ARGOMENTO
Lascia il suo vitreo albergo e va nascosa
la Fama dentro un turbine a’ pagani:
Tigrina per Nilea divine gelosa,
e nova strage empie di Colco i piani.
Ardono alfin con fiamma generosa
le navi loro i franchi capitani,
e prieghi ardenti e pii manda su ’l Cielo
Boemondo, e gradito è in Ciel suo zelo.
La Fama diffonde notizia della sparizione di Idro, Gazerse decide di attaccare, lasciando Nilea a guardia delle mura (1-11)
1Sorge tra ’l polo e la città assediata
quel monte gelidissimo famoso,
ove la notte e ’l dì da l’affamata
aquila il core a Prometeo vien roso,
là su fatta è cristallo l’indurata
neve dopo molt’anni e ’l ghiaccio annoso,
e di questo cristal quivi a la Fama
erta è strana magion, tal già n’è fama.
2Questa magion tutta finestre e tutta
in sue finestre quasi un ciel traspare,
e fu da stigio Cherubin costrutta
con industrie e misure uniche e rare,
per trasparenza et arte indi è condutta
la visiva virtù lunge a guardare,
indi la Scizia e l’Etiopia, et indi
miri gli ultimi Esperii e i lucid’Indi.
3Entro sì fatto ostel chiusa et affisa,
quando a volo non va, la Fama stassi,
e discerne le cose in nova guisa
senza che ’n vari regni ella trapassi,
ma solo allor mirava intenta e fisa
in Colco, ove tenzon sì chiara fassi,
che i casi ella osservar di tanta guerra
bramava, e s’essi empir poi la terra.
4Apria cento palpebre e ’n contro ad esse
splendean centro traslucidi balconi,
e vedea quinci ella le mura oppresse
e quindi il vallo e di Giesù i campioni,
e frenava le cento ale indefesse
del tergo e de le bocche i cento suoni,
ma su quel punto a lei Satan qui giunse,
lusingolla empiamente, e poi soggiunse:
5«Tartare dea, perché le tante voci
tieni in silenzio e freni i tanti vanni,
or che gioisce il Franco, or che sì atroci
sopra nostra Babel fioccano i danni?
Vêr la colca città penne veloci
deh spiega, et ivi tu spargi alti inganni,
spargi grido colà ch’Idro è fuggito
et ardir ne raccoglia il re smarrito».
6Non più il demon, et essa d’un sonoro
e strepitoso turbine si cinge,
e giunta a quei pagani alletta loro
col lieto aviso e cagion false finge.
Qual s’a scosso nocchiero un cheto coro
soffia improviso, e in miglior mar lo spinge,
tal dolce et impensata al re Gazerse
fu tal novella in sue fortune averse.
7Munia costui con armi e con incanti
l’alte sue rocche, e benché pertinace
pur fea disegno omai tòr le pesanti
catene a Boemondo e chieder pace.
Troppo, troppo ei temea quel che gli erranti
lumi e i fissi sostien del ciel mendace,
credea che sia nel vallo, e già su i muri
ne paventava assalti atroci e duri.
8Ma per lo novo annunzio or egli oblia
il suo di pace sì gentil disegno,
e Satan gli ange il core e stigia e ria
fiamma vi mette, e reo tartareo sdegno,
e già per tutta la città s’udia
del gran romor diffuso il grido indegno.
Corrono al turco re lieti i suoi duci
e di pianto ei per gioia empie le luci.
9«Su su, «poi grida «or quel ch’un vero Marte
contro noi parve, or più non è tra’ Franchi;
sia fuga, sia partenza, egli è in disparte
e i cristiani ne sono infermi e manchi.
Da’ generosi unqua virtù non parte,
o che per lor cresca fortuna o manchi.
Noi chiusi più? No no, le porte, i ponti
disserriamo, inchiniamo, armiam le fronti.
10In guerra aperta il sol ne vegga, e poi
la notte abbiam riposo entro le mura.
Nilea qui gli usci custodisca a noi,
guerriera e duce in limpida armatura.
Ma perché ornarsi in guerra i merti suoi
anco denno, anch’io vuo’ che l’alta cura
de le porte in un dì s’abbia costei
e che ne l’altro esca a mercar trofei.
11Vuo’ che scambievolmente in tanto affare
succeda a lei l’amazzone con quello
suo di donzelle rigide e sì rare,
gloria di Marte, marzial drapello».
Non più il re turco, e parve il mar mugghiare,
ma fu Satan che scosse il suo flagello,
irritò l’alme e i cor, fe’ ch’ognun s’arme
d’audacia e d’arme, e frema arme tra l’arme.
Tigrina si duole della scomparsa di Idro (12-25)
12Ma Tigrina dal dì ch’ella co’ vinti
Turchi dentro le mura si ritrasse,
ebbe sembianti di pallor dipinti,
ebbe le sue virtù conquise e lasse,
e, i consigli amorosi in sé distinti,
ascese in parte onde ’l suo ben mirasse,
misera, ma nol vide, e ritrovarlo
credean gli avidi sguardi e vagheggiarlo.
13Gran torre a la sua fede era commessa
tutto dalle cui cime il vallo franco
ognor con gli occhi suoi ricercand’essa
caldissimi sospir traea dal fianco,
infermi i polsi e i sensi, e non concessa
tregua al pensiero guerreggiato e stanco,
e sempre dentro il sen fissa e scolpita
di lui l’imago ond’i suoi spirti han vita.
14Senza sangue et attonito il suo aspetto
e i dolci sonni Amor da lei sbandia,
o se giungeala il sonno ahi questo obietto
ultimo dal suo cor, questo partia,
e tornava primier questo in suo petto
tosto che ’l sonno anco da lei sen gia,
e questo era pur seco anco ne’ brevi
riposi suoi tra’ sogni incerti e lievi.
15Ma se vegghiava, oh come dolce e grato
essilio andava allor con la sua mente,
e sembrava in gentil sasso intagliato
donna che par ch’ascolti e pur non sente.
poi se le voci articolava il fiato
eran le sue virtuti altrove intente,
e le parole altro esprimeano et altro
Amor ne l’alma in suo dolce e più scaltro.
16Rotava alfin la notte, e ruggiadoso
nembo cadea su l’armi sue dorate,
et essa ricercava alcun riposo
sol con gli sguardi infra le tende armate,
quando a tanto d’amor sforzo amoroso
zelo d’onor s’oppose e d’onestate,
pensò al primo suo stato, e si raccese
di nobil ira, e poi così riprese:
17- Chi di ragion, per cui volò sì bella
già la mia fama, ahi chi mi spoglia e priva?
qual cerasta ho nel sen? qual rea facella?
chi tra’ servi d’Amor fa ch’io m’ascriva?
E pur cingo io d’acciar l’arsa mammella,
e sopra ogn’altra amazzone fui schiva.
Oh quali amanti in me girar le ciglia
tremano, ah nel mio error chi mi consiglia?
18A vago non amante e troppo amato
chieder convengo ancor mercé d’amore,
con offerirli, e forse a lui non grato,
de l’alta mia virginitate il fiore.
Che più? chiudrommi in gonna? e inanellato
spiegherò de’ capelli il vago errore?
farò ch’un fil di perle al collo aggiri?
et a l’orecchie appenderò i zaffiri?
19E così per girne a sua gran tenda
attendrò luna scema e buia notte?
o vorrò che l’error mio si comprenda
da tante guardie mai non interrotte?
e che ’l mio stuolo essempi rei n’apprenda,
viste in me d’onestà le leggi rotte?
Ah me infelice! O pur colui furtivo
a me verranne? a tanto opprobrio io vivo?
20Non curerò d’onore? et a mordenti
lingue sarò giusta materia anch’io?
e fia ch’a’ suoi piaceri altri mi tenti,
visto andar macolato il nome mio?
vergogna avrò di me? fia ch’io paventi
de gli uomini il cospetto e ’l mormorio?
quanto appo il re perderò grazia? e dove
fia che compenso a tanti danni io trove?
21Questo mal, questo Amor, già me n’avveggio
da un dolce contemplar prende alimento.
Dunque perché vi penso? e perché al peggio,
poiché scerno il miglior, perché consento?
Pugniamo, e la ragion torni in suo seggio,
pugniamo, e nosco sia bello ardimento,
pugniam contra un piacer che dolce amico
sembra et è crudo e micidial nemico -.
22Tali al fiero piacer, che ’l cor le molce,
la donna marzial contrasti fea,
e la virtù, ch’i bei pensier soffolce,
oppor contra il diletto ella volea,
ma scosse il suo flagello amaro e dolce
Amor, ch’iniqua signoria n’avea,
e ’n lei serva legata e pur ritrosa
usò pena servil, imperiosa.
23Da indi in poi la misera non ebbe
schermo miglior che lagrime e sospiri,
e crebbe suo furor, suo incendio crebbe,
e corser senza freno i suoi desiri.
Ma su quel punto singhiozzando bebbe
umore distillato da’martiri,
doglioso umor che largo traboccando
le squallide sue gote iva irrigando.
24Pentissi del pensier casto e gentile
et al tiranno Amor perdon ne chiese,
et il tutto stimò negletto e vile
salvo il bel foco ond il suo cor s’accese.
Su l’ora poi che per antico stile
s’apre l’Eoo, l’aspra novella intese,
ch’era partito il suo conforto udio
ella, e fosca per lei l’aurora uscio.
25Le parve sotto i piè venisse meno
la terra, e male in piè poteo tenersi,
balzò tre volte il cor dentro il suo seno
e gli spirti n’andaro egri e dispersi,
ma sgorgavan su ’l volto un Gange, un Reno
gli occhi suoi, che ’n duo fonti eran conversi,
e costante ella in van contra il dolore
tremò, e fredda restò dentro e di fuore.
Nilea racconta a Tigrina del suo amore, questa la convince a non sortite dalla mura e a rispettare gli ordini di Gazerse (26-40)
26Lo stesso aviso estremo sentire
pur fe’ del Nilo a la guerriera amante,
ma questa disegnò tosto seguire
l’incerte orme di lui con piede errante,
l’orme di lui che più tornare o gire
non più, di finto cielo or fatto Atlante,
celatamente ella partir risolse
ma ’l suo stato a Tigrina aprir già volse.
27In disparte la trasse e con fatica
temprava il troppo ansar del petto anelo;
poi cominciò piangendo: «O dolce amica,
d’un mio chiuso pensier trarrotti il velo,
ma vuo’ che sappia tu pria ch’altro io dica
come duro mia culla anco ebbe il cielo,
e come crebbi sconosciuta e come
e qual restai sotto amorose some.
28Nepote al fario re nacqui, ma tosto
s’oppose a’ miei natali empia fortuna:
gonfiossi il Nil, da cui poco è discosto
l’albergo ov’io vagiami in ricca cuna,
e fuor dal letto uscì, vinse ogni opposto
schermo la sua vagante acqua importuna,
sembrò diluvio, e portò sopra il corno
me con mia culla ad ermi campi intorno.
29Pur mentre sì crudel sorte io correa
di tal culla un pastor mosso a’ fulgori,
gittossi a nuoto, e me scampò da rea
morte, e mi trasse da tant’onde fuori,
e perch’al Nil mi tolse, io poi Nilea
fui detta da’ bifolci e da’ pastori,
e quegli intanto tra foreste e piagge
in guise m’allevò dure e selvagge.
30Non curando cercar de’ miei parenti
in bocca mi stillò latte ferino,
io con picciola verga i grandi armenti
poi ressi, indi miglior mi fei destino,
ch’indi di cocodrili e di serpenti
purgai, già riverita, il Nil vicino,
e pur infin allor non usai ferro
ma nodoroso aspro troncon di cerro.
31Giunse mia fama al re, chiamata venni
al Cairo, ove da’ miei fui conosciuta,
allor chiudermi in gonna io non sostenni
ma chiesi l’arme e in armi io fui veduta.
Taccio l’opere in guerra e qual divenni
e quanto fui tra’ duci in pregio avuta,
e come il re seguii con cento gravi
io contro i Franchi in Siria armate navi.
32Ivi gran cose e tosto a guerreggiare
le vele che son qui corremo poi,
ma tra l’aspra battaglia in mezzo al mare
giunsemi Amor co’ dolci toschi suoi.
Vedesti il cavaliero, il qual fugare
solo poteo cotante schiere e noi?»,
e ’n dir quella parola ella smarriva,
tremava, singhiozzava, impallidiva.
33Alfin tanta virtute Amor prestolle
ch’ella a scoprir sue pene i labri mosse,
scoprio il tutto, e poi disse: «Incendio bolle
in me qual mai non so se in Ischia fosse.
Odi, sorella: a me costui mi tolle
e scuote di vigor l’alma e le posse,
et i miei spirti a sé con piacer tale
tragge che caro a me rende il mio male.
34A te tutti rivelo io gli error miei
il di lui qui venir io qui precorsi,
et or che n’è partito io qui trofei
non bramo, se per lui qui i passi io tòrsi,
e ciò scoprirti io volli, e tu mi dei
scusar d’unqua d’amor sentisti i morsi,
ma ben da te con doglia a licenziarmi
vengo, o gran fiore di bellezze e d’armi».
35Arco di giel la Gelosia qui tese
e n’avventò quadrella di timore,
e nel petto l’amazzone n’offese
ch’ardea sì forte nel medesmo ardore.
Tosto il reo velen che ’n sen le scese
più d’un segno costei mostrò di fuore,
ma la donna del Nil non se n’avvede,
o solo effetto di pietate il crede.
36E nudrisce de l’una il creder vano
l’altra, che l’amor suo tien troppo ascosa,
l’altra ch’infinge et a Nilea la mano
prende, e nessun dimostra atto geloso,
e dice: «I moti del tuo cor non sano,
o donna eccelsa, il mio fatto han pietoso,
e pronta io son, vogliavi forza od arte,
pur che tu non lo sdegni, ad aitarte.
37Nostre man stan congiunte, or la mia in pegno
di fé tu n’abbi, io te ’l prometto e giuro,
io teco ne verrò di regno in regno,
in India, in Libia e vero il pigro Arturo,
per ritrovar costui, né a me ritegno
sia state o verno o ciel notturno e scuro,
nulla mi tarderà, sol che tu voglia
gradir nostr’opra a tranquillar tua voglia.
38Ma non piaccia unqua al Ciel che tu abbandone
il re a tant’uopo accompagnata o sola,
non pervegna tal nebbia a tue corone,
et a tua fama che sì chiara vola».
Al partir di Nilea così s’oppone
Tigrina, e poi l’abbraccia e la consola,
piange con essa in finto pianto e cela
invidia e fiera voglia, et arde e gela.
39indi soggiunge: «Or tu spera e t’appresta
a quanto il re t’impone, o gran donzella».
Queta Nilea per tanto inganno resta,
ma Tigrina di salto ascende in sella,
et in sé freme e poi feroce e presta
sprona il corsiero in questa parte e ’n quella,
ritorna donde parte e furiosa
non resta mai, come in suo cor non posa.
40Ove de la città scorre le strade
già rallentando al corridor l’impero,
ivi il caval con l’unghie a pena rade
la terra, e par che voli in suo sentiero.
S’ella tal cavalcasse in su el biade
l’ariste in su non toccheria il destriero,
e se così spronasse ella su ’l mare
andria senza al corsier l’unghie bagnare.
Tancredi decide d’attaccare, Giovanni gli suggerisce di lasciare gli innamorati nel vallo (41-54)
41Ma verso l’ammirabile soggiorno
che su ’l monte i suoi muri ha cristallini,
l’alata Fama allor non fe’ ritorno,
ch’altro oprò per decreti alti e divini.
Le tende de’ cristiani ella d’intorno
trascorse, e divulgò quei repentini
barbari moti, e quanto avea già imposto
a le due donne il re non tenne ascosto.
42Il conduttor de’ popoli fedeli
lieto ascoltolla, e disse a’ guerrier suoi:
«Furor spira ne’ Turchi il Re de’ Cieli,
per accortare i lunghi affanni a noi.
I gran viaggi, i tanti caldi, i gieli
oggi avran fine, arme, arme, o forti eroi».
Tacque, e s’armavan tutti, ma non lieto
fea il re di Tiro a lui sermon secreto.
43Diceva: «E qual ti tragge or generosa
tua voglia a tua ruina, e tu nol vedi?
Non perché già la spada gloriosa
del tuo gran figlio è lunge, o gran Tancredi,
e troppo offende ciò, ma senti cosa
strana e di cui finor tu non t’avvedi:
sono crolli d’amor le due sì belle
famose in arme barbare donzelle.
44Et ambe tra la pugna, o meraviglia,
van senza ferrei guanti e senza elmetti,
e non veduti schermi han le lor ciglia
e de le mani lor gli avori schietti.
Un lume che s’imbianca e s’invermiglia
par cosa non mortal ne’ nudi aspetti,
e sciolte d’ogni qualità terrestre
credi e nevi de l’ignude destre.
45Quando in atroce e general conflitto
stavi, o signor, tu contra i rei pagani,
et io guardava col figliuol tuo invitto
le navi appo gli algosi umidi piani,
fu l’essercito tuo quasi sconfitto
ahi per casi amorosi indegni e strani,
e furo a’ duci tuoi sirene e maghe
queste due d’empio amor beltà sì vaghe.
46Altri seguian Tigrina, altri Nilea,
nulla curando i lor sovrani offici,
e molto polverio le tue chiudea
squadre pugnaci e i pugnator nemici,
talché poco anzi nulla io discernea
gli stuoli aversi, o pur gli stuoli amici,
ma quasi in terso speglio il tutto aprio
a me in quel punto un messo alto di Dio.
47Et ispirommi sì ch’a te mandai
quel ch’or non è fra noi guerrier sì raro,
dunque a inevitabile ten vai
ruina, incontro a cui mal fia riparo,
non tosto, ohimè, de gli amorosi rai
vedran tue luci il lume altero e chiaro,
e porranno in non cale i lor drappelli
essi al tuo scettro, essi a virtù rubelli.
48Ma poich’è fama che le due guerriere
lor valore mostrar denno a vicenda,
a vicenda ancor tu togli a tue schiere
i duci, e la tua mente uom non comprenda.
Di Tigrina a gli amanti le trincere
lascia in guardia, s’avien ch’ella discenda,
da l’altre mura a la campal battaglia
a trattar la bipenne o la zagaglia.
49E quando esce Nilea, tu di costei
serra i folli amator ne gli steccati,
così contro costei, contro solei,
s’io non erro, t’avrai schermi apprestati.
Tigrina oggi fia in campo, oggi tu dei
i suoi vaghi scevrar d agli occhi amati,
e di quelli che restan le minori
scorte, e quanto convien traggi anco fuori.
50Riman ch’io dica a te chi son di quella
e chi di questa i primi eroi seguaci:
Nilea di sue bellezze ha fatto ancella
l’alma di Anselmo conduttor de’ Traci,
e per Afron dolce veleno anch’ella
versa dal ciglio et amorose faci,
et Arnaldo non men, non men Gilberto
preda è d’un sì bel viso, e via più Amberto.
51D’altra parte a simile empio diletto
corre Onteo per Tigrina e ’l franco Irlando,
et Ermondo anco tien col dolce aspetto
questa e Cosmante da se stessi in bando».
Poiché ’l buon Tirio re così ebbe detto
il sommo eroe riprese sospirando:
«Tu narri di beltà gran meraviglie,
ma in effetto io porrò quanto consiglie».
52Ei più non disse, e poi chiamò tra’ voti
de l’alta Nazarena il chiaro nome,
e volò al cielo co’ pensier devoti
ov’ella ascese con l’umane some,
e poi tutto atterrarsi a’ sacerdoti
fe’ ’l campo e gli elmi fe’ tòr da le chiome,
et abbatter l’insegne anzi l’altare
fece, e del pan divin l’alme cibare.
53Pur a tai sacramenti i duci amanti
non giano (oh che non può terreno amore!).
Questi misteri venerandi e santi
sommo a purgar gli affetti hanno vigore,
e loro abborre avolto in doglie e ’n pianti
di beltà frale innamorato un core.
Ma dopo i sacri affari a sé rappella
i duci il duce, e poi così favella:
54-Sotto l’inclito Ermondo or rimanete
qui con Irlando, voi Cosmante, Onteo,
e custodire il vallo e non ponete
vestigio fuor per caso o lieto o reo.
Con trionfo tornar qui dove siete
io spero, e fia comun nostro trofeo».
Tace, e poi molto impone, alfine invita
sue schiere invitte a gloriosa uscita.
Si viene a battaglia: Tormonte uccide Giosia, si lotta per il suo cadavere (55-83)
55Gli usci de la città, gli usci del vallo
tosto allor disserrati ecco in un punto,
e ’l chiaro suon del torto aspro metallo
qua da là, là da qui tosto è raggiunto,
come dove brevissimo intervallo
il Tigre da l’Eufrate tien disgiunto,
il vicino rumor de l’altra riva
a l’una e quel de l’una a l’altra arriva.
56Già questo e quello essercito fuor esce
sgorgando a stuolo a stuol rapidamente,
e strepitoso e momentaneo cresce
sparso d’insegne e d’armi rilucente,
et intanto il terren mugge e decresce
sotto questa e quell’altra armata gente,
e le cavallerie fanno grand’ali
e son le fronti e l’ordinanze eguali.
57Schierator de l’esercito cristiano,
l’asta d’un tanto officio alza Rollone,
e con sembiante potestà Dasmano
il campo babilonico dispone.
Entro gli stuoli e tra gli stuoli e ’l piano
va l’uno e l’altro, et ordina e dispone,
hanno ministri grandi ambo costoro,
mino ministri hanno i ministri loro.
58Ma dato è il doppio segno e la doppia oste
già corre, e sotto i piè trema la terra.
Urtansi l’une e l’altre schiere opposte
e schiera a schiera et uomo ad uom si serra.
Vedi disordinar l’armi composte
e variamente indi inasprir la guerra,
scorrono arcier, scorron cavalli e fanti,
e con le torri lor gli indi elefanti.
59Da queste torri escon falcati carri
ch’apron le squadre, e fan sanguigni varchi,
e i lor torrier vibran ferrati cerri
e parte di costor tende fort’archi,
sì che in tre guise ognor forz’è ch’atterri
le schiere questa schiera ov’è che varchi,
e ’l visto sangue infiamma queste stesse
strane belve, e per sé fan strage anch’esse.
60In ordinanze larghe, ancor che pochi,
grandinan spesse selci i frombatori,
vibrano altri in saette i chiusi lochi,
che s’apron su ’l colpire e scoppian fuori:
Molto e vario contrasto in vari lochi
e variamente spaziansi i furori,
e la morte a l’orror confusa e mista
in mille forme in ogni parte è vista.
61Stanno su i vivi altrove i morti, e i vivi
altrove il lor morir chiedono in dono.
Così da’ vincitor, da’ fuggitivi
costor compressi e calpestati sono.
Spaziansi di rettore i destrier privi,
misto è di bronzi il suon de’ ferri al tuono,
e co’ brandi qui a piè, là su i destrieri
difendon l’alte insegne i primi alfieri.
62Già Roberta e l’amazzone in diverse
parti spronaro i lor destrier veloci,
e rassembraro duo procelle averse
ch’urtan del mare in due contrarie foci.
Contro quei di Campania il re Gazerse,
e Tancredi in Agrima, e quanto atroci
ne’ Tiri i Parti, tanto in Ottomano
ardente Anselmo, il forte eroe spartano.
63Correvan gli altri duci anco a scontrarse,
ma dove, ove Tormonte? Ei ferrea mazza,
ei su l’arcion rotando intorno farse
ecco di morte formidabil piazza,
son le percosse sue non lievi o scarse,
sue membra informa alma superba e pazza,
duci e guerrieri abbatte il fiero, e privi
altri di vita lascia, altri malvivi.
64Gilberto, Arnaldo, Afron già in varia parte
percote ei sì che lor restar fa smorti,
essi ricovran poi el virtù sparte
e triplice balen par che li porti,
ma s’avede il crudel che non comparte
a tutti la sua mazza intere morti,
e ’l ciel bestemmia, e ne l’arcione appende
lei cosparsa di sangue in guise orrende.
65E da la cava e torta ampia vagina
tragge repente e balenar fa quella
sua spada ch’è di tempra adamantina
e noce più che turbine e procella.
Sopra l’incude de l’etnea fucina
gli arsi Ciclopi non sudàr per ella,
ma i fabri damasceni, che sì raro
lavoro in Siria fan, al fabricaro.
66Qual disciolto leon torvo e fremente,
s’avenisse ciò mai, poiché vermigli
ne la da lui già già svenata gente
ha fatto gli arsi labri e i fieri artigli,
non volendo oprar più l’unghia né ’l dente
corre poi dove arme di Marte pigli,
tal fu Tormonte, in quel fiero atto quando
la gran mazza lasciò, strinse il gran brando.
67Ma così tra fatiche e tra contrasto
costui togliea le vite a’ guerrier franchi,
come absorse Cariddi o ’l mar più vasto
i buon nocchier tempestati e stanchi.
Tra queste resistenze al tosco Ergasto,
duro a vederlo, ei parte il ventre e i fianchi,
e dal cimiero al cinto apre e divide
Ponzio, e spezza gli intoppi e freme e stride.
68Sferza sé contra Cristo et ampi piove
fiumi di sangue da l’orribil spada,
e rende vane et irrite le prove
de’ più forti ch’a lui serran la strada,
o pur dove da sé non li rimove
indugia sì, ma ruinoso bada,
e sempre opprime, abbatte, urta e scompiglia
ei la cristiana marzial famiglia.
69Ma già più nulla il tarda, e tutto è orrore,
e quasi ingombra ei sol tutta la guerra,
e gir di par la strage col terrore
face, e turbe et eroi svena et atterra.
Gira su i corpi estinti il corridore,
su i corpi che fan monti in su la terra,
e vari di furor vestigi lassa
onde parte, ove giunge, onde sen passa.
70Quai son ruine ove il tremoto involve
le città, né perdona a’ sacri tempi,
e manda i tetti in giuso e ’n su al polve
mista tra’ precipizi e tra gli scempi,
sì che, quantunque ivi poi gli occhi volve,
uom ne stupisca ne’ futuri tempi,
tai restan crolli orrendi e memorandi
o fier Tormonte, ove tu l’ire spandi.
71A tanti danni combattea da presso
il duca d’Atri incontro i Persi e i Medi,
su i guerrier d’Antiochia a lui concesso,
partito il figlio, il freno avea Tancredi.
Lasciava egli d’onor vestigio impresso
garzon, e superar gli anni tu ’l vedi,
e con fama allungava le sì corte
fila da Cloto a la sua vita attorte.
72Anciso avea Gorgondo, avea i vessilli
di Persia egli acquistato, altera vista;
sangue dal brando suo Marte tu stilli,
calca l’alga il destrier col sangue mista,
ma girò gli occhi, e morte e ’l ciel rapilli
ove in orror tanta ruina è vista,
ove imperversa il fier Tormonte, e tòrse
la briglia e generoso ivi sen corse.
73Per pietà lascia i suoi trionfi a tergo,
ove pietate ahi misero lo scorge;
gli splende in dosso aurato e forte usbergo,
ma su l’elmo girar ombra si scorge.
Già prende asta novella, e vèr l’albergo
celeste in umil suon tal priego ei porge:
«Contro quest’empio al mio vigore impare,
ugual forza, o Signor, deh non negare.
74Mira quanto egli è fiero, e come offende
gli stuoli a te devoti, o Re del mondo,
mira come ognor più difficil rende
il chiuso varco a liberar Boemondo.
Tu pur salvasti d’Israel le tende
volgendo ad un fanciul guardo secondo».
Così pregò, ma in vece di vittoria
l’impetrò il priego in Cielo eterna gloria.
75Si strinse in sella e corse indi a l’assalto,
e portò salda in man l’asta latina,
e colpì de lo scudo il duro smalto
ch’è di triplice piastra adamantina.
Ruppesi l’asta, e ’n pezzi andò di salto,
ma sembrò l’indiano asprezza alpina,
freme il superbo, e dice: «Or prova quanto
pesa il mio brando», e cala il braccio intanto.
76Non s’arresta il fanciullo, e tutto in piede
va su le staffe, e fuor tragge la spada,
ma quegli a lui sovrasta, e ’n sella siede,
e par che ’l suo colpir da’ nembi cada.
In un sol punto l’uno e l’altro fiede,
ma nel fianco il pagan ben s’apre strada,
et sforzando ogni armatura opposta
rompe il busto al garzon tra costa e costa.
77Per piaga sì crudel giù da l’arcione
trabocca, e non respira il buon Giosia,
ma Tormonte gridò: «Costui prigione,
giacciasi o vivo o morto, or tratto fia».
Tacque, e voltò il cavallo, e già tenzone
su tal fatto atrocissima seguia,
ché ’l popol turco e ’l franco in ciò concorre
duri ambo, un per vietar, l’altro per tòrre.
78I vietatori un ciel di scudi fanno
al baron, ch’i momenti ultimi vive,
ma col suo sangue in su l’estremo affanno
ei nel suo scudo e col suo dito ei scrive:
TOMBA, E VENDETTA, O IDRO, e più non stanno
le dita in su lo scritto, ahi più non vive.
Giosia sei morto, et oh te fortunato
se qualche pregio a la mia penna è dato.
79Se ’l potrò, tu vivrai, mentre di Piero
il successor sedrà su ’l Vaticano,
e mentre egli il diadema de l’impero
darà, per farlo augusto, al re romano,
mentr’egli, solo interprete del vero,
mentr’ei solo sarà pastor sovrano,
mentre per lui s’inchineranno al Tebro
il Nilo et il Giordan, l’Oronte e l’Ebro.
80Ma i Franchi ardenti a ricovrar l’estinto
pur gli facean di scudi un ferreo tetto,
due volte guadagnato e d’arme cinto
fu da’ pagani il morto giovinetto,
e due perduto, e da più braccia avinto
là con furor, qui con pietoso affetto.
Ma tre baron feroci e repentini
giunservi a far perdenti i Saracini.
81Son questi i tre invitti in cui Tormonte
rotò sì grave il gran troncon ferrato.
Ciascun di lor a vendicar quell’onte
correa, ma per pietà qui s’è fermato.
Già di Giosia sopra l’estinta fronte
vivo da’ corpi lor sangue è versato.
Qui loro squadre e giunto anco qui miri
i duo tetrarchi, e i segni indi e gli assiri.
82Crescon le forze e la battaglia cresce
con l’ostinazion su ’l corpo algente,
scoppian le trombe, e tutti involve e mesce
gli uni e gli altri guerrier Marte fremente,
Gilberto afferra il morto e non l’incresce
col morto sostener d’armi un torrente,
et Arnaldo et Afron di gloria carchi
s’oppongon tra quell’arme a’ duo tetrarchi.
83Qui qui la mischia ora s’arretra or riede,
et or s’affronte e ’n modo tal s’arresta
ch’opposto uomo con uom, piede,
uomo ad uom, piede a piede affisso resta,
or quasi mare essa bollir si vede,
ma versa un mar di sangue in sua tempesta.
Alfin tra tante morti e tanto sangue
acquistan l’armi franche il duca essangue.
Tigrina entra in battaglia, altrettanto fanno Tancredi e Roberta: la battaglia è pari (84-126)
84Roberta intanto urta gli Armeni e manda
Istri e Nili di sangue al vasto Eusino,
e benché la vittoria alta ghirlanda
le faccia, el pur va col viso chino,
ché l’ali il suo pensier forza è che spanda
amoroso et errante peregrino,
pensa ella a l’idol suo, ch’anco non sassi
lontan da l’oste ov’abbia volto i passi.
85Gira fulgido acciar con mar di neve
sopra un destrier di macolato argento,
e fiede questi e quei spedita e lieve,
innamorata e colma di tormento,
grandina piaghe e morti, e non riceve
offese, e sol d’Amor prende sgomento,
e piagne la sua sorte e svena altrui
tai sue perdite sono e i trofei sui.
86Giace per lei chi ’l Gange e ’l Ciro bebbe
e chi abitò ne’ monti Gordiei,
monti ove alfin sospinta a posar s’ebbe
l’arca co’ pochi pii, già spenti i rei,
e chi già nacque in su l’asprezze e crebbe
del Tauro or ombra e polve è per costei,
e quei drappelli a cui Cosmante è duce
questa vergine eccelsa oggi conduce.
87Questa l’alma di Sirto anco fa gire
a le piagge d’Abisso ombrose e basse,
trafigge a Caspio e Caspio in su ’l morire
sospira l’onde del paterno Arasse.
Ma le private annoverare e dire
morti chi può? Né qui tal tempo dasse,
e Tigrina e Tancredi in varia parte
vario esser denno ancor fregio a mie carte.
88Tigrina oh quanto fe’! Poi ’l destrier volse,
che Gelosia da l’arme dipartilla,
e tra la mischia e la città s’avolse
e ’l drappel di sue amazzoni seguilla.
Or sopra a un poggio, ove con lor s’accolse,
sta con mente non salda e non tranquilla:
teme non parta sua rivale e guata,
pur mostra essersi ad arte ivi accampata.
89Ognun ciò crede, essa furtivi gli occhi
volge vèr la mural guardata soglia,
e tu, rea Gelosia, pur la ritocchi
col tuo martir, che sì gli amanti addoglia.
Fiamma è ’l suo volto, e poi vien che ci fiocchi
un torbido pallor l’immensa doglia,
e d’intorno a’ begli occhi ove ’l sol perde
vedi più giri coloriti in verde.
90- Cura (dicea), che di timor ti pasci,
ah nel mio petto onde tai forze acquisti?
e come ’l cor mai respirar non lasci?
e gli egri spirti miei come contristi?
Amor di fiamme, e tu di giel mi fasci,
e sento io d’ambo ambo i flagelli misti,
anzi mentre tu al foco il ghiaccio mesci
l’un con l’altro contrario armi et accresci -.
91Cos’ costei, ma nel suo volto Amore
splende per altri e temerario impera,
et a quei duci ripercote il core
cui data in guardia fu l’alta trincera.
Molto in questi da lei passa splendore,
che ’l vallo franco incontro e vicin era,
e questi a tal splendor treman sì come
treman per Borea le populee chiome.
92L’un non mira ne l’altro, e tutti in lei
unitamente invian gli avidi sguardi,
e tu lor viste in quello oggetto bei
Amor, tu che beando infiammi et ardi.
Volano intanto micidiali e rei
affilati in beltà ben mille dardi,
tengon tutti le luci intente e fise
ne l’arme anco di lei, ne le divise.
93Credon fogge mirarvi inusitate,
strane ricchezze e di gran luce eccessi,
credon ne l’elmo suo Tigre et Eufrate
scorrer veracemente e non impressi,
e calde traboccare anzi infiammate
acque, e non acque gelide gli stessi.
Freme intanto Asmodeo, che fermi stanno
pur questi amanti, e ch’ove ei vuol non vanno.
94Che non fe’ l’empio? Egli più volte in loro
rinforzò l’arti onde li prese in pria,
ma Dio non volle che ’l quel dì costoro
gisser dove beltà l’alme rapia,
ove splendea l’acciar tra pompe et oro
e grande, onde amorosa iride uscia,
ma se fraposta vien qualche bandiera
per essi il ciel s’imbruna e ’l sol s’annera.
95Sgombrata ivi poi l’aria oh come a gli egri
amanti riede l’amoroso giorno!
Et oh quanto per lor girano allegri
i cieli, e ’l sole oh di quai lampi adorno!
Di sangue ostile intanto inondan negri
fiumi e torrenti al duca lor d’intorno;
veste l’arme celeste egli e lampeggia
e sembra un ciel che tona ov’ei guerreggia.
96Ma che dico? o che taccio? Ei trasse a morte
Agrima, e vinse in lui valore invitto,
tra la pugna campal con varia sorte
fu tra costor privato aspro conflitto,
né già Troia mirò coppia sì forte
quando isfogò Pelide il suo despitto,
et io devrei fregiarne i toschi carmi,
ma già mi chiaman molti eroi, molt’armi.
97Pur non tralascio che cadeva Agrima
quasi uom cui per gran mal nulla s’invola,
e ’l suo serbava ancor volto di prima,
ma questa il vincitor gli usò parola:
«O tu, cui morte a pena avien ch’opprima
magnanimo guerriero, or ti consola.
te, che ’l pregio de l’armi a pochi cedi,
spada celeste atterra e ’l gran Tancredi».
98Così a quel generoso il duce franco
e passa, e nova cura il cor gli morde,
e per novo disdegno ancide Ormanco,
buon temprator d’armoniose corde,
e ’l bel Dragut, che sempre iva al suo fianco,
pari d’etate e di voler concorde,
né separolli l’uccisor s’unite
sciolse, unendo i duo corpi, ambe le vite.
99Sdegna le turbe e miete altere teste
ei forte, ei franco, e rompe il sen d’Argusto,
e ’l fianco a Mida ei con l’acciar celeste,
e sega il braccio a Xanto, a Creso il busto,
trafigge Ozia, rotta la sopraveste
aurea e la piastra ond’è suo petto onusto,
e fa cader in questa e ’n quella parte
le tempie a Zur, et a lui la fronte parte.
100Poi fermo sta, però che d’ogni lato
mira da lui fuggir barbare schiere,
indi trascorre e novo monte alzato
pur di strage anco abbatte arme e bandiere,
e sembra, o Marte, te, quando più irato
scendi qua giù da le celesti sfere,
ti precorre il timor, ch’i petti agghiaccia,
morte in tua man, l’orror segue tua traccia.
101Allor mirò, né molto indi lontano
chi fe’ prigion suo generoso zio,
e gridò: «Troppo io qui t’ho cerco in vano,
o capo assai dovuto al brando mio».
Il vide, udillo, e non soffrì Dasmano
del ferro il volto orribile, e fuggio,
ma quella fuga ei vendicò fugando
altre arme opposte, altre arme disserrando.
102Venne ove tra’ Campani aspra bollia
battaglia e tra Gazerse, e petti aspetti
urtavano i cavalli e cupa via
fean ne gli usberghi i brandi e ne gli elmetti,
ma già piagato Amberto indi partia
e si togliea di là senza difetti,
quando opportuno il sommo eroe vi giunse
e contro il gran tiranno il destrier punse.
103Di tanto assalto il re pagan s’accorse
e si copria di scudo, e spronò anch’esso
tartarea spada intanto a costui porse
Satan, che qual scudier seguial dappresso.
Simil coppia in tenzon da l’Indo a l’Orse
non vide il sol né di tal arme eccesso,
il fior d’Europa, il re de l’Asia, e diva
spada e spada temprata in stigia riva.
104Ma corron di Babel gli avventurieri
e gli eroi di Campania, e questo e quello
dividon, fraponendo i lor destrieri,
né fan seguire un sì sovran duello.
Si mischiano armi ad armi, e guerrieri
Marte confonde, e scuote il suo flagello,
morti di qua e di là spessi qual neve
e innumerabil casi in giro breve.
105Di sangue intanto avea sparso ogni calle
Anselmo, ove svernava i damasceni,
et Ottoman, ch’a lui dava le spalle,
ei perseguia con bellici baleni,
ei ch’emulo è de gli avi e che non falle
in giunger lume a’ lampi lor sereni,
am da presso era il loco ove s’estolle
l’amazzonio drappello in cima al colle.
106Vide il suo error la marzial donzella
visto in fuga quell’inclito soldano,
e spronò contro Anselmo e qual procella
si disciolse dal poggio e scese al piano.
La seguìr sue guerriere, in fiera e bella
vista, e co’ brandi folgoranti in mano,
quai dietro al rege loro auree e sonore
van l’api et empion l’aere di splendore.
107Quivi ella Anselmo abbatte, e quivi atroci
l’amazzoni co’ Traci or fan contesa,
ratte al parare et al colpir veloci,
le spade, e bevon sangue in molta offesa.
Ma verso ove da lunge orride voci
s’udiano indi ella sprona a briglia stesa:
fulmine è tal che ’n sen di folte selve
fassi strada et atterra arbori e belve.
108Disserrò il folto de’ guerrier più invitti
la fiera in armi amazzone primiera,
e corse fuor de’ termini prescritti
a l’umano valor forte et altera.
Lungo il Fasi ne vien, dove sconfitti
abbandonano i Parti ogni bandiera,
e senza più vibrar canne pennute
con non finto fuggir cercan salute.
109Rotti dal tirio re fuggiano i Parti,
e ’l Fasi a le lor fughe era framesso,
però volgeano il corso in varie parti
e ’l lor duce Garzal fuggiva anch’esso;
pur de gli stuoli or seco in fuga sparti
potria parte raccor tal duce stesso,
ma potenza d’affetto onde vaneggia
fa ch’a tant’uopo ei suo dover non veggia.
110Partico arciero di fiorita etade
delizie è del suo core un de’ suoi paggi,
in cui terge et affina la beltade
i candidi e i vermigli e gli aurei raggi.
le tremende costui nemiche spade
fuggir vorrebbe in lochi ermi e selvaggi,
ma gli è chiusa ogni strada, e per timore
ei sospinge nel fiume il corridore.
111Scampo trovar ne l’altra riva ha fede
mal consigliato il timido garzone,
e tra rischio maggior tosto si vede
in mezzo al gorgo, e trema in su l’arcione.
L’onda in sé il torce, e non la man, no ’l piede
usano quella il fren, questi lo sprone,
né l’uno o l’altro il braccio almen s’aita
un picciol punto ad indugiar la vita.
112Copre l’orrida linfa in un momento
il busto dilicato e ’l vago viso,
e quel che su vivo ostro e vivo argento
crin serpeggiava fulgido e diviso.
Garzal che nel fanciul sempre era intento
da’ propri sguardi suoi n’have l’aviso,
e sì ratto il cavallo affretta e punge
che ’n un sol punto sprona e corre e giunge.
113Sott’acqua si sommerge ei col destriero,
e per la destra afferra il caro oggetto,
ma poi sorgendo rapido e leggiero
trae fuor da l’onde ahi quale il giovinetto?
Sparito è ’l bel rigor dolce et altero
ch’inaspria con dolcezza il vago aspetto,
e par spirar la bocca e non respira,
e ’l bel ciglio girar ch’or più non gira.
114Pende il bel collo ahi morto, ahi morto è Armelo,
questo è ’l suo nome, e sembra in su ’l matino
candida rosa tolta a verde stelo,
gemma de’ fiori entro regal giardino;
più non le dà vigor la terra e ’l cielo,
né più la nudre il bel ruscel vicino,
sol l’alimento dianzi infuso in ella
vive in lei morta, e lei parer fa bella.
115Del barbaro signor gli spirti e i sensi
sbigottiro a tal vista e venner meno,
e passò l’alma al volto ov’anco attiensi
un freddo lampo di pallor sereno,
ma intanto con la man, che stretta ei tiensi,
e che solea rapirli il cor dal seno,
l’impeto fluvial dentro aspra e torta
liquida rota il volve e seco il porta.
116Ei pur la man non lascia, e invan contende
incontro la riviera ridondante,
poi più non osa e più non si difende
là dove il volve il tanto umor spumante,
ma col fanciullo or poggia et or discende
et or discopre l’elmo or l’ime piante,
finché sopra ambe duo serrato tutto
ambo divora, e sepelisce il flutto.
117Stette tal caso a riguardar Tigrina,
ché su ’l venir di lei tal caso occorse,
e poi chiusa ne l’armi e repentina
verso il sidonio re fiera sen corse,
ma quei col brando in cui tempra è divina,
mise di lei ben mille vanti in forse;
contro i begli occhi suoi schermo celeste
ebbe, e franse l’acciar ch’al petto è veste.
118Costei de l’elmo a lui rompe altrettanto
e fiera avvampa in ambo e indomit’ira.
Ma tra l’armi Ottoman ritorna intanto
et a crollo amoroso Amore il tira,
Amor che sa stillar fiamme dal pianto,
di costui gli occhi invèr Roberta gira.
Piangea (qual dissi) ella i suoi tristi amori
tra marziali suoi sì degni allori.
119Et eretta tenea su ’l mesto viso
la piastra che piegata il volto cela:
or che faria s’ella col canto il riso
scoprisse e non l’affanno e la querela?
Già ’l turco ne riman preso e conquiso,
suda et avampa, e trema i polsi e gela;
poi guardar in tal donna ardir non have,
ne teme l’ombra e ’l folgorar ne pave.
120Entro il suo cor la bella imagin resta
e piaghe aventa ancor dentro il pensiero,
scolpita vi riman con l’elmo in testa
e l’elmo ha d’oro un giglio in suo cimiero.
Freme Asmodeo, che ’l figlio d’Egla a questa
fanno a proposti suoi scorno sì altero,
e dice: «Ahi lasso, ahi senza l’arti mie
è ver che gran bellezza ha gran magie!
121Così ’l reo spirto, et Ottoman rivolve
la mente in lei che l’alma gli ha trafitta,
pur usar gran cautela egli risolve
in tale amore, e finger fronte invitta.
Ma di ruine il tutto alfin s’involve
e quasi l’una e l’altra oste è sconfitta,
e mormorii per ogni parte senti
lamentevoli, flebili, languenti.
122Scorre Gazerse, e vari usa sermoni
et or promette premi et or minaccia.
Dice a chi teme : «Ond’è ch’ardir deponi ?
Un’alma ha il tuo nemico e sol due braccia».
Dice a’ gagliardi: «O di Babel campioni,
voi stessi a voi già ricordar vi piaccia,
i padri a’ figli, i figli a’ padri, a tutti
membra la patria e de la patria i lutti».
123E mette innanzi a gli occhi i sacri tetti
che fian distrutti e i loro antichi iriti:
«A’ vostri casti, inviolati letti
aspiran questi rei, «dice a’ mariti,
«ahi sveleranno i bei pudichi petti
con man superbe ahi per lascivi inviti,
misere spose, e d’esse le più belle
sortir ansi per putte e per ancelle».
124Ma Tancredi, quantunque egli i suoi stuoli
mova con le sì eccelse opre che face,
e benché col destrier paia che voli
e parli in atto che favella e tace,
pur dice ad alta voce: «O forti, o soli
scelti dal Ciel contra Babelle audace,
rinovate la forza et indurate
l’alma, e sia qui pietà perder pietate.
125Con l’onte mie, con l’onte di Boemondo
vendicansi oggi qui l’onte di Cristo.
Tolto non è di servitute il pondo
a Sion, né compito è il santo acquisto:
servo è ’l sepolcro del Fattor del mondo,
s’oggi qui il Saracin vincer fia visto.
A stabilir quelle vittorie, o miei
guerrieri, il Ciel v’elesse e quei trofei».
126Tal quinci il re fedel, quindi il pagano
parlando rinforzò l’aspra tenzone,
et al saldo voler stimol sovrano
quinci s’aggiunse e quindi eccelso sprone.
Novi monti di strage ecco su ’l piano
che l’uno e l’altro campo anco s’oppone,
fermo quel, fermo questi o la vittoria
merca col sangue o col morir la gloria.
L’Angelo si impietosisce della strage e fa calare la notte, Tancredi brucia le navi (127-137,4)
127Ma tu, che nel più eccelso orbe t’aggiri
e ’l movi e non l’informi e i tardi e i presti
globi anco in un sol fascio tiri,
pietà di tanta strage, Angelo, avesti,
et affrettasti de’ superni giri
il corso, e sotto il mare il dì chiudesti,
e festi l’ombra uscir che ’l mondo ascose
e i diversi color tolse a le cose.
128Già rotavan le stelle, et a raccolta
stanche sonavan l’une e l’altre trombe,
ch’i duo eserciti alfin davan pur volta
spade più non oprando, archi né frombe,
e di plebe e d’eroi strage insepolta
senza roghi restava e senza tombe,
ma vèr le rocche il re pagano e verso
il vallo il duce franco essi converso.
129Quei si serra colà, ma questi spinge
poi molte squadre, ancor che ’n notte oscura,
e le porte e le vie ne valla e cinge
onde s’entra, onde vassi a l’alte mura,
e, magnanimo e forte, anco s’accinge
ad opra generosa oltra misura,
sta tra’ suoi stuoli e loro inclitamente
parla, e con tal sermone apre sua mente:
130«O voi che meco in pria v’uniste, e voi
che poscia accompagnaste il mio camino,
tutti contra Babelle e i regi suoi
ministri in guerra del voler divino,
benché oggi sanguinosa anco è tra noi
la vittoria e vinto oggi è il Saracino,
et io scoprirvi or voglio un mio nascosto
de la vostra virtù degno proposto.
131Conchiuso avea tra me ch’ove arrivato
io fossi qui, qui spada non stringessi,
se prima, o generosi, ogni spalmato
legno, con vostra pace, io non ardessi.
Ma per varie cagion fu che celato
finor tal mio pensiero a voi tenessi,
e differissi il fatto, e creder deggio
che tal si volse in su l’eterno seggio.
132Or udite, magnanimi, et effetto
glorioso ne segua: io prefisso aggio
o qui depor quest’alma o al mio diletto
sì chiaro zio qui tòr ceppi e servaggio,
però che se dal Cielo io son negletto
di qual barca sarammi uopo? e s’io caggio?
Ma se Dio favorisce i nostri brandi
per navi fabricar qui boschi ha grandi.
133Pur licenzio chiunque il mio parere
biasma, e non vuol per me tanto arrischiarse,
ma «Fiamme, «odi gridar «fiamme , le schiere,
«ad arder nostri pin fiamme sia sparse.
Non erra la milizia ove tu impere,
o duce, a cui sol può Marte agguagliarse;
e chi licenzi tu? A te da presso
compriamo a prezzo egual palma e cipresso».
134Tacquero, e libertà tosto a l’avvinte
ciurme su le lor navi i duci diero,
e poi sulfuree faci ebbero sospinte
col popol tutto ogni sovran guerriero.
Vulcan s’appiglia, e prore e poppe ha cinte
e l’aere e ’l ciel s’alluma opaco e nero,
e per sarte e per remi al mar discende
l’orrida arsura e i lunghi arbori incende.
135Indi l’ardor si spazia in braccio al vento,
al vento che ’l raggira e ’l ripercote,
e fa contrasto orrendo e violento
il foco e ’l fumo incolto in mille rote.
Tutto ne splende il liquido elemento
e tutte anco le balze erme e remote,
non che le mura e ’l vallo, e i campi tinti
di tanto sangue e i tanti corpi estinti.
136Gazerse, il qual ben vide ond avventati
i fochi fur pria, lieto i fochi mira,
e folli stima i Franchi e forsennati,
ma poi nel ver s’interna e loro ammira,
e ’n generosità troppo ostinati
li crede, e trema e pave e ne sospira.
L’incendio intanto, ch’ogni forza perde,
arsa ogni nave, in fumo si disperde.
137Vigilie d’ogni patre e quasi desti
i duo eserciti poi prendon ristoro,
non lascian l’armi no, né pur le vesti,
preme ogni picciol suon l’orecchie loro.
Ma Boemondo, a cui meno molestiBoemondo prega Dio che la guerra finisca, Dio manda un Angelo a terrorizzare i pagani e a rinfrancare i cristiani (137,5-150)
che i danni de’ cristian suoi ceppi foro,
subiti avisi entro sua rea prigione
ebbe di tanta universal tenzone.
138Egli udì che le morti e le ruine
de l’uno e l’altro campo erano eguali,
e stretto egli in catene saracine
del buon popol fedel pianse su i mali,
ma sollevando alfin le luci chine
grida, ciò letto fia tra’ nostri annali,
e poi mandò sue voci da l’interno
centro del cor devoto al Ciel superno:
139«Re de l’Empireo, «disse «io in tuoi servigi
varcai non degnamente i tanti mari,
troppo benigno sei, poco m’affligi;
affetti io di pietà debbi più rari,
dunque per gli imperfetti miei vestigi
con ceppi affliggi me, ch’a me son cari.
Pur sia che tua clemenza a me non neghi
ch’io non per me, per tuoi campion ti preghi.
140Tu ’l mio cor vedi, e sempiterno, e sai
la strage de’ cristian quanto m’attrista,
io non curo di me, deh togli omai
per la mia libertà guerra sì trista,
non mi rendere al regno, e fa ch’io mai
non rivegga de’ miei la dolce vista,
allunga il mio servaggio, e ’n nodi stretto
sian queste mani altri quattro anni e sette».
141Così il buon re pregava in ceppi avolto,
e ’l suo pregar fu su le stelle inteso,
che qual volo di fiamma a cui vien tolto
di materia terrestre il laccio e ’l peso,
e prende a sorvolar libero e sciolto
e s’invola a gli sguardi ancor ch’acceso,
tal quello affetto ardente e non veduto
volò spedito e lucido e pennuto.
142Su ’l ciel più eccelso ascesero i ferventi
prieghi del sì zelante Boemondo,
e favorilli in su l’empiree menti
quella il cui sen fu tempio al Re del mondo,
quella ch’ottien su i Serafin più ardenti
seggio prossimo a Dio se non secondo,
mai non raggiunta dal dragon che giunse
il primo padre e velenollo e punse.
143Guardò in suo figlio, e su da la mammella
glorificata tolse il santo velo,
mostrolla, e poi: «Per questa «a lui diss’ella,
«ond’il latte io ti porsi, o Re del Cielo,
non a pro di Babelle empia e rubella
sia volto or di Boemondo il pianto e ’l zelo,
ma pro n’abbian tuoi fidi», e tenea in seno
quel zel, quel pianto de’ suoi merti pieno.
144Mirolla, udilla il suo figliuolo ch’è vero
uomo e Dio vero, e sfavillò in sue piaghe,
et esse discoprian l’alto mistero
de la nostra salute ardenti e vaghe,
e si vedeva in loro il prezzo intero
onde ogni colpa umana a Dio si paghe.
«Madre, «egli disse «il tuo voler mai sempre
sarà col nostro di concordi tempre».
145Indi ad un dì quei sette, i quai d’intorno
stanno al suo trono angelici splendori
impon che tolga a sé l’arnese adorno,
l’arnese sparso di smeraldi e d’ori,
e che vesta armi brune e pria che ’l giorno
da l’antartica torni a l’inda Dori,
prodigi infausti in Colco egli a’ pagani
porti, e, non senza orror, speme a’ cristiani.
146 E ’n ciò gli aprì sua mente, e quei vestio
sé d’atre piastre, et al suo fianco cinse
spada ministra del rigor di Dio
e qua giù momentaneo si sospinse.
A’ Turchi, a’ Franchi allor egli appario,
il sangue entro le vene in giel si strinse;
uscì fuor d’atra nube e frenò il volo
volgendo il tergo a l’Austro e ’l ciglio al polo.
147Su la città fermossi, e catenati
tenea sotto saldissime catene
mostri e portenti orribili et alati
che son de’ regni le prefisse pene.
Duro a vederlo, e da’ suoi membri armati
vampe spargea pur di sgomento piene,
e tratto avea la spada e la spada era
vero tuon, vero sangue e fiamma vera.
148Così lunga ora e con terror le piume
poi spiega, e gira orrendo e i muri rade,
e scote il brando e rosso un fiero lume
non senza un suono orribile ne cade.
ne splende e ne rimbomba il mare e ’l fiume,
et ei minaccia omai l’empia cittade,
et il rimbombo e lo splendor riflesso
con orror, con terror minaccia anch’esso.
149Dopo ciò di là parte, et ivi lassa
il timore e ’l terror senza ritegni,
ma con fronte men trista indi sen passa
su el tende normanne altri a dar segni,
le tocca con la man, tanto s’abbassa,
ma non col brando de’ divini sdegni,
benché nel fodro no riponga, e ’n questa
sparisce, e tema e speme a’ Franchi resta.
150Ben di Maria l’imago entro un baleno
su ’l carcer di Boemondo in prima ei mise,
la qual, di giorno poi venendo meno,
splendea notturna in disusate guise,
e spargea d’un traslucido sereno
l’aer ch’intorno a lei rifulse e rise,
né cessò finché dopo vario e molto
giro di cose il gran prigion fu sciolto.