l suo vago agogna e brama
in modi eccelsi ella ch’è altera et ama.
48Dicea tra sé: – Mena, o Tigrina, mena
a la bella prigion di notte il mago
e fa che tolto a strana empia catena
sia quegli a cui servir tuo core è vago.
Mettilo in libertate e l’incatena
con nodo in cortesia tenace e vago.
L’incantatore ancidi, il corpo ascondi,
forse fia che tue brame il Ciel secondi -.
49Sì queste due tra’ lor pensier più grati,
e vibran da le fionde orrori e morti,
ambe ricche così de’ pregi innati
che non sai se più belle o se più forti.
Rotan le bianche braccia in fra gli aurati
de le diffuse chiome errori attorti,
e el chiome e le braccia, alti fulgori,
mischiano a’ lampi d’or lampi d’avori,
50arti pur d’Asmodeo, ma per celeste
grazia or non punge il dardo empio amoroso,
franchi or gli amanti, e schifa ognun con preste
ciglia il bel lume altero e periglioso.
E vibran verso altrove armi funeste,
e Marte è fiero più, più ruinoso,
Cosmante, Anselmo qui, qui Irlando, Arnaldo,
qui Afron innanzi a tutti invitto e saldo.
51Afron dardi non già ma lancie aventa
et ogni lancia è gran nodosa trave,
né cura l’arme barbare e sgomenta
i nemici, e più squadre anciso n’have,
né tra ’l suo travagliar, ch’ei non rallenta,
scema è sua forza, o pur sua lena è grave.
Ma ciò sdegna l’amazzone superba
e si rivolge in lui fiera et acerba.
52Resta in un piè, gira la fromba, e sette
gran selci in sette volte ella ne scioglie,
né pur nòce al guerrier, per l’armi elette,
e sempre ne le tempie o in fronte il coglie.
Turbossi, e poich’alquanto incerta stette,
disse: «Fionda a costui vita non toglie,
et io chiara non fui mai fondatrice,
ma spesso arciera asprissima e felice».
53Tacque, e quell’arme avolse al bianco collo
e l’arco ripigliò pur fiera e bella,
e fe’ le corna urtar mentre tirollo
e col fune toccò l’arsa mammella,
e contro il cavalier, mentre scoccollo,
votiva in verso il ciel mandò favella:
«S’a giusti prieghi tu l’orecchie inchini,
drizza tal colpo, o Dio de’ Saracini.
54Ciò tra nemiche spoglie, in bronzi scritto
lascierò per tua gloria entro il tuo tempio».
Macone non udì, ma in Ciel prescritto
era ch’ella d’Afron faccia alto scempio,
pur tal decreto falsamente ascritto
fu da’ pagani a dio fallace et empio,
tanta ombra è ne’ mortali, e la pennuta
canna portò al baron mortal feruta.
55S’immerse entro l’ascella il dardo atroce,
ch’ivi a colpir la sagittaria attese,
del braccio attese il moto, e giù veloce
la saetta colà ch’al cor discese.
Fuggì la vita a un punto, e senza voce
tra’ labri a pena un gorgogliar s’intese;
cadde repente, e parve in monte alpino
mancante in sue radici annoso pino.
56Molta terra ingombrò, ma ratto corse
in lui Cosmante, e l’afferrò pietoso,
membra quando tra l’acque egli il soccorse
con la lunga asta, e ’l ciglio ha lagrimoso;
il porta a gli steccati, ahi sol per porse
sotterra uom tanto eccelso e glorioso.
Ma si sospinge avante, e fulminando
il loco al morto eroi difende Irlando.
57Tutta l’ampia faretra ei vòta, e lancia
indefesso egli poi cerri ferrati,
e mostra ch’equalmente Italia e Francia
danno alme eccelse a’ fatti alti e pregiati.
Giungonlo in fronte intanto e su la guancia
strai misti a sassi, a strai sassi accoppiati,
e ne rimbomba qual percossa squilla
l’ampio elmo, e via più d’Ischia arde e sfavilla.
58Seguonlo Anselmo e ’l feltrio (emuli impari)
già quinci e quindi, e stanli a dietro alquanto,
a lui secondo et a se stessi pari,
e togliono a ben mille il pregio e ’l vanto,
tenendo essi e scoccando archi d’acciari
rompono a’ Turchi ogni ferrato ammanto,
spezzano usberghi e scudi, elmi e loriche,
oh generose e splendide fatiche.
Letaspe offre una soluzione alo sgomento dei pagani, mentre Comarco suggerisce al resa e la conversione (59-72,4)
59Ma già di terra immersa il flutto è pieno
e più non va nel fosso, e fu ne l’ora
che rotto il fosso et il vicin terreno
dal rotto fosso suo l’onda uscì fuora.
Oh qual terrore, oh qual paura il seno
scosse, e ristrinse a’ Saracini allora,
e qui cessaron l’armi, e glorioso
Tancredi i vincitor trasse a riposo.
60Scrissero in ciel quest’opre in su quel punto
penne nemiche de l’oblio profondo,
e già con l’ultim’ora il sol congiunto
compiva il giro al suo camin rotondo,
e seguito da Venere e non giunto
a la notte ei cedea l’artico mondo,
ma tra’ suoi duci allor con l’arco in mano
stava pur su le mura il re pagano.
61Già senza le tant’acque il sì gran fosso
questi mirò tra sbigottito e forte,
e, da’ frangenti di fortuna scosso,
librò in sua mente la sua instabil sorte.
Ma da’ fati medesmi ripercosso
stava ogni suo baron con guance smorte,
salvo Ottoman, salvo le due sì altere
invitte in armi barbare guerriere.
62Tra lo sgomento vil sol per non vile
terror prendeva affanno il buon Comarco,
che morte non temea, né di servile
catena (come gli altri) il duro incarco,
ma dentro l’alma avea timor gentile
per gli error maomettani onde fu carco,
quinci de l’alme a pro, non che del regno,
l’eloquenza impiegava egli e l’ingegno.
63Sempre ciò fea, dovunque occasione
ne gli porgean le barbare ruine,
ma con nova arte usò vario sermone
tra quelle estreme angoscie saracine.
Disse che desto avean con la prigione
di Boemondo in sé l’ire divine,
e chieder pace e scioglier l’uno e l’altro
prigionier persoase ei saggio e scaltro.
64E poi mostrò che sola una è la via
de la salute eterna, e ch’è Dio vero
il figliuol glorioso di Maria
e dono soprauman la fé di Piero,
e conchiudea che legge alta e sì pia
doveano essi abbracciar, benché aspro e fiero
il guardasse Ottoman, per la cui spada
gran martire di Cristo ei fia che cada.
65Anco le ciglia intorbidò Gazerse
per quanto a miglior fin Comarco ha detto,
ma dolce più che nettare s’immerse
l’altro dir de lo stesso entro il suo petto,
sì che volgendo a le fortune averse
e non a’ danni eterni il suo intelletto,
disegna aprir le porte et ambo sciorre
gli eroi sovrani, e sé d’impaccio tòrre.
66Ma con voce infernal tacitamente
Satan sgridollo, e gli fe’ forza al core,
e ’l bel desio d’accordo a la sua mente
tolse, e l’alma ridusse al primo errore,
quinci a fuggir suo mal non fu possente
quegli, e pur crebbe il suo fatal terrore;
restò co’ guardi in terra, e tutto in bando
da se medesmo intanto andò vagando.
67Poi si scosse, et al mago che tra’ duci
quivi era in cerchio, i suoi pensier rivolse,
e poich’alquanto in lui fermò le luci,
aprì le labra, e tal sermon disciolse:
«O tu, che ’n altre strade a gire induci
talora il sole, o tu per cui si svolse
ogn’ordin natural più d’una volta,
e cui regno infernal tremando ascolta,
68se dentro l’avvenir spiar tu puoi
di tanta guerra il fin, fammel palese,
che così meglio il pro di questi eroi
io scieglierò tra le guerriere imprese,
e non fia che Comarco più n’annoi
con voci ad onta di Macone intese.
Già furo in questa guerra al nostro regno
più volte l’arti tue scudo e sostegno».
69«Splendor del paganesmo, e ne le dure
fortune invitto re «risponde il mago,
«per due diverse vie ne le future
cose spaziasi l’arte ond’io son vago,
gli astri ella osserva, e tragge dal’oscure
valli d’abisso profetante imago,
ma quel che saper vuoi predir non sanno
le stelle, e muti in ciò gli abissi stanno.
70Pur, se ’l permetti tu, modo io più degno
ho di magia, ma troppo atroce e strano;
questi mai non fallì, questi il disegno,
questi il mio affetto unqua non rese vano,
et è ch’io prema e strazi oltr’ogni segno
le membra ancise di guerrier pagano
finch’a forza d’incanto in lui s’infonda
l’alma di novo, et egli a me risponda.
71L’alme de’ saracin in quanto già fue,
quanto sarà, quanto è mirano in Dio,
però se d’esse ad una omai le sue
spoglie terrene ripigliar facc’io,
sapronne quanto appagherà le tue
voglie novelle in sì gentil desio,
ma volentier non riede al rotto e frale
suo corpo essa felice et immortale».
72«Abbi qual vuoi licenza, «il re ripiglia,
«sono qua suso, il sai, morti infiniti,
e ne l’aurora poi bianca e vermiglia
gli strani mi dirai risponsi uditi».
Tace, e stupido ognun fisa le cigliaLetaspe risuscita un morto e ne ottiene un vaticinio: finché Idro resterà loro prigioniero la guerra volgerà a loro favore (72-5-81,4)
nel mago, et ei sen va senza altri inviti
a trattar con malvage abbominande
maniere di magia l’opre esecrande.
73Atra notte il circonda, e tra’ giacenti
cadaveri impiagati ecco s’aggira.
Accende un picciol lume e poi, l’algenti
piaghe volgendo, i corpi intento mira;
mira s’intero è ’l loco onde alimenti
d’aure a sé tragge il cor mentre respira,
e s’intera è la parte onde sen vola
sciolta et articolata la parola.
74Non rotto in queste parti un corpo elesse
l’iniquo, e l’ebbe di catene avinto,
poi si sospinse ov’erano aspre e spesse
pietre, ahi crudele, a lacerar l’estinto.
Colà se ’l trasse, e con flagelli il presse
tutto ad impresa dispietata accinto,
et indi il raggirò per vie distorte
così per torlo ei per poca ora a morte.
75Giunto in suo albergo, qual crudel mistura
quinci di cose e quanto umor leteo?
Poi chiamò te con lingua ei troppo impura,
stigio tiranni, o Giove acheronteo.
Non si movea l’estinto, e con più dura
ferza in lui non cessava il mago reo;
diceva: «O ti ravviva, o via maggiori
attendi di mia man pene e martori».
76Così l’incantator, né pur il moto
quei ripigliava, et egli allor più orrendo
battealo, e scongiurava Atropo e Cloto
in nome del gran dio vero e tremendo.
Come il demon ci inganna! Ah quello immoto
corpo mosse Satan, e ’n lui fingendo
vita e le vene riscaldando e ’l sangue
fe’ che «Ohimè «dica, e ’n piè sorga l’essangue.
77Che sgomentò a vederlo? E ’l mago in esso
pur guardò fiso, e senza alcun terrore;
poi disse: «O tu, ch’a Macometto appresso
miri ’l tutto là su, né prendi errore,
dimmi se ’l Franco è per restar qui oppresso
o s’esser per destin de’ vincitore,
scoprimi il fin di tanta guerra, et io
per mercé ti farò cortese e pio.
78Ti darò degna tomba, e farò incanto
sopra ogn’altra magia tal che non mai
per ripigliar il tuo terrestre manto
costretto d’altro mago esser potrai.
Ma dimmi il vero, e ’l morto corpo intanto
sostien, ch’or or disciolto indi sarai».
E quei: «Quantunque immanemente audace
in me tu fosti, io pur sarò verace.
79Così le tue promesse a me sian vere,
ahi quanto m’è di noia e di martire
lo scender giù da le celesti sfere
e le membra in tal modo rivestire».
Il mago giurò il Ciel, giurò le nere
inferne deità tanto adempire
quanto promesso aveali, e come pria
allor quel morto riparlar s’udia.
80«Entro molta caligine «egli disse,
«ciò che tu brami io vidi involto.
Pur sorti inique e ree per noi son fisse
s’a tuoi maghi legami Idro vien tolto.
Così Dio stabilì, così prefisse,
l’avanzo in cieco oblio lasciò sepolto.
Ma tue catene magiche sian rotte
ne la futura ohimè prossima notte».
81Tremò tra queste voci il ravvivato
per esecrandi incanti saracino,
e da virtù tartarea abbandonato
cadde con crollo grave e repentino.
Indi ne l’Oriente disserratoGazerse decide di bruciare la cella di Idro con dentro l’eroe (81,5-86,7)
I cristiani danno sepoltura ai morti (86,7-93,4)
tra lampi bianchi e d’or ridea il matino,
ma per l’aspra risposta egro et afflitto
fea verso il re l’incantator tragitto.
82Quei l’accolse tra’ duci, egli dolente
e con dimesse ciglia il tutto espose,
e poi soggiunse: «O tu, cui d’alta gente
Dio tra le mani alteri scettri pose,
e voi, cui fece anco il destin possente
regi ministri di sovrane cose,
chi ne toglie il prigion ch’a nostro male
oggetto è divenuto oggi fatale?
83Forse da le tessaliche foreste
incantator più mago han tratto i Franchi;
oltre spiar non so, né par che reste
altro onde il Cielo onde l’Inferno io stanchi.
Che caggian sovra noi sì ree tempeste
ch’a se stessa et a me l’arte mia manchi?
Fulminatemi, o Cieli, e ti disserra
infin al centro e tu m’inghiotti, o terra».
84Tacque, e i labri e le man l’empio si morse
e bestemmiò di Circe i riti e i versi.
Ma ’l re, poiché pensoso in sé discorse,
gli occhi verso i suoi duci ebbe conversi,
e disse: «O forti, uom forte in terra opporse
puote al duro tenor de’ fati aversi,
e sia fortezza et atto eccelso e degno
ciò che ne persoade inclito sdegno.
85Ardiam col carcer suo tal prigioniero
a vadano ambo in cenere e ’n faville,
e, così spento un tal fatal guerriero,
sorti ne fabrichiam dolci e tranquille.
Anzi trovar chi ’l vuol disciorre io spero
e ciò par ch’anco gioia al cor mi stille,
guardia poniam su ’l tramontar del giorno
per tanto effetto a sua prigion d’intorno.
86Sia che tal guardia ivi osservando attenda
finché dal mezzo ciel notte dechini,
poi la prigione e ’l prigioniero incenda
e schernisca i rei fati e i rei destini.
Intanto il fosso e i muri ognun difenda»,
sì disse, e spirò audacia a’ Saracini,
poi ’l tutto ei rivedea; ma in altra parte
Tancredi differia l’opre di Marte.
87Diceva a’ duci suoi: «mille e mill’anni
ove bella virtù fia che soggiorni
ammireransi i vostri eccelsi affanni
de’ tre sì chiari, gloriosi giorni.
Ben disserra ogni via Mare a’ Normanni
perché d’ampi trofei pietà s’adorni;
de l’opra fatto è ’l più, poco rimane,
o gloria alta de l’armi, alme sovrane.
88Leggo i cor ne le fronti, anco volete
or voi qual vasto fosso empir di terra,
né riposar un dì, ben no ’l tacete
co’ volti, se ’l silenzio il preme e serra.
Dunque pur oggi a noi neghiam quiete,
travagliamo oggi ancor, ma non in guerra;
no no, d’altra pietate, al Ciel più amiche,
oggi siano per Dio nostre fatiche.
89Non restin più insepolti i pii guerrieri
i quai pur dianzi travagliàr cotanto,
ma porgiamo i funebri ministeri
ad essi prestamente e presto il pianto.
Pietosi ciò farem, poi forti e fieri
avrem con sommo onor l’ultimo vanto;
il fosso adempiremo, e in varia e dura
forma di guerra espugnerem le mura».
90Tacque, e quinci a quell’opre i fiondatori
e quindi i saggittari in guardia mise,
le porpore ciascun depose e gli ori
e pianser tutti in su le squadre ancise.
Sparsero i sacerdoti arabi odori
e sacre in dosso avean negre divise;
fèr cento altari, e ’n suon lugubre e pio
dier per tant’alme il dritto al sommo Dio.
91Né pur in preda al lezzo ivi restaro
tra l’acque tolte al fosso i corpi spenti,
che nulla in qualche parte in ciò mancaro
providi i Franchi al tristo officio intenti,
e l’arme e i campi ribagnò l’amaro
lutto de gli occhi in fervidi torrenti,
bandiere inchine et ululanti trombe
ma care al Cielo e gloriose tombe.
92Di gran funerea pompa al chiaro Afrone
diessi il colmo, e sepolcro altero e grande,
ma più l’ornàr sue belliche corone
che di gloria a Calabria apron ghirlanda.
lungo il lito, ove il Fasi alfin depone
l’onda ch’al mar si mesce e ’n mar si spande,
sta tal sepolcro, e fia che tal ne passi
fama qual sommo infra mill’altri stassi.
93Qui del qui chiuso eroe lo scudo pende,
che bianco e schietto usar volle in battaglia,
et or l’imagin sua sculta vi splende,
tra lampi d’un folgor che gli occhi abbaglia.
Ma nel gran mar di Calpe il sol discendeTigrina è incaricata di bruciare la prigione di Idro, ma uccide il mago e libera l’eroe, e gli si dichiara (93,5-122,6)
perché la notte in Oriente saglia,
et a Tigrina, come il Ciel permette,
il turco re l’opra sì rea commette.
94Nulla sa de’ suoi amori, e già la spinge,
ma in darno, a l’empietà ch’egli dispose.
Costei s’inchina e parte, e pensa e finge
e prende fiamme in cavo rame ascose,
e del suo vago la prigion poi cinge
con guardie, e splende in armi auree e pompose,
e le vergini sue di Palla amiche
dispone a le vigilie, a le fatiche.
95Munìo le vie, salvo la via onde vassi
di quello albergo ad uscio imo e secreto,
quivi su ’l limitar frena i suoi passi,
e ch’altri non vi vada è suo divieto;
ma da l’ostello in lei par che trapassi
con morte e vita il suo fatal decreto,
cotanta hanno possanza i muri e i tetti
e gli usci entro cui stan gli amati oggetti.
96Ella in tale magion dal dì che chiuso
Idro restovvi, imprigionò sua mente,
e sempre, ove agio aveane, ebbe per uso
trapassar quindi e impallidir repente.
Allor parean le Parche il filo al fuso
troncar per essa attonita et algente,
e ’n quel momento un amoroso orrore
i sensi fea smarrir, gli spirti al core.
97ma lunga ora restar or qui su questa
soglia convienle, ahi misera, a vegghiare,
e tanto affanno ha più quanto più resta
e di membra un tremoto è il suo restare.
Audace intanto col pensier s’appresta
a quanto sue virtù debbia impiegare,
e piene d’astri le celesti ruote
guarda, e parla tra sé con queste note:
98- Troppo arride fortuna a’ miei disegni,
troppo il ciel m’è secondo e ’l pio Macone.
Or farò forza al mago, ora i ritegni
maghi fian tolti a sì gentil prigione,
anzi or dando al fellon supplizi degni
con questa insieme io l’arderò prigione,
darò scampo al mio sole, e fia nascoso
il mio misfatto altero et amoroso.
99Per entrar quivi adulterina chiave
apprestata aggio, il resto è in mia balia,
sia che può, cada il ciel, di nulla pave
salvo del prigion l’anima mia.
O con qual pianto fia che i piè gli lave
quand’io dirò qual è mia prigionia.
Chiedrò tanti Imenei? fia che distingua
le passion del cor l’ardita lingua? -.
100Tace, e rivolve i pensier stessi e smorta
sta finché tutta la città poi tace.
Già l’ora quinta a l’alta notte è scorta,
et al mago ella va forte et audace,
et è così fingevole et accorta
che quel non crede in lei mente fallace.
Essa gli dice esser dal re mandata,
ma ch’altrove scoprir de’ l’ambasciata.
101Credeo l’incantator, e molto velo
ne l’intelletto il sommo Dio gli mise;
l’amazzone egli segue, e strano gielo
sente tra i polsi e sue virtù conquise.
Questa seco il menò sotto atro cielo
al loco onde sue guardie eran divise,
al limitar secreto, e qui se stessa
cheta col mago innante ebbe intromessa.
102Ma in aprir, ma in serra l’uscio in un punto,
in un punto i suoi spirti aperse e chiuse,
e ’l timor e ’l piacer misto e congiunto
per mille vie ne l’alma a lei s’infuse.
Poi tosto fu per gli occhi il cor compunto
e dentro l’ossa un ghiaccio si diffuse;
vide ella, vide, e quasi al primo sguardo
la beltà ch’è per lei facella e dardo.
103Scarsa lampa è là dentro, e mal discaccia
ivi l’ombre, e con l’ombre invan contende,
e pur sotto l’incanto che l’allaccia
il bel prigion quasi un merigge splende.
Tien dietro al tergo avinte ambe le braccia,
supino, e sopra un ceppo i membri stende,
l’armi sue indosso, et erta la visiera
scopre in su ’l volto l’amorosa sfera.
104E già sospetta il mago, ma vedere
oltre et oltre poter il Ciel l’ha tolto.
La donna volge in lui viste apre e fiere
e torna indi a guardar l’amato volto,
ma poi, quasi uom che castigando impere,
trasse il brando e ’n colui l’ebbe rivolto,
e con tremendo sì ma basso strido
«Sciogli un sì degno eroe, «disse «o t’uccido».
105Né men gli fea sentir dentro il reo fianco
l’acutissima punta, e quei tremando
né sì né no dicea, pallido e bianco,
et essa: «Lento tu dov’io comando?».
Stupiva e non parlava il guerrier franco,
molti pensier in un pensier girando,
e ’l mago: «Io già non sono, o chiara, o forte,
ritroso ad ubidir, ché mi dai morte?».
106Sì disse, e susurrò magica voce,
e d’ogni nodo il bel prigion discinse.
L’amazzone implacabile et atroce
ne l’empio lato il ferro allor sospinse,
e mandò l’alma a la tartarea foce,
e poi contro il bel cinto ella s’infinse,
già con la stessa spada in un momento
tutto il recise in cento parti e cento.
107Sa di chi f, però così delira
e flagello entro il cor ben n’ebbe innanti,
pur dissimula e tace, e nobil ira
mostra ne gli atti suoi, n’ suoi sembianti.
Poi dice: «Or l’empio mago or più non spira
e franto è il cinto ov’ei locò gli incanti,
e tu per opra mia tolto a’ ritegni
tu sei, ch’i re incateni e domi i regni».
108tacque, e quei sorse; ella più d’un colore
variando arrossì, poscia soggiunse:
«Tigrina io sono, oh che non puote Amore!
Aspra e selvaggia e fiera, Amor mi giunse»,
e qui troncò le voci, e qui il pallore
dal volto alabastrin l’ostro disgiunse,
e ’l pianto traboccò come s’un fonte
fosse di larga vena entro usa fronte.
109Tra lagrime cotante par che vole
su ’l volto a discoprirsi il cor che geme,
e Cinzia essa somiglia appresso il sole
o stella ch’anzi il dì vacilli e treme.
Poi con modeste e timide parole
disse che sua beltà l’affligge e preme,
disse a qual foco allor quivi il togliea,
et a quei detti suoi questi giungea:
110«Se ’n tua sposa mi degni, io battezzarmi
premetto, e cangierò l’elmo col velo,
e s’armata mi vuoi riterrò l’armi
e sarò teco in guerra al caldo, al gielo;
ma se tanto non può mio merto alzarmi,
né tanta gioia a me destina il cielo,
piacciati almen che ’n gonna io tra tue serve
ti serva, o in armi ove la pugna ferve».
111A voci sì sommesse e d’onor piene,
a la spada ch’al mago il cor trafisse,
al rogo onde ella il toglie, a le catene
magiche in lui per lei rotte e discisse
pensò il guerriero, et a le gravi pene
di così degna amante, e poi le disse:
«Vergine eccelsa, a’ cui talami egregi
degno è il concorso de’ più chiari regi,
112scegliesti oggetto che non tanto forse
quanto egli avien che tua mercé sublimi,
ma tua rara pietà ch’a me soccorse
farà che servo sempre tuo io mi stimi».
Tra queste voci il sangue in lei sen corse
entro i seni del cor riposti et imi,
e scolorissi il volto, e ’l volto poi
il sangue scolorì con gli ostri suoi.
113Soggiungeva il guerrier: «Ma se l’amore
è tanto in te quanto con l’opre il mostre,
e se s’appiglia in alto e regal core
gradisci ancor tu el preghiere nostre.
T’onor e t’amo, e ben fia che l’onore
mio verso te di par con l’amor giostre,
ma senza sposa in guerra io gli anni miei
di Dio in servigio volentier vivrei.
114Pur ove il Ciel mutasse il mio pensiero
tu sarai mia consorte, io sì ’l prometto;
in tanto tuo fedel, tuo cavaliero,
questo è quanto a te chiedo, io sarò detto».
Così le dice, e d’ogni parte intero
la donna dentro il cor sente il diletto;
creder ella non può ch’egli non brami
i dolci d’Imeneo santi legami.
115Alte grazie gli rende, e poi ’l suo dire
così ripiglia in suon roco e tremante:
«Se ’l mio onor curi, a te convien partire,
senza vendetta, or con notturne piante,
là da le rocche io ti porrò, tu gire
potraine a le tue tende amato amante,
ma, fuor ch’al tuo gran padre, ascondi altrui
che di tua libertà tal mezzo io fui».
116Egli non contradice, essa il conduce
fuor di quella prigion vèr la muraglia.
Vanno tra l’ombre, e pur dove riluce
il suo amoroso sole ella s’abbaglia,
e vi rivolge l’una e l’altra luce
de gli occhi, a cui non fu che d’altro caglia.
or insidia il bel volto, or ne la mano
pasce gli affetti del suo cor non sano.
117Stringer vorria tal man, vorrebbe averla
entro l’avorio del gentil suo seno,
né crede che sfavilli indica perla
sparsa così d’oriental sereno,
e ne bea gli egri spirti in rivederla,
e i sensi, ch’al piacer venivan meno;
alfin s’arresta ove a piè di munita
sublime torre era murale uscita,
118e dice: «Io questa torre in guardia tegno,
signor, e tolte n’ho più mie donzelle
perché l’effetto del mio gran disegno,
questa partenza tua non veggan elle».
Tace, e l’eretto in su ponte di legno
cala, e tra le sue mani invitte e belle,
pur riguardando a la sua dolce pena,
strisciar la grave fa ferrea catena.
119E poi disserra la ferrata porta,
ma dove vola il pensier tristo e vago?
nova paura infra ’l piacere è sorta,
e tra gli occhi ha di pianto un fiume, un lago.
A depor quelle angoscie egli l’esorta
ma di sventure ella col cor presago
molto vuol, nulla ardisce, alfin le chiede
licenza di baciarli o l’arme o ’l piede.
120Et egli: «O invitta, adunque oblii chi sei?
o pur quant’io ti devo oblia il mio core?
In rari modi a te gli affetti miei
tua cortesia sommette e ’l tuo valore,
e mie promesse, onde dubbiar non dei,
io qui confirmo, o de le donne onore».
Così disse, e la man bianca le porse
e ’l piacer lasciò in lei la vita in forse.
121Poich’è partito il ponte essa ritira,
per la catena che di novo afferra,
e tra la gioia pur piagne e sospira
e i cardini rivolge e i guardi atterra.
Al lume de le stelle indi s’aggira
per trovar l’orme amate in su la terra,
e vi s’inchina, e fervidi e vivaci
su le belle vestigia imprime i baci.
122Alfin ritorna onde ella venne, e lieta
le disposte colà guardie rivede,
e parte inviane a la sua torre, e vieta
i sonni e requie altrui nulla concede.
molto domanda, e molto irrequieta
sta con le ciglia, e mai non ferma il piede.
Ma su le sentinelle omai giungeaIdro giunge al campo crociato (122,7-127,6)
il bello eroe che ’l cor l’afflige e bea.
123Duce di quelle genti il feltrio Arnaldo
benché il conosca a gli atti, al noto arnese,
pur ne gli offici suoi rigido e saldo
rimase, e piegò l’asta e ’l nome chiese.
Idro sospinse i passi altero e baldo
e scoprìo ’l volto a farglisi palese,
la visiera egli alzò, che calò allora
quando dianzi da’ muri egli uscì fuora.
124Ma grida Arnaldo: «Eh chi tra l’armi chiuso
te non conosce? a che scopri il sembiante?
ma de le guardie militari l’uso,
signor, tu sai, deh non andar più innante».
Et Idro: «Io resto, e me colpo et accuso,
o specchio di milizia alto e prestante,
o raro essempio d’alta disciplina
per cui de’ Babilon temer ruina.
125Pur di ciò manda aviso al capitano
che questa cortesia ben nulla offende».
E quegli: «O marzial pegno sovrano,
onde sue maggior glorie Europa attende,
verso il duce de’ duci il mio germano
con sì lieta novella i passi stende,
che te da lunge a gli atti, al moto altero
non ch’a gli aspi conobbe ei del cimiero».
126Così risponde, e tosto tra corona
di capitani il capitano arriva.
Già dan loco le guardie, e già risuona
a lieti stridi la propinqua riva.
Verso Idro grida ognun: «Chi ti sprigiona?
tua propria forza? o man celeste e diva?
Oh quanto ardisti, oh quanto festi, oh quanto
cede al tuo novo ogni vetusto vanto!».
127Poi l’abbraccian tutti, ma le gote
Roberta allor turbando impallidia,
misera, un tristo annunzio il cor le scuote
ch’è reo messaggio a lei di Gelosia;
pur dond’ei venga, ella spiar non puote
e n’ha pena e timor, né sa che sia.
Ma l’amazzone i fochi in rame chiusiNilea vede le fiamme del rogo e si uccide con il pugnale di Idro, il suo cadavere è ritrovato da Tigrina che si sdegna del suo coraggio (127,7-151)
per arder la prigione avea diffusi.
128Già su ’l tetto stridean l’accese travi
e la fiamma inalzava in rote i fumi,
e cadean giù mille infocati e gravi
tronchi, e tutta parea l’aria s’allumi.
Tu ridevi ne l’alma, e fuor mostravi
altre gioie, o Tigrina, in fra quei lumi,
era di furto il mago arso e disfatto,
era al reo foco il bello eroe sottratto.
129Ma ’l re con gli altri suoi, cui fu nascoso
ogn’altro oprar di lei, godea tradito.
Godon tutti in veder sì luminoso
incendio, e nessun sa ch’egli è schernito.
Sola Nilea con fronte e cor doglioso
stava, e le fea la morte un duro invito.
Empio Amor, che non puoi? Macchiar sua fama
costei non cura, e di morir sol brama.
130Ella tosto ch’udì l’aspra sentenza
che dannò ad empie fiamme il suo bel vago,
tremò. sudò, gelò, rimase senza
moto, et ombra di sé parve et imago;
poi disse: – Ohimè, del Ciel quale inclemenza,
qual reo pianeta è del mio mal sì vago?
Quasi di fragil vetro in su diamante
son rotte mie speranze in uno istante.
131Così godrò l’eroe bello et invitto
tra le vittorie? al re sì ’l chiedrò in dono?
Misera, ogni conforto emmi interditto
e di sventure ultimo essempio io sono.
Ecco l’estremo punto a lui prescritto,
et a l’egra mia vita io pur perdono?
No no, la troncherò su quel momento
che dal rogo omicida ei verrà spento.
132Entro il mio sen, ch’egli primier col brando
trafisse, io chiuderò tutto il suo pugnale,
e morrò quasi di sua mano, e in bando
andrà quest’alma ad eternar mio male -.
Tacque, e la notte poi stette aspettando,
che tosto sorse, e ’l mondo ebbe tra l’ale.
Ascese allor su l’alta torre, e scinse
l’aurato usbergo, e ’l caro ferro strinse.
133Così fermossi, e pianse, et in lagnarsi,
sotto atro cielo trapassò quell’ore.
Alfin repente seminati e sparsi
vide ella i lampi del vibrato ardore,
e tremò tutta, e ’n folti e non iscarsi
ruscelli traboccò freddo il sudore,
e ’l volto impallidì, ma i pallor suoi
parean raggi eritrei, splendori eoi.
134Crebber le fiamme, et ardersi da loro
sentio gli spirti suoi tra’ suoi desiri,
e la vesta del sen, ch’è d’ostro e d’oro,
e s’affibbia con perle e con zaffiri,
allor squarciossi, e i suoi begli occhi foro
tra le nubi del duol baleno et iti,
e da le nude mamme alteri et ampi
uscian d’avorio e d’alabastro i lampi.
135In una d’esse di nativo argento
un bel solco splendea cavo e sottile,
e tal de la mammella era ornamento
ch’appo tal fregio ogni gran fregio è vile.
Questi è l’alta reliquia (et ella intento
troppo vi tenne il guardo egro e gentile),
l’alta reliquia de al dolce e vaga
ch’ebbe dal brando amato amata piaga.
136Pensò guardando et «Oh diletto e caro
pegno, «poi disse «ahi lassa, io pur sovente
ti svelai, ti guardai, membrai l’acciaro
che fin qui trapassò bello e lucente.
Piegai le labra, che baciarti osaro,
e di lieti pensier cibai la mente,
finsi in et, finsi i baci io di colui
onde ne l’alma anco impiagata io fui.
137Quai desii? quai speranze? ahi perché almeno
non gi’ più dentro allor suo brando irato?
ch’indi a me rotto e penetrato il seno
lo spirto in miglior punto avrei versato».
Qui si tacque, e di lagrime avea pieno
il petto, e poiché ’l petto ebbe baciato,
indugia alquanto, e pur col viso chino,
su quel limpido oggetto alabastrino.
138Alfin solleva il capo, e vèr l’orrendo
fervido incendio i torbidi occhi aggira,
e nulla, fuore chi foco, ivi vedendo
quel ch’agogna ivi cerca e risospira,
e tra sue ree fortune il cor volgendo
pur dentro le gran vampe intenta mira,
et oh qual vago error di nove forme
delude i sensi in quell’ardor difforme.
139Ella crede vedervi il suo conforto
fulgido e via più bello in su ’l morire.
«Deh pria che resti da le fiamme absorto
grida deh fammi la tua voce udire».
Poi le sembrava incenerito e morto
in braccio a le faville egli vanire,
allor mirò il pugnal che stretto avea,
et «A che indugi or più, «disse «o Nilea?
140Può con sua morte raddolcir tua morte
colui che dolci a te rendea gli affanni,
la vita amara è omai, felice sorte
s’io rompo in su tal punto il fil de gli anni.
Egli ne scorga, e quai più grate scorte
unqua quest’alma avria battendo i vanni?
Piacciali ancor che riapriam la bella
ferita ond’egli aprì nostra mammella.
141Col suo pugnal io la riapro», e ’n questa
voce bacia il pugnale, alza la mano,
et a’ rai de la fiamma atra e funesta
rimira il segno, e non colpirvi in vano,
il bel segno che d’essa i guardi arresta
del nudo sen là tra ’l candor sovrano,
misera, e contro sé da sé impiegato
così è il bel don del cavaliero amato.
142Riapre il terso acciar la pura neve
de la verginea poppa e vi s’asconde,
e ’l cor avidamente in sé ’l riceve
tra l’antiche d’Amor piaghe profonde.
Ella gioisce, et un soave e greve
tremulo ohimè col suo morir confonde;
piega il ginocchio a poco a poco, e cade
morta, ma non da lei fugge beltade.
143Giace supina, e dentro la ferita
stassi l’acciar del bel pugnal diletto,
e fredde e morte le sue bianche dita
stringono il ferro ancor su ’l bianco petto.
Spiccia il bel sangue, et ogni sua sdruscita
stilla invermiglia quello avorio ischietto,
e minuti rubin par che v’asperga
mentre spruzzando il bagna, ornando il verga.
144Così purpureo fil segna e trapunge
candidissimo bisso, e tal dipinto
è d’ostro il bel matin se no ’l raggiunge
il novo sole a sormontare accinto.
Morta è la bella donna, e par che lunge
la morte stia dal suo bel corpo estinto,
già viva par la morta donna, e ’n seno
e nel volto le splende un bel sereno.
145Cadea la notte intanto, e ’l dolce gielo
seminava la stella matutina,
e l’alba a l’aurea fronte il roseo velo
mettendo apria la porta cristallina,
et a Nilea tra quello aprir del cielo
scaltra, e con finto duol venìa Tigrina,
e su l’eccelsa torre ella primiera
morta vide del Nil l’alta guerriera.
146A prima vista ne gioì, ma poi
ch’alquanto s’internò, forte si dolse:
penetrò la cagione onde i bei suoi
giorni troncar l’inclita egizia volse,
e come cosa che più ch’altro annoi
questa membranza ogni piacer le tolse.
Sospira e freme, e inusitato e fello
ha dentro il cor di gelosia flagello.
147Sdegna che sua rivale amò cotanto,
sdegna che per amore il seno aprissi,
e sdegna ch’amoroso altero vanto
n’acquisterà qual non mai d’altra udissi,
ove rider dovea, discioglie il pianto,
e su l’estinta pur gli occhi tien fissi,
crede vederla in bel trionfo, ahi folle
e le mani si morde e d’ira bolle.
148Vorrebbe in sé quel ferro e quella piaga
(chi ’l crede?), e dice: «Ah nel morir gioisti,
pensasti al donatore e con al vaga
alma, come credesti, anco il seguisti.
Felice errore, et io contenta e paga
sareine, per morir qual tu moristi».
Tace, e molto in lei guata e poi le toglie
il bel ugnale ad appagar sue voglie.
149Indi ripensa e trema e risospira,
di tanta morta pur su le bellezze,
o con quanto tormento ambe rimira
del sen le bianche e sferiche vaghezze,
e prova ancor, mentre i begli occhi ammira,
per somma gelosia somme amarezze,
e guarda bieca il crine in cui riluce
via più ch’atomi al sole aurea la luce.
150Porta invidia a le mani onde escon fuori
fredde ma candidissime faville,
porta invidia del collo a’ morti albori
ove l’alba d’Amor par che sfaville,
e di grazie leggiadre e di splendori
odia dal capo al piè pregi ben mille;
ma sorgiungea turbe et eroi, quand’ella
questa tra’ labri articolò favella:
151«Ben troppo vaga ti formò natura,
per por dentro il mio cor geloso affetto;
tu m’hai dato amorosa ahi qual paura
e cola haimi di gielo e di sospetto,
e se mi sciogli alfin da l’aspra cura
non pur integro a me lasci il diletto
or ch’altrove sei spirto, e qui gelante
di bellezze cadavero incostante».