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Il conquisto di Granata

di Girolamo Graziani

Canto VII

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 26.02.15 12:53

ARGOMENTO
Morasto a i colpi alfin cade d’Hernando,
e per Elvira sua Maurinda geme.
Molti escon di Granata al gran comando
del re, che di ritrovar la figlia ha speme.
Per l’idol suo Silvera impugna il brando,
Altabrun col rival s’adira e freme.
Poi sotto l’ombra d’un frondoso pino
dorme, e nol sa, con la sua donna Osmino.

Duello tra Hernando e Morasto nella foresta, e morte di quest’ultimo (1-22)

1Mentre del suo dolor l’alta sciagura
sfogava Elvira timida e smarrita,
il giusto ciel, con subita ventura,
donde men si credea le diede aita.
Tornava al campo ad eseguir la cura
Hernando, che guarì de la ferita
ch’ebbe nel bosco allor che fe’ contrasto
contra l’armi d’amore e di Morasto.

2Già non andò lunga stagione altero
de la piaga d’Hernando il suo nemico,
poiché lui che fuggiva ei, più leggiero,
giunse e uccise in mezzo al bosco antico;
e perché il dì cedeva a l’aer nero,
e troppo era distante al campo amico,
fermossi et accettò, stanco e ferito
d’un cortese pastore il grato invito.

3Ne la rozza capanna ei fe’ soggiorno
sin che la piaga sua parve saldata,
e poscia risolvé di far ritorno
gl’imperi ad eseguir d’Elvira amata.
Parte, e benché nel mar tramonti il giorno,
non lascia di seguir la via bramata,
et in mezzo a l’orror notturno e fosco
il più breve camin prende pe ’l bosco.

4Già con argentea man la chiara luna
addita al cavalier la via più fida,
onde pria ch’esca in ciel l’alba importuna
sollecita il camino e Amor gli guida.
E già volea contra sua ria fortuna
l’accuse rinovar, quando di strida
ode gemer la selva et apre attento
curiose l’orecchie a quel lamento.

5Il rumor s’avvicina e sente alfine
una voce distinta in questi detti:
«Così, perfido Amor, le mie ruine
tue vittorie saranno e tuoi diletti?
Così torni Zoraida? È questo il fine
ch’avventuroso al mio desio prometti?
Così fellon, così tradisci Elvira?
Non ti fulmina il Cielo e ti rimira?».

6Qui la voce a le lagrime cedea;
conchiude Hernando a quel parlar che sia
la sua Elvira colei che si dolea,
e che tra mille ei conosciuta avrìa.
Più non bada, e colà donde sorgea
il grido più vicin, ratto s’invia;
sferza a vendetta il generoso core,
con sdegnosa pietà geloso Amore.

7Non vola mai così leggier lo strale
d’arabo arcier con la pennuta cocca,
non così fero indomito cinghiale
s’avventa mai con la spumosa bocca,
né giamai sì tremendo e sì mortale
fuor de le nubi il folgore trabocca
come il guerrier precipitoso e fero
a quel pianto, a quel suon spinge il destriero.

8Né guari andò che rimirossi avante
Morasto, che d’Elvira avea già tolto
da la timida mano il fren tremante
e dal collo d’avorio il vel disciolto.
D’Elvira sua raffigurò l’amante
di nuovo i detti e gli atti, e d’ira stolto
fassi a lor più vicino, e in alta voce
sfida a battaglia il saracin feroce.

9Bestemmia il Cielo il perfido pagano,
che si vede interrotto il rio disegno,
e lascia Elvira, e stretto il ferro in mano
si scaglia al suo rival, colmo di sdegno.
Né così freme il torbid’oceano
quand’Euro et Aquilon senza ritegno
sogliono uscir da cavernoso scoglio
come freme il crudel d’ira, d’orgoglio.

10Da i gridi a i ferri, e trapassàr da l’onte
a i colpi più che grandine frequenti;
secondano le destre ardite e pronte
de l’alma furibonda i moti ardenti.
Tal si mostrano altrui Sterope e Bronte
fabbricando a Vulcan strali cocenti,
e a le percosse del martel pesante
fan le rupi tremar d’Etna fumante.

11Fra mille colpi il cavalier cristiano
drizza una punta al saracin nel petto,
ma la spada strisciò; pur non invano
scese, e ’l ferì, ma con leggiero effetto.
Non mai s’avventa al feritor villano
con tal rabbia il mastin, con tal dispetto,
con quale allor il fier pagan si volse
contra il guerrier nemico e in fronte il colse.

12Lo colse in fronte, e pria tagliò lo scudo,
e se l’elmo d’Hernando era men fino
o scendea il ferro appieno, il colpo crudo
fea possessor d’Elvira il saracino.
L’elmo sonò, giacque di penne ignudo
il cimiero, et Hernando a capo chino
accennò di cader, ma si ritenne
su il collo del destrier sinché rivenne.

13Con quel rumor che il ligure oceano
scuote del vasto molo alta parete,
o con quel che su l’Alpi il vento insano
svelle ad un soffio il frassino e l’abete
freme Ernando, e si scaglia al fier pagano,
del cui sangue l’infiamma avida sete,
e d’un colpo gli reca estrema angoscia
ne la fronte, nel petto e ne la coscia.

14Qual ferito leon che sferza l’ira
e contra il cacciator le furie desta,
il saracino al cavalier d’Elvira
si appressa, e per ferir segna a la testa.
Cede Hernando guardingo e si ritira
del gravissimo colpo a la tempesta,
ma per fretta o per altro il piede in fallo
pone, e sotto di lui cade il cavallo.

15Lieto il pagano e a la vittoria intento
su il caduto guerrier tosto si spinse,
ma nel rischio maggior quei non fu lento,
e risorto in un punto il ferro strinse.
Così quercia risorge incontro al vento,
così fiamma talor, che non s’estinse
al soffio altrui, più rapida risorse
e con vampa maggior gl’incendi porse.

16Del destrier che il pagan contra gli ha mosso
con la sinistra afferra Ernando il freno,
e percote Morasto e gli fa rosso
con l’altra di duo punte aperto il seno.
Arrabbia il crudo e gli si getta addosso,
e lui premer si crede in su ’l terreno,
ma con arte miglior l’altro l’abbraccia
e trattolo d’arcion sotto se ’l caccia.

17Cade il superbo, e il cavalier cristiano
segue il vantaggio e sovra lui si scaglia,
e ’l preme sì che il fier procura in vano
sottrarsi e rinovar l’aspra battaglia.
Poiché sorger non può tenta il pagano
ferirlo col pugnal tra maglia e maglia,
et alfin gli succede, alfin l’impiaga
sovra il fianco mancin di lieve piaga.

18Non ebbe mai per l’africana sabbia
tanto sdegno e furore angue calcato,
né tigre ferocissima a cui abbia
de’ figli il cacciator l’antro spogliato
di quant’ira avvampò, di quanta rabbia
contra Morasto il cavalier piagato.
Ei tre volte nel petto il ferro immerse,
et a l’alma sanguigna il varco aperse.

19Muore il crudo pagan, non però langue,
e nel morir l’ira natia riserba;
cresce il furor, benché in lui manchi il sangue,
e spirando spaventa in faccia acerba.
Fremendo nel partir dal corpo esangue
oltraggia il suo Macon l’alma superba,
e par che nuova furia anco sotterra
porti a le Furie istesse e furie e guerra.

20Morto il pagan, s’alza di terra Hernando,
e verso la sua donna il guardo gira,
ma la va d’ogn’intorno invan cercando,
e là dove la vide invan rimira,
poiché per mezzo a la foresta errando
spinse il destrieri l’addolorata Elvira
tosto che dier principio a la battaglia,
dubbiosa che Morasto in lei prevaglia.

21Lo scudier di Morasto anch’ei veduto
cadere il suo signor s’era fuggito,
sì che non sa come richieggia aiuto
nel luogo inculto il cavalier ferito.
Dopo breve pensar fu risoluto
ritornare al pastore ond’è partito,
e salì su il destrier del saracino,
poiché inabile il suo vide al camino.

22Già sorto intanto era da gl’Indi il giorno,
già il sonno e l’ombre il sol fugate avea,
e di lucidi raggi il crine adorno
vincitor de la notte il ciel scorrea,
quando Eritrea, che del real soggiorno
dove Elvira dormia cura tenea,
ne l’ora ch’è d’Elvira al sorger data
entrò con le donzelle a l’opra usata.

Si scopre la sparizione di Elvira: Maurinda si duole, Baudele manda a cercarla (23-38)

23Al letto s’avvicina, indi saluta
Elvira, che non vede e non intende;
rinova i detti, e pur la stanza muta
altra risposta al suo parlar non rende.
Taciturna, confusa e irresoluta
Eritrea con la voce il piè sospende;
alfin s’innoltra e impaziente mira
il regio letto *** invan ricerca Elvira.

24Dubbiosa, a se medesma ella non crede,
e quasi menzogner l’occhio condanna;
stende la mano intorno e sente e vede
ch’Elvira non si trova e ancor s’inganna.
A rinovate prove alfin dà fede
che di trovare Elvira invan s’affanna;
non sa dir, non sa far, stupida e mesta,
sin l’istesso pensiero immobil resta.

25Intanto lampeggiò tra le sue pene
un raggio di speranza al cor turbato:
crede ch’Elvira finga e le sovviene
che si asconda per scherzo in altro lato.
Dal desio stimolata e da la spene
ogni loco più occulto e più celato
curiosa ricerca, et usa ogni arte
che intentata non resti alcuna parte.

26Discende nel giardino e vede aperta
dal canto de le mura antica porta,
che di cespuglio e d’edera coperta
ignota giace a chi non ha la scorta.
Fermossi, e rimirandola fu certa
ch’indi fuggita è la donzella accorta,
poich’ella sol, ch’ivi scherzar solea,
de l’occulto sentier la cura avea.

27Gelò; rivenne, e riuniti alquanto
con debole virtù gli spirti lassi,
stracciò la chioma e lacerossi il manto,
e volse indietro infuriata i passi.
Quinci in mezzo a i singulti, in mezzo al pianto
proruppe: «Elvira, Elvira ove mi lassi?
Amiche, Elvira manca. Ove sei gita,
Elvira? Ahi come, Elvira? Amiche, aita».

28Tace, e pur si lusinga e cerca altrove,
e quando alfin s’è del suo danno avvista
parte, e vèr la regina il passo move,
nunzia de la novella amara e trista.
Si conturba Maurinda e si commove
rimirando Eritrea flebile in vista,
e par che le predica, oppresso il core,
di vicine miserie aspro tenore.

29Con mesta faccia e con tremante voce
da lagrime interrotte e da sospiri,
spiega Eritrea dolente il caso atroce,
et innaspra narrando i suoi martiri.
Di Maurinda a tal nuova il duol feroce
opprime i sensi et occupa i respiri,
onde sviene, e gelata e scolorita
nulla tien di vigor, nulla di vita.

30Tal priva già di numerosa prole
immobil giacque Niobe dolente
allor che di sue tumide parole
il delitto lavò sangue innocente.
Alfin tornano i sensi e riede il sole
a gli occhi de la misera languente,
poiché con vari modi a i loro uffici
l’ancelle richiamàr gli spirti amici.

31Apre le luci e in un «Ohimè» prorompe,
ch’un ardente sospir tragge dal core.
Indi le nuove lagrime interrompe
in tai detti sfogando il suo dolore:
«Dunque così del regno mio le pompe,
la speme di Maurinda e lo splendore
sen fuggiro? Ahi, chi fu, chi m’ha rapita
Elvira, il mio tesoro e la mia vita?

32Il Ciel non la rapì, ché non sarìa
sì crudo il Ciel ch’al mio dolor godesse.
L’Inferno men, ché divenir potrìa
l’Inferno un Ciel se la mia Elvira avesse.
Dirò che fosse un uom? Ma qual uom fia
che tanto oprar, che tanto osar potesse?
Dunque Elvira, mio cor, chi mi t’invola?
Ove t’ascondi e lasci me qui sola?

33Maurinda, ancor vaneggi? Ah troppo è vero
ch’un uom te l’ha rapita, e tu comporti
ch’ad onta del tuo nome e del tuo impero
la tua gloria, il tuo sangue altri sen porti?
Non più, non più si tardi; ogni guerriero
esca dal regno a vendicare i torti.
Guerrieri uscite, e sia il fellon punito
c’ha il vostro onor, c’ha il vostro re tradito.

34Figlia, con questo sen, tra queste mani
io lusingai co’ vezzi i tuoi riposi.
Dove, oh cieche speranze, oh pensier vani,
dove de la mia Elvira i regi sposi?
O de’ pigri guerrier timide mani,
ancor cessate? Ancor, ferri, oziosi
non vi precipitate a la vendetta?
Non uscite, o guerrieri? Or che s’aspetta?

35Ite, vi sieguo anch’io; non abbia loco
da i nostri sdegni il traditor sicuro;
ne i sommi giri e ne l’eterno foco
di seguitarlo e punirlo io giuro.
Ma deh, che il mio dolor si prende a gioco
mentre tarda vendetta invan procuro,
egli scherne il mio pianto e si comporta?
Andianne a l’armi, al sangue, io fo la scorta»,

36disse, e qual forsennata ebra baccante,
ch’accesa il guardo e scarmigliata il crine,
lacera i panni e torbida il sembiante
del Rodope scorrea le balze alpine,
tal d’ira e di furore ebra e spirante
a le stragi si mosse e a le ruine
l’agitata Maurinda, e in ogni canto
fe’ la reggia sonar d’urli e di pianto.

37Ma il re, cui d’alta parte il duro aviso
giunto a l’orecchie avea ferito il core,
preme il suo affanno e con tranquillo viso
così tenta addolcir l’aspro dolore:
«La fortuna a vicenda il pianto e ’l riso
dispensa con instabile tenore:
a che piangere invan? Spera, o reina,
poiché con l’allegrezza il duol confina.

38Non è, non è ragion ch’un regio petto
a gli assalti del duol vinto soggiaccia;
spera, e intrepida mira il torvo aspetto
de la sorte ch’a i forti invan minaccia.
Voi fidi guerrier, stuolo diletto,
de la rapita Elvira uscite in traccia;
punite il reo, fia da memoria grata
con degno guiderdon l’opra onorata».

Il drappello di Osmino è sbaragliato nella foresta da Silvera e Aghilar e fugge; il saraceno è salvato dalla donzella sotto gli occhi di Altabruno, che lo insegue per ucciderlo (39-57)

39Tacque, e Osmino e Almansor, cui preme il core
più d’ogn’altro guerrier l’alta sciagura,
del re congiunto, a vendicar l’onore
escono allor da l’assediate mura.
Solo, se non in quanto il suo furore
lo siegue, esce Almansorre a la pianura;
ma spiega al mezzo giorno invèr la selva
Osmin col suo drappello e si rinselva.

40Scoprìr da lunge et osservàr costoro
le guardie de’ cristiani, e fu portato
al re l’annunzio, e contra il popol Moro
Armonte d’Aghilar primo è mandato.
Egli prende la via dove coloro
cui guida Osmin, volgeansi al destro lato,
vèr la selva propinqua, e la bandiera
del forte genitor segue Silvera.

41Entrato nel bosco Osmino intanto
e per l’ombrosa avviluppata via,
con occhio curioso in ogni canto
la perduta beltà cercando gìa.
Si offre ognuno ad Osmino e si dà vanto
di racquistare Elvira, e intorno spia
la più secreta selva, e pur non viene
chi la ritrovi o di trovar dia spene.

42Giunto al sommo del ciel già Febo avea
trascorso del camin mezzo il sentiero,
e declinando inverso il mar scendea
ch’è tra il confin del Mauro e de l’Ibero,
quando il vulgo pagan che si avvolgea
per la selva scoprì drappel guerriero,
e l’insegna mostrò, benché lontana,
che la schiera che giunge era cristiana.

43Risuonan l’armi e l’orgogliose grida
del fero stuol ch’a i barbari minaccia;
il fiero Armonte d’Aghilar lo guida
che de i Mori seguita avea la traccia.
Non teme Osmin, che in sua virtù si fida,
e rincora il suol stuol con lieta faccia,
e tutti precorrendo a la battaglia
contra i nemici intrepido si scaglia.

44Ferve lo sdegno e la tenzon s’accende,
la vendetta e ’l furor scorre ogni parte.
Vedesi il bosco a le percosse orrende
ricoperto di sangue e d’armi sparte.
La vittoria e l’onor dubbio sospende
incostante fortuna e incerto Marte.
Spingono al ferro, al sangue il cor nemico
varia fé, nuove ingiurie et odio antico.

45Or mentre la battaglia ardea più fera,
giunse Altabrun, che per l’istessa via
seguita avea l’amata sua guerriera,
stimolato d’amor, da gelosia.
Giunse il feroce et osservò Silvera
che la turba infedel col ferro apria,
e, desti da l’esempio i suoi furori,
strinse la spada e si gettò fra i Mori.

46Non fa giamai tra l’innocenti agnelle
il famelico lupo egual ruina,
non mai cinto di lampi e di facelle
scuote con tal furor l’onda marina
il superbo Orion, che di procelle
vibra in torbido ciel spada indovina,
con quale allor tra l’infedel masnada
l’orgoglioso Altabrun ròta la spada.

47La forza d’Altabruno e di Silvera,
d’Armonte d’Aghilar l’animo invitto
tali apparir ch’a la cristiana schiera
cedette alfine il Saracin sconfitto.
Segue piena d’ardir la gente ibera
l’avanzo de la fuga e del conflitto,
e l’erte piagge e le profonde valli
sparge d’uomini uccisi e di cavalli.

48Tentato avea più volte Osmino intanto
di raffrenar la fuggitiva gente,
ma invan, poiché il timor da l’altro canto
i prieghi de l’onor sordo non sente.
Sol di pugnar fra tanti Osmino ha il vanto,
e la palma non cede e non consente,
benché assalito sia da cento spade,
sinché sotto il destrier morto gli cade.

49Cade il destriero e cade Osmino appresso,
concorrono i cristiani a far prigione
il capitan nemico, et egli oppresso
dal destrier non si muove e non s’oppone.
Giunge Silvera e, fisso il guardo in esso,
tosto conosce il suo fedel campione,
e con l’antico amor l’obligo antico
volgendo in sé, grida a lo stuolo amico:

50«Fermate, o cavalieri; alcun non ose
di molestare il cavalier caduto;
sua gentilezza obligo tal m’impose
quando in rischio simil porsemi aiuto».
Tacque, e di duo nuove purpuree rose
fu quel bel volto rosseggiar veduto,
poiché volle coprir il saggio core
con l’insegne d’onor l’arti d’amore.

51Silvera dal destrier quinci discesa,
l’offerisce ad Osmino, e vuol che saglia,
e ruota il ferro intorno a sua difesa
perché altri non l’infesti e non l’assaglia.
Tenta Osmin ricusar, ma vede offesa
l’altra, e non sa trovar modo che vaglia
da scusare il rifiuto, onde alfin prende
il destriero e d’un salto in sella ascende.

52Ricovra indi tra quei ch’a dargli aita
erano, benché pochi, ivi restati,
e si rinselva per la via men trita
fra i più densi cespugli e più celati.
Dal cimmerio confin la notte uscita
già i crepuscoli intorno avea spiegati,
onde impedito da i vicini orrori
il drappello cristian non segue i Mori.

53Solo il crudo Altabrun d’Osmino in traccia
per l’incognite vie sprona il destriero,
e lampeggiando ne l’accesa faccia
rischiara il folto osco e l’aer nero.
Amor lo spinge e Gelosia lo caccia,
poiché mirò quando al rival guerriero
che tra l’armi cristiane era caduto
diè Silvera il cavallo e porse aiuto.

54Lo spettacolo acerbo al cor de l’empio
in quel punto rinova atto simile,
quando a Silvera con felice esempio
diede soccorso il saracin gentile.
Bene allora d’Osmin volle far scempio,
cui stima in suo paraggio indegno e vile,
ma ne la mischia l’ultima fortuna
gli vietò di tentar calca importuna.

55Or l’offesa novella il vecchio sdegno
di nuovo accende e l’animo esacerba;
ei corre, d’ira folle e d’odio pregno,
dove stimola il cor la doglia acerba.
Meno orribile appare il salso regno
quand’alza contra il ciel l’onda superba
di quel che, ne l’aspetto e ne la voce
minacciando il rival, parve il feroce.

56«Vegga» dicea «quella crudel, ch’è vaga
de le lagrime mie, la propria morte;
mora il pagan, già la sua morte appaga
del negletto mio cor l’indegna sorte.
Veggo quella crudel mirar la piaga
con occhi lagrimosi e guancie smorte;
se non pianse il mio duol, godrò ch’almeno
pianga de l’idol suo trafitto il seno.

57Se la cruda ridea del mio dolore,
fia che de’ suoi lamenti io prenda gioco.
Io squarcierò quel temerario core
ch’osò di dar ricetto a sì bel foco.
Osmin non troverà dal mio furore
ne la terra o nel ciel sicuro loco.
Rompe in cor generoso un giusto sdegno
di tirannico amore il giogo indegno».

Silvera si perde nella foresta sulle tracce di Altabruno, e si addormenta accanto all’amato saraceno senza accorgersene: il sopraggiungere di Aghilar interrompe il loro idillio e crea un fraintendimento (58-77)

58Mentre il fier così parla e si dà vanto
far de le nuove ingiurie aspra vendetta,
sovra un altro destrier salita intanto
Silvera dietro a lui si muove in fretta.
Conobbe il suo disegno e vide quanto
a i danni del rival l’empio s’affretta;
furtiva il suo drappel quinci abbandona
e gelosa d’Osmin dietro gli sprona.

59Già pei campi del cielo avea la notte
sparso il cupo silenzio e i foschi orrori,
e sol dubbie lucean l’ombre interrotte
de la luna da i tremoli splendori,
quindi fra quei cespugli e quelle grotte
senza guida vagò con vari errori
Silvera, infin che non rimase alcuna
al tenebroso ciel luce di luna.

60Fermossi allora e dal destrier discese,
cui l’erbette lasciò pascere intorno,
e sotto un pin si mise et ivi attese
che rischiarasse l’aria il nuovo giorno.
Il torbido pensier prima contese
de gli occhi al sonno il solito soggiorno,
e ’l periglio d’Osmin con vario orrore
buona pezza agitò l’afflitto core.

61Stanca da la battaglia e dal camino
alfine il sonno in un oblio giocondo
le sue cure attuffò, sinché il mattino
spuntò da l’ocean vermiglio e biondo.
Allor si scosse a un calpestio vicino
onde fu rotto il sonno suo profondo:
apre le luci e sorge e vede appresso
sorto un guerrier ch’è sotto il pino istesso.

62Si ferma e nel guerrier tutta si affisa
del nuovo caso attonita Silvera,
e ’l caro Osmin, l’amante suo, ravvisa,
poiché alzata in quel punto ha la visiera.
Osmino egli è, che poiché fu divisa
per l’aspre vie la sua fugace schiera,
solo rimase e giunse ove posata
si era pur or Silvera addormentata.

63Sotto il pino medesmo il cavaliero
a riposar si mise, e già non scopre
Silvera, poiché il bosco e l’aer nero
con tenebroso velo il tutto copre,
né vide già, né già sentì il guerriero
colei ch’un sonno altissimo ricopre.
Così entrambi posàr sinché gli desta
quel romor che s’udì ne la foresta.

64Sorsero entrambi, ella conobbe Osmino,
egli Silvera, e attoniti restaro,
e, fuor che gli occhi, i sensi il lor domino
a lo stupore immobili lasciaro.
Scossi alfin da lo strepito vicino
gli stupefatti amanti in sé tornaro,
e ritornò dal sollevato core
a le guance smarrite il bel colore.

65Quale al mutar de la volubil scena
lo spettator confuso immobil resta
vedendo spumeggiar l’onda e l’arena
dove sorger mirò torre o foresta,
tai rimangono entrambi, e a l’occhio appena,
che rappresenta il ver, fede si presta.
Cresce intanto il romore, indi repente
veggon poco lontana armata gente.

66Il sol, che già nel lucid’orizzonte
scacciava i cupi orrori e l’ombra nera,
manifestò ch’era il feroce Armonte
quel che quivi giungea con la sua schiera.
Girato avea la selva intorno e ’l monte
tutta la notte a ricercar Silvera;
alfin qui la trovò, ma fu il suo arrivo
troppo, ahi troppo a gli amanti intempestivo.

67Egli apparì quando il vigor natio
ritornò ne gli amanti e senso diede.
Vuol Silvera parlar, ma il suo desio
frena il paterno aspetto e no ’l concede.
Tace e con gli occhi almen gli dice addio,
mentre co’ guardi anch’ei licenza chiede
da lei, che nel partire afflitta e trista
col cor lo segue ove non può la vista.

68Viene Armonte fra tanto e a sé l’appella,
e chiede come e quando ivi giungesse.
Ella, dubbiosa e attonita favella
qual uom cui varie larve il sonno impresse.
Partono, e resta Osmin, cui la donzella
nel partire accennò che occulto stesse;
ella parte, ei riman, ma quei che lunge
la fortuna divide Amor congiunge.

69La misera si duol che in simil guisa
la sua speme il rio caso abbia delusa,
le duol che dal suo Osmin siasi divisa
senza far del suo errore o segno o scusa.
Vergognosa così, così derisa
il silenzio, il timor, la sorte accusa,
e teme che l’amante i suoi desiri
da lei creda sprezzati e che s’adiri.

70Segue con gli occhi immoti il suo camino
Osmin, celato in una macchia oscura,
e sparita che fu sotto il gran pino
ritorna a detestar la sua sciagura.
«Or vanne» egli dicea «misero Osmino
vanne e supplica Amore e il Ciel scongiura,
perché una volta al tuo desio conceda
che l’amata tua donna almen tu veda.

71Lo concessero alfine e tu l’avesti
libera in tua balia senza sospetto;
sola l’avesti, ohimè, né la godesti
e poc’erba vi diè comune il letto.
Anzi cieco né pur tu la vedesti:
o d’Amor, di fortuna invido affetto,
che essendo ciechi e guerreggiando teco
nel bisogno maggior ti voller cieco.

72Ma quale Amor, ma qual fortuna accusi?
Chi può scusar tua cecità, tuo duolo?
Chi non conosce ancor con gli occhi chiusi
il bel lume del sol se non tu solo?
Ch’abbiano l’ombre i sensi miei delusi
scuso indarno il mio fallo e mi consolo:
non devea ravvisar dunque il mio core
del sol se non le luci almen l’ardore?

73Come fia poi ch’ella a ragion non creda
che goderla non vogli o che non possi?
Come fia poi quando l’un l’altra veda
che non frema colei, tu non arrossi?
Ahi che dirà: soletta ei m’ebbe in preda
e non valse d’avermi o non curossi.
Vadane pur, ch’io pagherò di sdegno
d’inutile amator l’affetto indegno.

74In qual parte ricovro?, ove m’ascondo
per non udir sì rigida minaccia?
In qual posso celare antro profondo
lo scorno mio se mi si legge in faccia?
Già veggio, ohimè, che di me ride il mondo,
che dame e cavalieri e Amor mi scaccia.
Vanne, e non servir più donna gentile,
ne i serragli di Tracia amante vile.

75Ma qual colpa e qual fallo in me condanno
se non vidi e non seppi averla appresso?
S’incolpi Amore e il Ciel d’ogni mio danno,
sia maledetto Amore, il Cielo, io stesso.
Oh Dio!, di questo error, di questo inganno
fosse stato in quel punto a me concesso
scusarmi seco o lamentarmi almeno,
ma la vidi e mi sparve in un baleno.

76Deh perché indugio, e perché più rimiro
questo ciel, questo pino e questo prato,
che rendono più grave il mio martiro
con la memoria de l’error passato?
Partirò, già che indarno io qui mi adiro,
tanto misero più quanto beato,
mentre rimembrerò che sotto a un pino
giacque e dormì con la sua donna Osmino».

77Del suo acerbo destin con questi detti
sospirando si dolse il cavaliero,
e per lasciar quegli odiosi oggetti
frettoloso salì sovra il destriero,
quindi, agitato infra diversi affetti,
vèr l’amica città prese il sentiero,
e sfogando tra via gli aspri tormenti
i suoi pianti rinuova e i suoi lamenti.