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Il Tancredi

di Ascanio Grandi

Canto XX

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 27.09.15 10:17

ARGOMENTO
Fa l’esequie a Nilea Tigrina, e cade
poi con Roberta in singolar tenzone.
Morte Comarco, assalto ha la cittade,
e tolto a novo incanto è ’l gran campione.
Son fugati i demon, freno a le spade,
già presi i muri, il pio Tancredi impone,
e tempio a lei ch’è madre al Re del mondo
ei fa d’alto castel, scioglie Boemondo.

Dopo le esequie di Nilea, Tigrina decide con un falso pretesto di sfidare Roberta (1-33)

1Così costei tacita disse, e poi
«O bella «ella gridò «vergine invitta,
tu, domatrice de’ cristiani eroi,
tu da tue proprie man resti trafitta?
Dura a’ trofei, dura a’ trionfi tuoi,
dura fu in cielo a te legge prescritta»,
e qui si tace, e su ’l bel petto ignudo
mette bisso e zendado, usbergo e scudo.

2E mette anco la man, già sì guerriera,
in atto d’impugnar tra l’elsa aurata,
et elmo or di bell’or senza visiera
sopra l’aurea compon chioma annodata,
e pur sospira e piagne, e pietà vera
crede in lei chi l’ascolta e chi la guata,
indi in piazza regal su ricco e grande
feretro ponla, e sparge arme e ghirlande.

3Falsi sospiri e pianti simulati,
ma copiosi più, quivi discioglie,
e vi tragge cristiani incatenati
carchi di scherno e di cristiane spoglie,
e con manti pomposi e tenebrati
gli arabi sacerdoti insieme accoglie,
a brun vestita anch’ella, e veri lutti
crea col suo finto duol ne’ guerrier tutti.

4Alfin compite l’alte esequie e chiusa
era l’estinta entro i funerei marmi,
et al gran caso saracina musa
dato avea tristi elogi in brevi carmi,
e ’l sepolcro adornavan, come s’usa,
tolte a’ nemici eccelse insegne et armi,
ma Tigrina in disparte entro sua mano
tenea il pugnal del bel guerrier sovrano.

5Mille dolcezze ella n’attrasse quando
pensò di cui primier fu quello acciaro,
ma cui donato ei fu poi rimembrando
più di colco aconito il trova amaro.
Mandò da l’alma ogni conforto in bando
e fu ’l bel ferro a’ guardi suoi non caro,
suo cor si chiuse, e tra singhiozzi atroci
non ebber varco le nascenti voci.

6Ma non vista ciò vide, e fiero un riso
rise la Gelosia, poi disse: «O stolta,
che val, quantunque bello, un morto viso?
e qual guerra ti fa beltà sepolta?
Altro mal ti sovrasta, or n’abbi aviso,
guarda, guarda ov’è ’l danno e là ti volta».
Tacque, et al serpentoso irto suo collo
divelse un aspe, et in costei vibrollo.

7Rapido entro l’alma un tal serpente
diffonde il suo freddissimo veleno.
Trema Tigrina, e ’l prisco affetto algente
in lei per novo giel tosto vien meno.
Tu tu, Roberta, or qui le torni in mente,
tu d’un novo timor l’ingombri il seno,
già t’ha provato ella in battaglia, et ella
certo ben sa quanto sei forte e bella.

8Un più fiero rigor sente tra i polsi,
e dice: – Ahi pur l’egizia è spenta omai,
e giace in fredda tomba, e s’io raccolsi
doglie per lei già viva io pur errai,
folle, e perché a Roberta io non rivolsi
la mente? o perché ’l dritto io non librai?
Essa bella, essa forte, e d’una stessa
legge, e ’n un vallo il mio conforto et essa.

9Ebbe Nilea, già ’l so, pregio altrettanto
e beltà egual, ma che? se tra le mura,
cauta custodia, io le vegghiava a canto,
e questa era sì semplice e sicura,
e si nudriva d’un continuo pianto,
e ’n me fidossi; ohimè, qual nebbia oscura
infusa allor mi fu ne l’intelletto?
e quai nubi d’errore ebbi entro il petto?

10Ahi quando su ’l terren dal mar discese
Roberta, Idro vèr lei ratto non corse?
e pallida e tremante allor non prese
ella la man, che ratto egli le porse?
ei non partì dal colchico paese?
ella non fuor de l’oste i passi tòrse?
poi non tornaro insieme? Adunque meco
non fu il mio senno, o ’l mio veder fu cieco.

11E qual furia sei tu, ch’or mi ricorde
qual la vidi depor l’arco e la fionda,
e tòr la vanga con vaghezze ingorde
e del fosso cavar tutta la sponda?
Anzi a se stessa mai non fu discorde
(chi può celar ciò che dal core inonda?);
quando su la gran trave Idro salio
questa non più ch’a volo ivi il seguio?

12Non scolorì pur questa in suo sembiante
mentre in contrasto ei fu col fier Tormonte?
quante fiate si sospinse? e quante
restò la paurosa al gran duello a fronte?
Non parve ella bramasse alate piante,
o piante a gir su l’onda abili e pronte,
per dare aita anco a lo stesso, ahi quando
il Fasi il guerreggiò fort inondando?

13Ma forse Amor m’inganna, et io dovrei
creder che lei non ama ei benché amato,
e che rammenta egli i servigi miei
e ch’a lui non convien titol d’ingrato.
Or siasi il fatto tal quale il vorrei,
e fugga in me il timor da questo lato,
ma ch’ella arda per lui dubbio non aggio,
e ch’a mio mal si specchi in sì bel raggio.

14Come, costei vivente, egli la fede
mi serverà già mai? come al desire
fian pari le speranze, or che mi siede
con sì duro flagel sì reo martire?
Sol fia cagion ch’io viva (altro non chiede
la presente fortuna) il suo morire;
fia morte a me la vita d’essa, e fia
morte a la mia rival la vita mia.

15Dunque convienne o ch’io o ch’essa cada,
o che ’n vita essa sola o ch’io rimagna -,
et in tal dir china giù gli occhi, e bada
in ripensar su questo, e ’l pianto stagna.
Gran cosa in sé conchiude, onde sen vada
per effetto sì atroce a la campagna,
senza che ’l re de la cagion s’avveda
ove per tanto affar licenza chieda.

16Il trova, e dice: «O eccelso, o sotto cui
contro Europa Asia or fa le prove estreme,
tu che mai sempre i rari pregi tuoi
colmasti d’eccellenze alte e supreme,
da’ licenza al parlar: ministra io fui
in far tue glorie in qualche parte sceme;
da’ licenza al parlar: già quanto io fei
fu impero tuo ne’ ministeri miei.

17Arsi col carcer suo l’imprigionato
invincibil guerrier, tu sì volesti,
qual vanto fia s’a cavalier legato
io diè la morte, e ciò tu m’imponesti?
Pur mai ciò non si dica, e mai dannati
non sia l’officio a cui tu mi spingesti,
ma da me contra i Franchi or si difenda
il doppio fatto, e impresa alta s’imprenda.

18Siami lecito adunque ch’a’ cristiani
mandi io per nostro onor degna proposta».
«Fa’ quanto vuoi, tu spiriti sovrani,
donna, hai nel cor «del re fu la risposta.
Ammiran tanto ardir gli eroi pagani,
ma chiamato uno araldo a lei s’accosta,
et ella: «Porta tu dove attendata
stassi l’oste nemica or l’imbasciata.

19In publica udienza dirai ch’io,
come il re impose, arsi Idro in sua prigione,
e che vuo’ sostener che del re mio
degno il decreto fu contro il prigione,
e ch’anco io fei degna opra, e che desio
sol pe me franco il campo al paragone,
e ch’io disfido ognun, ma sol tu appella
Roberta, ch’è, com’io, maschio donzella».

20Tacque, e lo scettro del suo officio prese
tosto il re d’armi allor, né d’altro armato
su da pieghevol ponte al pian discese,
ei per vermiglia cotta imporporato,
e da’ Franchi, sì come ad essi chiese,
al figliuol di Ruggier fu poi menato:
tra’ suoi duci il trovò, pur, mentre espresse
la disfida, un timor ratto l’oppresse.

21Però ch’egli mirò qui d’improviso
il guerrieri ch’ei credea per fiamme spento,
ma sì fatta disfida il petto e ’l viso
turba a Tancredi, et Idro hanne tormento.
Penetrano ambo il vero, et è conquiso
da pietà l’uno e l’altro e da sgomento,
né perch’ambo quel ver turbi e annoi
qualche sospetto almen n’han gli altri eroi.

22Solo avea detto al suo gran genitore
gli affetti Idro e gli effetti di Tigrina,
e sue promesse e ch’ella per amore
sprezza la natia legge saracina.
Gira quel grande in mille parti il core
in fortuna sì acerba e repentina,
e tra molti pensier, molti consigli
non sa dove si volga, ove s’appigli.

23E teme non del ver prenda sospetto
Roberta, e tutta a un tempo ingelosita
mova altre risse, et a contrario affetto
volga l’amore, amante infellonita.
Ma secura costei, quanto diletto
prende per tal duello? e come ardita
crolla il bell’elmo? e come avvampa, e come
mette la bella man su l’aureo pome?

24Ma tutti i duci ardon di nobil ira
per la proposta barbara et insana,
e Tancredi vèr lor gli occhi raggira
e mostra a sdegno aver follia sì vana.
A la necessità, che preme e tira,
quasi destin qua giù, la gente umana,
poi cede, e dentro il cor gli affanni asconde
et a l’araldo alfin così risponde:

25«Porta al tuo re che vivo Idro è nel vallo,
e ch’accettiamo noi pur la disfida,
di’ che con lancia e spada in su ’l cavallo
Roberta uscirà incontra a chi la sfida;
ma poiché Idro è pur vivo e scampato hallo
grazia del Ciel dal foco empio omicida,
Tigrina tralasciar potrà l’impresa,
né fia da lei la falsità difesa.

26Ma se nel suo proposto è pur costante
lealtate di campo io le prometto».
Tacque, e vèr la città colui le piante
torse, et entrovvi con turbato aspetto,
e gridò, ma con voce egra e tremante,
quando fu del tiranno anzi ’l cospetto:
«È vivo, è vivo il cavalier tremendo,
né giovò ’l mago a noi, né ’l foco orrendo.

27Io il vidi, io il vidi, et egli come pria
beltà nel volto suo mesce e terrore».
Tremaron tutti, e che celeste sia
credean tal opra, e più s’empian d’orrore.
Poi, mentre il nunzio la risposta apria,
ciascun sol n’apprendea quel ch’è di fuore,
ma s’internò Tigrina, e d’ostro tinse
ambe le gote, e più che mai s’infinse.

28«Pensier non muto, il ver difendo, e spero»
disse ella «qui tornar vittoriosa,
e fia ch’io faccia a pro del nostro impero,
se me ’l permette il re, poi maggior cosa.
Lo scampato e temuto prigioniero
io poi disfiderò, mio cor tant’osa».
Pianse a tai detti e l’abbracciò Gazerse,
indi le labra a queste voci aperse:

29«O d’Asia e di Babelle onore e fregio,
vergine illustre, o come tutte adempi
tu le tue parti con vantaggio egregio
e quanto eccelsa escon da te gli essempi!
Poco è ’l mio regno de’ tuoi merti al pregio,
premio tuo fia la fama in tutti i tempi,
t’ammireranno i regnatori e i regni
chiara per fatti inusitati e degni.

30Ma vanne, et al destrieri, che pronto e lieve
è sì che sembra un vento, or reggi il freno,
dico al mio Tigri, il qual di pura neve
stella have in fronte, et aura e fiamme in seno».
Tacque, e tosto la vergine con breve
sermone a quel lodar rispose a pieno,
indi se stessa su ’l dorato arcione
armata a nostro stile ella compone.

31Ma Tigri abbassa il capo, e quasi geme,
e di cangiar signor par che si doglia,
e forse morte, che da presso il preme,
così il capo di lui china e l’addoglia.
Ma l’amazzone il gira, e rugge e freme
come infausti presagi a sé n’accoglia,
e da sguardi infiniti accompagnato
lo spinge ov’alto a lei ponte è piegato.

32La gallica guerriera intanto in sella
ascesa anch’ella in fulgid’arme splende,
e stringe con sua man feroce e bella
l’asta, e dal suo bel vago incerta pende.
Il vagheggia di furto, e si turba ella
però che angoscie d’alma in lui comprende,
mira tra’ rai d’armo nebbia importuna,
ma non sa la cagion ch’ivi l’aduna.

33Pensa, e poi tra sé dice: – Ahi forse teme
non Tigrina m’ancida, e quinci è tristo?
come tacito, ohimè, sospira e geme?
quanto pallor tra le sue guance è visto?
come gir ai dolci occhi? e come preme
la doglia? e come il dolce e l’agro ha misto? -.
Misera, e poi l’orecchie sue feria
altero suon che d’aureo corno uscia.

Tigrina e Roberta si uccidono a vicenda in duello (34-58)

34Tigrina sona il corno e mortal guerra
annuncia, et al corsier punge ambo i fianchi,
e piega l’asta e la visiera serra,
et a vista si ferma indi de’ Franchi.
Si riscuote Roberta, e quel ch’afferra
cerro anco arresta, e par che ’l sol le manchi;
vede ella scemo il sol, da che celata
vide la gioia ne la fronte amata.

35Le fasie mura di pagani piene
e i franchi stuoli or fan teatro altero,
ma d’incontro a Tigrina anco ritiene
Roberta il suo rattissimo destriero.
Questi, qual bianche involte a fosche arene
nel pelo have il color candido e nero,
nacque su ’l Reno, e con veloce piede
il Ren precorse, e ’l Ren nome a lui diede.

36Poi quai mossero entrambe? Ambe in quel punto
la desiata fronte ambe miraro,
e ’l cor, se pur con esse era congiunto,
ahi misere a tal vista ambe lasciaro.
Ma volar l’uno e l’altro destrier punto
parve, e nulle su ’l suolo orme restaro,
dier sibilo le lancie, e su gli scudi
si rupper tosto a’ colpi acerbi e crudi.

37Vedi confusi e misti in vèr le stelle
salir de l’aste infrante i tronchi e i lampi,
e dar rimbombo in queste parti e ’n quelle
senti i marini et i terrestri campi.
Trascorsero i corsier, quasi procelle,
ma solo tu fra dure coti inciampi,
tu rattissimo Reno, e ’l capo e ’l collo
fiacchi cadendo in tal mortal tuo crollo.

38La donna se ne svelle, e con piè sciolto
si mette in terra, e l’aurea spada stringe,
ma la gelosa amazzone rivolto
il corridore ha intanto, e ’n lei lo spinge,
con nudo brando anco essa, ma con volto
pallido e verde, e l’avversaria cinge,
l’una fa ratti giri, e gira dentro
l’altra a quei giri, e par volubil centro.

39Roberta in vèr le redini avvicina
per afferrarle, come può, la mano,
e si volge e rivolge repentina
tre volte e quattro, e sempre il tenta invano,
ma su Tigri un balen sembra Tigrina,
Tigrina in preda al suo furore insano,
e dispietata e ’n atto orrido e crudo
grandina colpi, e quella oppon lo scudo.

40Così lunga ora, alfin sprona improvisa
l’amazzone il cavallo e fughe accenna,
indi il rivolge, e ’n fiera e dura guisa
n’urta l’invitta vergine di Senna;
ma da l’urto costei non è conquisa,
benché n’è volta qual volubil penna,
anzi la briglia intanto intorno al morso
afferra, e frena al corridore il corso.

41E s’incurva e si stende e chiude il brando
entro il fianco al destrieri, poi lascia il freno
che ’l destrieri con duo piè già calcitrando
s’estolle, e con due piè calca il terreno,
et ella anco il colpisce fulminando
sotto i confini de l’eretto seno,
e gli toglie la vita, e già la fera
cade, e giù trae la barbara guerriera.

42Cade Tigri, et essa in esso
tra la staffa e la sella avinta resta,
né toglier puote indi il suo corpo oppresso
et a suo pro senza alcun pro s’appresta.
Vincitrice è Roberta, s’alto eccesso
usar di cortesia non vuole a questa,
a questa che per odio e gelosia
esser cortese a lei cotanto oblia.

43Ma troppo generoso, troppo schietto
(tua gloria), o Francia, è de’ tuoi figli il core:
non ha l’inclita donna alcun sospetto
che sia Tigrina emola sua in amore,
e ’l favor di quel caso ella in difetto
si reca, tanto eccelso è il suo valore,
talché non fa di sé vendicatrice
sua gloriosa spada, e così dice:

44«Tu la tua sorte usando imperversasti,
ma vantagg’io non vuo’ di mia fortuna;
sbrigati pur, né sia ch’ove io contrasti
estolla i pregi miei ventura alcuna».
Ciò sdegna l’altra, e pur non par che basti
indi a sottrarsi, e invan sue forze aduna,
la gamba imprigionata, oppresso il manco
ginocchio è dal destrier col morto fianco.

45Chi ’l crede? e pur magnanima colei
in piè la pone, et ella qual serpente
che tolto a mortal rischio i denti rei
contro pietosa man volga repente,
impugna il brando, e grida: «Ad altro sei
tu da me cerca», e ricolpia fremente,
e soggiungea: «per altro io ber tuo sangue
bramo, e sterparti caldo il core essangue».

46Quella risponde: «Io la tua folle e vile
proposta venni qui per riprovare,
et ove tu n’adduca altra simile
io lascio per quest’altro il primo affare,
ma d’esser men pietosa o men gentile
da la tua fellonia non fia ch’i’ impare;
spero vittoria e volentier saprei
far quest’altra cagion de’ miei trofei».

47Così dice, e la spada oppone al fiero
impeto ostil, né l’aversaria offende,
ma quella, c’ha prefisso in suo pensiero
o giacer morta ne le franche tende,
o restar con l’amato cavaliero
se vince ella l’impresa alta ch’imprende,
l’ordin de le fortune sue amorose
e ’l suo duro proposto in breve espose.

48l’impensata novella un stral di gielo
fu per lo cor de la guerriera franca,
e parve a li mancar la terra e ’l cielo
e sua guancia inverdì, che fu sì bianca.
Spinse ella il brando qual fulmineo telo
e gridò: «Dunque tu barbara e manca,
tu priva d’una mamma et ineguale
tanto osasti in amor? tu mia rivale?».

49Vedi el spade allor tornare e gire
e l’una e l’altra ras sembrar baleno,
baleno che dal ciel venga a ferire,
sparso di tuoni e di saette pieno.
Ma non lieve a l’amazzone martire
recò Roberta in rinfacciarle il seno,
il seno a cui mancava la sì bella
forma de la gentil destra mammella.

50Faranne empia vendetta, ma sdegnose
fremon di pari or l’una e l’altra in guerra,
e sembran due rifee tigri gelose
lungo l’ircana o su la caspia terra.
Rompo l’ampie co’ brandi arme gravose,
e l’una e l’altra or maglie or piastre atterra,
squarciansi anco le carni, anco a le spade
tra gli alberghi de l’alme apron le strade.

51Son maestre di schermo, ma il furore
confonde l’arte, intorbida le menti,
e tu rea Gelosia, tu iniquo Amore,
mesci le forze gelide e l’ardenti.
Idro stava vicin su ’l corridore
ah con che orecchi, ah con che guardi intenti!
Visto et udito avea già il tutto, e sciolto
un diluvio di pianto avea in suo volto.

52Tre volte per partirle il destrier spinge
e tre ’l ritiene, e leva in alto il ciglio,
e pensa come in libertà costringe
gli uomini in terra l’immortal consiglio.
Ma questa e quella intanto anco ritinge
l’armi di sangue, e ’l terren fa vermiglio;
guardansi torve, e l’una l’altra incita
a tòrsi i pochi avanzi de la vita.

53Aneli i petti, e con le man tremanti
pur non cessano un punto in ripiagarsi,
ferite su ferite, e su spumanti
fiumi di sangue altri torrenti sparsi.
MA già tronca gli stami a le due amanti
quella a cui nessun uom può mai sottrarsi,
Roberta prima in giù trabocca, e poco
spirto rimanle indebolito e fioco.

54L’amazzone gridò: «Deh alquanto resta,
resta tu alquanto in vita, a veder s’io
con la mia spada a te dura e funesta
il tuo so far eguale al petto mio»,
et intanto l’usbergo e l’aurea vesta
svelse con man rabbiose e ’l sen scoprio,
poi vèr la destra poppa ah sol guatando
girò di taglio il dispietato brando.

55Recide, e fa di salto andar su l’erba
quella morbida palla alabastrina,
e ’l dolor de l’ingiuria disacerba
essa a l’ultimo punto anco vicina.
Ma Roberta, a cui palma in Ciel si serba,
tra l’estremo spirar giacea supina,
e la premea l’amazzone col piede
e tacita ella a Dio chiedea mercede.

56Poi gli occhi suoi qua giù morte chiudea,
ma gli apria grazia eterna in Paradiso,
e sembrava odorosa aura sabea
lo spirito dal bel carcer diviso,
e foce l’ampia piaga esser parea,
foce sanguigna in sì bel petto inciso,
e de le due mammelle una su ’l seno
presso a quel sangue e l’altra in su ’l terreno.

57Piansero i Franchi e i Saracini insieme;
ma qual fu quel soldan che d’amor n’arse?
Misero, ei pur sen finge, e chiude e preme
le cagion di sue lagrime cosparse.
Finge pietà nel volto e tra sé geme
per sembiante egli a sé sempre mostrarse,
e già credevan tutti vincitrice
l’iperborea guerriera or troppo ultrice.

58Guarda ella il tronco petto, e gode e trema,
né cape un tal piacer con egri sensi,
ma la sua vita in sue virtuti scema
langue, vacilla, a poco sangue attiensi;
anzi per tanta sua gioia suprema,
ch’inebria l’alma di piaceri immensi,
si dilatan gli spirti, e ’n dilatarsi
lascian di lieta morte i sensi sparsi.

Sepoltura delle due vergini guerriere e pianto di Idro (59-70)

59Così Tigrina, e i barbari, che quando
cadde Roberta alzaro allegri stridi,
or che cade quest’altra aspro ululando
fan rimbombar profondamente i lidi;
ma l’oste de’ cristiani sospirando
tragici sparge al ciel funesti gridi,
e corre a le due morte, et Idro innante
egro e pien di pallor suo bel sembiante.

60Non resta su l’arcion, ma balza e guarda,
poi grida ad alta voce: «Ah qual risiede
stigio spirto in mio ciglio onde ami et arda
con tanto opprobrio mio donan che ’l vede?
perché a patir da me beltate è tarda,
s’ella in sue fughe ha sì spedito il piede?
e questo esser io bello? oh non poss’io
questa bellezza tòr dal viso mio?

61Altri in sua tersa guancia orrende piaghe
fe’ volontario, e da beltà si scinse,
costui voglio imitar», tacque, e le vaghe
sue rare forme a disformar s’accinse,
e di falsa virtù con voglie vaghe
anco il pugnale a l’empio officio strinse,
et offendea fattezze sì leggiadre,
ma ciò vietò prudente il suo gran padre.

62L’afferrò ne le braccia, e disse: «Ahi figlio,
qual inganno ti tragge a tal furore?
Non deve de’ mortali ira o consiglio
l’opre emendar de l’immortal Fattore.
Beltà dono è del Ciel, tu casto il ciglio
serba, e casta la mente e casto il core,
Dio che bello ti fe’, l’alme difenda
dal tuo bel lume, o in santo ardor l’accenda».

63Ei con tai voci il fier garzon distorna
dal far oltraggio a sua sembianza bella,
e quei poi piagne le due vaghe, e torna
or con gli sguardi a questa, egro, or a quella.
Con sua pudica man prende l’adorna
d’un candido pallor tronca mammella,
e su ’l bel tronco sen tosto l’adatta
e sotto l’aureo usbergo indi l’appiatta.

64La man strinse a Tigrina, e in una istessa
ricca bara locar ambe due volle,
ma mentre ei l’uno al’altro corpo appressa
ah ne le piaghe il sangue atro ribolle;
per morte ne’ nemici ira non cessa,
oh chi le sue ragioni a morte tolle?
Bollivan le ferite, e pur immoti
stavano i corpi, e freddi e d’alma vòti.

65Ma ’l gran guerrier la scevra e ricompone,
e porge a ciascun d’essi un bacio pio.
Poi di lor morte la crudel cagione,
piangendo l’oste, a tutti egli scoprio;
disse a qual fiamma, e disse a qual prigione
Tigrina il tolse, e doloroso un rio
ritraboccò da gli occhi, e disse quanto
amò Roberta, e giunse pianto a pianto.

66indi a le membra sue sopra gli acciari
pon negra vesta, e bel parer fa il nero,
come quando co’ raggi orni e rischiari
o Cinzia, tu, il notturno atro emisfero.
Ma su ’l lito sorgean simili e pari
per arte e per natio gran magistero
duo scogli in forma di sepolcri, e foro
urne di re sepolti i grembi loro.

67Non v’eran l’ossa, eran dal tempo rosi
gli alti epitafi, e quivi Idro riporre
pensò quei duo cadaveri amorosi
e fe’ conformi al duol note comporre.
Egli anco alfin, da poi che sì pietosi
estremi offici ei visto fu disporre,
ponea le pompe innanzi e i duci dietro
a l’uno, a l’altro altissimo feretro.

68E già ’l mortorio barbaro e ’l cristiano
con debito intervallo ivan remoti,
ma senza incensi il bel corpo pagano,
che sol cingean Roberta i sacerdoti.
Costei su ’l sen con l’una e l’altra mano
fea croce in atti immobili e devoti,
ma parea, benché morta, aspra et altera
la saracina amazzone guerriera.

69Giunte le bare a’ duo sublimi avelli,
Idro sparse di polve il volto e i crini,
e bella era la polve in suoi capelli,
bella tra’ suoi natii gigli e rubini.
Poi dal ciglio versò novi ruscelli,
e gli occhi in su l’estinte ei tenne chini,
sopra l’estinte in cui con bella forma
regna la morte, e di beltà s’informa.

70Ma quando eran deposte entro i regali
sepolcri inalzò gli occhi e disse: «Accogli
ambe, o Signor, ne’ regni alti immortali,
anco tu questo puoi, pur che tu ’l vogli.
Rendi l’infida a’ membri suoi mortali
per battezzarsi e poi di là la togli,
o per lei tempra i fochi d’Acheronte».
Tacque, e versò da gli occhi un novo fonte.

L’Angelo sostituisce le porte del tempio con nuovi battenti istoriati con storie sacre (71-75)

71Tal sepelia le due sì eccelse vaghe
l’afflitto eroe, ma ne la notte ch’esso
disciolto fu da le catene maghe,
scese dal Fasi a’ muri un divin messo,
e non vestì le forme infinte e vaghe
onde veder noi gli Angeli è concesso,
ma non veduto oprò ciò che a’ cristiani
fu lieto annunzio, e sgomentò i pagani.

72A l’alta rocca, che prigion sì dura
era a Boemondo, egli le porte tolse,
e quelle v’adattò che la scultura
cangiàr quando l’incanto Idro ne sciolse.
L’aria intorno a quest’uscio anco più pura
fe’ quel celeste, e di splendor l’avvolse,
e tale iscrizion sopra le stesse
parte in un bello e novo marmo impresse:

73S’appellerà, de’ Saracini a scorno,
sì gran castel dal nome di Maria,
e nel gran dì ch’a l’immortal soggiorno
assunta Ella volò, sacro a lei fia.
Cotanto in quella notte, e fe’ ritorno
quell’Angelo in sua propria gerarchia,
ma poi ne l’alba (letto ciò, ciò visto)
i Turchi ebbero il cor tremante e tristo.

74Pur che non fèr gli iniqui incontro i tanti
meravigliosi angelici portenti?
Franger il marmo essi tentàr, ma franti
ben ne restaro i lor ferrei stormenti,
e da le porte pria scherni altrettanti
ebber gli stessi ad oltraggiarle intenti,
scherno maggior di notte avean per quella
che splendea in aria imagin santa e bella.

75Fremean guardando, e ’n braccio ella tenea
Dio pargoletto, e sotto i piedi il drago;
la saettavan gli empi, e ’n lor volgea
gli strali a gloria sua la diva imago,
e già di là da Cancro il sol correa
ne’ ministeri suoi spedito e vago,
e s’apprestava il dì fausto e preditto
mirabilmente in quel marmoreo scritto.

Comarco durante l’assemblea propone di rendersi e convertirsi, Ottomano lo uccide (76-98,4)

76Ma d’Asia al regnator, che ’n guise mille
scerneva il danno suo certo e fatale,
Satan anco infondea stigie faville
et ardente il rendea nel proprio male.
Pur, non saldo e con voglie non tranquille,
tra quella di furor vampa infernale,
in sì dura stagion tal re accogliea
i suoi primieri a rapida assemblea.

77Costor gli eran d’intorno, egli il suo ciglio
senza parola far tenea piegato,
né comandava né chiedea consiglio
e su l’asta appoggiava il corpo armato,
et essi in grave e torbido bisbiglio
fremean, qual senza venti il mar turbato,
quando per sé l’onda si gonfia e frange,
annunzio di naufragi, e geme e piange.

78Le donne altrove intanto e i vecchi imbelli
stridean, quasi cicale in arso stelo
quando Febo al Leone infiamma i velli
e sta sotterra il tropico di gielo.
Ma ’l re col cenno, innanzi che favelli,
acqueta i duci, indi bestemmia il cielo,
poi dice: «Ahi lasso, ahi di crudele evento
duro è presagio a noi più d’un portento!».

79Dopo tal dir, chiede i consigli e tace,
quasi uom che disperando avien che spere.
Poi nessuno a parlar mostrossi audace
e muto era lamento un gran tacere,
ma Comarco, che ’n sen la fé verace
serbava, e che per lei dovea cadere,
anzi col proprio sangue battezzarse,
ruppe i silenzi, e questi accenti sparse:

80«Dal dì ch’i patti, o re, furon conchiusi
co’ Franchi a sepelir morti cotanti,
con fraude io mai nel petto il ver non chiusi,
né diversi dal core ebbi i sembianti,
et or che vinti e per timor confusi
a concilio ne trai tristi e tremanti,
a pro del regno sì, ma più de l’alme
parlo con libertà, né di me calme.

81Dimmi, chi di Babel tanto in dispregio,
chi schernì l’alte porte effigiate
quando ivi el figure, altero pregio,
stranamente ne gli atti ebbe cangiate?
da qual non visto ancor fabro sì egregio
a l’uscio del castel furo adattate?
chi scrisse in marmo? e chi di notte appende
l’eccelsa imago in aria e la raccende?

82Chi scrisse in marmo? e chi tal marmo e tali
mirabil porte incontro noi schermisce?
et in virtù di cui volge gli strali
la stessa imago, e i nostri arcier ferisce?
Impiaga e lascia piaghe aspre e mortali
e se l’adora alcun ratto guarisce;
et al gran foco chi, chi non veduto
sottrasse il cavalier tanto temuto?

83Opra non di Macon, se molto offeso
il suo nume ne fu, ne fu il suo onore,
e al vallo franco allor già quasi preso
onde il forte invisibil difensore?
traboccò quante scale? e lasciò appreso
ne’ seni interni qual fatal terrore?
chi tanto oprò? chi ’l fe’? Qui qui ’l pensiero
volgiam, ch’eccelso è pro saperne il vero.

84Altri non fu che Dio, ma ’l buon Tancredi
t’offre di Dio la legge, e regno e pace,
a la necessità perché non cedi
almeno, o re, se ’l vero udir ti spiace?
Troppo il Ciel t’è contrario, e nulla vedi
salute in terra, andremo a ferro, a face?
o pur sol con le gole andrem pugnando
ov’Idro spinga il suo fulmineo brando?

85Già de’ padri, de’ figli e de’ mariti
troppo ne’ tristi et atri funerali,
troppo già furo i costui pregi uditi,
troppo fur detti a nessun pregio eguali,
mentre con volti di squallor vestiti
pianto han le donne colche i propri mali,
e mentre in su le bare offeso hann’elle
col ferro i crin co’ pugni le mammelle.

86Né mentr’ei fu lontan tu pur ridesti
(i campi il sanno, allor di sangue sparsi):
venne anco il re di Scizia, e te ’l perdesti
prima che teco ei possa accompagnarsi,
venne di notte, e su ’l matin vedesti
tronca l’orribil sua testa additarsi.
Timidi tutti allor fuggian gli Sciti,
né Selim fe’ ritorno a noi smarriti.

87Vari prodigi di natura anch’essi
pur de l’ira del Ciel ne dieron segni:
stuoli di pecchie strepitosi e spessi
non s’accampàr tra’ militari segni?
non fur solchi di foco in aria impressi?
in Asia non tremàr provincie e regni?
l’acqua non si fe’ sangue? e non sudaro
le statue? e i rai del sol non s’oscuraro?

88Che de l’Angel dirò che con orrendo
brando pur minacciò nostra muraglia?
Né gli altri casi a rimembrar io prendo,
né tre volte noi vinti in gran battaglia;
per molta oste, qual Xerse, eri tremendo,
a picciol oste or l’oste tua s’agguaglia.
Ma di quel ch’egli fu poco è minore
in drappelli in nemico et in vigore.

89Deh libra i danni di Tancredi e i tui,
e mira quanto omai son differenti,
d’ogni trenta guerrieri un manca a lui,
ottanta ei d’ogni cento a te n’ha spenti,
e se riguardi a’ nostri duci, a’ sui,
egli molti e tu pochi haine viventi;
ma poiché uom forte assai vie più si stima
d’un popol folto, ahi dov’è il forte Agrima?

90Ov’è la donna onor del Termodonte?
Taccio l’egizia, ov’è l’arme soldano?
Cagion di tua ruina, il qual per pronte
frodi di guerra almen fu sì sovrano.
Ben cade l’Asia al cader di Tormonte,
ei cadde estinto e prese immenso piano,
bench’a lui porse aita il colco fiume
mosso non so da qual tartareo nume.

91Pur Idro io qui rammento, e come ancise
egli il tuo figlio invitto, e membro quanti
tuoi duci anco di vita ei pria divise
quando adombrò tutti de l’Asia i vanti.
Sempre a’ cristian poi fortuna arrise
e tenne saldi i giri suoi incostanti,
e s’intanto a tuo pro mosse ella mai
nostri pergiuri favorì, tu ’l sai.

92Festi gran lega già col re d’Egitto,
e grande armata ei spinse a’ greci liti,
e pur da quel Tancredi ei fu sconfitto,
che noi qui preme or timidi e smarriti.
Ov’è l’acqua del fosso? e qual prescritto
è fine a’ suoi pensier scaltri et arditi?
Colco a lui serve, et Antiochia invia
soccorso e Grecia a lui per varia via.

93Sciolti gli incanti son, sparito è il mago,
ov’è del male il consiglier sì amico?
Ei di romper la tregua ahi ti fe’ vago,
et a te più che pria fe’ il Ciel nemico.
Ma qual ne cinge e inganna ombra ed imago?
o ’l vero è in altra parte e ’l falso io dico?
Solo il ver, solo il ver rimproverarmi
potrà, chi mentitor vorrà chiamarmi.

94Stanno in campagna i Franchi e tu qui stretto,
tu l’aria a pena, essi han la terra e ’l mare,
copia di vitto è in lor, tu n’hai difetto,
tu bèi torbido luto, essi onde chiare.
Ma col capo Ottoman crolla l’elmetto
e fiero sdegno anco in tuo volto appare;
pur vengane che può, che pria ch’apporte
biasmo la vita, è vita a l’uom la morte.

95Sciogli, o re, il gran Boemondo, altra a noi spene
non resta, e cala i ponti e mercé grida,
e prendi in man la croce ond’anco viene
salute eterna a chi in Giesù sì’affida».
Così Comarco, e già più no ’l sostiene
Ottomano, e risponde: «O testa infida
e perfida al re nostro e a Dio rubella»,
e stringe il reo la spada in tal favella.

96E così il suo furor cieco il trasporta
che ’l ferro immerge al cavalier nel fianco.
Quei trema e cade, e ’n Dio si riconforta
e l’occupa un color pallido e bianco.
Con lingua intanto, ancor che fredda e smorta,
«Giesù, Maria, Giesù «grida, e vien manco,
ma liberata dal mortal ritegno
l’alma sen vola a sempiterno regno.

97Co’ martiri ella unissi, or là su prega
per Colco, ove regnò sua prisca gente,
ma il corpo odori e rai diffonde e spiega,
fatto allora odorifero e lucente,
e per sé la palpebra in giù si piega
e chiude il guardo splendido et algente,
s’incrocicchian le braccia, e par che passi
da terra in Cielo, e ’n Cielo e ’n terra ei stassi.

98Stupido e d’ira pien restò Gazerse,
né lasciar tanto ardir volea impunito,
e ’l morto, che di raggi si coperse,
parea d’eterno ben farli anco invito,
ma da’ muri s’udian grida diverse,I cristiani riempiono il fosso e vanno all’attacco, ma subiscono gravi perdite in mancanza di Idro (98,5-128)
e ne venìa Zelando isbigottito,
«O re, «diceva «il campo ostil s’è mosso,
e qual guerra ne fa? come empie il fosso?

99Quai machine da lunge, e qual (non mai
mole vista) apparir vidi improvisa?».
A tal voce Ottoman gridò: «Tu stai
a concilio, signor, ma in altra guisa
corre Tancredi a darti regno omai
che di Comarco il favellar divisa.
non errai, no, già in tua presenza e ’n tale
loco uccider doveasi uom dislegale.

100Ei violò la legge, ei le sculture
primo tra’ Saracini ebbe intromesse,
ei diè statua a se stesso, e con secure
lettre intagliate i gesti suoi v’espresse.
Poco è la morte in pena: atre et oscure
fa’ sue memorie, anzi in oblio sian messe,
togli il suo nome da gli annali, e franto
sia il marmo ov’è suo volto, ov’è suo vanto.

101Siamo in fortuna estrema, e ne la dura
sorte a Dio ne conviene esser fedeli;
la natia fé per premio e per paura
negando oh non sarem più che infedeli?
noi contro Cristo a difensar le mura
siam pronti, e curi il resto il Re de’ Cieli».
Tacque, e Satan infiammò tutto, e tutti
su l’alte rocche allor s’ebber ridutti.

102Ma le machine ostili erano esposte
d’incontro a la città con giro orrendo,
e dietro lor quasi appiattata l’oste
fremea guardinga in guerreggiar tremendo.
Tendea forti archi in vèr le mura opposte
l’opre de’ guastatori essa schermendo,
e i guastatori intanto altri ripari
pur fean co’ lor lavori a’ loro affari.

103Quasi mai sempre in travagliar non lento
alzano innanzi a sé lo svelto suolo,
finché gittan nel fosso, e ’n quel momento
giungono a schermo lor gli strali a volo.
Sorge la polve, e la raggira il vento,
cadon da’ merli i Turchi a stuolo a stuolo,
e co’ lor corpi stessi ognor s’accresce
la materia onde il fosso ognor decresce.

104Più dì seguio tal forma di fatica,
e ’l fosso largo e cupo alfin fu pieno,
e d’ogn’intorno a la città nemica
senz’argini restò l’ampio terreno.
Intanto il forte eroe, la cui pudica
bellezza a donne tante accese il seno,
non guerreggiò, però che ad esso increbbe
quel guerreggiar sì scaltro, e sdegno n’ebbe.

105Or quali l’alte machine onde darsi
vedrem l’assalto a la rinchiusa terra?
Son varie e strane, et altre avvicinarsi
denno, e girar su l’appianata terra;
dovranno indi remote altre arrestarsi
guerriere ancor, ma con remota guerra;
mirabili di mano opre e d’ingegno
tutte, e tutte di sodo annoso legno.

106Di testuggine alcune, ond’hanno il nome,
ne le gran membra lor l’imagin hanno,
e doppiamente le città son dome
ben da queste con doppio orribil danno.
Alzano in suso elle quai falci? e come
celati in giuso aspri monton vi stanno?
Ne’ muri urta il monton, la falce taglia,
quasi erba, i difensor de la muraglia.

107Né taccio io qui gli altri monton più duri
che senza tai testuggini compagne
atterran l’alte rocche e i grossi muri,
e di pietre ne fanno erme montagne,
montagne che ne’ secoli futuri
s’ammiran tra l’inculte ampie campagne.
Né pur taccio le torri, ch’ora immote
stansi, et or vanno e i piè son ferree rote.

108Immenso legno o palla orrida e grave
a scoccar pronta è la maggior balista,
la minor vibra dardi, et oh qual trave
con trave eretta attraversarsi è vista!
S’incrocicchia e sormonta, e guerrieri have
in cima, e gli offre de’ nemici a vista.
Ma par che sorga eccelse alpi emolando
la mole eccelsa onde accennò Zelando.

109Arieti di giù questa sospinge
a’ cui grandi urti ogni riparo è frale,
e nel suo mezzo ampio cordon la cinge
con gran fenestre, et erte indi son scale.
Guerrieri, ove nel sommo si ristringe
porta, nel sommo ella a le mura eguale,
e sovrasta con alta torricella
ivi, e manda indi un ponte a le castella.

110D’antichissimo pin tutta è contesta
e non paventa di lanciato ardore,
però che fresco cuoio, quasi vesta,
chiude l’immense sue parti di fuore.
Tai le machine qui, ma varia e presta
la machina del ciel volgea con l’ore,
et in un tempo a’ vari climi dava
notte e dì, sera et alba ella e rotava.

111E conduceva al Gange glorioso
giorno, nel quale al sommo tron salio
quella a cui padre insieme e insieme sposo
e figlio insieme è l’ineffabil Dio.
Dal sol nascente era il Leon nascoso,
et al ciel s’atterrava il campo pio,
erto avea cento altari, e su da l’alto
Michel poi dava il segno al grande assalto.

112Ma ’l duce de l’invitta oste cristiana
pria ch’ad effetto tanto armi movesse,
usando virtù provida e lontana
doppiò le guardie in terra e ’n mar già messe,
et a Rollone autorità sovrana
su ’l quinto de l’esercito concesse,
per varia aita poi de’ combattenti
e contra ogn’altra imagin d’accidenti.

113Egli vèr la città da tutti i fianchi
ciò che seco restò sospinse poi.
Ma tu, fatal guerrier, tu pur vi manchi,
tu forte e bel, tu fior de’ forti eroi:
ahi duo volti Asmodeo purpurei e bianchi
finge, e con essi inganna i sensi tuoi,
e fa che senza te dura et eguale
segua molte ore la tenzon mortale.

114E già guerreggian l’armi e le diverse
machine illustri la città famosa,
e dal sen d’ogni tromba escon converse
l’aure in voce canora e strepitosa.
A fronte a fronte stan l’insegne averse,
non cessa piè né mano, occhio non posa,
di scale un bosco e veston non pesanti
corti arnesi a bell’arte i sormontanti.

115Sotto gli scudi i salitor sen vanno
con alte destre ad afferrar le mura,
mentre i Colchi in versar requie non hanno
gran pietre e di più misti orrida arsura,
e le baliste, che remote stanno,
d’aste e di palla invian pioggia aspra e dura,
e ’l pugnar vario intrica i guardi e ’n vari
rimbombi have l’udito oggetti impari.

116Cadon più che d’autunno aride foglie
corpi non vivi, il grido il tutto assorda,
chiaman la morte in loro estreme doglie
sotto i morti i feriti, e morte è sorda.
Gran cardini d’acciar, gran ferree soglie
frange molta bipenne, et Eco accorda
se stessa a tanti suoni, e ne’ vicini
rimbomba e ne’ lontani antri marini.

117Da testuggin coverto il re di Tiro
il bellico monton move non lento,
e la bellica falce estolle in giro
e miete orrendo e cozza violento.
miete le gambe a Battrio e i piè a Tormiro,
e gli omeri e le man miete a Sivento,
e la cervice a Cicno, e manda il mozzo
capo e a dar in suo crollo un fier singhiozzo.

118Sega molti per mezzo e pur non cessa
la sua cozzante in giuso altra battaglia;
oh quanta a schermo far lana è framessa
ove a cozzare il suo monton si scaglia!
Pur dopo molto urtar, forata e fessa
e vacillante appar questa muraglia;
trabocca alfin, ma d’improviso è scorto
altro muro ch’occulto eravi sorto.

119Quivi il forte Ottoman pugna e contende
(di furto egli v’avea tal muro alzato),
ma Cinzio opprime, e te non poco offende,
Giovanni, quel da te muro atterrato.
Su trave intanto attraversata scende
Arnaldo, e tiensi Anselmo al manco lato
(mirabili a vederli), e troppo in alto
n’hanno i pagani aspro et aereo assalto.

120Anselmo ad Artabaz là suso il petto
rompe, et un rio ne trae vermiglio e caldo,
e toglie l’alma a l’indico Maometto
là suso anco in quel punto il feltrio Arnaldo.
Feroce l’uno e l’altro, e ’n sé ristretto,
e l’uno e l’altro pur invitto e baldo,
tal su la trave i duo baron, e ’n essi
più che pecchie i nemici aspri e più spessi.

121Quali gli assalti son, tai son gli schermi
per tutto, et in torrenti il sangue scorre,
e ristoransi ognor gli ordini infermi;
ma quai mine a disfar marmorea torre?
Già molti scudi Irlando uniti e fermi
fa da’ guerrier su i guastator comporre,
e già secasi il muro, e in lor versate
son con gran marmi in van peci infiammate.

122L’opra s’avanza, il muro un antro fassi,
puntellan l’antro ognor pali inalzati,
gran fune ad ogni palo avinta stassi
e ne l’antro i guerrieri ecco appiattati.
Parton dopo i lavoro, a ratti passi,
pur sotto scudi i guastator celati,
i pali allor son tratti, e ne rimane
la mina in aria orribile et immane.

123Gran fabrica tremar dal suol divisa
vedi, duro a vederla, e si dissolve
repentina ella poi, non improvisa,
e tutta vanne in tuoni, in pietre, in polve,
e di tremoto ruinoso in guida
tra i crolli suoi molti torrieri involve:
questa è al torre di Tigrina e molti
le sue vergini son, torrieri involti.

124Ma quante ne scampàr, tosto animose
corrono in cima a la cadente mole,
e in mezzo a precipizi gloriose
difendon quel dirupo audaci e sole.
S’attuffan da vicin con l’orgogliose
squadre d’Irlando, et ei, che sempre suole
far atti illustri, or con illustre morte
stabilisce i suoi pregi eccelso e forte.

125Precorre i suoi guerrieri, e de l’invitte
donne iperboree i chiari avanzi atterra,
ma con el membra alfin rotte e trafitte
funesto vincitor pur cade in terra.
Così ne’ versi miei stiansi descritte
le mine che gli antichi usaro in guerra,
e ’l loco cui superbo e venerando
fe’ la strage amazzonia e ’l morto Irlando.

126Ma ’l principe sovran ne la maggiore
sua torre col re barbaro combatte.
Scale, arieti e ponte, e con terrore
triplice tre battaglia atroci e ratte:
su ’l ponte e su le scale un vario orrore
e dove co’ montoni il muro ei batte,
e dove sopra i muri ei fa che cada
un stuolo intero ad un girar di spada.

127Tra’ chiari ancide Atlante il fier Circasso
e ’l tartaro Breusse e Oloferne,
e pur Gazerse gli riserra il passo
di su, nel mezzo e ne le parti inferne,
che già con molta squadra or alto or basso,
gira quel re dove più il rischio scerne,
or pugnar con Tancredi or da Tancredi
ritrarsi or assalirlo audace il vedi.

128Pur questi duo tosto in lontani e vari
lochi il sommo officio indi trasporta,
e contro l’un di lor non ha ripari
l’inclito eroe ch’a’ siciliani è scorta.
Ma tu, Cosmonte, glorioso appari
là dove mobil torre alto ti porta,
e tu, de’ Franchi re progenie, Ermondo,
su maggior torre apri più glorie al mondo.

Asmodeo invasa Idro di desiderio amorosa e gli appresenta i fantasmi delle due vergini guerriere, lui si perde nel desiderio (129-146)

129E già di strage il tutto involve e chiude
Marte, che col terror mesce al gloria,
e danno i Franchi e i Turchi con virtude
diversa egual materia a somma istoria,
ch’Asmodeo, com’io dissi, Idro delude
e tarda a l’arme pie l’alta vittoria.
Ma dove lo schernì? qual falso e vago
doppio volto mostrolli ei stigio mago?

130Idro da poi che sepelì le due
vaghe infelici, unqua i sepolcri d’esse
non seppe tòr da le memorie sue,
e ciò che scrisse in lor tristo rilesse,
e ’n compagnia de’ duci anco vi fue
assai sovente sì, ma via più spesse
volte v’andò soletto, e gran torrenti
di lagrime allor diede a’ marmi algenti.

131Et anco in questo dì che con suprema
guerra i muri assalir l’oste dovea,
ei con vena di lagrime non scema
il segno militar quindi attendea,
ma quivi quel demon colmò d’estrema
possanza l’arte sua magica e rea,
fe’ che nessun vegga Idro, e ch’ei non vegga
altri, e che d’altre frodi ei non s’avvegga.

132Fe’ ch’ei non senta il tuon de l’armi, e finse
per sé quelle due tombe disserrarsi,
e vive uscirne le due morte, e strinse
in nodi d’oro i crin di perle sparsi;
i volti d’un fulgor bianco dipinse
e tra i candidi rai gli ostri fe’ scarsi,
ma più grandi l’imagini novelle
de le primiere lor finse e più belle.

133E le vestio di magiche e sottili
gonne già trasparenti or molto or poco,
e di gemme eritree lampi gentili
appese ne l’orecchie, e ’l riso e ’l gioco,
e versò da’ gemmati aurei monili
su le bianche cervici un dolce foco,
illascivìo gli odori e larghi nembi
su gli omeri ne sparse e intorno a’ lembi.

134Ambo i seni svelò, ma fe’ ch’appiatte
la destra mamma sua Tigrina in oro,
e distillò le sue bianchezze al latte
et a quai gigli mai più bianchi foro,
et a le nevi d’Appennino intatte
né tocche pur da lieve aura di Coro,
et il candor che distillonne accolse
in tre mammelle che mostran già volse.

135E parte ne formò le belle mani
i bianca luce abissi e di sereni,
ma in tutti i membri, ancorché finti e vani,
diffuse gli amorosi suoi veleni,
e i manti e i veli inusitati e strani
di gioia e di piacer pur lasciò pieni,
e perch’i sensi d’ogni parte tratti
ne sian, pur fe’ giocondi i moti e gli atti.

136E queste più che maghe empie vaghezze
con dolce voce ancor l’empio condia:
«Signor, «diceano «et or per tue bellezze
pur avampiam, ma senza gelosia».
Taceano, e qui parea che ’l cor si spezze
al cavalier tra l’infernal magia,
bramava involontario, e quello affetto
sentiva che non mai giunse in suo petto.

137Esse col volto vergognoso e basso
crescevano in beltà di punto in punto,
egli, qual cervo affaticato e lasso
quando ad un tempo in su duo fonti è giunto,
ambe mira, ambe vuol, né move il passo,
e bramando ambe due d’ambe è disgiunto,
ned Asmodeo pur cessa, e ’n più di mille
modi gli scote in sen le sue faville.

138Tal con questi il demon volti mentiti
contro Idro vendicò sue vere offese,
ch’anco in altra stagion lacci infiniti
ne’ veri e vivi oggetti a costui tese,
e sempre i sensi suoi trovò schermiti
da lei che ’l sommo Fio d’amore accese;
ma s’ella or non fa schermi, in tutto or fia
cagion di palme ella possente e pia.

139Pur mentre ivi schernito e non veduto
stassi il guerrier che Marte è de’ cristiani,
ahi non vedendo lui, lui sì temuto
son via più saldi i difensor pagani.
Quanto su i muri allor sparso e piovuto
fu sangue e fu sudor da’ corpi umani?
quanto inasprissi quel mural contrasto?
e quanto incerto fu? quanto fu vasto?

140L’armi percosse e i rai del sole in esse
infra la strage partoriano incendi,
più che quando con fiamme alte e riflesse,
o Sirio, tu su ’l Tebro il ponte incendi;
ma con molt’arte ricurvate e flesse
altre machine udir fan tuoni orrendi:
con queste la cittate in alto aventa
marmoree palle, e i Franchi in giù sgomenta.

141Volan con fiero rombo e poggian tanto
ch’ogni sguardo le perde, e poi gravose
tutte quasi a misura in ciascun canto
traboccano fischianti e ruinose.
Molti aviso ne dan con aspro canto
di trombe in su quel punto spaventose,
feroce annunzio, e l’avisato campo
trema tutto, et ogni uom cerca in sé scampo.

142Fanno un cielo di scudi in un raccolti
i fedeli mai sempre e in varie parti,
e da pioggie di sassi immani e folti
essi e gli scudi lor son triti e sparti,
ma vie più molto dissipati e sciolti
e di strage più insolita cosparsi
vedi tai scudi orribilmente dove
di tai sferiche selci il nembo piove.

143Più d’una schiera intanto a tal periglio,
mentre guardinga il fugge, incauta corre,
qual stuol d’augel che da grifagno artiglio
scampa, et a volator grifagno incorre,
ma lor bell’alme, in abito vermiglio,
le lauree di là su salian per corre,
benché in terra non fu chi col fulgore
d’ingegno a’ nomi lor desse splendore.

144Pur un di lor vivrà ne’ versi miei,
come di patria carità m’invita:
questi è ’l buon Rudio, che guidò a’ trofei
gente di Lecce intrepida et ardita.
Ahi Lecce, ahi Lecce, ahi qual fosti, ahi qual sei?
chi spento ha tua virtù non che sopita?
Tu in discordie e tu in fortuna acerba,
tu, Lecce, or miserabile e superba.

145Vibrava in tuoi guerrieri il fieri Grifalto
pietre e bitumi ardenti e travi accese,
né rallentava il duce tuo l’assalto
con archi opposto a le nemiche offese,
quando in sua testa ruinando d’alto
un di quei globi orribile discese,
né sai se tanta palla il sepelio
o se ’l disfece pur, sì l’uom spario.

146Ma ’l teso arco di lui fe’ sua vendetta,
cento volte egli avea l’arco ripieno,
e, gloria sua, l’estrema sua saetta
giunse in Grifalto, e penetrolli il seno.
Cadde sì, ma cadeo preda negletta
tra i Leccesi il tetrarca antiocheno,
le spoglie essi di barbaro sì chiaro,
perduto il duce lor, nulla curaro.

La Vergine intercede, gli Angeli scacciano i demoni e liberano Idro (147-167,6)

147Empiree Muse, omai di tanta guerra
l’impreso unico fine alfin scoprite,
e liete al chiaro Urban, ch’è sommo in terra,
l’opera tutta ad inchinar poi gite,
che quantunque scrittor qua giù non erra
a cui voi de’ misteri i sensi aprite,
pur ogni scritto di terrena mano
soggiace a lui, monarca in Vaticano.

148Quelle gran chiavi ei solo volve e regge,
quelle a cui denno i re più che tributo,
quelle donde la fé. donde al legge
si disserra, e ’l poter santo e temuto,
e però s’egli giudica o corregge
trema Babel, trema Geneva e Pluto,
e l’academie vostre inchinarsi e i licei
e i vostri dotti e pii cori febei.

149Ma se voi scorte a lui foste divine
quando egli in Elicon vestigi impresse,
e tra l’ostro che fregiolli il crine
da vostre man più lauree anco fur messe,
riverenti voi sì, non peregrine
al cospetti di lui sarete ammesse.
Ma prima in Colco noi sciogliam Boemondo,
e ’n Roma intanto ei regga i regi e ’l mondo.

150Già quel ch’i re normanni Angel difende,
guerriero eccelso infra i guerrieri superni,
era su l’alto ove non han vicende
i caldi estivi e gli agghiacciati verni,
ove il triplice sol, ch’unico splende,
apre in secoli d’or solstizi eterni,
ma s’inchinava allor tant’Angel quivi
a la donna de gli Angeli e de’ divi.

151Inchinato diceva: «O tu, ch’eletta
fosti per concepir l’alto Fattore,
vergine innanzi al mondo in Dio concetta,
e ch’a Dio il corpo hai dato, il loco e l’ore,
tu, speme de’ fedeli, ad essi spetta
la tua grazia, il tuo schermo, il tuo favore
contro Babelle, e contra quei ch’alzaro
qua su fronti superbe e tanto osaro.

152Mira, o regina de’ celesti, mira
(già conto è qui con qual pietate il vedi),
mira in che fiero carcere sospira
il gran Boemondo, incatenato i piedi;
a l’assalto mural gli occhi anco gira,
girali ancor verso le stigie sedi:
Pluto a Satan or di tartaree torme
manda in aiuto orrenda oste difforme.

153Anzi a tuo scorno, o somma imperatrice,
contra i Normanni or si disserra Averno.
Dunque oracolo fia vano, infelice
il molto annunzio del voler superno?
dunque Babel saranne schernitrice?
dunque trionferà pur l’empio Inferno?
sì presi i muri? et oggi la prigione
sì di Boemondo a te sacra è magione?».

154Con tai voci conchiuse sua preghiera
quell’Angel pieno d’umiltà profonda,
e baciò l’orma umilemente altera
di lei cui non è simil né seconda.
MA girò gli occhi in ogni empireo schiera
l’immacolata vergine feconda,
et a quei prieghi non trovò discorde
ogni voler sempre là su concorde.

155Indi voltossi invèr l’eccelsa parte
ove a se stesso è loco il Creatore,
ove da’ Serafin stassi in disparte
egli increato altissimo valore,
ove l’umanità non si diparte
mai da lui ch’inalzolla a divo onore,
ove in trono di gloria ei regna immoto,
fattor del tutto e primo autor del moto.

156De gli immortali eroi Maria la mente,
sempre ivi aperta, ivi in sue voci aprio,
soggiunse poi: «Deh sia che l’empia gente
riverisca i tuoi segni, o sommo Dio,
oggi è il prefisso giorno, ecco ’l ridente,
in cui tempio hai promesso al nome mio;
esser può senza effetto tua parola
ch’è sempiterna et immutabil vola?».

157Risponde il Re celeste: «E’ ben sta fisso
nostro decreto, e sciolto oggi vedrai
Boemondo, e confuso oggi l’abisso,
e ’l tempio, o somma diva, oggi tu avrai».
Tacque, e ’n fronte coprì ciò che ha prefisso
perché il sì gran prigion sia sciolto omai.
Risero i Serafini, et a quel riso
tutto fu cetre et arpe il Paradiso.

158Anzi le lor di foco ale inchinaro
questi ardenti d’Amor spirti supremi,
et il lume divin ch’indi svelaro
scese da coro in coro a’ cori estremi.
Poi veston molti arme d’eterno acciaro
là su con ampi ardenti e non mai scemi,
mirabil vista, e d’essi è il conduttore
quel che de’ pii Normanni è il difensore.

159Splende in terso adamante il sì gran duce
con gli alati guerrier dietro a sue spalle,
vibran aste di turbini e di luce
e giù vèr gli elementi aspronsi il calle.
Ma nel profondo, ove il sol mai non luce,
lascian più spirti rei la stigia valle,
e tosto in Colco per contrario volo
giungon, questi dal centro e quei dal polo.

160Rimangon tutti in aria e nessun prende
forme cui veder possa occhio mortale,
vola con l’invisibili et orrende
sembianze sue l’esercito infernale,
e l’esercito empireo, che non rende
visibile sé pur, pur batte l’ale,
l’ale sue non corporee e, benché ascoso,
fulgido è l’uno e l’altro è tenebroso.

161Ma contro la potenza tua infinita,
gran Dio, che ponno i domiti demoni?
Tremò la lor falange, e sbigottita
membrò gli antichi tuoi folgori e tuoni;
non pugnò, non osò, fuggì smarrita
qual vapor lieve innanzi a gli Aquiloni,
tornò in abisso, e sol restò col reo
pertinace Satan l’empio Asmodeo.

162Gli eroi del Cielo al Ciel non fean ritorno,
né pur scopri ansi in terra al guardo umano,
e su le torri et a le mura intorno
ogni sforzo de’ Franchi era pur vano,
e rotto e franto, ancor che senza scorno,
il tirio re cedeva ad Ottomano,
né vincer si potea senza colui
ch’è beltà false gira i cigli sui.

163Misero, et egli pur ne’ duo mendaci
bei simulacro intento altro non cura,
né sente de gli eserciti pugnaci
l’arme, né vede l’assalite mura,
e gli scuote Asmodeo tartaree faci
anco entro il petto, e i sensi anco li fura,
sempre informando con maggior diletti
de le due vaghe estinte i finti aspetti.

164Ma quel che ’n Colco ad uopo tal discese
duce d’alati eroi, più nol sostenne,
e l’ire in santo zelo ebbe raccese
e momentaneo incontro lui sen venne.
L’asta già per ferirlo e ’l braccio stese,
e quanto incurvò il petto, alzò le penne,
e disse: «Ah senza pena una sì casta
alma così tu turbi?», e vibrò l’asta.

165Tre volte il fiede, e tristo a Flegetonte
il manda, e sotto i piè l’apre la terra,
e l’una e l’altra finta e bella fronte
disface, onde il guerrier vaneggia et erra,
e sgombra anco l’incanto d’Acheronte
ch’a le viste del campo il toglie e serra,
et a lui rende i sensi e purga il core,
né se gli scopre, e l’empie d’altro ardore.

166Idro riguarda, e mira i guerreggianti
muri, né sa chi l’abbia or qui schernito,
ode el trombe, et ode in tutti i lati
mormorio vasto e strepito infinito,
e sé pur vede a’ piè de gli onorati
amorosi sepolcri in ermo lito:
abborre quei diletti, odia se stesso
ch’a sì giocondo mal fu sì dappresso.

167Poi sferza l’ire, e grida: «Ohimè, sempr’io
da gli incliti trofei, sempr’io lontano?
che nove larve qui? che van desio?
dunque oggi sola qui torpe mia mano?
chi finse aprir quest’urne e non l’aprio?
chi m’infuse entro il cor piacer sì vano?».
Tace, e lampeggia aureo ne l’armi, e moveIdro entra in battaglia e uccide Ottomano e Gazerse (167,7-196)
le membra invitte a gloriose prove.

168Il vider da le torri i Saracini,
e ’l timor dentro l’ossa infuse un ghiaccio.
Diceano: «Or quai ripari adamantini
fian saldi incontro il suo fulmineo braccio?
quali sottrasser lui favor divini
al foco orrendo, a l’incantato laccio?».
Ma corre, et orme a pena ei stampa in terra,
turbo di Marte, a terminar la guerra.

169Iva là dove il buon re di Sidone
pugnò contro Ottoman, ma in tal momento
quel sì buon re n’andava al padiglione,
rotto le membra, a passo infermo e lento.
De l’asta gloriosa in su ’l troncone
s’appoggia, e tragge sé senza lamento,
Idro il riguarda e freme, e ’n sua vendetta
là ’ve ’l soldano ei mira i passi affretta.

170D’italica milizia altera parte
ei trova, e dice: «O di gran patria figli,
figli di quella Italia a cui comparte
via più ch’ad altri il Ciel forze e consigli,
se tal dote da noi non si diparte
deh sia ch’ella se stessa oggi somigli».
Così parla, e gli Italici n’infiamma,
e somiglia tra lor fulminea fiamma.

171Va su i dirupi, e contro il novo muro
spinge monton di ferro e d’adamante,
rimbomban gli antri al riurtar suo duro
et ei sembra tremoto alpi crollante.
Poi vedi precipizi entro uno oscuro
turbo di polve, et ei trapassa innante,
tragge la spada, e ruinoso ascende
su le cadenti ancor ruine orrende.

172Ottoman pur non cede, e pur feroce
tra nove arti di guerra anco s’aggira,
appresta travi e sbarre, in vista atroce,
e i suoi raccoglie, e tutto avampa in ira;
ma dove scorre alzando aspro la voce
ivi a morte improvisa il Cielo il tira,
il Cielo il cui flagel par sia da lunge
e gli empi in varie guise a tempo giunge.

173Stava sopra un pilastro in alto eretta
la statua di Comarco ivi da presso,
questa allor per sé cade, e fe’ vendetta
de l’uom che per intagli eravi impresso,
di quel pio che sprezzò l’iniqua setta,
e lavò l’alma col suo sangue istesso;
cadde sopra Ottomano, e col suo crollo
franto et esangue e lacero lasciollo.

174Restò smarrito il popol saracino
per caso così insolito e sì strano,
ma gioia dentro il cor n’ebbe Segrino,
et a l’oppresso favellò soldano:
«Il giudizio t’abbatte alto e divino,
invisibil Dio qui stende sua mano;
raro uom fu questi, e dava a noi salute
et ancidesti tu tanta virtute».

175Ma ’l forte eroe, dove egli in terra ha posta
la rifatta pur dianzi ampia muraglia,
con quei Latini ogni difesa opposta
sgombra, et altr’arme spezza, altre ne smaglia,
empie il tutto di strage ove s’accosta,
e gli alti e gli imi fulminando agguaglia.
Grida, e rincora il grido suo i cristiani,
e sgomenta il suo grido i rei pagani.

176Non varco di scoscese alpi ricinto,
non clima ingombro di perpetui gieli,
non Chimera tremenda o in laberinto
il mostro onde tu, Creta, ti quereli,
né da le nubi in giù fulmin sospinto,
né fier leon sotto africani cieli
arresterebbon Idro in suo disdegno,
né fora Stige al suo valor ritegno.

177Pur sopra i già da lui crollati sassi
il regnator de’ l’Asia a lui s’oppose,
e i generosi suoi spediti passi
tardò con prove altere e gloriose.
Costui gli spirti e i membri ancor non lassi
dopo lunga vicenda avea di cose,
et or di nobil ira illustre ferza
a magnanima morte il punge e sferza.

178Ei scende d’alta torre e già sen viene
ove giudicio eterno a morte il guida,
la spada ha in man che su le stigie arene
fu fabricata, e crolla il pugno e grida:
«Qui la somma è del fatto, in me s’attiene
la tua vittoria, o sommo empio omicida».
Risponde quei: «Poco sudor mi resta
se ’l tutto si contien ne la tua testa».

179Et aspro e bello in questo dir sorrise,
e ruppe con due punte il fianco e ’l petto,
schernendo i colpi ostili, e ’l ferro mise,
né pur senza gran piaga, entro l’elmetto.
Ma ’l reo Satan qui corse e ’n nove guise
portò strano soccorso al suo diletto,
deluse i sensi d’ambo e falsa fronte
diede a le cose ei nume d’Acheronte.

180Fe’ che vedesse più ferute infisse
Idro in suo corpo, e rotta l’armatura,
e che ’n suoi membri un fier dolor sentisse
e gli occhi l’appannò di nebbia oscura,
fe’ ch’illeso il pagan già gli apparisse
e cangiata al pagan mostrò ventura,
sì che ciascun di loro in sé no vede
il vero, e vero il falso in altrui crede.

181Et anco tal demon, che ben sapea
quai piastre al gran guerrieri facean difese,
e come non preval tempra letea
contro temprato in Ciel fatale arnese,
la spada, ch’al re turco ei dato avea,
là tra ’l fervor di così eccelse imprese
drizzava omai tra’ fianchi ove han confine
gli affibbiati acciari adamantini.

182Ma non sofferse più sì varie e tante
stigie baldanze, e ’n lui vibrò terrore
l’Angel c’ha in guardia i Dani, e disse: «In quante
forme ti sei converso, o stigio orrore?
quali arte hai tralasciate? E pur non vante
ciò che tu già vantasti al tuo signore.
orna con onta a lui, così là suso
onde cadesti tu, così è conchiuso.

183Così si vuol là su dove si puote
ciò che si vuole, or torna a’ tuoi tormenti».
Più non dice, e con l’asta egli il percote,
e l’abbaglia co’ suoi lampi fulgenti.
Quei ne l’ampie del Fasi ondose rote
s’immerge, e dietro ir fa l’acque correnti,
e giunge in un istante ove più dentro
a gli imi abissi imo è del mondo il centro.

184Allor repente in lor verace stato
riconobber se stessi i duo guerrieri,
e tenner sopra loro in ciascun lato
gli occhi per istupor misti a’ pensieri.
Ma crolla il franco eroe torbido , irato
i serpenti de l’elmo orridi e fieri,
e fulmina col brando e su le prime
piaghe al pagan nove ferite imprime.

185Quei vede ampi sgorgar sanguigni rivi
fuor da gli arnesi suoi forati e franti,
e tutti i colpi suoi d’effetto privi
e pur ritien gli stessi atti e sembianti,
e in modi atroci e del contrario schivi
tutte raccoglie sue virtù vaganti.
Lo scudo da la manca di scompagna,
e la manca a la destra egli accompagna.

186E con entrambe il fiero brando inalza,
e rapido l’abbassa e l’aria stride.
Idro fa gir il colpo al vento, e balza
e torna, e pur le piastre apre e recide.
Sembra fulmineo stral che sopra balza
alpestre aerea torre arde e divide,
fulmineo stral che lingue have d’ardore,
e di venti e di fiamma ale sonore.

187Tutta la spada alfin chiuse et immerse
ei tre volte in un punto al re nel seno,
quei cadde, e i labri in bestemmiando aperse
e poi tra ’l sangue suo morse il terreno.
Le glorie allor membrò turche e le perse,
e sospirò fremendo e venne meno,
ma gli occhi pria serrò gravi a se stessi
da ferreo sonno e ferrea notte oppressi.

188Giace insensibil terra il sì possente
rettor di tanti regni; o fasto umano,
or tu in frenar te stesso, or tu impotente,
or tu di mille scettri empi la mano!
Ma già corso era qui fiero e fremente
tutto l’avventurier stuolo pagano,
et opposto a tal stuolo erasi quello
ch’era con Idro italico drappello.

189Tal che mentre con Idro combatteo
il gran tiranno, anco ivi in giro breve
battaglia incomparabile si feo,
a cui memorie eterne il mondo deve.
Inglorioso allor nessun cadeo,
e la morte a nessun fu dura o greve,
sì la virtù e ’l valor con giusta lance
Marte librasti tu tra spade e lance.

190Quivi allor di funesti e rari fregi
Castrioto e Lanoia Italia ornaro,
per cento piaghe da’ lor corpi egregi
lor sangue uscì, troppo di gloria avaro.
L’uno a’ figli lasciò gli spiriti regi,
che poi regia in Epiro alma informaro,
et il seme de l’altro aver corone
debbe d’aver gran re fatto prigione.

191Ma parimente avriasi in breve e questo
e quel drappel sì forte in tutto estinto
s’Idro vincea più tardi o se men presto
a soccorso de’ suoi si fosse spinto.
Trionfo era a’ Latini altero e mesto
Meonte, ahi di lor sangue asperso e tinto,
Torrento era senz’alma, e fiero e torto
spirava orrori e minacciava morto.

192E ’l forte Eufrante in su ’l caduto muro
chiuso d’armi e tra un nembo di saette
sembrava, stando intrepido e sicuro,
il gran spartan tra le mortali strette.
Ma Idro folgorò, quasi d’Arturo
l’aureo lampo ch’i mar sossopra mette,
e fe’ parer mai sempre egli impiagando
tuono, baleno, fulmine il suo brando.

193Ben la costanza egli ammirò d’Eufrante,
e tre volte gli offerse in don la vita,
e tre quei rifiutolla, et altrettante
nocer tentò con man forte et ardita.
Idro sdegnossi, e non sofferse a tante
prodezze in lui tanta alterezza unita,
calò la spada con fulmineo scoppio
et aprì l’elmo adamantino e doppio.

194L’elmo e ’l volto partilli in fino al mento,
e spogliato di vita in manda in terra,
poi, qual caccia le nebbie artico vento,
sgombra gli intoppi e varco ampio disserra,
e pur bello parer fa lo sgomento,
ei pregio di beltà, folgor di guerra,
e ’l drappello latin dietro gli inonda,
e sembra il Po che sdegna argini e sponda.

195Tal guerra qui, né vili in altro canto
le donne colche o neghittose stanno;
di guerriera fortezza acquistan vanto
quelle che forti in fresca età sen vanno,
ma con altr’arme fan quasi altrettanto
l’altre che di vigor pregio non hanno:
esortan queste i maschi, imitan quelle
i maschi in lor fatiche altere e belle.

196Le giovani robuste orridi ardori
vibran da’ merli, e van succinte i lembi,
e traboccano in giù bollenti umori
e di più pietre risonanti nembi.
Mostran le vecchie i figli a’ genitori,
e pregni additan de le spose i grembi.
Ne’ gran danni d’Europa ohimè le nostre
matrone unqua così non s’han dimostre!

I cristiani entrano in città, innalzano un altare alla Madonna come da voto e liberano Boemondo (197-213)

197Ma guerreggiato avea già in varie parti
del figlio d’Egla il glorioso padre,
di duce e di guerrier mischiate l’arti,
un bel giro ei compia d’opre leggiadre,
gran spazi di muraglia a terra sparti
aveva, e debellato invitte squadre,
solo mercando ogni famosa fronda
onde i crini a’ guerrier Marte circonda.

198Alfin di qua e di là sue franche schiere
seco avean parte nel mural conquisto,
spiegavansi in tal punto anco bandiere
in cui ritratto alcun non era visto,
ma v’era, in vece di figure altere,
di Maria scritto il nome e quel di Cristo,
e queste insegne a l’aura aprian sublimi
su l’altissime rocche i duci primi.

199Poi come ferocissimo e fremente
l’indomito ocean sorge talora,
e verso il basso atlantico Occidente
rompe i ripari e i regni ampi divora,
così la marzial cristiana gente
in questa a i Colchi infausta et ultim’ora
inonda sopra i muri, e i Turchi sgombra
da’ muri, e i muri e la cittate ingombra.

200Fassi strage grandissima e capaci
già non ne son le spaziose strade,
cadon per tutto i popoli fugaci
giunti da le possenti ultrici spade;
rammentano essi le perdute paci
or che sorda per essi anco è pietade,
né scampo alcun trovando a le lor vite
vanno morte a scontrar ne le ferite.

201Pur in candide vesti a tanti orrori
oppongonsi fanciulli e verginelle,
et impetran mercé da’ vincitori,
a’ vecchi, a se medesmi, al sesso imbelle.
Pur liete trombe in suoni alti e canori
manda il pio duce in queste parti e ’n quelle,
et imponesi omai per regio editto
che cessi in dar più morti il campo invitto.

202Già son riposti i brandi in lor vagine,
e i soldati non vanno a lusso, a prede,
ma là dove catene saracine
sostien Boemondo è volto ogni lor piede.
L’effigiate porte eran vicine
e l’alta iscrizione tosto ognun vede,
Tancredi guata, e legge, e ciò che scerne
e ciò che legge ei stima opre superne.

203Indi dentro il castel, dove poi gira,
precipitando i passi, i guardi interni,
far nobil cerchio al gran prigione ei mira
simolato drappel d’amiche genti.
Sembran di Tiro esse i guerrieri, e spira
angelic’aura ove parlar le senti;
evvi lor duce e re quel che sì antico
era, et ebbe in rifarsi il Ciel sì amico.

204E quel medesmo pur non è costui
qual rinovato già vecchio Giovanni,
però che ’l corpo a sé finge di lui
l’Angel ch’è difensor de’ re normanni,
e n’inganna altamente i sensi altrui,
e cela i raggi suoi, cela i suoi vanni,
et a profonda grotta anch’egli ha tolto
l’avinto semideo, né l’ha disciolto.

205Gli empirei suoi compagni infingon anco
gli aspetti e l’armi de gli eroi fenici.
Stassi l’avinto re squallido e bianco,
ma non mostra ave tratto i dì infelici,
par tra ceppi ei sia stato invitto e franco
et in atto regal sotto i nemici,
così la maestà tra le servili
catene serba, e i modi alti e gentili.

206Ma quel Giovanni al capitan dicea:
«Sia ch’a sciorre il tuo zio tu alquanto bade,
e diasi il tempio a la sì eccelsa ebrea
prima ch’a sì grande uom la libertade».
Poi, volto a’ sacri stuoli ei soggiungea:
«Scingete or voi per opra tal le spade,
e tergete le man, che sol per merto
bruttarsi in sangue barbaro han sofferto.

207E tu che scettro hai sacro, o buon Gualtieri,
affibbia in or pontificale ammanto,
et usa tra divini alti misteri
qualunque rito è più solenne e santo,
e lunge d al’Europa i sacri imperi
anco in gran chiesa aver comincia intanto,
ch’i santi imperi tuoi partenopei
con alto pastoral cangiar qui dei».

208Tacque, e tosto adempia tra’ sacerdoti
poi quei misteri il principe mitrato,
et in atti porgea gravi e devoti
fumanti incensi al ricco altar sacrato.
Ma pria le trombe ne’ lor torti e vòti
grembi sciolsero in suon l’appreso fiato,
e si spiegò dipinta in ampio velo
l’imperadrice altissima del Cielo.

209Di morta in atto ella dipinta, e un breve
sonno pur su ’l feretro ella dormia,
e la morte non pallida e non greve
premeva lei ch’un Paradiso apria,
et ella farsi omai lucida e lieve
parea, e parea volasse e non partia;
parea dicesse: – Imparino i mortali
securi a chiamar me ne’ lor gran mali -.

210Pur mentre in tal figura intento e fiso
stava ciascun quasi a se stesso tolto,
per altro Idro da sé parea diviso
Idro a quel tirio re tutto rivolto.
Il vedea sano e di celeste viso,
e ne’ Tiri vedea splendido volto,
e sentia in essi e ’n lui, non come suole,
uomo sonare il suon de le parole,

211onde gridò: «No no, non quel di Tiro,
quel che cangiò l’età ben non è questi;
quali ha compagni? oh che di più? che miro?
che mettono ale oh cangian volti e vesti!».
Così dicea, però che in trino giro
quei si moveano e si scoprian celesti.
Feansi giovani tutti e varie piume
aveano al tergo, e si vestian di lume.

212Indi levati a vol da ciascun lato
d’ogn’intorno s’apria strano sentiero,
penetravano i muri, e ’l penetrato
sasso mural pur rimaneane intero,
e lasciando stupore inusitato
essi a gli occhi, così come al pensiero,
davano a divider, bench’apparenti,
esser forme incorporee e pure menti.

213Ma già del suo buon padre al gran germano
il pio Tancredi i ferrei lacci toglie,
gloria suprema di sua invitta mano,
e tutta Europa e sé d’obligo scioglie,
et a la madre del Fattor sorano
offre qui in tutto del suo cor le voglie,
e qui largo l’è d’oro e qui le rende
grazie e quei nodi, e ’l brando suo qui appende.