ARGOMENTO
Di Zegrindo l’accusa e ’l proprio ardore
narra al mentito Hernando Elvira bella,
ond’egli accolti in sen fiamma e dolore
con torbido pensier l’alma flagella;
a ritrovar chi la ferì nel core
pur s’offre pronto a la real donzella;
indi a Sereno i casi suoi comparte,
e quei del suo natal l’informa in parte.
Elvira racconta alla serva Zoraida come Consalvo abbia salvato la madre Maurinda dalle false accuse di Zegrindo, facendola innamorare, e le chiede di fare un’ambasciata amorosa (1-66)
1Nel riposo comun tu sola, Elvira,
agitata d’amore pace non trovi,
e mentre in dolce sonno altri respira
la guerra de i pensier teco rinovi.
Nel dubbio cor vario desio t’aggira,
onde brami e ricusi, aborri e approvi,
e quando tutto vuoi, tutto rivolvi,
con instabil voler nulla risolvi.
2Come dal cacciator cerva piagata
scorrendo va per solitarie piagge,
ma fugge invan da la saetta alata
che nel fianco sanguigno affissa tragge,
così Elvira dolente erra agitata
da’ suoi vari pensier, né si sottragge
da lo strale d’amor, per cui trafitta
versa in lagrime ognor l’anima afflitta.
3Tal la misera langue et inquieta
dà bando al sonno, e nel suo affanno immersa
non riposa, non dorme e non s’acheta,
fra speranza e timor sempre diversa.
Passa la notte, e già ridente e lieta
vaghi nembi di fior l’aurora versa,
e con man di piropo in Oriente
fasce d’oro apparecchia al sol nascente.
4Sorge allor da le piume al par del giorno
e Zoraida fedel, Zoraida appella,
che gran tempo con lei fece soggiorno
ne la mesta prigion sua cara ancella,
e lunge da color che sono intorno
sen va in disparte, e si ritrae con ella;
indi così frenando il duolo atroce,
chiuso il varco a i sospir, l’apre a la voce:
5«Zoraida, a la tua fede, al tuo consiglio
vo’ fidare il mio onor con la mia vita,
poiché tu sola nel maggior periglio
al mio male, al mio duol puoi dare aita.
Tu, vergogna importuna, or prendi esiglio,
sinché paleso almen la mia ferita,
sappiala sol chi n’è cagion primiera,
tanto Elvira richiede e più non spera».
6Seguìa, ma l’interruppe il suo dolore,
che sgorgando dal sen si sparse in pianto.
Di cordoglio ripiena e di stupore
così Zoraida la consola intanto:
«Lungi tema servil da regio core,
Elvira, in me confida; io mi do vanto
ch’avrà ciò che da te mi sarà detto
sepoltura immortal dentro al mio petto».
7Rassicurata Elvira a tai parole
reprimendo il dolor Zoraida abbraccia,
e serenando l’uno e l’altro sole
soggiunge a lei con men turbata faccia:
«Fuorché a colui per chi il mio cor si dole,
vo’ che a tutti altri il mio desio si taccia.
Tu, se non con pietà, con meraviglia
ascolta almen». Qui tace, indi ripiglia.
8«Benché noti in gran parte, o mia fedele,
sian de la sorte mia gli aspri accidenti,
pure avanti che il fine io ti rivele
vuol ragion che il principio io ti rammenti.
Aggiungi che sì dolce è la crudele
origine fatal de’ miei tormenti
che sempre m’è gradita e sempre cara
de i casi miei la rimembranza amara.
9Ardean, com’è l’usanza in regia corte,
fra Zegrindo e Abenzarre odi mortali,
et aspiravano ambi a maggior sorte,
emuli di ricchezze e di natali.
Nudrian le turbe cortigiane accorte
sussurrando a lor pro le risse e i mali,
e mantenean fra le sembianze amiche
di mentita pietà l’ire nemiche.
10Ma di virtù, di cortesia, d’aspetto
così Abenzarre a l’emul suo precede,
che già prevale, e già il comune affetto
al suo gran merto il primo onor concede.
Freme d’astio, d’invidia e di dispetto
Zegrindo, e benché vinto ancor non cede,
e come disfogar possa i suoi sdegni
vari aggira in se stesso alti disegni.
11Fra quei che d’Abenzar pregiano i modi
Maurinda fu, la genitrice mia,
che celebrò con meritate lodi
sua bontà, suo valor, sua cortesia.
Zegrindo stabilì con nuove frodi
sfogar contra lor duo l’ira natia:
non è impietà che non ardisca un core
ove sparse l’invidia il suo furore.
12Esecrabil menzogna adorna e veste
che pria fra il vulgo insano erra diffusa,
e d’adultere voglie e disoneste
amante d’Abenzar Maurinda accusa,
e poiché infetto a sì maligna peste
vide qualcuno, al re propon l’accusa,
e di provar gli si offre in paragone
Maurinda infame et Abenzar fellone.
13L’ira, la gelosia sferzano a gara
con le fiamme e col ghiaccio il regio petto,
e la vendetta a l’onte sue prepara
fra diverso furor concorde affetto.
Esclude ogni ragion la rabbia amara,
che fa indizio il pensier, colpa il sospetto;
non s’attende altra prova et altra fede,
è verace l’accusa, il re la crede.
14La vendetta n’uscì pari a lo sdegno
ch’avvampa in regio cor senza misura.
Quinci l’ira nasconde, e ’l rio disegno
con volto amico ei d’occultar procura.
D’ogni ufficio, d’ogn’atto e d’ogni segno
d’affetto ad Abenzar nulla trascura:
sa che un placido volto, un finto amore
sono l’armi onde l’odio è vincitore.
15Dove in mezzo a la reggia ampia si vede
la nobil piazza, in cui di marmi e d’oro
la fonte de i leoni altera siede,
mirabil di materia e di lavoro,
è condotto Abenzar, che non s’avvede
de l’arti ostili e de gli aguati loro,
e qui da numeroso armato stuolo
fu in punto assalito, inerme e solo.
16Non temé, non pregò, non si ritrasse
benché fosse Abenzar colto improviso,
ma rampognò, s’oppose e ’l ferro trasse,
ne’ moti audace e baldanzoso in viso.
Pur virtù non basta ch’ei non restasse
con cento piaghe orribilmente ucciso.
Di ciò non pago il regio sdegno appresta
de l’estinto guerrier pompa funesta.
17Su conca d’alabastro in vaso angusto
la ricca fonte il chiaro umor diffonde,
qui il capo d’Abenzar, tronco dal busto,
s’affigge, e ’l sangue stilla entro quell’onde;
né già de l’innocente il sangue giusto
ne la fonte si mesce e si confonde
ma, raccolto nel fondo ove sen giacque,
miracolo novel, bolle fra l’acque.
18Non resta qui l’ira del re ma vuole
che sian de l’altrui fallo altri puniti;
vuol che sia spenta d’Abenzar la prole,
condanna i rei non visti e non uditi.
Quinci a la reggia, come ognora ei suole,
gli fa chiamar con separati inviti.
Viene, e l’istesso dì, nel modo istesso,
l’un dopo l’altro ivi rimane oppresso.
19La fama d’Abenzar, l’atto spietato
infiammò la città, commosse il regno;
avvampano i tumulti e ’l vulgo armato
contra il nome real ferve di sdegno.
La discordia germoglia in ogni lato,
corre al ferro ciascun senza ritegno;
s’accende la battaglia e manca poco
che non arda Granata al proprio foco.
20O che il Ciel che quaggiù tutto prevede
pietà de i nostri mali allor prendesse,
o che mosso a turbar la nostra fede
l’esercito cristiano ognun temesse,
a la guerra civil tregua si diede,
e si frenò l’incendio e si represse,
benché sopito, ma non spento alfine,
novamente spargesse alte ruine.
21Mitigati i tumulti il re palesa
al popol suo del traditor l’accusa.
S’offre Zegrindo in singolar contesa
provar la colpa onde Maurinda accusa.
Se non trova guerrier che in sua difesa
faccia del fallo rio bastevol scusa,
dentro un mese Maurinda è dal consorte
condennata nel foco a cruda morte.
22In favor di Maurinda a tutti è data
libertà di pugnar per suo campione,
solo a i parenti d’Abenzar vietata
et a quei di Maurinda è la tenzone.
Il re lo proibì perché in Granata
di tumulto non sia nova cagione.
Cedono al re color, ma nel secreto
adirati fremean del suo divieto.
23Più d’ogni altro Almansor si cruccia e appella
ingiusto il re, poiché gli vieta in prova
la ragion sostener de la sorella,
e ne fa varie istanze e le rinova.
Ma pur indarno a pro di lei favella,
vano è il pregare e ’l minacciar non giova,
onde convien che ceda e che nel petto
serbi a tempo miglior l’ira e ’l dispetto.
24Non in guisa però cela nel seno
l’acerba ingiuria onde il suo cor si duole
che non sfoghi talor l’odio e ’l veneno
con atti audaci in libere parole.
Con Maurinda io restai, che presa avieno
e che seco non ha chi la console,
e, compagna al dolor, piansi con lei
ne le sciagure sue gli oltraggi miei.
25O che sia il fero accusator temuto,
o che del re lo sdegno altri paventi,
non è fra noi chi ci prometta aiuto
e che nostro campione allor diventi.
Pria che sia dunque il termine compiuto,
Maurinda vuol da le straniere genti
chieder soccorso, e procurar guerriero
che da quel traditor difenda il vero.
26Argelia, la più antica e la più fida
tra l’altre ancelle ebbe di ciò la cura,
et occulta partì quando s’annida
Febo nel mare e divien l’aria oscura.
Noi restiam pensierose, e sol confida
Maurinda in sua bontà, che l’assicura
che in un core innocente invan dirette
son di maligna accusa empie saette.
27Scorre il tempo fra tanto e pur non viene
alcuno in suo favor, né fa ritorno
Argelia, in cui riposta è la sua spene,
ond’è certo il morir, certo lo scorno.
Son rimossi gl’indugi, e alfin perviene
prefisso a la tenzon l’ultimo giorno,
e ne la piazza ch’a tal uso è fatta
da i ministri del re Maurinda è tratta.
28Sorge di neri panni intorno avvolto
nel lato inferior seggio eminente;
qui s’asside Maurinda, e lieta in volto
mostra ne gli atti audaci alma innocente.
Qui con lei siede e s’è con lei raccolto,
qui de l’ancelle sue stuolo dolente,
che tutte qual Maurinda in vesti brune
nel suo caso esprimeano il duol comune.
29Coperto vien d’un’armatura fina
vermiglia e d’oro, e sopra gli altri avanza
l’accusatore intanto, e la reina
insulta, pien d’orgoglio e di baldanza.
Già verso l’Occidente il sol declina,
poco resta del dì, men di speranza,
quando ne lo steccato un cavaliero
soletto s’appresenta armato a nero.
30Preme un destrier che qual carbon già spento
ha negro il pel, ma il piè, la fronte e il dorso
biancheggia alquanto, e di spumoso argento
fa sparso biancheggiar l’aurato morso.
Lieve passeggia il campo, e par che ’l vento
sfidi co’ salti e co’ nitriti al corso;
pare che nel moto orme di foco stampi,
ha il tremoto ne i piè, ne li occhi i lampi.
31Al nobil portamento, al bel sembiante
de l’estranio guerrier pende ciascuno,
e già spera ciascun che l’arrogante
Zegrindo a rintuzzar giunga opportuno.
Poco lunge da noi si ferma avante
a i giudici del campo il guerrier bruno,
et a lor, mentre ognun gli fa corona,
con alta voce in guisa tal ragione:
32- Oda il Cielo, oda ognun: dico che mente
chi la bontà de la reina accusa.
Vo’ dir ch’egli è maligno, essa innocente,
ch’è vera l’onestà, falsa l’accusa.
Pria veggiam se Maurinda in me consente
che posta sia de l’onor suo la scusa,
poi con l’armi si vegga in paragone
se più val la menzogna o la ragione -.
33Tacque, e seguì con favorevol grida
le sue parole il vulgo, e la reina
la sua difesa al cavalier confida,
che qui tragge opportun virtù divina.
Si rinova l’accusa e la disfida,
si disgombra la piazza e si destina
il luogo a i combattenti, e, il sol partito,
suonan le trombe il bellicoso invito.
34S’agghiacciò il sangue a i circostanti in petto,
io più d’ogn’altra impallidii tremante;
de l’ignoto guerrier pietoso affetto
sollecita mi rende et anelante.
Lassa, io credei pietà quel che in effetto,
non sapendo d’amar, mi fece amante.
Crudel amor!, cui diede infausta sorte
cuna fra le battaglie in grembo a morte.
35Punsero i corridor, l’aste abbassaro
et assalìrsi intanto i cavalieri,
e fulmini nel corso ambi sembraro,
e turbini sembraro a i colpi feri.
Ferìrsi a la gorgiera, e ne volaro
mille laceri al ciel tronchi leggieri;
l’estranio cavalier nulla si scosse,
ma le staffe perdé l’altro e piegosse.
36Trasser le spade, e con orribil guerra
dieder principio al paragon secondo,
con quel furore ch’al cacciator si serra
la tigre a racquistar l’amato pondo;
e come imperversar Euro si sferra
da gli antri eoli a perturbare il mondo,
de le percosse a la tempesta, al suono
prorompono da l’armi il lampo e ’l tuono.
37Percote il traditor ma non impiaga
l’altro, che in prova d’armi è più maestro;
il nemico guerrier con larga piaga
ha ferito nel volto e al fianco destro.
Urla il fellon, cui l’armi il sangue allaga
quasi preso o piagato orso silvestro,
arrabbia e l’ire spende e i colpi a vòto
contra il valor del cavaliero ignoto.
38Già poiché cominciò l’aspra tenzone
un’ora era trascorsa, e già palese
il gastigo vicin scorgea il fellone
con l’armi rotte, col sanguigno arnese,
disperato in un colpo allor ripone
la speranza de l’ultime difese,
e dove il collo a gli omeri confina
percote il difensor de la reina.
39Qual risonante ancudine non prezza
il pesante martel del fabro ignudo,
qual rupe de i torrenti a l’ire avvezza
l’onde respinge e a le campagne è a scudo,
tal di Zegrindo il cavalier disprezza
senza punto crollarsi il colpo crudo,
e gli tira una punta, et a la spada
tra il fianco e la mammella apre la strada.
40Da la piaga mortal già piove il sangue,
manca il vigor, la speme, e pure in fretta,
rinvigorita la virtù che langue,
alza di novo il ferro a la vendetta.
Ma raddoppia una punta e ’l fianco esangue
nel luogo istesso il guerrier brun saetta,
sì che il fellon dopo ostinata guerra
cede a l’alma, a l’accusa, e cade in terra.
41Tal fine ebbe la pugna, i cui eventi
distinti ad uno ad uno io ti dipingo,
perché l’alta cagion de i miei lamenti
in rammentar m’appago e mi lusingo.
Fortunato dolor, dolci tormenti
perdonate s’al cor non vi restringo,
poiché altera per voi v’espongo aperti,
trofei de la mia fé, de gli altrui merti.
42Vèr noi move intanto e s’avvicina
fra gli applausi comuni il vincitore,
e poiché l’elmo aprì, Maurinda inchina,
che già i tristi pensier scaccia dal core.
Ah, che con l’elmo aprì la mia ruina!
Marte ne l’armi e sembra in volto Amore.
Sorge in me il foco et ardo in un istante
de l’ignoto guerriero ignota amante».
43L’interrompe Zoraida impaziente:
«Ignota amante? è dunque amante Elvira?».
«Sì (l’altra disse). Or qual pallor repente
così ti sparge il volto? Odi, respira».
Soggiunse allor Zoraida «Anch’io dolente
accompagno il dolor che ti martira;
tu segui e non curar, s’al tuo cordoglio
pietosa del tuo male anch’io mi doglio».
44«L’anima» disse Elvira «a gli occhi corse
per impedir l’entrata al novo affetto,
ma indarno a la beltà cercò d’opporse,
ché impresse la sua imago entro mio petto.
Infida la ragion l’armi mi porse
in sì grand’uopo con dannoso effettoS | affetto,
poiché rappresentò co’ detti sui
necessario il mio amor nel merto altrui.
45Prende intanto da noi congedo e parte,
da Maurinda a restar pregato in vano,
e de l’anima mia la miglior parte
seco rapisce il cavaliero estrano.
Né già men di seguirlo è vana ogni arte,
poich’è sepolto il dì ne l’oceano,
e la calca indistinta e l’aria scura
ogni senso confonde et ogni cura.
46Libera la reina, il vulgo intanto
intuona al ciel con fremito secondo,
de l’estranio guerrier a i pregi, al vanto
applaudendo ciascun lieto e giocondo.
Ma infellonito il re da l’altro canto
il giudicio del Ciel sprezza e del mondo,
onde fu, benché vinta abbia l’accusa,
ne la usata prigion Maurinda chiusa.
47Allor fu che Almansorre impaziente,
acceso il cor di generoso sdegno,
lasciò la patria, e con armata gente
per vendicar sue ingiurie assalse il regno.
Quindi sorse Granata in foco ardente,
che tanti anni avvampò senza ritegno,
e ch’estinse pur ier ne l’altrui petto
il comun rischio, il publico rispetto.
48Accompagno Maurinda intanto e seco
nel carcere primiero io fo ritorno,
e mentre i pensier novi in sen mi reco,
onde libera uscii, serva ritorno.
Era sorta la notte e l’aer cieco
le campagne del ciel copriva intorno,
quando Argelia fedel ci si appresenta,
onde scema il dolor che ci tormenta.
49In atto riverente ella s’inchina,
poi dice: – Io me n’andai, come fu imposto,
a ritrovar campion che te, reina,
venisse a liberar dal fallo opposto,
e già poco quel dì che il re destina
a provar tua innocenza era discosto,
né ancor (tanto era il traditor temuto)
alcun mi si offeriva in nostro aiuto.
50Disperata io doleami e tua sventura
deplorava del Dauro in su la riva,
quando estranio guerrier con l’armatura
sparsa di brun fuor d’una selva usciva.
Cortese ei mi saluta, e qual sciagura
mi spinga al pianto et a i sospir ch’udiva
con sembiante gentil chiede, e promette
far de l’ingiurie mie giuste vendette.
51Io gli spiegai de la maligna accusa
l’origin prima e la cagion verace,
e lo pregai con l’armi a far tua scusa
contra il superbo accusator mendace.
La perigliosa prova ei non ricusa,
modesto nel parlar, nel volto audace;
indi tosto e soletto invèr Granata
prende meco la via ch’è più celata.
52Seppi da lui ch’egli è figliuol d’Armonte,
c’ha di Marsiglia e d’Aghilar la terra,
ch’egli è Consalvo a le cui prove conte
il popol nostro impallidisce in guerra.
Così n’andiamo, e pria che il sol tramonte
ne l’angusto confin di Zibilterra,
egli da me si parte, e sconosciuto
vèr la città s’innoltra a darti aiuto.
53Ciò che dopo seguì, come improviso
in campo si offerì vostro campione,
a voi è noto, e com’egli abbia ucciso
ne la battaglia il traditor fellone.
V’aggiungo che pur dianzi ei s’è diviso
da me, cui narrò il fin de la tenzone,
et ha fatto ritorno a sue venture
con l’amico favor de l’ombre oscure -.
54Qui tacque Argelia, e qui lasciommi il seno
del nome di Consalvo impresso in guisa
che mai non caderà né verrà meno
sinché l’alma dal cor non sia divisa.
Quindi stillò quel placido veneno
onde fu la mia mente ebbra e conquisa,
quindi sacrai con stabil voto
a l’idol di Consalvo il cor divoto.
55Dura prigione e disperato effetto,
religion diversa, odio natio
non mi svelse dal core il novo affetto
ma svegliò i sensi e stimolò il desio.
Fra tante angustie, in questo sen ristretto
più feroce divien l’incendio mio,
come rinchiuso in sotterraneo loco
cresce più vigoroso occulto foco.
56Così lunga stagion priva di spene,
e del corpo e del cor vissi cattiva,
mentre fra l’amorose aspre catene
con perpetuo martir l’alma languiva,
e, fatta impaziente a le mie pene,
spesso la voce a le querele apriva,
accusando il destin, che in fere guise
se la madre salvò la figlia uccise.
57Infelice destin! Così dovea
l’altrui vita comprar la morte mia?
A l’altrui libertà non si potea
che fra le mie catene aprir la via?
S’io non era d’amor dannata rea,
la materna onestà non si scopria?
E fia ragion che di fondar si viete
fuorché su i danni miei l’altrui quiete?
58Sì sì, legge del fato è la mia morte,
non la ricuso, pur ch’almen non copra
il silenzio e l’oblio l’aspra mia sorte,
purché le piaghe a chi ferimmi io scopra.
Te, che del carcer mio fusti consorte
eleggo, o mia fedel, ministra a l’opra.
Te sola eleggo, la cui fede esperta
per lungo tempo a tante prove è certa.
59Tu te n’andrai quando fia il tempo al basso
nel campo ostil, più che potrai nascosta.
So che saprai non conosciuta il passo
agevolarti infra la turba opposta.
Ivi movi guardinga e accorta il passo,
et opportuna al mio signor t’accosta.
Sarà facile a te che sei donzella,
e sai gli usi cristiani e la favella.
60A lui, al mio Consalvo (ahi nome amato,
che dolcemente mi risoni al core),
narra di mie fortune il dubbio stato,
offri a lui la mia fé, spiega il mio amore.
Sappia che per lui solo ha il cor piagato,
sappia che per lui solo Elvira more,
basta a me che Consalvo al mio martiro
una lagrima doni od un sospiro.
61Ma se pure avverrà (speme importuna,
tenti ancor di mostrarmi esca fallace),
s’avverrà pur che ne la mia fortuna
il mio signor sia di pietà capace,
tu seco troverai strada opportuna
che l’afflitto mio cor guidi a la pace;
purch’io serva a Consalvo io non mi sdegno
i parenti lasciar, la patria e ’l regno.
62Per ritrovar l’idolo mio diletto
a l’Inferno girei, non che a i cristiani.
Mira, o Zoraida, ché a te commetto
de gli occulti pensier gl’intimi arcani;
a la tua fé già sviscerato ho il petto,
sta riposto il mio cor ne le tue mani;
questa è l’alta cagion di quei desiri
che trassero da me pianti e sospiri.
63Sai che più volte al mio languir pietosa
chiedesti la cagion de’ miei lamenti;
io dentro a la prigion la tenni ascosa,
e finsi altra cagion d’altri accidenti.
Or che libera sono, Amor tutt’osa,
scopro e chieggo rimedio a i miei tormenti.
Rispettoso timor fugga dal petto,
ove domina Amor ceda ogni affetto».
64Qui tace, e sfoga co’ sospir, col pianto
il suo dolor la sconsolata Elvira,
e rapita da sé Zoraida intanto
immobil da lei pende e lei rimira;
e poiché da i pensier si scosse alquanto,
dal profondo del cor mesta sospira,
e in suon tremante e come a forza svella
le parole dal sen così favella:
65«Elvira, il dì primier che teco io fui,
consecrai la mia vita a le tue voglie:
servirò, penderò da i cenni tui
sinché il nodo fatal morte discioglie.
Andrò fra l’armi e troverò colui
ch’è la sola cagion de le tue doglie;
a lui m’introdurrò, farò ch’ei m’oda,
soffrirò, morirò perché tu goda».
66L’abbraccia Elvira e la ristringe al seno,
e dice: «La tua fé me n’assicura,
e tu, se nel dolor meco non meno,
ne le gioie comune avrai ventura.
Mentr’io proveggo al tuo partir, tu appieno
dal canto tuo ciò che convien procura».
Così Elvira sen va, Zoraida resta,
l’una in parte contenta e l’altra mesta.
Zoraida, in realtà Hernando, narra all’amico Sireno del suo amore per Elvira (67-98)
67Ma, poiché sola e sol da i suoi martiri
si vide alfin Zoraida accompagnata,
ne l’intimo del sen chiusi i sospiri
in tal guisa proruppe infuriata:
– Oh mia fede, oh mia speme, oh miei desiri!
Misera servitù, sorte spietata!
Oh sventurato Hernando, oh d’ogni scempio
di fierissimo Amor funesto esempio!
68Ama Elvira altro amante? Hernando, il senti?
E ’l soffri, Hernando, e vivi? Ah, ben sei degno
de le miserie tue, de’ tuoi tormenti
se tollerar gli può l’animo indegno.
Lungi folle dolor, vani lamenti,
sorgan le gelosia, l’odio e lo sdegno.
Non più Zoraida, io sono Hernando; Amore
cedi, perfido Amor, cedi al furore.
69Degno furor, giusto furor; già lasso,
l’abito feminil, già l’armi prendo;
io parto già da quest’inferno e al basso
verso il campo cristian rapido scendo.
Già fra l’armate schiere io movo il passo,
già discopro Consalvo e già l’attendo,
già lo sfido, l’assalgo e gli do morte,
oh vendetta soave, oh dolce sorte!
70Ah, ma dove mi tragge, ove mi guida
disperato furor? Dunque, incostante,
Elvira tradirò, che il cor mi fida?
Elvira ucciderò nel caro amante?
Ma qual fé, qual ragion vuol ch’io m’uccida?
Ch’a me infedel sia per altrui costante?
Tradisci Hernando ove ad Elvira servi,
manchi ad Elvira ove ad Hernando osservi.
71Paragon diseguale; Hernando cede,
perch’Elvira gioisca Hernando more,
a la beltà d’Elvira, a la mia fede
offro la vita mia, dono il mio amore.
Felice me se il Ciel giamai concede
che l’ossa mie, che il mio sepolcro onore
Elvira, sol con dir: “Quel che qui giace
per me visse e morì. Riposa in pace”.
72Andronne al campo e troverò colui,
quel felice per cui mia donna langue;
fonderò su il mio mal le gioie altrui,
per l’altrui vita io spargerò il mio sangue.
Compri con la sua morte i piacer tui,
o bellissima Elvira, Hernando esangue.
Sappi tu la tua sorte e la tua fede,
ch’ei non vuole al suo amore altra mercede -.
73Così parlando e dal suo duol portato
entro il giardin reale Hernando scende,
e de gli orti custode ivi trovato
il suo caro Siren, per mano il prende,
e se ne va dove a un bel fonte a lato
di gelsomini un padiglion si stende,
e quinci assiso con Siren su l’erba
sfoga con lui la sua fortuna acerba.
74«Più volte la cagion tu mi chiedesti
che in veste feminil mi trasse in corte;
io, sprezzando i tuoi preghi allor modesti,
il mio pensier t’ascosi e la mia sorte;
or richiede ragion ch’io manifesti
i casi miei ne la vicina morte:
io moro sì, ma pria ch’io mora almeno
vo’ che le mie sciagure oda Sireno.
75Già il nostro genitor Silvano estinto
sai ch’io sdegnai di pasturar l’armento,
e, punto il cor da generoso istinto,
alzai la speme a maggiori opre intento.
Erasi allora il gran Ferrando accinto
perché il nome pagan sia domo e spento,
e d’ogn’intorno raccogliea di Spagna
i popoli feroci a la campagna.
76De la tromba cristiana il suo guerriero
fe’ del Tago sonar la patria riva,
ov’io pastore in rustico mestiero
fra vil capanne alti pensier nudriva.
Risolvo di seguir l’invito altiero
che di gloria e d’onor l’alma invaghiva,
e con sorte miglior lodevol parmi
passar dal condur gregge al vestir armi.
77Mi parto occulto e me ne vo soletto
a Salamanca, che vicina siede,
e sono anch’io tra quei soldati eletto
che in campo il re da la città richiede.
Sì al nostro capitan piacque il mio aspetto
che gli arredi, il destrier, l’armi mi diede,
e raccolto da lui ne la sua schiera
verso il campo io segui’ la sua bandiera.
78Fummo appena arrivati ove s’unia
l’esercito fedel dentro a Siviglia,
che stringe co’ guerrier d’Andaluzia
di Cadice il signor quei di Castiglia.
Son io tra questi, e la più occulta via
verso Allama propinqua indi si piglia,
e fra il tacito orror di notte oscura
improvisi giungiam sotto le mura.
79Sovra un placido colle in fertil piano
non lunge da Granata Allama siede,
sì che del novo esercito cristiano
da l’impeto sicuro ella si crede.
Assagliam dunque il difensor pagano,
ch’a la furia improvisa oppresso cede.
Il popolo fedele entra per tutto,
e la terra espugnata empie di lutto.
80Già i novelli trionfi illustri rende
col foco il vincitor tra le ruine,
e de’ suoi rischi il guiderdon già prende
volto al sangue, a le fiamme, a le rapine.
Ciò che il ferro non strugge il foco incende,
lo sdegno militar non ha confine.
Accompagnan le varie orride stragi
spogliate le meschite, arsi i palagi.
81Già sorto in Oriente il sol palesa
de l’afflitta città l’aspra sciagura,
dal crudo ferro e da la fiamma accesa
scampo non è, parte non è sicura.
La rocca istessa, che facea difesa
con alte torri e con merlate mura,
cade alfine espugnata e nova appresta
al nemico furor pompa funesta.
82Gli sculti marmi e le dorate travi,
sete di Frigia, arabici ornamenti,
i drappi e i vasi d’or gemmati e gravi,
candidi bissi e porpore lucenti,
le statue erette dal valor de gli avi
per chiaro esempio a le future genti,
de l’assiro i lavor e del fenice
son del ferro o del foco esca infelice.
83La rocca intanto, e ciò che in lei si cela
ne l’impeto comun trascorro anch’io,
né fra le gemme e l’or ch’altri rivela
mercenario s’appaga il mio desio.
Arrivo alfin dove dipinta tela
ristretto in un bel volto il ciel m’offrio,
e scritto sopra a lei con meraviglia
leggo: Al re di Granata Elvira figlia.
84Dietro a quei lini insidioso Amore
avea poste le reti e l’arco teso,
onde mi sento in un sol punto il core
da i lacci e da lo stral piagato e preso.
Chiuso in finte sembianze un vero ardore
d’alta fiamma lasciommi il seno acceso,
e in quelle tele attonito bevei
da mentita beltà gl’incendi miei.
85Spinto dal mio desio dal muro io tolgo,
donde affissa pendea, la bella imago,
e mentre lei contemplo e lei mi volgo
preda de la mia preda in lei m’appago,
ma quando il regio stato in me rivolgo
raffreno il mio pensier cupido e vago,
e mi par troppo a i miei disegni avversa
la mia fortuna e la mia fé diversa.
86Pur non s’estingue, anzi s’accresce il foco
onde abbrucia il cor mio con penna estrema.
Misero io mi distruggo a poco a poco,
dal desio tormentato e da la tema;
bramo, spero e pavento, o tempo o loco
non mi ristora, onde il vigor già scema:
non trovando al mio mal rimedio o schermo,
frenetico d’amore io caddi infermo.
87Così un tempo languendo egro men giacqui
sinché alquanto cedé la febre ria,
onde rinvigorito io mi compiacqui
tornare a respirar l’aria natia.
Tu lieto m’accogliesti ed io pur tacqui
del mio ritorno e de l’assenza mia
i veraci successi, e a te da questi
altri vari narrai, che tu credesti.
88Lasso, io sperai che tra i solinghi orrori
de i boschi opachi e de le piagge amene
o cedessero affatto i miei dolori,
o provassi addolcite almen le pene,
ma verdi erbe, ombre liete e vaghi fiori
quivi non ritrovai qual ebbi spene,
anzi parve al mo duolo esacerbato
fosco il ciel, grave l’ombra, arido il prato.
89Poiché al mio male ogni rimedio è vano
e che la morte mia scorgo palese,
penso di gir fra il popolo pagano
a veder la beltà che il cor mi accese.
E perché l’esser uom, l’esser cristiano
era in tutto contrario a le mie imprese,
in veste feminil risolvo appresso
cautamente celar la legge e ’l sesso.
90Perché solo non basto a sì grand’opra,
alfin necessità mi persuade
ch’io t’elegga mio compagno e che ti scopra
in parte ciò ch’io bramo e che m’accade.
Fingo ch’alto pensier, degno ch’io copra,
mi sforzi uscir de le natie contrade,
e in veste feminil tra i Mori usata
occulto penetrar dentro a Granata.
91Quindi meco a venir ti ricercai
nobil compagno affatto illustre e degno,
ch’utile e glorioso io protestai
a la fede cristiana e al nostro regno.
Tu ripugnasti e t’opponesti assai
per distornare il mio novel disegno,
ma quando il mio voler fermo scorgesti
dopo lungo contrasti al fin cedesti.
92Qua cen venimmo in abito mentito,
e ’l nome di Zoraida io presi allora,
e sembrai donna, poiché il fin compito
del terzo lustro io non aveva ancora,
e qui poscia da te fu conseguito,
dopo lunga e per noi grave dimora,
di regio giardinier l’ufficio in sorte,
che ne fu guida e ne introdusse in corte.
93Tutto ciò sai, e sai ancor ch’io fui
col mezzo tuo fatto d’Elvira ancella,
che con la genitrice i giorni sui
prigioniera menava in chiusa cella.
E sai, ch’ubidiente a i cenni sui,
avanzai nel servire ogni donzella,
sinché nel cor d’Elvira io stetti poco,
ch’ebbi tra le più care il primo loco.
94Io mi distruggo e dentro al cor s’avanza
per sì rara beltà l’incendio mio,
e benché sia il languir senza speranza,
gode ne’ suoi tormenti il mio desio.
Tu intanto o d’eseguir fai varia istanza,
o di tornare alfine al ciel natio;
io sempre il ver t’ascondo e si propone
sempre a novo indugiar nova cagione.
95Pure io tacea, nel mio soffrir costante,
pur io vivea, nel mio penar felice;
or palesa il mio mal l’alma spirante,
or m’invola ogni ben sorte infelice.
Elvira, ahi lasso, Elvira è d’altri amante,
ahi che il tacer, che il viver più non lice;
Elvira ama Consalvo, ella me ’l disse,
e col suo dir l’anima mia trafisse.
96Palesò poco dianzi il novo ardore
Elvira, e stabilì che il suo diletto
uscissi a ritrovar, ché del suo core
a lui manifestassi il chiuso affetto.
Per osservare Amor manco ad Amore,
e son del proprio mal ministro eletto;
altri a goder ne’ miei tormenti invito,
et è da la mia lingua il cor tradito.
97Andronne al campo, io lo promisi; intanto
l’armi che qui recammo occulte appresta,
che in ciò prender mi giova il ferreo manto
e depor la feminea inutil vesta.
Tu qui m’attendi e mentre in altro canto
cerco l’altrui quiete a me funesta,
serba d’Elvira mia l’imago altera,
che fu de l’ardor mio fiamma primiera.
98E s’avverrà ch’a me il tornar vietato,
com’io deggio sperar, sia de la morte,
porgi ad Elvira il simulacro amato,
e ’l mio amore a lei scopri e la mia sorte.
Perciò sol di mia vita il dubbio stato
e del mio cor t’apro, o Siren, le porte;
non replicar, non contradire, o ch’io
or m’uccido e prevengo il dolor mio».
Sireno narra a Hernando dei suoi natali nobili, finora celati (99-112)
99Qui terminò de’ suoi penosi amori
la varia istoria il tormentato Hernando,
e Siren gli rispose: «I tuoi furori,
poiché curar mi vieta il tuo comando,
poiché non vuoi che de’ tuoi lunghi errori
biasmi le colpe e a la ragion dai bando,
tacerò, né dirò ch’un folle amore
a la fede preponghi et a l’onore.
100Ma già non tacerò quel che sinora
del tuo natal, de l’esser tuo celai,
ché tua condizion sì vil non fora
quando di lei ciò ch’io dirotti udrai.
Sia chiara a te la tua fortuna e allora
o il tuo fermo volere eseguirai,
o potrai quindi uscendo a nobil vita
de la gloria seguir la via smarrita.
101Di duo lustri fornito io non avea
il giro ancora, e da l’arsura estiva
un dì la greggia a ricovrar traea
del patrio Tago in su l’erbosa riva,
e già verso Marocco il sol cadea
quando a me giunse alto rumor ch’usciva
da la vicina selva, e intorno io sento
l’aria sonar di feminil lamento.
102Mi volgo, et ecco uscir da la foresta
donna che il ciel di gemiti e di pianti
assorda, e che ritiene in ricca vesta
belli nel duolo e nobili sembianti.
Dietro a la donna fuggitiva e mesta
duo guerrieri venian poco distanti,
che seguiti da molti et assaliti
al numero maggior cedean feriti.
103Sbigottito a tal vista alzo le strida,
onde il vecchio Silvan, che del figliuolo
riconosce la voce, accorre e guida
di robusti pastori ardito stuolo.
Vie più intanto la donna infuria e grida,
poiché vede caduto esangue al suolo
l’uno de i duo guerrier, ch’era il più forte,
d’una punta nel sen trafitto a morte.
104L’uccise il capitan de la masnada
c’ha membra di gigante, aspetto atroce,
a cui volto il guerrier, prima che cada
disse a lui che il premea con debil voce:
– Non avverrà che sempre altier ten vada
de la mia morte esecutor feroce:
dal sangue mio mi vien dal Ciel predetta
fatta del sangue mio giusto vendetta -.
105Cade e spira, e i suoi detti a scherno prende
quel crudo, e lo calpesta, e giunge intanto
Silvan con gli altri, e tutti a l’armi eccede
la donna, rinforzando i gridi e ’l pianto.
Ferve la pugna, e nova gente scende
del paese vicin dal nostro canto,
sì che fuggiro i masnadieri al bosco,
mentre al sol che tramonta è il ciel già fosco.
106L’intricata foresta e l’aria scura
trattennero i pastori, onde tornaro
a i loro alberghi e con pietosa cura
l’estinto cavalier seco portaro.
Tolse l’altro guerrier morte o paura,
poiché indarno più volte il richiamaro.
Sen va con lor la bella donna afflitta,
ne l’estinto campione egra e trafitta.
107S’arriva a le capanne e si depone
sovra rustica bara il cavaliero,
e l’infelice a lagrimar si pone,
su ’l feretro distesa, il suo guerriero.
Or mentre ella si lagna, altra cagione
con nova pena accresce il duol primiero:
giunge il dolor del parto et espon fuore
duo gemelli la donna, e poi si muore.
108L’un sei tu, l’altra è donna; aspra fortuna
ne l’esequie v’aperse il dì natale,
e la bara funesta a voi fu cuna
congiungendo le fasce al funerale.
Quindi non lasciò maniera alcuna
l’estrema a celebrar pompa letale,
e in sacro loco da i pastor fu data
a la donna e al guerrier tomba onorata.
109Nutrir vi femmo, e nel villaggio istesso,
ma da varia nutrice, il latte aveste.
Quai figli di Silvan l’etate e ’l sesso
di vigor, di bellezza ambo eccedeste.
Il termine d’un anno era già presso
dal memorabil dì che voi nasceste,
quando, cresciuto con le torbid’onde,
gonfio il Tago vicin ruppe le sponde.
110Le campagne allagò l’acqua dispersa
da i suoi ripari imperversando uscita,
e la capanna fu da lei sommersa
ove la tua sorella era nudrita.
Ella morì, ma in parte assai diversa
tu resti riserbato a miglior vita,
poiché il sito più fermo e più elevato
il tuo albergo salvò dal fiume irato.
111Crescesti, e al nuoto e a la palestra e al corso
fu le membra avvezzar tua prima cura,
d’indomito destrier premer il dorso,
schernire il gelo e disprezzar l’arsura.
Questa de la tua vita è il vario corso,
fratello a me d’amor, non di natura:
vedi tu che non è sì vil tua sorte
che per lieve cagion t’esponghi a morte».
112Seguir volea, ma con turbata faccia
cruccioso Hernando al suo parlar s’oppose,
e mostrando che i detti udir dispiaccia,
contrari al suo voler, silenzio impose.
Così è forza a Siren che ceda e taccia,
mentre sospeso a le narrate cose
ristette alquanto Ernando; indi s’alzaro
e divisi a lor cure ambi tornaro.