ARGOMENTO
Parte Roberta, e i funerali onori
dansi a gli estinti in questo campo e ’n quello.
Giunge il fenice a gli incantati umori
d’un fonte di Medea limpido e bello.
Gilberto et Ottoman poi difensori
son di gran causa in singolar duello.
Rompe il Turco la tregue, e ’n guerra vinti
sono indi i Franchi, e poi d’assedio cinti.
Roberta esce dal campo alla ricerca di Idro, è sviata da Satan (1-19)
1Ma per lo strano angelico messaggio
a Roberta entro il senno giunse orrore,
né meraviglia fu se già passaggio
fatto avea da’ suoi sensi altrove il core;
ella in quel punto col notturno raggio
furtiva il piè ponea dal vallo fuore,
e giva incerta, sconsigliata e sola,
salvo che col pensier cha sé l’invola.
2Iva a trovar, e non sapea in qual parte,
colui che co’ begli occhi il fianco aprille,
e lasciava l’imprese alte di Marte
bench’ivi eccelso il suo valor sfaville,
né premeva i sospir, né le cosparte
da’ suoi bei lumi dolorose stille,
ch’irrigando le gote infin al mento
molli perle parean su terso argento.
3Con decrescenti corna in vèr Ponente
correa serene vie l’argentea luna,
et altre stelle Occaso, altre Oriente
avean tra l’ombra rugiadosa e bruna,
quando a sì eccelsa amante egra e dolente
duro Amor era scorta e rea fortuna,
quando tremante il suo pensier ramingo
lei conduceva in quel sentier solingo.
4Misera, e ’l singhiozzar tutte chiudea
le strade al respirar, cresceano i pianti,
pur con voci interrotte essa dicea:
– O eterni de la note occhi cotanti,
voi dovreste di lui che m’arde e bea
conoscer l’orme omai vaghe et erranti,
insegnatele a me, sì che le labbia
inchini a’ baci e refrigerio io n’abbia.
5Segue altra? o fugge ei me? Tu, Amor, con quello
stesso lacciuol deh ’l prendi, onde me stringi,
prestami l’ale e intanto il fier quadrello
onde sì dolce pungi in lui sospingi.
Vegghia come io? mira questi astri? e ’l bello
loro ballo ond’or tu, Cinzia, ti cingi?
chi sa s’ei dorme? O felice elce e selce
se selce è letto a lui sotto ombra d’elce -.
6Tal si lagnava, e sotto il fosco cielo
stella cadente allor l’aure feria,
e le toccava il sen con man di gielo
per quei medesmi rai la Gelosia.
Le fea pensar come la dea di Delo
su l’Atmo al bel pastor scender solia,
e ch’ancor questo lume esser potea,
rivale sua, del terzo ciel la dea.
7Ella, ch’a tal pensier non poca fede
presta, pur guarda a lo splendor che scende,
ma lungo il monte indi vanire il vede
e n’ha conforto e l’error suo riprende.
Intanto a l’atra notte il dì succede
et a le cose i color vari rende,
e n’appare costei bella e dogliosa
in piaggia tra montagne e valli ascosa.
8Lascia la man d’avorio il ferreo guanto
allor, e stringe un vago velo e terge
la guancia ove commiste al largo pianto
s’eran le brine che ’l matin cosperge.
Terge anco il crin, che luminoso è tanto
e ’n cui quella rugiada anco s’immerge,
il crin che giù da l’elmo uscendo fuori
su ’l bianco collo increspa i suoi fini ori.
9Ma quel demon, che su la spalla altera
del gran guerrier già pose il ciel mentito,
anco ingannò la gallica guerriera
e l’occhio e ’l senno ebbe di lei schernito.
Corpo ei formò che la sembianza vera
parea di lui ch’ad essa ha il cor rapito,
armato il finse, et il Gorgon fe’ sopra
l’almo, ch’aperto avien, che ’l volto scopra.
10Move il bel piede e i dolci lumi gira
il simulacro di vaghezze pieno,
et ove imprime l’orme, ove respira,
ride d’intorno a lui l’aria e ’l terreno,
e ’l bel collo, ch’a sé gli sguardi tira,
scioglie un fulgente e candido baleno,
e stende in cinque rai le bianche dita
la man, che morte al cor dispensa e vita.
11Al finto idolo suo tosto le ciglia
voltò Roberta, ove il mirò improviso,
e pensò che sia il vero e fu vermiglia
in un sol punto e pallida nel viso.
Or mentre seco stessa si consiglia
e tien pur verso lui lo sguardo fiso,
tra ritroso e sdegnoso i passi stende
quegli, e negando il volto a fuggir prende.
12D’essa gli spirti e ’l cor seco ne porta
tal fuggitivo suo mentito bene,
et ella è per cader gelida e smorta
ma la ravviva Amore e la sostiene.
le mostra il suo diletto e la conforta
e mette novo incendio entro le vene,
le mette ale a le piante a seguitarlo
e la timida bocca apre a pregarlo.
13Corre ella e grida: «Oh quanto mar varcai
per riveder de’ tuoi begli occhi il lume!
Le piaghe che mi desti, ohimè, non sai,
e come i sensi e l’alma mi consume.
Io vo’ raminga or che ramingo vai,
deh volgi il guardo onde il mio cor tu allume,
verso alpe corri e verso mar che frange,
e fuggi chi per te sospira e piange.
14Regio sangue son io, me di beltade
Francia commenda, il mio valor t’è noto;
esser dei stanco, abbi di te pietade
s’a me la neghi, o tempra al corso il moto.
Dirupi qui, qui troppo erme le strade,
qui barbarica terra e clima ignoto.
Riedi a posar su questo grembo e poi
rivolgi a le lor fughe i passi tuoi.
15Sia che con questo velo almen raccoglia
io quel sudor che ’l tuo bel volto bagna.
Onde in tuo cor gentil superba voglia?
Mira quanta hai trascorso aspra campagna.
O forse eccelsa impresa or qui t’invoglia,
invitto, e sdegni me qui per compagna?
Qui non hai servi, et io qui il ministero
adempirò d’ancella e di scudiero».
16Così Roberta, e quei parea ch’a sdegno
sue voci avesse, e sue bellezze a schivo,
e fuggia innanzi a lei senza ritegno
varcando or poggio or piano or valle or rivo;
talor prendea vantaggio e nessun segno
scorgeasi del piè snello e fuggitivo,
talor scerneane ella il cimiero, e spesso
un tiro d’arco e men l’era da presso.
17Senz’elmo allor vedealo, et ampie liste
di raggi allor parean le chiome d’oro,
scoteale l’aura, et aure a l’aura miste
fean vario esse e più vago il lume loro.
Or de gli occhi copria l’amate viste,
quel filato d’amor raro tesoro,
or sorgea su la fronte et or diviso
su i confini cadea del sì bel viso.
18Tal mosso era da l’aura il crin gentile
e l’arte ancor sue meraviglie fea,
l’arte ch’al vago orecchio in novo stile
un lunghissimo fiocco n’avolgea,
dolce a vederlo, e qual rotto monile
poiché più non girava in giù scendea,
scendea tremolo e lieve, aureo e ridente,
su ’l collo d’alabastro a star pendente.
19Dietro a tai giocondissime e mentite
forme correa l’afflitta giovinetta,
e le sue luci attonite e schernite
pascea di falso bene ella negletta.
Notte e giorno per piagge erme e romite
l’ombre del verso iva seguendo in fretta,
e calamita al bel raggio polare
sembrava intanto ah senza mai posare.
Si stabiliscono nove giorni di tregua per seppellire i morti (20-35)
20Ma sotto il colco ciel ben tra le mura
restò rinchiuso il saracin tiranno,
però ch’a lo sparir de l’ombra oscura
sommo più che ’l credea parve il suo danno,
et a l’ardir successe la paura,
e già tra novo assedio i Turchi stanno.
Curan le piaghe, empion di pianto i visi
per gli insepolti lor compagni ancisi.
21Con eloquenza barbara e faconda
poi da le rocche uscian dogliosi i messi,
chiedean pace a gli estinti, e ch’a l’immonda
bocca di fere omai tolti sian essi.
Chiedean pace a’ non vivi, a cui la fronda
trista denno i funebri atri cipressi,
ma più d’ogn’altro a i cor s’aperse il varco
capo di tanta ambasceria Comarco.
22Questi allora mostrò quanto è il potere
di gran facondia mista a gran pietade,
e i morti assai più miseri apparere
fe’ con l’arte che move e persoade,
ma grazia a lui da le più eccelse sfere
scendeva allor per non vedute strade.
Tancredi intanto a l’alta e pia proposta
tal diè zelante et inclita risposta:
23«Giusto spazio a l’esequie io vi concedo;
così riposo io dar potessi a l’alme!
Lieve è sepolcro aver, ma i miei ben credo
che vivi hanno su ’l ciel corone e palme.
Anco a pro vostro il mio gran zio vi chiedo
che di tanta di voi strage pur calme,
e ’n vendetta de l’onte io del verace
Dio vi darò legge e regno e pace».
24Stupiano i messi al suono, a le parole,
stupiano a l’armi onde il vedeano avolto,
e credean che riposti avesse il sole
i suoi raggi in quel dì nel costui volto.
Poi dicean tutti: «gli è ragion che vole
il tuo nome, o signor, d’invidia sciolto».
Ma ’l buon Comarco in cui grazia novella
scendea dal Ciel, quest’altra usò favella:
25«O pio sì ch’i nemici anco risparmi,
deh qual lume or rischiara il mio intelletto?
Non se scempio mortal fia ch’in me s’armi
il vero io mai terrò chiuso nel petto».
Poi conchiuser la tregua, e fu che l’armi
cessasser nove giorni a tanto effetto,
sì ch sicure l’une e l’altre genti
desser lor dritto a tanti corpi spenti.
26Tornaro i messi, e nel medesmo die
disserrò gli usci la serrata terra,
e i Franchi e i Turchi intenti a l’opre pie
godeano il don de la sospesa guerra.
Pieni i campi d’orror, piene le vie,
varia strage per tutto in su la terra,
qui quasi a monti i corpi e qui dispersi,
varie piaghe in ciascuno, atti diversi.
27Barbari poi fur de’ pagani i riti:
altri diede i cadaveri a Vulcano,
altri con orli d’or tersi e forbiti
tazza esecrabil fe’ d’un teschio umano,
altri di carne umana, empi conviti,
apprestò cibo abbominoso e strano,
altri già satollonne i gran molossi,
ahi da falsa pietà tutti commossi.
28Ma quei che sotto l’invincibil croce
per Boemondo qui cingon le spade,
ardono incenso e cera, e con pia voce
pregan ch’a pene pie l’alma non bade,
e che non torni a la tartarea foce
ove non sorge mai, s’unqua vi cade,
gentil costume e santo, e pietre vòte
l’urne eran poi non senza incise note.
29Radono il pian da l’uno e l’altro canto
l’insegne, e con tal vista accrescon lutto,
e l’une e l’altre trombe in rauco canto
stridono, e ciglio alcun non resta asciutto.
Sermon funebre anco tra’ Franchi intanto
lodava i morti, e stringea in breve il tutto,
le patrie, i gesti, i nomi e non volgare
era eloquenza, ancor che militare.
30Tancredi umido gli occhi, egro i pensieri,
dava d’alta pietate illustri esempi,
e dove sepeliva i suoi guerrieri
fabricar disegnava altari e tempi,
e pensava ch’aver stimoli alteri
doveane Europa ne’ futuri tempi,
e di minuti globi un fil tenea
in mano, e i labri a basso uso movea.
31Questi, che di valor fu sommo amico,
e dove orme vedeane erane amante,
erse gran tomba a barbaro nemico
né tolse a lui i trofei mercati innante:
lo scudo di Trifon, l’elmo d’Errico,
d’Ermio il vessillo e l’asta di Torgante
appese a’ marmi, e fe’ che ’l fabro imprima:
TANCREDI VINCITOR QUI IL FORTE AGRIMA.
32Ma dove il duca d’Atri ah non trafitto
giaceva no, ma rotto, ei qual si volse?
Vide la piaga immensa e poi lo scritto,
e novo indi alimento al duolo accolse.
Disse: «Avrai quanto vuoi, fanciullo invitto,
ma non so da qual marmo», e i pianti sciolse,
lavò le membra sanguinose e belle
e de gli occhi serrò le morte stelle.
33Ricca veste, che fu dono e lavoro
già di Matilde, ei poi vestio a l’estinto,
lieta in quelle fatiche ella il bell’oro
con l’ostro e l’ostro ebbe con l’or distinto.
Ornò le tempie al morto anco d’alloro
Tancredi, e cinse a lui la spada e ’l cinto,
e con dogliosa man, con pietà rara
su le pompe il locò d’eccelsa bara.
34Candidi lumi intorno indi gli accende
e ’l bacia in fronte, e i passi altrove gira,
e l’altre opre funebri a lui sospende
finché Idro torni qui, Dio sì l’inspira.
Ma qual dal Ciel preservatrice scende
virtù nel bello esangue? Ecco si mira
ei, che di spirti è vòto e d’alma è privo,
starsi quasi spirante e quasi vivo.
35Sembran da breve sonno in su ’l destarsi
occhi gli occhi ch’or dormono in eterno,
e i morti membri un atto pur d’alzarsi
sembrano far, e morte empir di scherno.
Fa cerchio anco un gran lume a i capei sparsi
e nevica su ’l volto un dolce verno,
sta la man destra in su la manca e face
croce, et ei par che dica: – Io poso in pace -.
Tancredi invia Giovanni a riportare Idro e Roberta al campo, questi arriva alla fonte di Medea, il suo scudiero beve ed è addormentato, lui è raggiunto da un Angelo (36-59,2)
36Era il dì sesto, et a velar Boote
tornava da gli Antipodi l’aurora,
e ’n Occidente le superne rote
co’ bei notturni rai cadeano ancora,
e Tancredi tenea le ciglia immote
là donde dietro a l’alba il dì vien fuora,
spargea pietose lagrime e fea forza
al Ciel col pianto pio ch’i Cieli sforza.
37L’Empireo a lui s’apria mentr’ei qua giuso
atterrato dicea: «Guarda, o signore,
guarda quanto pio sangue è qui diffuso,
guarda e difendi in noi tuo zel, tuo onore.
Apri di guerra tal varco sì chiuso:
che fuga ohimè de’ miei? che vano amore?
Oblia miei falli, e sol rammenta, o senza
fine bontà, la tua sì gran clemenza.
38Udì tai prieghi, e la sua mente aperse
ad un de’ Serafini il Re immortale,
onde quel messo allor non si coperse
d’apparenza soggetta al senso frale,
né di splendor visibile cosperse
l’invisibili a noi sue triplici ale,
ma quale egli è scese a Tancredi, e cose
mostrolli entro il pensier meravigliose.
39Là dentro ei figurò, quasi presenti,
tutti del costui figlio i casi strani,
da che partì da’ franchi alloggiamenti
per inviti d’onor fallaci e vani,
e i duri di Roberta altri accidenti
tra i tristi affetti, ahi per amor non sani.
Anco gli fe’ veder quasi entro un terso
specchio là dentro ei colà dentro immerso.
40Parlolli anco entro l’alma, e disse: «Invia,
per disfar questi duo tartarei incanti,
tu ’l re di Tiro, e vada ovunque invia
sua voglia i piedi, e non saranno erranti,
né meni squadre egli in sì lunga via,
che seco aiuti avrà sublimi e santi,
e, mercede del Ciel, lo stesso poi
a’ lacci d’empio Amor torrà gli eroi.
41Poich’entro il cor del duce invitto e pio
tanto oprò non veduto il Serafino,
da gli occhi de la mente a lui spario
in un vanir giocondo e repentino,
ma quei ciò che così vide et udio
crede ver, crede oracolo divino,
e senza indugio al cavalier fenice
racconta il tutto, e poi ripiglia e dice:
42«Buon re, sempre a mio pro te il Cielo elegge
e vieta a me riporti in tuo bel regno,
dura è per me questa superna legge,
Dio sa quanto io per te penso e disegno».
Risponde il re: «Se ’l Re che ’l tutto regge
io servo e te, certo io comando e regno,
né m’è chiuso il tuo cor, ma senti omai
cose ch’io, non vegghiando, io già mirai.
43La gran sembianza del sovran guerriero
mi fu dianzi tra ’l sonno a gli occhi offerta:
ei reggea l’uno e l’altro ampio emisfero,
et egra altrove lui seguia Roberta.
Contro tal doppio incanto empio e sì fiero,
non so da chi, m’era la strada aperta,
né pur so come, e la sì strana e re
peste d’Amor nel vallo io poi spegnea».
44«Dunque che stai? «ripiglia il sommo duce,
e quei, come era allor con l’asta in mano,
s’inchina e parte, et altro non conduce
ch’un suo scudiero, e volge il tergo al piano.
Caminò finché la diurna luce
stette nascosa in grembo a l’oceano,
e piaggia allor vaghissima e fiorita
piacevole a sue piante offrì salita.
45Al lume de le stelle per colline
tutta notte ei trascorse e nulla scerse,
salvo l’erbette e i fior, salvo le brine
onde co’ fior l’erbette eran cosperse,
né quando con le mani alabastrine
l’auree fenestre in ciel l’aurora aperse
altro pur guarda, e pur segue in sua guida
Dio, ch’a’ suoi passi il moto informa e guida.
46Era il merigge, e Febo impicciolia
l’ombre de’ corpi co’ più dritti rai,
e ’l buon Giovanni, dopo lunga via,
ardendo il cielo, era assettato omai,
quando vide a sinistra acqua onde uscia
splendor qual in ruscel non fu già mai:
di Medea questo è un fonte, e, quanto vago
suo liquido cristal, tanto empio e mago.
47Spiccia fuor d’un diaspro in folte stille
l’onda e si cribra in aria il dolce nembo,
come rugiada che ’l mattin distille,
et indi cade a bianco marmo in grembo.
il sol vi forma l’iride che mille
spiega color nel rugiadoso lembo,
e l’umido a tal gelido si mesce
che ’l liquido non toglie e ’l gielo accresce.
48Corsevi lo scudier del re di Tiro
e bramò fin al petto ivi attuffarse,
ma i suoi spirti e i suoi sensi si sopiro
tosto che di quell’acqua i labri sparse.
Tra gli occhi ebbe un reo sonno, e gire in giro
per quel reo sonno il monte e ’l pian gli parve,
per non dormir, per non cader ei feo
forza, e qual corpo morto ei pur cadeo.
49Di qua dal fonte il suo signor ritiene
i piè, poiché in tal sonno il vede immerso,
e sprezza, ancor ch’avvampin le sue vene,
il sì allettante umor limpido e terso.
«Queste onde ohimè d’empia virtù son piene»
dice, et al fante suo s’è pur converso,
il chiama, il preme, il punge, ma colui
sembra aver senza senso i sensi sui.
50Pensa il re alquanto, e poi ripiglia: «Ah questi
spira e non sente, or qui che far degg’io?
Ozioso attendo ch’ei si desti,
lento io gli imperi eseguirò di Dio?
o fia ch’io lasci a gli orridi e funesti
morsi d’orsi e di lupi il fedel mio?».
Così parlò, ma per traversa via
in forma d’eremita Angel venia.
51Tal s’avea finto il messaggier del Cielo,
quel che dentro il pensier scese a Tancredi:
ispida gonna di pungente pelo
il finto corpo suo velar tu credi,
par carco d’anni, e troppo a caldo, a gielo
avezzo ei nudo i crini, ei nudo i piedi,
e la vecchiezza sua par vigorosa,
né curva su ’l baston la spalla annosa.
52Il buon tirio vèr lui gli occhi e le piante
move con riverenza e poi s’atterra,
ma quegli il benedice e di sue sante
parole anco in virtù l’alza da terra.
Ei con voce non salda e non tremante
l’alte cagioni del suo andar disserra,
e ’l suo scudier gli addita e piagne e prega,
e mercé chiede e sempre i guardi piega.
53Colui risponde: «L’esser tuo m’è noto,
o figlio, et io prevenni il tuo venire,
Dio per tua scorta a te mi manda, e vòto
in nulla parte fia tuo bel desire.
pur sotto cielo a l’aure estive ignoto
meco ad effetto tal convienti gire,
che tartarea potenza ivi ha traslato
col novo Atlante il finto ciel stellato.
54Iv’è trascorsa ancor la gran guerriera
e delusa or pur segue oggetto vano.
Ma qui Medea, la maga iniqua e fiera,
vario incanto lasciò possente e strano,
e se qui giunse mai cristiana schiera
ben fu schermita da superna mano;
qui diè quel’empia a cristallini umori
mago contagio, e diello a’ pomi, a’ fiori.
55Produce non più intesi e scherni e danni
tanta magica e rea malvagi tate,
che vivo è il suo vigor dopo tant’anni,
Dio permettente, infino a questa etate.
Sì sì, via più d’un fior qui strani affanni
crea col sudore e doglie inusitate,
via più d’un pomo è qui che ti fa folle
se ’l gusti, e ’l rimembrar t’invola e tolle.
56Or che dirò de l’acque ? altre entro il petto
metton ruggiti, e l’alma empion d’orrore,
altre fan traveder sì ch’ogni oggetto
tosto che bei pensi cangiar tenore.
Vedi te stesso di ferino aspetto
e teco allor di te prendi terrore,
vedi doppiarse il sole e i fiumi stare,
correre i monti, e le città volare.
57E questa onda in cui corse il tuo scudiero
addormenta non pur, ma ’l sonno dura
finché Cinzia sei volte il suo sentiero
trascorra, e scema e piena e chiara e scura.
Pur a tal sonno, or queta il tuo pensiero,
tòr costui pria ch’andiam fia nostra cura,
ciò fia se con un’erba di quel monte,
e ’l monte gli additò, tu ’l tocchi in fronte».
58Tacque, e giro e tornaro, e poi ’l suo bello
effetto fe’ quell’erba in quel sopito,
ma tolse al fonte il suo livor sì fello
l’Angel ch’in apparenza è di romito,
e fe’ che quella copia in tal ruscello
bea d0insolita manna umor condito,
al re poi disse: «Or segui i miei vestigi,
ch’anco tu scioglier dei gli incanti stigi.
59Indi il menava in vèr l’algenti sfere
di Scizia, ove mai ’l giel non si dilegua.
Ma in Colco intanto l’une e l’altre schiereSi proroga la tregua di un mese, Gazerse propone di risolvere la guerra con un duello, Tancredi accetta (59,3-73)
su i funerali ancor tenea la tregua.
Vedeasi qui come le teste altere
la morte in varie tombe e ’l volgo adegua,
alfin cessava il termine prescritto
a l’esequie tra’ Turchi e ’l duce invitto.
60Né pur seguian tra lor guerre e contese,
anzi essi pur ordian tregua novella,
la qual per trenta dì tener sospese
dovea poi l’arme in questa parte e ’n quella.
Con tal tregua il pio duce a l’aspre offese
s’opponea di fortuna iniqua e fella,
accrescea l’oste, et attendeva il chiaro
eroe fenice in suo fatal riparo.
61Et in tal tempo ancor le già fiaccate
sue forze rinfrancava il re infedele,
spingea ne’ regni suoi senza pietate
ei con duri esattor cavalli e vele,
poi distillavan le città aggravate
il sangue in oro, e fean mute querele,
miseri, ahi così pagano i mortali
col sangue lor le gran pazzie regali.
62Satan intanto, il qual ben sapea come
del sangue d’Ottoman forte e guerriero
nascer dovea chi dovea por le some
di servitute in Tracia al greco impero,
credea che non poteano esser mai dome
le forze d’un fatal tanto guerriero,
e le prese in agurio, e fidar volle
tutta la guerra in esse ei cieco, ei folle.
63S’era attuffato il dì ne l’onda ispana
sorta era l’ombra del terrestre suolo,
e tutte allor la machina sovrana
scopria le stelle in alto, e l’asse e ’l polo,
et i sogni con orma incerta e vana
il vago sonno ivan seguendo a volo,
i sogni atti a cangiarsi, i sogni privi
di palpabile corpo e fuggitivi.
64Satan di queste incerte e varie larve
fe’ ch’una il volto di Maomet vestisse,
e con essa al re turco in sogno apparve
e «’L vostro io son legislator «gli disse,
quel dio mi manda ch’a beati farve
già la sua legge con mia penna scrisse.
Tu lieto ascolta, et immutabilmente
queste parole mie figgi in tua mente.
65Campal battaglia ove in gran rischio pone
Marte il tutto in un dì non far più mai,
ma tutta tu con singolar tenzone
la guerra diffidi sforzati omai,
ned altri ch’Ottoman nostra ragione
difenda in campo, e vincitor sarai».
Tacque, et al vano simulacro tolse
l’esser ch’avea dal sonno, e ’l sonno sciolse.
66Il re svegliossi, e, desto anch’egli, scerse
fuggir l’imago che nel sonno vide,
né tra ’l sonno né desto i rai sofferse
sì strano lume in lei vide e rivide.
Molto pensò, ma poiché l’alba aperse
il balcon che dal dì l’ombre divide,
sorse dal letto e vestì l’arme e i suoi
in fretta a sé chiamò satrapi eroi.
67Il sogno suo fece a costor palese
e lieti applauser tutti ad Ottomano,
sol Tormonte, di cui ne l’alte imprese
non ha più franco il fier popol pagano,
turbossi, e disse: «Io son postposto?», e stese
su ’l brando in questo dir l’audace mano,
ma non visto Satan a lui s’oppose
e ratto il tutto a suo voler compose.
68A nome del re turco indi un gran messo
andava al duca franco e proponeva
ch’a parlamento il suo signor con esso
per cagion troppo eccelsa esser volea.
Acconsentì Tancredi, e là da presso
nova su ’l fiume allor mole si fea,
ponte di legno, in cui sola poggiasse
la regal coppia, e sola ragionasse.
69Già fatto è ’l ponte, e ’n cima egli è sbarrato
sì che ponno i duo re starvi divisi.
Vi saliro ambo in fulgido e dorato
arnese avolti, e sol senz’arme i visi.
Sta su le rive il doppio campo armato
con gli orecchi e con gli occhi intenti e fisi,
ma tal, dopo i saluti, in suono altero
l’asiatico re parlò primiero:
70«Se ’n tua difesa aver credi i celesti
e timi invitti i franchi cavalieri,
cessando l’armi, or contrastar dovresti
anco tu meco; ma con due guerrieri
con patto ch’ove il mio conquisto resti
ritorni Boemondo a i propri imperi,
e ch’ove cada il tuo, tu a queste arene
ti tolga, e tal prigion resti in catene.
71Sdegnosi il buon Tancredi, e pur in atto
placido disse: «Io la disfida accetto,
ché forti i miei guerrieri, e ’l Dio c’ha fatto
il mondo hanno essi in lor custodia eletto.
Ma giusto non stimo io l’offerto patto,
sii tu per tal duello a nulla astretto:
fa’ quel che più t’aggrada, io farò guerra
finch’io sciolga Boemondo in questa terra».
72Queste parole ambo i duo campi udiro,
ma i Franchi un grido dier lieto e sonoro,
e poiché tacquer, replicar sentiro
così il turco monarca al duce loro:
«De la fortuna a tutti è pari il giro,
spesso audaci ardimenti infausti foro,
e dopo questa tregua anco qual pria
orrenda incontro Europa Asia qui fia.
73Pur nel modo che vuoi segua il duello,
ma qual mercede avranne il vincitore?
vuoi che di sua nazion l’altero e bello
pregio ceda al vincente il perditore?».
«Vuo’ «Tancredi rispose , e più su quello
ponte non stetter ambo, e gran splendore
d’aste e di scudi ambo in un punto chiuse
e fur di qua e di là grida diffuse.
Preparativi del duello e intromissione di forze ultraterrene (74-90,4)
74Scelto al duello era il seguente giorno,
e l’alba uscia da l’indico orizzonte,
e stavan tutti ad Ottoman d’intorno
i grandi di Babel, salvo Tormonte.
Altri a lui veston l’ami, il re il suo adorno
elmo regal gli allaccia in su la fronte,
e Dasman l’empie di consigli, e i certi
rammenta del ferir modi e gli incerti.
75Diceagli il re: «Già ’l dio sommo verace
troppo t’ha in pregio, oh qual ragion difendi!
Sai che d’arme e d’imperi Asia è ferace,
tu per l’onor de l’Asia oggi contendi».
A tai voci Ottoman gode e non tace,
e tu nel volto gli sfavilli e splendi,
tu generoso ardir, tu ch’a le fiamme
d’onor, d’onor t’invogli e i cor n’infiamme.
76Così qui, ma ne’ franchi alloggiamenti
scelto l’altro campion non era intanto,
c’ogni primiero esser vuol desso, e senti
membrar de gli avi il merto a proprio vanto,
e per tal gareggiar fatti più ardenti
non taccion l’opre lor tanto né quanto,
anzi a sprone d’onor ferza d’Amore
s’accoppia, e sprona e sferza a tutti il core.
77San ch’ad amarsi anco i nemici tira
virtù, se per sentiero arduo camina,
e ognun di lor quinci a mercede aspira
appo la sua gran vaga saracina.
Ma ’l duce lor, che lor discordi mira,
nol suo volere in qualche parte inchina,
e libra il dritto e sì ’l pensier qui volve
che quanto in ciò far deggia alfin risolve.
78Poi dice: «Io già di Marte in tanto affare
non veggo chi tra voi possa io preporre,
e le ragion d’Europa alte e sì chiare
non devo a la fortuna io sottoporre,
ma voglio me di mie ragion privare
et a la sorte sue ragion vuo’ tòrre,
et elettor far vostro senno in modo
che non vi sia d’affetto o forza o frodo.
79Scelga ciascun qual vuole e de l’eletto
scriva il nome in un breve et a me il porga,
ma sia per legge ciaschedun costretto
ch’elettor di se stesso ei non si scorga.
Sì per colui che poi più volte detto
fia in vostri scritti, ognun fia che s’accorga,
che senza passione a tanto pregio
scelto abbiate tra voi l’eroe più egregio».
80Sì disse, e i brevi scritti et a lui dati
in tutti fuor che ’n un Gilberto ei lesse.
Gli elettori restàr tristi e turbati,
e ’n grado ebbe ciascun pur quel ch’elesse.
Colui con detti incoltamente ornati
ringraziò loro, e sé ne’ cori impresse,
indi allacciossi l’elmo ov’è cimiero
la lupa e l’elce in aureo magistero.
81Ma la sua spada allor donolli Ermondo,
la spada famosissima sovrana,
e disse: «Questa è quella onde fe’ al mondo
tant’opre il sir d’Anglante, Durindana.
Lungo fora a narrar come io secondo
l’ebbi, e dove in stagion così lontana,
ma farne dono a te ben dritto parmi
in tale occasion di gloria e d’armi.
82Con essa incontro i libici furori
le galliche città schermì già Orlando,
e difendrai d’Europa i sommi onori,
signor, lei contro l’Asia or tu impugnando».
Tacque, e pur di magnanimi tenori
risposta quegli diè breve parlando,
e ne gli atti parea degno de l’alta
spada, e del pregio a cui virtù l’esalta.
83Poi Franchi e Turchi destinando il campo
prescrivon l’armi a questo, a quel campione,
e partono egualmente il sole e ’l campo
a la vicina singolar tenzone.
Steccato no, ma l’uno e l’altro campo
in forma di steccato si compone,
e si fende per mezzo in doppia strada
per cui al scelta coppia in campo vada.
84Tosto il camin ch’è tra’ pagani aperto
su pomposo destrier calca Ottomano,
e ’l capo, che dal regio elmo è coverto,
ei crolla, et additato è da lontano.
per l’altro opposto calle iva Gilberto
di mezzo al folto esercito cristiano,
pur in arcion, ma tal qual se in disparte
dal ciel va tra’ suoi Belgi il fiero Marte.
85Giunti poi l’un e l’altro in su ’l confine
del sì forte e sì insolito steccato,
fan silenzio le schiere saracine
e cheti i Franchi stan da l’altro lato,
e già le strepitose adamantine
trombe in alterno suon cangiano il fiato,
piegan l’aste nodose i duo campioni,
a briglie stese et a calcati sproni.
86Fu di Gilberto il corridor concetto
di seme d’aura appo il leccese Idume:
aure attraea per marzial diletto
gran destriera regal lungo un tal fiume,
e ’l vento ingravidolla che nel petto
entrolle a fecondarla oltre il costume,
e tal corsier ne nacque; ora tra’ suoi piedi,
Iapige è il nome d’esso, aure tu credi.
87Il corsier d’Ottomano anch’egli è prole
di genitor ch’anco morir non puote,
sira cavalla, ch’a destrier del sole
s’unì per arti al secol nostro ignote;
già partorillo, e già stimi che vole
se stende il corso o se lo stringe in rote,
Etra si noma, e tra le nari infiamma
il fumo, et ha ne gli occhi eterea fiamma.
88Spinti tai duo cavalli in mezzo a quella
piazza chiusa da’ popoli guerrieri,
sembraro in ocean doppia procella
sotto aspro ciel di scitici emisferi.
Ma su ne l’aria trasparente e bella,
mentre in terra correan tai duo destrieri,
non sentito ululò, tremò non visto
Satan, via più che mai cruccioso e tristo.
89Però che apparve a lui con volto irato
un de’ messaggi de l’empirea corte;
vibrava ardente spada, e benché alato
parea che sua virtute a volo il porte,
e disse: «O stigio mostro, o sempre armato
a danni umani in tua perpetua morte,
in nome de l’Eterno io a te comando
che nulla oggi opri qui, tu qui restando.
90Pur non si vieta a te ch’oggi tu possa
sottrar a morte il damascen soldano,
che, benché molta in lui destrezza e possa,
pur a Gilberto s’opporrebbe in vano».
Tacque, e intanto a la gemina percossaGilberto riduce Ottomano a mal partito, Satan lo salva con una nube (90,5-108,4)
frante in tronchi cadean l’aste su ’l piano,
et a lo scontro la terrestre mole
tremò, e parve arrestarsi il cielo e ’l sole.
91Ruppersi i cerri in su i ferrati scudi
e ne’ petti i destrier così s’urtato
che rotti anch’essi a gli urti orrendi e crudi
per poco d’ora in vita ambo restaro.
Ma tolti a le vagine e mostri ignudi
furo in quel punto i brandi e balenaro,
e i corridor, quantunque aneli e franti,
l’arena anco radean con piè volanti.
92Un sol corpo parea l’uomo e ’l cavallo,
quasi un’alma informasse entrambi insieme,
né cela in quel di Marte atroce ballo
Iapige di lieve aura esser già seme,
et Etra ad egual moto e senza fallo
mentre il freno e lo sprone il regge e preme,
fanne avveder che ’l genitor suo tira
del sole il carro e ’n ciel s’avolge e gira.
93Turbini in giro, e ’n giro aure e baleni
sembravan tai corsieri, et egualmente
ambo girando et obedendo a’ freni,
de’ duo campi schernian le viste intente,
e fioccava i suoi colpi or vòti or pieni
pur l’una e l’altra spada rilucente,
et or l’un cavalier feroce e scaltro
sottentrava e colpiva, or ciò fea l’altro.
94Ma i duo rotti cavalli ecco abbandone
tu, vita, et Etra pria trabocca estinto,
salta Ottoman dal traboccante arcione
né lunge dal nemico indi s’è spinto,
ma su lo stesso corridor compone
se stesso a un punto, e mostra esser non vinto,
su ’l corridor giacente egli girarsi
disegna, e d’esso argine e muro farsi.
95Avveduto veder, però che scorto
questi più volte infra la strage avea
aborristi dal vivo il destrier morto
e ’l rammentava ora a lui sua sorte rea.
A Gilberto il vantaggio è disconforto,
illeso il suo cavallo egli credea,
né resterebbe in sella se fuss’esso
campione non d’altrui ma di se stesso.
96Sì che con dubbio cor, con dubbia briglia
riman sospeso e tra’ pensieri involto.
Arrogge, ché d’incontro a le sue ciglia
stassi colei che libertà gli ha tolto,
e mentre alte virtù pur gli consiglia
nido de’ suoi desir d’essa il bel volto,
Amor par che gli dica: – Oh quai tu dei
opre far se piacer brami a costei! -.
97A ferze così altere ei non restio
chiama il nemico ad alta voce e ’l guata,
e scopre il cor nel volto, e dice: «Or io
difendessi così causa privata,
come smontar dal corridor desio
e come tua sventura emmi non grata».
Ma ’l suo destrier ghiaccio le gambe e ’l seno
tra questo favellar trema e vien meno.
98Gilberto se n’avvede, et ambe lassa
le staffe, e da l’arcion fugge leggiero,
e con gli sguardi avidamente passa
vèr la beltà ch’informa il suo pensiero.
Nudrimento per l’alma inferma e lassa
ne tragge, e di virtù stimolo altero,
e ne l’arme e ne’ passi anco s’avvoglie
e verso il saracin tai voci scioglie:
99«Tolto è il vantaggio, e d’ogni parte pari
or noi mostrar potrem nostra virtude».
Replica l’altro: «Ammiro i tuoi sì rari
modi, né vili affetti il mio cor chiude».
Poi de gli scudi rimbombar gli acciari
feano, e gli elmi sembrar d’Etna l’incude,
lontani alquanto da’ corsier giacenti
essi, quasi leoni aspri e frementi.
100Grande è ’l turco campion, grande è Gilberto,
e grande d’armi in ambo arte è veduta;
già di providi schermi ricoverto,
schermi et assalti l’uno e l’altro muta,
e l’uno e l’altro in tai mestieri esperto
par ch’abbia nel colpir la spada occhiuta.
Poi si riscaldan ambo a poco a poco
e fassi incendio poi di Mare il foco.
101Non respirano intanto i riguardanti
e speranza e paura ange i lor petti,
e i duo guerrier sembran duo mar mugghianti
ch’urtansi orrendi con taurini aspetti.
Non s’arretran, non stan, non vanno innanti,
e gli scudi rimbombano e gli elmetti.
Ma già per lo furor l’arte decresce
e ne l’arte che manca il furor cresce.
102Grandina l’uno e l’altro, e tagli e punte
torbido, infaticabile, feroce,
e nel sommo e ne l’imo ecco congiunte
le spade, e più che pria lo striscio atroce,
et eccole anco ripiombar disgiunte
e l’una e l’altra indi poggiar veloce,
rintuzzate ambe, e pur di sangue asciutta
quella del turco ancor ch’ottusa tutta.
103Ma Durindana omai vermiglia e molle
e tepida è del sangue del pagano,
e già questi in sé freme e d’ir abolle
e più vie di ferir tenta ma in vano:
ove egli i colpi machina, ove gli estolle,
ivi schernita è sua maestra mano,
e per le stesse strade ora sublime
or basso il ferro ostil ferite imprime.
104Ben d’ambo a le percosse il piano e ’l monte
e l’ima valle e ’l fiume e ’l mar rimugge,
ma sol Gilberto impiaga, e solo ha pronte
l’offese e sol sua spada il sangue sugge.
Il reo Satan a tante piaghe et onte
contro sé, contro il Ciel freme aspro e mugge,
ei Pelio può crollar, Olimpo et Ossa,
et a Dio non servir non è ch’ei possa.
105Morde il reo le sue man, vuol non avere
in sogno al re de’ Turchi esser comparso,
e fortuna crudel falli vedere
quel punto al consigliarsi angusto e scarso,
e ’l divieto divin, ch’al suo potere
s’oppon già d’alta tema, il tien cosparso,
ma scampar suo campion dal gran periglio,
poiché ciò gli è concesso, è suo consiglio.
106Ei guarda in vèr la valle, e vede lieve
da la terra indi al ciel sorger vapore,
e densissimo il fa, benché non ferve,
e scuro il rende ancor dentro e di fuore,
et in un atto repentino e breve
Ottomano ei ne cinge, et (oh stupore!)
poi quel vapor converte in aer vano
e col vapor sparir face Ottomano.
107Or qual Gilberto? Ei da’ suoi sensi in bando
stupido vanne, e tra stupori arresta
il fiero colpo del famoso brando
che del soldan piombava in su la testa.
Schernito veltro è tal mentre cacciando
perde la fera in sen d’ampia foresta,
né meno il doppio esercito s’ingombra
di meraviglia, e ’l gran teatro sgombra.
108Poi, le diurne sfere a noi già tolte
antartiche volgeano in altro mondo,
et al guerrier che sparve eran rivolte
tutte le menti con pensier profondo,
ma Letaspe, tra l’ombre orride e folteIl mago Letaspe incanta le porte del tempio e sprona il re ad attaccare (108,5-116)
tratti gli spirti dal tartareo fondo,
con incanto munia tartareo et empio
le porte del sovran barbaro tempio.
109Reo mago è questi, e forza a Flegetonte
fa con possenti abbominose note,
e con sua lingua intinta in Acheronte
sforza anco il sole e ’l tragge a strade ignote.
Anco l’acque del fiume ir verso i fonte
fa spesso, e spesso ancor le rende immote,
talor si trasfigura e talor vela
d’invisibilità suo corpo e ’l cela.
110Oh come tra le notti ove circonde
rotonda e maga linea i piedi suoi,
la luna in chiaro ciel le corna asconde
lunge da’ liti esperii e da gli eoi?
come a gli spenti corpi il senso infonde?
come fa traboccarli estinti poi?
come colma d’orror tra’ suoi portenti
le cose elementate e gli elementi?
111ma poiché con notturna empia magia
gli usci vallò de la maggior meschita,
e n’ebbe per virtù tartarea e ria,
quasi alto fato, al città munita,
tosto su ’l dì novello al re s’invia,
e ’l trova, et a perfidia anco l’incita,
iniquo consiglier quanto empio mago,
del ben di Babilonia ardente e vago.
112Disse egli: «O re, che cotant’armi adune
del dio de’ Saracin contro i nemici,
e tieni il gran normanno in ferrea fune
pur del medesmo Dio sotto gli auspici,
io perché l’arte maga a tue fortune
non manchi a farle stabili e felici,
provisto ho ben, ma il magico oprar mio
adempi tu, sii tu fortuna e dio.
113Per gli tuoi scettri io sempre m’impiegai
pur a te stesso il fato esser tu dei,
fato divieni a te medesmo omai
e gradisci, per Dio, gli affetti miei:
le porte qui del sovran tempio sai
ove corron devoti Indi e Caldei,
quelle per alti intagli a Roma orrende
e tanto a’ suoi pontefici tremende,
114sculpito evvi di Pietro il successore,
tra’ suoi purpurei eroi grande e mitrato,
ma trema il reo, ma l’empie di terrore
nostro Maomet, anch’esso ivi intagliato.
Stanno in piede i suoi piedi, e pio furore
spira ei da gli occhi, e tende arco lunato,
e ’l drizza contro lui che ’n Vaticano
principe siede in concistor sovrano.
115Piene ho d’incanti io tai figure, e queste
già la cittade inespugnabil fanno;
ma perché l’armi tue non pronte e preste
mentre i cristian sospetto alcun non hanno?
Dio non cura i pergiuri, e solo infeste
l’ire di Dio contro i perdenti stanno.
Idro è lunge, e Roberta e ’l re di Tiro:
che tardi? Io la vittoria in man ti miro.
116Suo crin ti porge la fortuna, or esso
sia tra tue mani, e tu sorte e destino
diventa, e miglior mago oggi a te stesso
e fabro anco di fato alto e divino.
Ogni cosa non lecita è concesso
contro i cristiani al popol saracino,
e fede è la perfidia, ove sia visto
a gloria di Macon schernirsi Cristo».
Gazerse ordina un attacco a sorpresa, Gilberto è attirato in un agguato e ucciso (117-139,6)
117Gradì ’l consiglio il re, gradì l’incanto,
ma ’l reo consiglio al re fu via più caro;
palesollo a’ suoi duci, e contro il santo
patto (come egli volse) essi s’armaro.
Corse anco a l’arti sue Dasman, che tanto
è ne’ bellici inganni illustre e raro,
tese frodi in disparte e fe’ ritorno
e la tregua fu rotta in quel giorno.
118Ahi con occulto segno eransi accolti
e perfidi drappelli a le bandiere,
e poi sospinti inaspettati e folti
contro le franche in ordinate schiere.
Sorse la polve, e con armati volti
l’amazzone e Nilea corser primiere,
e su gli stuoli aversi in fiere guise
giunsero sconosciute et improvise.
119Cento e cento n’anciser queste due
vergini or chiuse i volti in tersi acciari,
non nocquer co’ bei visi, e ’l pregio fue
pur d’ambe due ne l’ermi eccelso e pari.
Tormonte per mostrar quanto a le sue
forze son d’Ottoman le forze impari,
scontrar vorria Gilberto, e freme e stride
in mezzo a l’armi ei forsennato Alcide.
120Strano a vederlo, e fulmine che passa
sembra; Davalo abbatte, uom di cui ignoto
a Lete è il sangue, et ei tra ’l volgo il lassa;
ma non sì che per sé quei non sia noto
credi ch’aggiri ov’egli il ferro abbassa,
morte la falce e le sue forse Cloto,
e fasciato le piaghe aspre et acerbe
d’altrui sangue Ottoman smalta pur l’erbe.
121Inondan gli altri duci e d’ogni parte
portano anco essi inopinate offese,
e trascorre con lor Bellona e Marte,
numi spesso propizi ad empie imprese.
Son di sangue fedel l’arene sparte
calcan barbari piè cristiano arnese,
e vincean l’armi inique s’avea manco
di disciplina il duce o ’l popol franco.
122Qual marinari inglesi allor che Coro
freme e ’l gonfio ocean morte minaccia,
corron per sé tutti a gli offici loro
senza che ’l lor nocchier motto lor faccia,
tal pronti ad ordinarsi i Franchi foro
in quella di fortuna orribil faccia:
miser l’insegne in mezzo, et ecco innante
solo il gran duce in atto minacciante.
123Rimproverò il pergiuro egli a Gazerse,
e poi con tutto il campo a guerra corse.
Sonàr le trombe ambe le parti averse,
e strage d’ambo i lati in monti sorse,
che lunga ora Asmodeo non discoperse
i duo bei volti onde a’ pagan soccorse,
e con incerto piè, con dubbia gloria
errò la morte intanto e la vittoria.
124Ma quel forte, a cui già nel singolare
contrasto fe’ Satan sì strano scherno,
fulminava ne l’armi et a sue chiare
opre giungea di gloria un lume eterno,
seco i suoi salentini, e seco un mare
facean di sangue ostile, onte d’Inferno,
mentr’esso spingea lor dove più baldi
stavan gli stuoli barbari e più saldi.
125Tale Alessandro i Macedoni, e tale
Ciro i Persi guidò, Scipio i Romani.
Già dovunque ei co’ suoi giunge et assale
disordina et abbatte i rei pagani.
Tutto il vasto conflitto universale
stimi d’intorno a lui, ma sì sovrani
pregi invidiò Dasman, che già in disparte
teso gli aguati avea, furti di Marte.
126Prender con tali inganni or l’empio vuole
l’armi e ’l buon duce del gentil Salento,
e a stuol che ’l segue in sella e par che vole
ovunque ei gira ei scopre il suo talento,
indi assalta, e pur cauto come suole,
quei forti e franco aver mostra ardimento,
dotto ne l’arti sue, poi timor finge,
e volge il tergo, e ’l suo squadron ristringe.
127Gilberto anco raccoglie il suo drappello,
lo stuolo suo ch’anco è in arcione e corre.
Vedi quasi volar poi questo e quello
e troppo questi e quei gira e trascorre.
Si ferma ad arte il turco astuto e fello,
e guerreggia e pur cede e pur ricorre,
simula fughe varie, e variamente
s’arresta e poi rifugge egli repente.
128A lui fortuna arride, et alfin quando
là da l’insidie gli avversari trasse,
voltossi, e ’l segno a la perfidia dando
fe’ ch’ogni tromba sua forte sonasse.
L’appiattato drappello aspro volando
lasciò allor le caverne oscure e basse,
e parve arme et armati partorisse
la terra a l’empie insidiose risse,
129talch’a tergo et a fronte orrido e duro
assalto ebbero a un punto i Salentini,
ma fèr testa essi a tergo et essi furo
saldi anco a fronte incontro i Saracini.
Scontri di corridori e nembo oscuro
d polve, e cavalier proni e supini,
e sotto il calpestio popolo essangue
doppio in due parti e doppio un mar di sangue.
130Sembra Gilberto e fulmine e tremoto,
e cento man par ch’abbia e cento braccia,
e sempre intorno a sé l’arringo vòto
lascia, così quei Turchi urta e discaccia,
pur move in lui con ruinoso moto
Dasman, né dietro or più volge la faccia,
vien con aste e cavalli, e ’l chiude e ’l cinge,
qual cerchio in centro, e ’l cerchio in lui ristringe.
131Ma qual rapido fiume a cui lo sciolto
nevoso gielo accresca il sito e l’onda,
un ruinoso là dove più avolto
è d’argini novelli e spuma e inonda,
tal l’eroe di Iapigia aspro s’è volto
contro il drappel che ’l chiude e che ’l circonda;
gira in giro al spada, e fa al destriero
in giro anco del fren sentir l’impero.
132Nacque pur su l’Idume, ma non vanta
quest’altro corridor padre immortale,
gira più che paleo, par ch’a sua pianta
presti l’aura più snella il volo e l’ale,
e ’l buon duce su lui splende con quanta
sonora fiamma arde il fulmineo strale,
e feritor ferito ei d’ogni parte
piaghe riceve e piaghe altrui comparte.
133Ma tutto è franto omai, ma già trabocca
morto sotto esso il suo corsier trafitto,
et in quel punto ei pur ferite fiocca
ned altro ei sa ch’esser mai sempre invitto.
Cade alfin, quasi alta abbattuta rocca,
tra questo campo ostil rotto e sconfitto,
né dove giaccia pur trova terreno
così di corpi estinti il tutto ha pieno.
134Fe’ tanta strage ei qui con la famosa
spada del paladin sommo e sovrano,
ma non cadde con lui sì gloriosa
gallica spada, e non restò in sua mano:
sorvolò in aria, e fessi tortuosa,
santo portento, ancorché orrendo e strano,
e di tre punte armossi anco, e divenne
fulmine con fragose ardenti penne.
135Dio la rinchiuse in sen de’ nembi, e Dio
n’atterrerè re iniqui e reggie altere,
che se la scelse allora ei giusto e pio
diverse ad isvenar barbare schiere;
non ponendo se stesso egli in oblio,
tra le nubi or la move intense e nere,
e ne minaccia i monti no, ma i rei
novi Enceladi e i novi empi Tifei.
136Cadde Gilberto tutto piaghe, e privo
d’ogn’aura egli doveva esser di vita,
ma l’alma dal suo corpo egro e mal vivo
sol per grazia del Ciel non fea partita.
L’Inferno absorbia lei s’eccelso divo
favor non la teneva a’ membri unita,
era d’amor terreno ingombra e carca,
misera, e ’l filo omai rompea la parca.
137Et egli tra quell’ore a lui sì sceme
pensava (ahi fiero Amore, e che non puoi?)
a l’egizia beltà che l’ange e preme,
e credea ravvivarne i sensi suoi.
Chiamava il dolce nome ei con estreme
voci, e così nel vallo ei visse poi,
cadavero spirante e miserando,
sempre – Nilea, Nilea – sempre iterando.
138Ma già per tòrlo a’ rei nemici oh quanto
sangue da’ suoi guerrieri allor si sparse!
Misero, e non potea tanto né quanto
chiamando ei pur sua diva egli aitarse.
A le tende il portaro, e mesto vanto
n’ebbero, e ciglia di dolor cosparse;
e sospirò Dasman, che quasi tutto
sé piagato e ’l suo stuol mirò distrutto.
139Tre volte intanto il buon popol di Cristo
spinto è ne la gran pugna in vèr le tende,
e tre fugar gli empi pagani è visto
fin dove il fosso la città difende,
e barbaro e fedel sangue commisto
ribolle in mille gorghi e in mar discende;
ma gli elmi toglie omai l’empio AsmodeoI cristiani, per opera di Asmodeo, sono in rotta: Tancredi riesce a farli ritirare nel vallo, e libera Amberto, che si era consegnato prigione a Nilea (139,7-162)
al bel volto amazzonio, al canopeo.
140E la vittoria universal dubbiosa
con tai duo volti accerta egli a’ pagani,
e vela gli occhi interni e l’amorosa
fiamma egli accresce ne gli eroi cristiani.
Rivaneggiano i duci, e la plebe osa
emular in amor anco i sovrani,
e va ’l campo fedel qual se repente
fosse la vista a l’uom tolta e la mente.
141Chi ’l crede? Anco a Nilea già senza schermo
Amberto offrendo il lato «Aprimi, «disse,
«aprimi in tutto questo fianco infermo,
o tu ch’aspre saette empia v’hai fisse».
Vibrò lampi da gli occhi e tenne fermo
la donna il brando e nel baron rifisse,
rifisse, e co’ begli occhi e quali brine
eran nel collo e qual fin or nel crine’
142«Fammi servo «ei gridò «poiché non degni
morte tu darmi; ahi libertà m’è greve».
La bella egizia allor ferrei ritegni
gli mette al collo con la man di neve,
et ei di lieto cor mostra alti segni
e con gioia il servil nodo riceve.
Va dietro ad essa, et a’ cristian s’oppone
in sua difesa, ei suo fedel prigione.
143Sì come i Franchi ei di purpurea croce
portava il suo destro omero segnato,
e movea con la croce, ahi vista atroce,
contro le croci egli il suo braccio armato.
Gioisce la bellissima e feroce
vergine, et oltre il trae preso e legato,
e dice a sé: – Tal signoria vorrei
su l’idol mio, ma non così il trarrei -.
144Ella anco intanto fulmina in battaglia,
né Tigrina sen va con mino fasto,
e già Tormonte ogni lorica smaglia
e nullo il turco re trova contrasto,
né v’è chi ad Ottomano opporsi vaglia,
e si sente un rimbombo orrido e vasto,
e cadon d’ogni intorno ah fuggitivi
gli stuoli di Giesù di scorte privi.
145De’ guerrier qui caduti e ’n Ciel risorti
là su son chiari i nomi; io pochi d’essi
rammento e tocco in breve dir lor morti,
che stancar ben potrian Pindi e Permessi.
Berecinzio et Uria cadder tra’ forti
itali Locri da Tormonte oppressi,
illustri germi e che non gli avi egregi
stimavan pregio lor, ma i propri pregi.
146Costui trafisse ancor Pachino e Falco,
coppia onor di Catania, et altrettanto
tu da la spada sua, tu avesti, Antalco,
tu dal Sebeto e da sue ninfe pianto.
O troppo atto gli eroi con l’oricalco
destando ad infiammar Marte col canto,
tu doppi onori infra i guerrier mercando
con la tromba in battaglia ivi e col brando.
147Gazerse atterra Idrunte, indi il calpesta
col destriero e nel cor ghiaccio gli infonde,
su ’l Cielo intanto con purpurea vesta
sale et al guardo uman l’alma s’asconde.
Nullo o raro cristian saldo più resta
su ’l Fasi e de l’Eusin lungo le sponde,
rotto il campo fedel, salvo là dove
fa l’invitto lor duce eccelse prove.
148Ei su ’l celeste scudo orrida selva
sostien d’aste e di dardi, e mille e mille
spade ribatte, e par libica belva
che ’l sangue altrui da l’unghie sue distille,
belva che dove il monte men s’inselva
incontro i cacciator d’ira sfaville,
e scempi a scempi unisca e crolli a crolli,
d’uomini e d’arme in quegli alpestri colli.
149Di sangue un lago egli d’intorno fassi,
e fulmina pur anco e non s’arresta,
né tra i guerrier ch’abbatte intrica i passi
e par turbo che gira e i mar tempesta.
la forma intanto che ne’ morti stassi
varia apparir fa in quella parte e ’n questa,
mentre egli varia i colpi e le ferite,
togliendo a’ Saracin l’alme e le vite.
150La destra al fier Golia, la manca a Serse
ei tronca, e spada e scudo ecco piombare,
e d’atri rivi le due braccia asperse
mi serissimi tronchi ecco restare.
A giaffer dentro il petto il ferro immerse,
a Cambì per gli fianchi il fe’ passare,
e ’l capo e ’l busto a dritto fil partio
a Persio, e l’alma per gran porta uscìo.
151Egli anco ancide il vago Algier, che ’n quello
giorno guidò gli invitti avventurieri.
Fioria in sue guancie un fresco anno novello
ma gli aurei fior v’aprio mal volentieri.
Quei tronca la cervice e manda il bello
volto in terra a spogliarsi i lampi alteri,
la beltà no, che col pallor fermossi,
anzi co’ gigli non da morte scossi.
152Le mani ingombre d’arco a Grifo impiaga
e mani manda in terra e corda e cocca,
quel sente spasmo per la doppia piaga,
e cade, e più in eterno archi non scocca.
Così Tancredi, ma di mal presaga
troppo è sua mente, e grave giel la tocca,
annunzio di sventure, e lui davante
ecco Rollon smarrito et anelante.
153Riprese spirto e poi gridò: «Signore,
tu sveni e vinci qui, ma senza frutto,
ah per potenza di non degno amore
gli imperi tuoi non cura il campo tutto,
che ciascun duce in amoroso errore
va qual su ’l mar disordinato flutto;
sol duo bei volti a tanti eroi fan legge,
né più zelo d’onor questi corregge.
154Non odi i gridi barbari? non senti
de le lor trombe il suon vittorioso?
non ascolti de’ tuoi gli alti lamenti?
chi ne fia scampo, o duce glorioso’
In ogni lato a’ Saracin vincenti
volgono i nostri il tergo vergognoso,
e volontario trae l’egizia donna
legato Amberto, Amor sì in lui s’indonna».
155Lagrime con tal dir Rollon diffonde,
ma cela il capitan la doglia estrema,
e ’n tanta avversità non si confonde
né in fronte segno alcun mostra di tema.
«Fa sonar a raccolta «egli risponde»
se de’ rettori suoi l’oste è sì scema;
sospingi il campo a le trincere, et io
ciò che si deve a me già non oblio».
156Tacque, e quegli ubidì; questi si mosse
e stampò di valore altr’orme eccelse,
e d’altro sangue ostil l’erbe fe’ rosse
e dal torto camin suoi duci svelse.
Ma tanto o quanto i cor di là non smosse
ove albergo d’Amor l’alma si scelse,
pur mostrano cercar confusi in faccia
essi d’onor la sì smarrita traccia.
157intanto un presto suon verso le tende
l’esercito fedel richiama e tira,
ma l’oste saracina oltre si stende
per chiuderlo, e Satan forze in lei spira.
Innanzi a tutti asprissime et orrende
percosse il fier Tormonte aventa e gira,
e sorge quanto Olimpo e quanto Atlante,
Atlante ch’è colonna al ciel stellante.
158Ma col fulmineo suo brando fatale
qui tosto il gran Tancredi anco s’oppone,
e sembra allor che sorge e mari assale
la procellosa imagin d’Orione,
freme ella tra tempeste e batte l’ale
gelide intorno a lei l’aspro Aquilone,
treman l’alpi marine, e su lor terga
vien che varia ruina si cosperga.
159De’ militari alberghi in su le porte
par ch’abbia cento braccia, e i suoi v’accoglie,
e fra molta de’ Turchi offesa e morte
anco a la bella egizia il prigion toglie.
Ma poiché a tutti è scampo, ei chiaro, ei forte
invitto cede, e serra alfin le soglie,
e disposte le guardie a gli steccati
ei tosto appar sublime infra gli armati.
160Formò natura assai disteso e piano
un colle esposto a’ rai di mezzogiorno,
e ’l fece erboso e vago e non lontano
il Fasi indi sen va con fertil corno,
e verso l’Aquilon v’alzò Silvano
selva di paschi e d’animai soggiorno,
e questo colle in pria scelse a bell’arte
Tancredi, esperto in ogni affar di Marte.
161Quivi piantò già ’l vallo, e con due strade
partillo in croce e quattro porte dielli,
e distinse le piazze e le contrade
e del volgo e de’ duci i vari ostelli,
e ’l maggior uscio incontro la cittade
erse, e dentro serrò fonti e ruscelli,
e schietta la sua tenda in mezzo ei mise
ma non la maestà da lei divise.
162Poi, fatto assediator grande e famoso,
ebbevi albergo libero e giocondo,
ma la fortuna, che ’l suo crin gioioso
poco ne porge e fé non serba al mondo,
or vi rinchiude il campo glorioso,
e volge a’ Saracin guardo secondo.
Oh leggerezza de gli stati umani,
come trapassi ognor né mai rimani!