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Il conquisto di Granata

di Girolamo Graziani

Canto XII

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 26.02.15 14:16

ARGOMENTO
Per opra d’Idragorre Albino ingrato
la fatal spada al gran Ferrando toglie,
e tra selvaggie piante altrui celato
di Rosalba i successi attento accoglie.
Da tempesta di sdegno indi agitato,
contra la bella il fren de l’ira scioglie;
Consalvo il turba, e ’l turba anche Darassa,
e battaglia crudel tra questi passa.

Idragorre manda l’Interesse ad aizzare Albino, rifiutato dal ruolo di nuovo tesoriere su consiglio di Armonte e quindi irato con il proprio re, a rubare il brando magico di Ferrando (1-17)

1Gode anch’esso Idragorre e pien d’orgoglio
fa con gli urli tremar la valle e ’l monte,
indi prorompe: «Armati, o Ciel, ch’io voglio
contra l’armi divine alzar la fronte.
Fulmina eccelsa torre o duro scoglio,
ch’io de i fulmini tuoi non temo l’onte;
tale il mio mal, le pene mie son tali
ch’altra pena non resta ad altri mali.

2Mossi contra Ferrando armi terrene,
or tosto moverò l’armi d’Averno;
a danno del cristiano oggi conviene
con l’arti esercitar lo sdegno eterno.
Ma sinché il fatal brando egli ritiene
avrà gl’incanti, avrà l’abisso a scherno;
che tenterò? meglio sarà ch’io prima
de la spada lo privi, indi l’opprima».

3Così parla Idragorre e in sé riserva
come possa eseguire il suo disegno,
e nel campo cristiano Albino osserva
che gelando d’invidia arde di sdegno.
Questi ha membra gentili, alma proterva,
di superbo desio, di scaltro ingegno,
ne i detti adulator, ne l’opre audace,
empio di fede e di animo rapace.

4Nacque in Biserta e fu bambin rapito
da le navi di Spagna, indi venuto
ne la corte real crebbe nutrito,
vago di corpo e di maniere astuto.
Scorse i più bassi uffici e, al re gradito,
atto a sorte miglior fu conosciuto,
e in vari tempi a maggior cure alzato
superò l’altrui speme e ’l proprio stato.

5Or costui, dunque, allor ch’Almonio estinto
giacque per man de l’orgoglioso moro,
tocco da ingordo ambizioso istinto
chiede al re che gli fidi il suo tesoro.
Il grado istesso a desiar fu spinto
da stimoli d’onore il buon Filoro,
uom d’illustre natal, d’alma sincera,
placido di sembiante e di maniera.

6Fra l’astuzia d’Albino e fra il valore
di Filor, dubbio il re non si risolve,
ma il valoroso Armonte intercessore
del buon Filoro a suo favor lo volve.
Escluso, Albin pien d’astio e di furore
l’ingiuria e la vendetta in sé risolve,
e da spine pungenti il core afflitto
di noiosi pensier, geme trafitto.

7L’empio Idragor, che di costui nel seno
raccoglie ogni pensier col guardo acuto,
aggiunge al suo furor nuovo veneno,
e in tai detti esacerba il suo rifiuto:
«O di grazia real lieve baleno,
o perduto favor pria che goduto!
Vanne, Albino, e da tante alte promesse
mieti d’indegno scorno ingrata messe.

8Così ti schernirà l’emulo altero
di cui vana bontate è il sommo pregio?
E lieto vanterà fra il vulgo ibero
con tua somma vergogna il grado egregio?
Tu lo vedi, e ’l comporti? Ah non fia vero.
Su, cancelli il tuo ardir l’indegno fregio,
non soffrir l’ingiurie: a te si aspetta
tentare almen se non puoi far vendetta».

9Albino a queste voci arse di scorno,
e pensò vendicar le gravi offese.
Mentre Idragor volgendo gli occhi intorno
a le fiamme di lui nuov’esca attese:
ei vide l’Interesse, il qual ritorno
fece pur or dal libico paese,
ch’entrato già ne la città vicina
fra le dame sedea de la reina.

10Con foco indegno ivi ad alcune accende
il fervido Interesse il freddo core,
sì che dove oro o gema a gli occhi splende
si abbaglia la ragion, cade l’onore.
Con patti mercenari ivi si vende,
ivi si compra, ivi si cambia amore,
et a quel ch’offerir può maggior prezzo
si contratta il piacer con maggior vezzo.

11Stupissi in rimirar l’opre perverse
Idragor, che credea che l’Interesse
fra turbe inique a la ragione avverse,
non fra donne gentili albergo avesse;
ma poiché quivi a caso ei lo scoperse
la sua credenza in avvenir corresse,
e stimò, con sentenza ingiuriosa,
l’Interesse e la donna una sol cosa.

12Si avvicina fra tanto al mostro avaro
Idragorre, e gli dice: «A che dimori,
e non aspiri a titolo più chiaro
che di vendere altrui vezzi et amori?
Su, dentro un cor che da un rifiuto amaro
arde di sdegno ispira i tuoi furori».
Qui tace, et a l’esercito vicino
rivolge ’l guardo e gli dimostra Albino.

13Sorride l’Interesse e applaude a i detti
e nel campo cristian rapido vola;
giunge ad Albino e gli agitati affetti
con la vendetta in guisa tal consola:
«Ancor tu servi, ancor mercede aspetti
da chi il premio devuto oggi t’invola?
A qual vergogna, a quale ingiuria acerba
la tua sofferenza ancor ti serba?

14Tu soffrirai che l’emulo Filoro
goda del tuo trionfo e del tuo scorno?
Egli dispenserà l’ampio tesoro
co’ primi eroi, co’ maggior duci intorno?
Lo vedrai di favor potente e d’oro,
d’immenso onor, d’alte ricchezze adorno?
E tu in fortuna povera et umile
schernito menerai vita servile?

15Ah, no ’l tenga Ferrando il sommo impero
su la tua vita pur, su la tua sorte,
non su l’onor, cui libero e sincero
non può tiranneggiar fortuna o morte,
Almeno a la vendetta alza il pensiero
che tanto basta a la virtù d’uom forte.
Fa’ ciò che puoi; non ha soldati e regno?
Dove manca la forza usa l’ingegno.

16Quella spada fatal che fa sicuro
da gl’incanti l’esercito cristiano,
nel silenzio maggior del cielo oscuro
prendi furtivo e porta al tingitano.
Il ricoverarti a l’assediato muro
sarìa forse per te dannoso e vano,
poiché l’afflitto re darti potrìa
per mitigar Ferrando in sua balia.

17Vanne in Marocco et al gran re famoso
porgi il brando celeste, e quivi aspetta
dal potente Seriffo e generoso
il guiderdon devuto e la vendetta.
Bene il don per se stesso è prezioso,
di sublime lavor, di tempra eletta,
ma più perché a l’insolita virtute
di Ferrando commessa è sua salute.

18Altri infedel ti chiami e ti condanni,
non curar tu de i vani altrui giudici,
più tosto che languir sempre in affanni
è meglio di goder vizi felici.
Folle è colui che con suoi gravi danni
compra di servitù lodi infelici;
son lievi, se sono utili, i difetti,
l’interesse misura è degli affetti».

Albino ruba il brando e si dirige verso il regno tingitano attraverso la selva, giunge su un prato in riva al mare e vede una donzella e un giovane (18-25)

19Così ragiona al furioso Albino
l’ingordo mostro e ’l persuade a l’opra;
tosto che dal cimmerio atro domino
sorga l’umida notte e ’l ciel ricopra.
Vassene allora al padiglion vicino
e in tal guisa furtivo Albin si adopra
che, fingendo servire al gran Ferrando,
com’era suo costume, invola il brando.

20Taciturno e guardingo indi si svia
e da le dense tenebre coperto
verso il lito african prende la via
dove il bosco propinquo è più deserto.
Così del furto suo lieto sen gìa
per la selva intricata il ladro esperto,
cui ne l’avido cor l’empio Interesse
spargea di ricchi premi alte promesse.

21Ma il re cristian, quando già nato il giorno
sorse a i soliti uffici, e ’l fino arnese
vestissi e fu de l’aureo manto adorno,
a gli scudieri il fatal brando chiese;
essi lo ricercàr più volte intorno,
ma sempre invano, onde altrui fu palese
il nuovo furto, e si conobbe appresso
ch’Albin mancava e ch’ei l’avea commesso.

22Il saggio re, benché gli punga il core
di perdita sì grave acerba cura,
pur celato il giustissimo dolore
con sembiante seren gli altri assicura.
Quinci seguono molti il traditore
a la selva propinqua e a la pianura,
per diverso camin concordi errando,
intenti a racquistare il regio brando.

23Ma intanto Albin, del furto suo contento,
per l’occulto sentier spinse un destriero
nato in Andaluzia, che avrebbe il vento
precorso in paragon col piè leggiero,
né posò mai sinché non fe’ d’argento
la sposa di Tritone il ciel già nero,
e che di fior non ebbe e di rugiade
sparse a l’aureo mattin l’eterne strade.

24Dal notturno viaggio a lui già stanco
si scopre allor del vicin mare al lito
un praticel, che il travagliato fianco
lo chiama a riposar nel lieto sito.
Scorrea del verde prato al lato manco
un limpido ruscel, che dolce invito
con l’acque pure in su l’estiva rabbia
facea de i viandanti a l’arse labbia.

25Risolve di goder breve riposo
nel loco ameno, e lascia Albin la sella,
quindi scorge il ruscello e curioso
passa a vedere ond’esce acqua sì bella,
né guari va che in mezzo al prato erboso
un giovinetto scopre e una donzella,
che siedono d’un fonte in su la riva
dal cui limpido seno il rio deriva.

26Move furtivo il piè l’astuto Albino
e tacito si occulta in un boschetto,
per osservar, fatto a color vicino,
chi fosse la donzella e ’l giovinetto;
quinci tra fronde e fronde a capo chino
attende ogni lor moto, ogni lor detto.
Era Elvira costei, che dal contrasto
già fuggì di Consalvo e di Morasto.

Sono Elvira, che dopo aver vagato per la selva è finita ad un tugurio ed è stata accolta da un pastore, e Rosalba, che è giunta lì in concomitanza ad Albino e si lamenta facendosi sentire (26-37)

27Essa vagò tutta la notte intorno
per l’intricate vie, senza consiglio,
sinché l’ombra diè loco al novo giorno
e fessi in Oriente il ciel vermiglio;
allor cessò la fuga, e in quel contorno
sicura si stimò d’ogni periglio,
e giunta d’un tugurio a l’umil tetto
ad un vecchio pastor chiese ricetto.

28Mosso a pietà di quel gentil sembiante
ei la riceve et a l’antica moglie
ch’ivi seco vivea, la guida avante,
e con materno affetto essa l’accoglie.
Qui stette poi la sconsolata amante
tra le selve a sfogar l’acerbe doglie,
e fe’ de i suoi martiri e degli amori
secretari fedeli i muti orrori.

29Antro non fu dove con tronchi accenti
Eco non replicasse il nome amato,
pianta non fu dove de’ suoi tormenti
non imprimesse il lagrimevol stato.
Talor parlando a i vagabondi armenti
disacerbava in parte il cor turbato,
talor godea co’ garruli augelletti
sfogar de l’alma afflitta i mesti affetti.

30Arsero l’erbe a i caldi suoi sospiri,
crebbero i fonti al suo continuo pianto,
accompagnàr pietose i suoi martiri
l’acque col mormorio, l’aure col canto.
O che spieghi lassù ne i sommi giri
l’umida notte il suo stellato manto,
o che il sol dia congedo a l’ombre oscure
sempre Elvira piangea le sue sciagure.

31Una volta fra l’altre, allor che il cielo
cominciava imbiancarsi al primo albore,
e che bevean di rugiadoso gelo
l’erbette e i fiori il nutritivo umore,
Elvira sorge e dal pungente telo
de’ suoi vari pensier trafitto il core,
esce da la capanna a la campagna
e giunge ad un ruscel ch’un prato bagna.

32Elvira lunge il rio siegue soletta,
sinché arriva ad un fonte, il qual l’invita
a rinfrescarsi, onde si china in fretta,
e sitibonda bee l’onda gradita.
Quinci, spenta la sete, al sonno alletta
il mormorante rio, l’ombra romita,
e la donzella infra gli amici orrori
breve tregua procura a i suoi dolori.

33Ma l’interruppe un calpestio vicino,
al cui romore essa innalzò la testa,
et in abito ignoto e peregrino
scorse uscire un garzon da la foresta.
Questi al fonte rivolge il suo camino,
e mirandolo Elvira immobil resta;
le par Zoraida, e sorge, e con la faccia
sfavillante di gioia apre le braccia,

34e gridando prorompe: «O da me tanto
sospirata Zoraida, in quale stato
mi trovi? e quale io veggio in altro manto
te fuggitiva, e l’esser tuo celato?».
Seguia, ma l’impedisce un lieto pianto,
ond’è la bella guancia e ’l sen bagnato.
Stupisce il giovinetto, e in questo punto
non veduto nel bosco Albino è giunto.

35E sente che il garzon così favella:
«Zoraida non son io, certo è il tuo errore;
ben è ver, non te ’l niego, io son donzella,
ch’opprime empia fortuna, iniquo Amore».
Quivi si tacque, e per la faccia bella
un rio sgorgò di lagrimoso umore,
sospendendo il suo duolo allor sospira
a l’altrui pianto e la consola Elvira:

36«Non qui senza ragion ti guida il fato,
né ti fa senza legge Amor la scorta:
anch’io donzella sono e d’alto stato,
che a pari error egual cagion trasporta.
Ma poiché questo loco ombroso e grato
per qualche tempo a riposar n’esorta,
proviam d’alleggerire il duol comune
comunicando i sensi e le fortune».

37Sospirò l’altra, e disse: «Or ch’è simile
del nostro errore il modo e la ragione,
deh si faccia tra noi, donna gentile,
de le nostre venture il paragone.
Prima io vi dirò de la mia sorte umile,
e del mio van desio l’alta cagione,
tu seguirai». Qui tace, e quindi assisa
con l’altra in su il terren, parla in tal guisa:

Rosalba narra dei propri natali umili e dell’adozione da pare di Armonte d’Aghilar, nella cui casa conobbe e si innamorò di Consalvo, salvo poi ammalarsi d’amore per dover celare la passione (38-58)

38«Là dove il Beti a Cordova feconda
bagna le ricche e i campi ameni,
con lieta pace in servitù gioconda
io trassi ne i primi anni i dì sereni.
Da la riva del Tago, ov’egli inonda
con acque preziose aurei terreni,
et ove io nacqui in povera fortuna
fui tolta, e fui colà portata in cuna.

39D’Armonte d’Aghilar l’afflitta moglie,
ch’una figlia bambina avea perduta,
di Guadalupe a le sacrate soglie
per consolar suo duolo era venuta;
questa mi vide appena in rozze spoglie
nel tempio ove per grazia allor goduta
m’avea in braccio recata il padre mio
che di seco tenermi ebbe desio.

40Dunque piangendo al padre mio mi chiede,
e con preghi e con doni il persuase,
ond’egli, vinto, alfine a lei mi diede,
che consolata in tal guisa rimase.
Quindi lieta per me rivolse il piede
a Cordova, e mi trasse a le sue case,
e presentommi al suo consorte Armonte,
che m’abbracciò con mille baci in fronte.

41Né già qual serva io fui da lor nudrita,
ma qual nata di loro o del lor seme,
e verso me con l’età mia fiorita
in ambedue crebbe l’affetto insieme.
Ma vola ogni piacer di nostra vita,
e stolto è chi qua giù fonda sua speme
ne la fortuna instabile e leggiera,
che se ride il mattin, piange la sera.

42Ma quando, ohimè, come drizzò costei
nel mio tenero petto il primo strale?
In qual prigion la libertà perdei?
Quale il fonte primier fu del mio male?
Discese, ahi lassa, d’onde io men temei
il colpo inevitabile e mortale;
Fortuna usò nel saettarmi il core
per far danno maggior l’arco d’Amore.

43Figlio del mio signor, d’anni primiero,
Consalvo allor fanciul meco vivea,
e con dolce unione un sol pensiero,
uno spirto concorde ambi movea.
O sia il ciel luminoso o l’aer nero
non mai lunge un da l’altra il piè traea,
e parea che preposta a doppia vita
fusse in duo corpi un’anima partita.

44Con gli anni e col vigor crebbe l’affetto,
che poi, degenerando a poco a poco,
ove benivolenza era già detto
preso il nome d’amor divenne foco.
Amor tiranneggiando il nostro petto
de la semplice età si prendea gioco,
godea che in fiamme ignote, in nuovi pianti
non sapendo d’amar fossimo amanti.

45Miseri sospirammo, e quei sospiri
nati per forza a forza uscian dal core.
Ignota la cagion, noti i martiri,
s’ardea d’amor né conosceasi amore.
Giunta in età più erma i miei desiri
conobbi, et emendar volli l’errore,
ma troppo ohimè possente entro il mio seno
Amore avea già sparso il suo veleno.

46Ben io dissi fra me: – Dove s’aspira,
Rosalba, et ove innalzi i tuoi pensieri?
Il tuo pazzo desio ove t’aggira?
Temeraria, che fai? Stolta, che speri?
Ami Consalvo, il tuo signor? Deh, mira
che il tuo natal si oppone a i tuoi voleri.
Onde cerchi sanar la tua ferita?
Temerario è il pensier, vana l’aita.

47Dunque non s’ami, e gli amorosi incendi
ragion sopisca et onestà raffrene.
Tu, vergogna onorata, il sen difendi
da i guerrieri d’Amor diletto e spene.
Tu le tue fiamme entro il mio petto accendi,
e tuoi nuovi trofei sian le mie pene.
Tu da i lacci impudichi il cor disciogli,
tu del tenero amor svelli i germogli.

48Forsennata, che speri? Amor tiranno
de l’anima a sua voglia usurpa il regno;
ragion, vergogna et onestà saranno
al suo immenso poter frale ritegno.
Se più ripugni ei con maggior tuo danno
farà che tu soggiaccia al giogo indegno.
Cedi pria che t’opprima, e il fato incolpa,
ama e godi, ch’Amor scusa ogni colpa.

49Che ragioni, impudica? Ah non ti scusa
ragion d’Amor, necessità di fato.
Libero è il tuo voler, te sola accusa
che l’audace desio non hai frenato.
O svelli il tuo desire o il cor ricusa,
ch’al lascivo desio ricetto ha dato.
Non han termine alcuno i tuoi furori;
Rosalba ardisci, o non amare o mori.

50Amerò, morirò, mia cruda sorte
mi condanna a la morte et a l’amore.
Ma pria tacendo io soffrirò la morte,
che mai chieggia rimedio al mio dolore.
S’incontri ogni tormento, e si sopporte,
d’inestinguibil foco arda il mio core;
copra eterno silenzio il nostro affetto,
purché taccia la lingua, abbruci il petto -.

51In tal guisa doleami, e nel sembiante
del mio Consalvo io scorsi egual pensiero,
ma sol da gli occhi il riconobbi amante,
quanto guardingo più tanto più vero.
Pose modestia a l’animo vagante
d’un silenzio immortal giogo severo;
tacque, e sol col sospiro e sol col guardo
i cor favellàr: tu ardi, io ardo.

52Sovente procurò la lingua ardita
del petto rivelar le fiamme accese,
volle formare – Idolo mio, mia vita -,
ma disse: – Mio signore -, o non s’intese.
Quand’io moveami, egli per darmi aita
con sollecita cura il braccio stese,
l’un de l’altro furtivi il letto e ’l manto
empié di baci et irrigò d pianto.

53De la terza medesma ambo sovente
lambimmo gli orli, e de la bocca amata
adorammo i vestigi, e ’l foco ardente
refrigerò dolce memoria e grata.
Sembrava che nel ber fosse presente
il labro che la tazza avea segnata,
e godeva il pensier, benché fugace,
con finta gioia imaginati baci.

54Ma non si può lunga stagion nudrire
il famelico Amor d’esca sì lieve,
e da quel falso instabile gioire
il celato dolor forza riceve.
Privo d’ogni speranza il mio desire
ribelle a la ragion fassi più greve,
quinci il foco d’amor febre diviene
che d’incendio novel m’empie le vene.

55Io caggio inferma, e l’odiosa arsura
quanto s’occulta più tanto più offende:
al cibo, al gusto, a gli occhi il sonno scura
e in un punto medesmo agghiaccia e incende.
Corre medico stuol a la mia cura,
ma de l’ignoto mal nulla comprende,
poiché il principio e la cagion verace
ne gli abissi del cor sepolta giace.

56L’arte inutil riesce e cerca invano
il corpo medicar s’egra è la mente,
e sempre Armonte al male ignoto e strano,
già ch’estinta è la moglie, era presente;
si accorge alfin ch’ogni rimedio è vano
poiché avvampa vie più la febre ardente,
e vuol tentar, ma con dannosa prova,
se cangiata in miglior l’aria mi giova.

57Su la riva del Beti altero siede
da i suoi grandi avi un bel palagio eretto,
che quando il sol più ardente i campi fiede
porge da i caldi rai fido ricetto.
Di prati e d’acque e di alberi concede
la gradita magion vario diletto;
ricco di più bei fior ride il terreno,
splende di più bel lume il ciel sereno.

58Pietoso il mio signor colà m’invia
con vario stuol a la mia cura usato,
quindi al campo fedel prende la via,
ove tra i grandi era dal re chiamato.
Consalvo lo seguì, che non ardia
rimanendo scoprir quel ch’è celato;
ma, quasi del suo amor, de la sua fede
in pegno, Ordauro il suo scudier mi diede».

Albino esce dai cespugli per vendicarsi di Armonte, Rosalba grida e accorrono Darassa e Consalvo, che per diverse ragioni passano di lì (59-70)

59Seguia Rosalba a raccontar gli errori
di sue fortune allor che Albino irato
più temprar non potendo i suoi furori
esce fuora dal bosco ov’è celato.
D’Armonte d’Aghilar l’arti e i favori
fecero al re l’emulo suo più grato:
or che questa è Rosalba a lui sì cara,
vuole in essa sfogar sua doglia amara.

60Albin gridò: «Tu pagherai col sangue
del tuo indegno signor gl’iniqui inganni.
Se manca la fortuna il cor non langue,
che saprà vendicar gl’ingiusti danni».
Qui corre ad assalir Rosalba esangue,
che attonita rimane a i nuovi affanni;
poi, trovar non potendo altro soccorso,
la salute commette a i gridi, al corso.

61A quei gridi, a quel suon Darassa giunge,
che ’l perduto suo cor cercando giva,
e nel tempo medesmo indi non lunge
sentito quel romor Consalvo arriva.
Spinto dal duol, che la memoria punge,
ei partissi a cercar quella che priva
crede di vita, e per cui crede insieme
ogni sua gioia estinta, ogni sua speme.

62Ordauro il suo scudier vari argomenti
trova per mitigar sua doglia acerba,
ma con danno maggiore i suoi tormenti
quanto cerca addolcir tanto esacerba.
Stanco alfin da i sospiri e d i lamenti,
l’afflitto cavalier steso su l’erba
con la voce tremante, in cui risuona
il duolo interno, in guisa tal ragiona:

63- Prendete amiche selve il corpo esangue
del misero Consalvo; ho già versato
in lagrime di duol per gli occhi il sangue
e già spargo in sospir l’ultimo fiato.
A che restar? Pur troppo al cor che langue
tolse ogni scampo innesorabil fato;
disperate speranze invan figuro:
Rosalba è morta, io viver più non curo.

64E quel che pur malgrado mio rimane
tempo infelice a l’odiosa vita,
viverò fra le selve e fra le tane
sinché del mesto cor sia l’alma uscita.
Non son del mio morir l’ore lontane,
non può l’anima mia, ch’era partita
nel petto di Rosalba, in questa guisa
da la cara metà languir divisa.

65Tu finché riunir l’alma si possa
a quella ch’è di lei parte migliore,
resterai meco, Ordauro, et a queste ossa
del sepolcro darai l’ultimo onore.
Et o felice me se ne la fossa
avrà termine alfine il mio dolore,
e se non è da l’implacabil fato
l’infelice mio spirto anco agitato -.

66Tal si lamenta il cavalier doglioso,
cui nulla di vigor resta e di speme,
e da i suoi casi il buon scudier pietoso
a le lagrime sue sospira e geme.
Sorge nel folto bosco antro sassoso,
cui l’erba d’ogn’intorno occulta e preme,
e che di spine e di virgulti onusto
lascia da penetrarvi adito angusto;

67qui ricovra il guerriero, e qui più giorni
dimora infermo in quella grotta oscura,
né vuol ch’al campo il suo scudier ritorni,
né vuole altro compagno a la sua cura.
Così languiva allor che in quei contorni
trasse Elvira e Rosalba alta ventura,
e che sentì le grida e ne i lamenti
gli parve de l’amata udir gli accenti.

68Qual se mentre dal ciel Sirio cocente
fera strage minaccia a l’erbe, a i fiori,
con soccorso opportun nube repente
versa dal nero sen tiepidi umori,
risorgendo co i fior l’erba ridente
fa pompa de i suoi vari e bei colori,
e cangiata la faccia arida e trista
lieta la terra il suo vigor racquista,

69tal Consalvo rinviene e tale infonde
la speranza nel cor forza novella.
Gli uffici col piacer l’ira confonde,
risorge e chiama Ordauro e monta in sella.
Quinci scopre vicin tra fronde e fronde
un garzon fuggitivo e una donzella,
e nel garzone appena il guardo affisa
che l’amata Rosalba ecco ravvisa.

70Già pugnano tra lor sdegno e diletto,
con machine diverse e pensier vari,
e del confuso et agitato petto
già si usurpano il fren sensi contrari.
Immobil rimanea se ad altro oggetto
lo sguardo non volgean gli sdegni amari,
che gli mostrar l’iniquo Albino in prima,
e poi Darassa, e un cavalier la stima.

Albino aizza Consalvo contro Darassa e i due duellano: la battaglia è interrotta da un accidente (71-76)

71Ferve d’ira in quel punto e intanto Albino,
visti i guerrieri, a l’arti sue si volse,
e vèr Consalvo, il quale è già vicino
con lingua menzognera i detti sciolse:
«Signore, interrompendo il mio camino
una donzella il traditor mi tolse;
movati a vendicar l’ingiuria mia
stimolo di valor, di cortesia».

72Consalvo a questo dir spinge il destriero
ardendo di furor contra Darassa;
ella compagno il crede al masnadiero
(che tale Albin stimava) e l’asta abbassa.
Una in fronte colpisce, un nel cimiero,
l’una e l’altro in arcione immobil passa,
e girati i destrier con pari ardire
movono al nuovo assalto il ferro e l’ire.

73Restano allor le duo donzelle e resta
Albino a rimirar l’aspra tenzone,
mentre d’empi desiri alta tempesta
a vicenda perturba il cor fellone.
Si combatte fra tanto, e l’ire desta
reciproca l’ingiuria e la ragione,
brama d’onor, sete di sangue affretta
la mano, e ’l cor l’offesa e la vendetta.

74In breve giro i rapidi destrieri
sieguon di chi gli guida il freno esperto,
et aggiungono forza a i colpi fieri
che scendono ove il danno era più certo.
Agitati fremean gli animi altieri
de la dubbia tenzon nel rischio incerto,
e quanto più la pugna aspra riesce
tanto l’impeto e l’ira in lor si accresce.

75Qual di rapido fiume acqua superba,
che mentre scorre infra l’aperto piano
reca più mansueta e meno acerba
il solito tributo a l’oceano,
ma più terror, ma più furor riserba
se chiude augusta riva il flutto insano,
et urta ad or ad or con erti passi
de le sponde nemiche i duri sassi,

76tali appunto costor quanto maggiori
diveniano i perigli e le contese,
tanto movean con ostinati cori
più gravi a i danni lor l’armi e l’offese.
Or mentre eguai speranze, eguai furori
l’ira ne i duo feroci aveano accese,
da novello accidente et improviso
fu interrotto il contrasto e fu diviso.