ARGOMENTO
Da lo scoglio incantato Alchindo vede
minacciare a suoi danni il Cielo irato,
mentre Idragor volto a cristiane prede
rende atto il giorno e l’ocean turbato.
Chiude il mago i guerrier di nostra fede,
poi si rivolge a contrastar col fato.
Di Rosalba Consalvo ode l’angosce,
e l’amate sembianze alfin conosce.
Storia di Alchindo, incantatore ritiratosi su un monte di delizie con le due figlie, Belsirena e Arezia: ha visto nei cieli la caduta del regno e ha deciso di intervenire con la sua magia (1-16)
1Trapassata la foce ove a i nocchieri
le superbe colonne Ercole eresse
perché frenati i cupidi pensieri
nessuno oltre quel segno il mar corresse,
l’Africa piega in su la manca a i Neri,
e dove par che a l’equinozio appresse
la smisurata base alza la fronte
sovra l’arene e si trasforma in monte.
2Sorge il monte scosceso e si dilata
per la spiaggia africana a l’Oriente,
e su la cima, in varie guise ornata,
nutre autunno fecondo april ridente.
Solo al giogo sublime apre l’entrata
un alpestre sentier verso Occidente,
e fatto scoglio in calle angusto e torto
si divide, s’incurva e forma un porto.
3Di rado allor da l’europee contrade
navigando colà giunse alcun legno,
ma ne i tempi futuri aprì le strade
de l’incognito mar l’umano ingegno.
Quivi abitar ne la cadente etade
Alchindo d’Almeria fece disegno;
Alchindo, a cui ne i magici lavori
quel secolo concesse i primi onori.
4Costui, d’animo fier, d’ingegno acuto,
nacque di padre moro e madre ebrea,
ond’era tra duo regi irresoluto,
e, d’ambe possessor, d’ambe ridea.
Fu sacerdote, e al paragon veduto
che il grado più sublime invan chiedea,
sdegnossi, e lasciò il tempio e, d’altro vago,
seguace diventò d’arabo mago.
5Da lui gl’incanti apprese e le malie,
onde con cerchi e note e suffumigi
al ciel toglie la luna, il sole al die,
e governa a sua voglia i regni stigi.
Spento il maestro, ei per l’istesse vie
calcò de l’arti sue gli empi vestigi,
e de i tesori suoi, de la sua fede
non men che del saver divenne erede.
6Tal visse infin che d’implacabil sdegno
avvamparo in Granata il padre e ’l figlio,
e ch’a l’interne fiamme ardente il regno
fumò di civil sangue il suo vermiglio.
Lungi allor da i tumulti ei fe’ disegno
viver solingo in volontario esiglio,
et al regno natio volgendo il tergo
quello scoglio stimò comodo albergo.
7Quivi alzò su la cima, ov’egli il sito
scorse opportun, ne la più degna parte
l’albergo suo, che splendido e munito
doppiamente rendean natura et arte.
Ciò che può ragunar da vario lito
di pomposo e di raro ivi comparte;
gemme, fregi, metalli e marmi e legni,
un palagio ha il tesor di cento regni.
8De l’eccelso edificio a la gran mole
quel che vòto rimane orto diviene,
ove sempre i fior vaghi e chiaro il sole
nudron sempre odor lieti, aure serene.
Resta fra poche balze inculte e sole
un folto bosco, in cui talor sen viene
Alchindo, che godea quivi remoto
seguir de l’arti sue lo studio ignoto.
9Duo figlie d’un sol parto, a la cui madre
fu ministro di morte il lor natale,
avea seco, ambe vaghe, ambe leggiadre,
d’egual beltà, non di costume eguale:
l’una, che seguitò l’arti del padre,
d’ardire avanza e di saver prevale,
l’altra è men baldanzosa e più modesta;
Belsirena è la prima, Arezia è questa.
10Tutta amor, tutta vezzi è Belsirena,
e col guardo soave i cori impiaga,
e col dolce parlar l’alme incatena,
ma grata è la prigion, cara è la piaga.
De l’interne bellezze Arezia piena
ne i pregi di virtù solo si appaga,
e di vana beltà, di vani amanti
trascura l’arti e nulla cura i vanti.
11Sparse intorno la fama il chiaro grido
del dotto mago e de le duo sorelle,
che lasciati i tumulti e ’l patrio nido
nel monte edificàr stanze novelle;
celebrati fur dunque in vario lido
l’incantator per saggio, esse per belle,
onde colà da i più lontani regni
corsero a gara i cavalier più degni.
12Ma pochi il mago a tal ventura ammise,
stimando suo periglio il dar ricetto
a tante di pensieri alme divise,
senza prova maggior nel proprio petto.
Ei prima di quei pochi in varie guise
tentò la fede, esaminò l’affetto,
e poi gli ricevé, dentro a quel loco
dove regna il diletto, alberga il gioco.
13Quivi traeano i cavalieri amanti
in continuo piacer l’ore serene,
e tra suoni festivi e dolci canti
godeano o liete danze o laute cene.
Sol ne i mali indurato e ne gli incanti,
il solito rigore Alchindo tiene,
né ponno mitigar la sua fierezza
le delizie, gli ossequi o la vecchiezza.
14Preme l’incantator nel dubbio petto
di torbidi pensieri aspre tempeste,
poiché del Ciel nemico il fiero aspetto
gli instillava nel sen cure moleste.
Vide che lungo tempo il sol ristretto
partì d’orrida eclisse ombre funeste
ne l’ultimo decan del Cancro ardente,
di Granata e del re segno imminente.
15Vide che replicò nel loco istesso
maligni influssi orribile cometa,
da cui temea con tragico successo
a l’impero natio crudo anareta.
Vide la stessa volta a Giove appresso
del malefico vecchio il rio pianeta,
con massima union ne l’acqueo trino,
infausto a chi soggiace al suo domino.
16Vide che il gran Ferrando ha in Oriente
Saturno in regno e ne l’Occaso il Cigno,
e che col regio Sirio unitamente
splende nel mezzo ciel Giove benigno.
Vide poscia a se stessa e a la sua gente
Alchindo sovrastar fato maligno,
e tra sé discorrea com’ei disponga
l’arti contra le stelle e al Ciel si opponga.
Idragorre chiede a Bucifar una tempesta, con la quale spinge il legno verso il monte del mago (17-26)
17Mentr’ei pensava, in lui rivolto avea
il bieco sguardo e ’l livido veneno
Idragor, che su il legno allor sedea,
ov’Hernando e Consalvo egri languieno.
Quivi de l’altrui pianto egli godea,
al suo cieco furor lentato il freno,
e quivi d’altre insidie e d’altri inganni
nuovi mali apparecchia e nuovi danni.
18Grida l’empio demòn: «Nostra è la spada,
languono de i cristiani i più possenti;
a lo scoglio d’Alchindo il legno vada,
trovisi il mago e nuove cose ei tenti».
Tace, et a Bucifar, che la contrada
abitava de i folgori e de i venti,
e da cui pende in aria ogni procella
si rivolge, lo chiama e gli favella:
19«O tu, che d’albergar ne l’aer puro
avesti in sorte, e stare al Ciel vicino
mentre noi spinti entro l’abisso oscuro
abbiam tra l’ombra e ’l foco aspro domino,
alza il guardo, e sarà tanto più duro
quanto parve men grave il tuo destino:
quegli aurei giri e quei splendor celesti
ti ricordano pur donde cadesti.
20Se non puoi trionfar, se non ti è dato
tornare a i primi onori, a i primi regni,
procura almen di guerreggiar col Fato,
s’eterni i danni, eterni sian gli sdegni.
Perché badi a scacciar pe ’l mar turbato
i pescatori e i mercenari legni?
Questo è pregio vulgar; più nobil ira
ti accenda il seno, a più gran lode aspira.
21Del cristiano valor quel legno aduna
in duo soli guerrieri il nerbo e ’l fiore:
tu le procelle e i turbini raguna,
che ’l portino ad Alchindo incantatore.
Lascia cura del resto a la fortuna,
e basti a te di conseguir l’onore
d’aver le più feroci armi cristiane
da l’amica città spinte lontane».
22Verso Idragor, che in guisa tal si dole,
spalanca Bucifar l’orrida bocca,
et in vece d’inutili parole
da l’ampie fauci una procella scocca.
Imbruna l’aria, impallidisce il sole,
mentre in nuvole dense il fiato sbocca.
Gli sguardi son baleni, e sono
i suoi caldi sospir fulmini e tuono.
23Da gli urti ingiuriosi il mar percosso
con orgogliosi fremiti risponde,
et innalza dal sen torbido e grosso
contra i fiumi del cielo argini d’onde.
Dal gran mostro infernal battuto e scosso
si allontanò da le vicine sponde
il legno de i guerrieri, e dal suo fiato
oltre l’erculea foce è trasportato.
24Volge il legno a sinistra, indi lo caccia
il turbine infernal con quella fretta
con che vola il falcon spinto a la caccia,
con che spinta da l’arco è la saetta.
Disperato nel cor, pallido in faccia,
mira il rapido corso e morte aspetta
Ordauro, che su il legno era salito
e si dolea su il suo signor ferito.
25Duolsi Ordauro fedel non per se stesso
ma per Consalvo, e con diversi uffici
tenta chiamar entro il suo core oppresso
a la cura vital gli spirti amici.
Ma per lui, pe ’l guerrier che giace appresso
eran vani i rimedi e gli artifici,
se il cruccioso demonio era men presto
a spingere ad Alchindo il legno infesto.
26Par che sia pigra l’onda e tardo il vento
a Bucifarre, onde si accosta al legno
e lo spinge egli stesso, e in un momento
lo trasporta volando al fatal segno.
Febo il suo carro d’oro al molle argento
avvicinava già del salso regno
quando si discoprì d’Alchindo il monte
c’ha le piante nel mare e in ciel la fronte.
Idragorre sprona Alchindo a rinchiudere i guerrieri sul monte e a intervenire in difesa di Granata (27-34)
27Siegue il segno sin qui lieto Idragorre,
poi, d’altre imprese impaziente e vago,
batte rapide l’ali e lo precorre,
e giunge al monte ove dimora il mago.
Verso il bosco vicino indi trascorre
del maestro di lui presa l’imago,
e quivi intento a le sue magiche opre
fra le balze deserte Alchindo scopre.
28Severa gravità mostra l’aspetto,
crespa la guancia, irsuto il ciglio pende,
torvo si gira e fiammeggiando infetto
di peste acherontea l’occhio risplende.
Copre gli omeri il crin, la barba il petto,
lunga la veste insino al piè gli scende,
lo cinge un lin che a più color si verga,
tiene un libro una man, l’altra una verga.
29Grida allora Idragor: «Tu dunque invano
consumi il tempo in solitario chiostro,
mentre vittorioso il re cristiano
stringe con duro assedio il popol nostro?
Gli alti misteri et ogni occulto arcano
del mio raro saver dunque ti ho mostro,
perché devessi infra dirupi e belve
incensar gli antri et assordar le selve?
30Così la patria aiuti e la tua gente,
che teme dal nemico orridi scempi?
Così la fé soccorri omai cadente,
e gli arsi altari e i profanati tempi?
Ma forse riderai, ch’io ti presente
de la fé, che non curi, i vani esempi?
Dirai che non soggiaci a legge alcuna,
non conosci altro dio che la fortuna.
31Non contrasto il tuo dir, ma tu confidi
indarno di goder vita sicura,
e in queste onde e in queste alpi invan ti fidi
mentre espugnate sian le nostre mura.
Non sai tu che Ferrando a strani lidi
il culto del suo Dio stender procura?
Non sai che tra i cristiani aspra ragione
anche a la libertà castigo impone?
32Se dunque non ti move altro consiglio,
movati almen la libertà del core,
che non puoi mantener senza periglio
se contra noi Ferrando è vincitore.
Ah non più qui con vergognoso esiglio
traggi rinchiuso inutili dimore;
su, pria che i tuoi, che la tua patria oppressa
tiranneggi il cristian, l’anima istessa.
33Giunge un legno a lo scoglio ov’è ristretto
il valor de i cristiani e la bellezza,
ov’è del re nemico il brando eletto,
che l’arte vince e le malie disprezza.
Tu prendi e in questo scoglio a te soggetto
tutto ritieni, e con miglior vaghezza
vola quindi a provar l’arti e gl’incanti
ove siano più degno i premi e i vanti».
34Qui siegue e i chiari nomi indi gli scopre
de i guerrier, de le donne, e come possa
custodir sì gran preda, e come adopre
l’arti in favor de la città percossa.
Conchiude alfine: «A le tue nobili opre
si ascriverà la libertà riscossa
del popol moro, e tu fra i cari amici
goderai qui sicuro ozi felici».
Alchindo accoglie e alloggia i naufraghi, li lascia alle cure delle figlie e parte per Granata (35-44)
35Tacque, e sparve Idragorre, e con gli accenti
gli saettò ne l’implacabil seno
di superbo livor strali pungenti,
e lasciollo d’orrore e d’ira pieno.
Gonfiano allor le nuove furie ardenti
il cor già sparso d’infernal veneno,
onde al cieco furor non trovan loco
nel suo petto agitato il tosco e ’l foco.
36Proruppe alfin: «Non stancherò l’Inferno,
né i boschi assorderò con vani carmi.
Tentin opra maggior gli dèi d’Averno,
involi il mio saver la gloria a l’armi.
Tu mio maestro, io tuo seguace eterno,
de i tuoi consigli esecutor vo’ farmi;
io difensor de la città ristretta,
a le stragi, a gl’incanti, a la vendetta».
37Tale Alchindo ragiona, e amor di lode
e desio di vendetta il cor gli accende;
vergogna lo flagella, invidia il rode,
lascia i libri e la selva e al mar discende.
Molti il sieguono a basso, ei lieto gode
visto il legno nel porto, e in esso ascende,
e quei che non restàr fra l’arme estinti
da la guerra del mar trova già vinti.
38Come talora i semplicetti augelli
da l’ampia rete incautamente colti
perdono il volo e giacciono ristretti
fra loro confusi e ne l’insidie involti,
così nel legno incatenati e stretti
trovò giacere i miseri sepolti
Alchindo, e tolse i ceppi e da lor stessi
de i corsar, de i guerrier seppe i successi.
39Prese il brando fatale e gli altri furo
a l’albergo condutti, e i duo feriti
ne l’albergo miglior del ricco muro
fur curati dal mago e custoditi.
De lo scoglio giacean nel fondo oscuro
le prigioni distinte in vari siti;
la dolente Rosalba è posta in una,
ebber gli altri men noti altra fortuna.
40Più comoda prigione il mago diede
a Darassa, che seppe esser pagana,
e che sotto il destrier coltasi il piede
per l’offeso tallon giace mal sana.
Ritiene in ricco albergo aurea sede
con maniera d’incanto ignota e strana
Elvira, e fa che stupida non pote
mover le piante, articolar le note.
41Quinci il brando fatal, per cui difeso
esser può da gl’incanti il re nemico,
lascia de la sua stanza al muro appeso,
quasi nuovo trofeo de l’odio antico.
Poiché tutto è provisto e tutto inteso,
chiama de i cavalier lo stuolo amico,
e da lor, da le sue figlie ivi presenti,
Alchindo si accommiata in questi accenti:
42«Voi rimanete, a cui l’età migliore
permette di goder vita gioconda,
che di stragi e d’orrori ebro il mio core
sol di tristi pensier livido abbonda.
Voi guardate lo scoglio, in cui l’onore,
in cui la vostra libertà si fonda;
io di serbar l’assediate mura
dove il rischio è maggiore avrò la cura.
43Spagna sarà teatro al mio savere,
il mondo spettator sarà de l’arte
che può cozzar con le superne sfere,
che può volger gl’influssi in altra parte».
Tace, et a lui di studi e di maniere
Belsirena simil chiama in disparte,
e le commette i più secreti uffici
del monte, de i prigioni e de gli amici.
44Quinci un carro apparì, cui duo serpenti
traea per l’aria, e in esso il mago ascese,
e più leggier de i folgori e de i venti
verso il lito di Spagna il vol distese.
Restàr donne, guerrieri et altre genti
per breve spazio al suo partir sospese,
poi Belsirena, a cui tal cura ei diede,
prese il domin de la paterna sede.
Belsirena si innamora di Hernando (45-48)
45Assiste Arezia a medicar Darassa,
toglie de i duo guerrier la grave cura
Belsirena, et a lor sovente passa
e de i rimedi ogni ragion procura.
Medico studio a la virtù già lassa
rinforza i sensi e provida natura;
soccorre l’arte incerta, onde i feriti
racquistano gli spirti egri e smarriti.
46Dal rimirar, dal ragionar frequente
con Hernando, germoglia in Belsirena
la compiacenza tacita e latente
che, serpendole al core, empie ogni vena.
Il voler non ripugna e non consente,
la ragion non conforta e non raffrena,
Belsirena vagheggia e pur non brama,
si compiace d’Hernando e pur non ama.
47Mentre così dentro a l’incerto core
instabile trascorre il dubbio affetto,
et or benivolenza et ora amore,
or gli chiama desire et or diletto,
risanano i guerrier, torna il vigore,
e Consalvo primier sorge dal letto.
Non sorge Hernando, o sia ch’ancor si doglia
o sia che Belsirena ancor non voglia.
48Diferisce costei che sorga Hernando
poiché rammenta in sé che prigionieri
del crudo padre il rigido comando
vuol tosto risanati i duo guerrieri.
Quinci ella, che or vedendo et or parlando
appaga dolcemente i suoi pensieri,
si affligge che sì tosto ei le sia tolto,
né soffre di mirarlo in ceppi avvolto.
Consalvo è gettato il prigione, sente Rosalba raccontare di come scampò la morte nella grotta di Albimonte e fu poi condotta dal re d’Algeri, dove si finge paggio sotto il nome di Armindo (49-81)
49Non già pigra cotanto è nel ritorno
di Consalvo guarito a la prigione,
ma fra dure catene in rio soggiorno
di carcere odioso avvinto il pone.
Quivi non giunge o variar di giorno
o vicenda di tempo o di stagione,
poiché non osa in quel profondo sito
penetrar con la luce il sol smarrito.
50Appena il cavalier dentro è rinchiuso,
che da un’altra prigion voce improvisa
sente parlar: «Deh, siegui e più diffuso
narra come da me fusti divisa,
e non ti caglia di costui che chiuso
viene a languir ne la medesma guisa,
poiché il loco fatal tomba comune
fia de le nostre e de le sue sfortune».
51Tace, e Consalvo inorridisce, a cui
par d’Ordauro la voce e si confonde,
pur vario ancora è ne i giudici sui
e sente a sé vicin chi gli risponde:
«Sia ciò che tu consigli, oda costui
quel che cieca fortuna indarno asconde;
forse uscendo ei potrà con miglior sorte
raccontare i miei casi e la mia morte.
52Con Aleria, tu il sai, sola io rimasi
viva sepolta entro la grotta oscura,
e tra me rivolgendo i tristi casi
sospirai, lagrimai la mia sciagura,
e temendo il morir mi persuasi
più grave del morir la mia sventura,
e provai fra il desire e fra il timore
il duol di chi mal vive e di chi more.
53Ogni suono, ogni moto osservo attenta,
da l’umide palpebre ha il sonno esiglio,
e temo ogni larva e mi appresenta
ogni piccol sussurro alto periglio.
Non ascolto e non veggo, e par ch’io senta
e par ch’io vegga; apro l’orecchio e ’l ciglio,
e se questo non vede e quel non ode,
pur niega i sensi e teme il cor di frode.
54Mesta, e di compagnia dunque bramosa,
forse ancor mi eccitò spirto divino,
fo ch’Aleria dal letto ove riposa
parta e venga nel mio ch’era vicino.
Dorme colei, ma timida e dogliosa
io non quieto, e accuso il mio destino,
che con dannose e instabili vicende
de le miserie mie gioco si prende.
55Mentre così vaneggio e la mia interna
pena col rammentar rendo più acerba,
odo Albimonte entrar ne la caverna,
e ’l conosco a la voce alta e superba.
Grida il feroce, e la spelonca alterna
le voci, onde il suo duolo ei disacerba,
sì che intender poss’io da le parole
che vuol ch’io mora e poi morire ei vuole.
56Discesi allor furtiva e dietro al letto
mi ascosi, et Albimonte il piè converse
a i danni miei, ma con diverso effetto
nel sen de la mia Aleria il ferro immerse.
So che a raccorre in fra lo stuol eletto
quell’anima felice il Ciel s’aperse,
ove Aleria inocente a Dio rinata
fra l’angelico stuol vive beata.
57Sola, dolente e attonita rimango,
e sento che di nuovo il fier risolve
a me, ch’estinta crede, esser compagno,
e di nuovo in se stesso il ferro volve.
More il crudele, io tacita accompagno
la morte sua, che il mio timor dissolve,
con voti infausti, e da i tartarei chiostri
invoco a i danni suoi le Furie e i mostri.
58Poiché sfogai con gl’infelici auguri
il mio giusto furor nel masnadiero,
risolvo uscir fuor di quegli antri oscuri
tosto che il nuovo sol mostri il sentiero.
Pensi ognun come orrendi e come impuri
fantasmi offerse il torbido pensiero
a la mente agitata, e quanto mesta
l’inquieta io passai notte funesta.
59Così stetti dubbiosa infin che scorsi
per l’uscio angusto, ond’era l’empio entrato,
un incerto splendore, e alfin mi accorsi
ch’erano i primi rai del sol già nato.
Frettolosa dal letto allor io sorsi,
e me n’uscii dal carcere odiato,
e vidi che già il sole avea del monte
sparsa di lucid’or l’ispida fronte.
60Dopo breve pensar volgo le spalle
de l’orrida caverna al cavo sasso,
e per alpestre inusitato calle
con intrepido cor discendo al basso.
Pervengo alfin ne la soggetta valle
e stanca dal camin sospendo il passo;
rimiro intorno e in solitario loco
scorgo fumar d’una capanna il foco.
61Colà drizzo anelante il piè già stanco,
e giungo affaticata a l’umil tetto,
e con la barba folta e col crin bianco
veggo un pastor di venerando aspetto.
Appoggia a duro legno il debil fianco,
copre d’ispida pelle il tergo e ’l petto,
e mira per le verdi erbe novelle
pascolando scherzar tenere agnelle.
62Io m’accosto e ’l saluto, ed ei sospeso
a me si volge, e in me lo sguardo affisa,
e deposto il timor d’essere offeso,
visto l’abito mio, parla in tal guisa:
– Figlia, a questo monte erto e scosceso
come e per qual cagion giungi improvisa?
E chi per questo incognito deserto
ti scorse al mio tugurio il piede incerto? -.
63Io gli risposi e gli narrai che presa
fui da i ladroni, e al monte lor condotta,
ove sinché durò l’aspra contesa
stetti sepolta entro l’orribil grotta;
gli raccontai come, dal Ciel difesa,
schivai la morte, e come poi ridotta
a lui mi sia per quelle balze alpine;
qui tacqui, e ’l pianto al ragionar diè fine.
64Mosso a pietà de’ miei penosi errori,
al pianto mio pianse il pastor anch’esso,
e saputo il mio stato a i miei maggiori
pronto si offerse a ricondurmi ei stesso.
Gradii l’offerta e in quei solinghi errori
ristorai qualche giorno il corpo oppresso
da i vari affanni, e quindi invigorita
mi apparecchiai col vecchio a la partita.
65D’armi intorno sonava anco il paese,
che spesso a i viandanti eran moleste,
onde a schivar le militari offese
intenta d’un pastor prendo la veste.
Raccorciommi la chioma il vecchio e prese
occulta via per balze e per foreste,
ove la cupa avidità guerrera
in povero terren preda non spera.
66Ci guida il dì secondo in riva al mare
la strada occulta, e dal camin già lassi
in un bel prato che vicino appare
fermiamo alquanto a riposarci i passi.
Sfortunato riposo! Era un corsare
nascosto non lontan fra cavi sassi,
che incurvati facean luogo capace
per occultarsi al masnadier sagace.
67Appena dunque in su l’erboso seno
ci riposiam de la campagna aperta,
che noi quinci giacer vide Almadeno,
che tal nome ha il corsar nato in Biserta,
quindi co’ suoi disceso in su ’l terreno
a la preda volò ch’avea scoperta.
Sorse il pastor primiero al calpestio,
e vedendo color tosto fuggio.
68Era grave l’età ma l’uso avea
indurate le membra a la fatica,
onde per aspre vie lieve correa
lunge da l’infedel turba nemica.
Per l’alpestre sentier la gente rea
non lo seguì, ma vèr la piaggia aprica,
ove più facil preda io resto sola,
con barbaro tumulto avida vola.
69Dal timor soprafatta e non avvezza
fra quei deserti, immobile io rimango.
Giunge intanto Almadeno e mi accarezza,
mentre de la mia sorte invan mi lagno;
si compiacque il corsar di mia bellezza,
qualunque siasi, e riputò guadagno
donarmi al re d’Algier, ch’era suo antico
in diversa fortuna eguale amico.
70Mi guida indi a la nave, e scioglie al vento
le vele già ristrette e solca l’onde.
Striscia il rapido pin fra il salso argento,
e da la vista sua fuggon le sponde.
D’Almadeno propizie al nuovo intento
in guisa sospiràr l’aure seconde
ch’a lo spuntar del terzo sol ne l’Orto
discoprimmo d’Algier le torri e ’l porto.
71Quivi entrati, Almaden l’abito vile
mi fa deporre, e d’una giubba d’oro
mi adorna, ch’avea intesta ago gentile
con ricchi fregi e con sottil lavoro.
Vibro un dardo african con man virile,
mi risuona da tergo arco sonoro,
con cento piaghe i raccorciati crini
altamente coprian candidi lini.
72Mi tragge poscia al crudo Orgonte avante,
che del regno d’Algier possiede il trono,
et a lui m’offre, e quegli, il fier sembiante
quanto può serenando, accetta il dono.
Né già mi collocàr fra il vulgo errante
de gli schiavi plebei, ma posta io sono
infra i paggi d’Orgonte, e fra i più eletti
sotto nome d’Armindo un tempo io stetti.
73Andò poi di Marocco al re guerrero
a fare il mio signor l’usato omaggio,
et io con lui nel Tingitano impero
fra quei che lo seguian feci passaggio.
Or mentre noi del gran Seriffo altero
in corte dimoriam, giunge un messaggio,
che di Granata l’assediata gente
manda a chieder aita al re possente.
74Conosce il re con provido discorso
ne i danni di Granata il suo periglio,
et impedir de la vittoria il corso
al nemico cristian prende consiglio.
Quand’il consenso al granatin soccorso
Seriffo publicò nel suo consiglio,
gli si offerse primiero il re d’Algieri
portarlo a la città co’ suoi guerrieri.
75Approva il Tingitan ch’egli prevenga
e vada a trattener l’armi nemiche,
sinché a maggior soccorso in campo venga
la gente sua da le provincie amiche.
Parte Orgonte non sol, ma vien ch’ottenga
di seguirlo a i perigli, a le fatiche
figlia del tingitan Darassa altera,
ch’unisce alta bellezza alma guerrera.
76Partimmo, e scorsa alfin di Zibilterra
l’angusta foce e l’arenosa sponda,
già si scorgean ne la propinqua terra
l’alte mura di Malaga feconda,
quando il cielo commosse a farci guerra
con assalto improviso il vento e l’onda;
muggì Nettuno irato, e a i suoi muggiti
d’intorno risonàr gli scogli e i liti.
77Crebbe la notte prossima lo sdegno
di Giove sopra e di Nereo di sotto.
Scacciati gli altri venti il salso regno
scorre Libecchio in sua balia ridotto.
Quindi nel vicin lito il nostro legno,
spinto da lui, giacque sdruscito e rotto,
e penetrò con orrido sembiante
tra le travi espugnate il mar sonante.
78Lo strepito, il tumulto e la paura
a i sensi intorbidàr gli uffici usati,
onde pongo al mio scampo ogni mia cura,
né veggo quai sian morti o quai salvati.
Il ciel, che riguardò la mia sciagura,
n’ebbe pietate, e fuor de i flutti irati
mi spinse alfin, mezzo tra morta e viva,
a l’amata di Spagna opposta riva.
79Tocco appena il terreno a me natio
che prende il corpo stanco alto ristoro;
i passati dolori in parte oblio,
bacio l’arene e ’l patrio cielo adoro.
Così stetti più giorni, indi m’invio
per celarmi in un bosco al crudo moro;
giungo a una fonte e mentre corro a bere
ritrovo una donzella ivi a giacere.
80Mi vide e mi credette una donzella
detta Zoraida, e mi chiamò colei,
ma, il suo error conosciuto, a sé mi appella,
et a narrar m’invita i casi miei.
Su la fresca del prato erba novella
in riva al chiaro fonte allor sedei,
e narrando i miei strani aspri accidenti
seco disacerbava i miei tormenti,
81quando giunge e conosce un traditore
ch’io son Rosalba, e stringe in me la spada.
Ma corse a darmi aita il tuo signore,
e corse un cavalier d’altra contrada,
Fosse inganno de l’empio o fosse errore
non saprei dir come in quel punto accada
che tra i duo cavalier l’ira sorgesse
onde cruda tenzon fra loro ardesse».
Consalvo e Rosalba si riconoscono (82-89)
82Seguia, ma di tacer più non sofferse
Consalvo, che gridò: «Saziati amore,
voi saziatevi omai sorti perverse;
non capisce il mio sen pena maggiore.
mira crudo tenor di stelle avverse,
che da le gioie mie tragge il dolore;
o di Consalvo miseri contenti,
cui l’istesso piacer nudre i tormenti».
83Tremò Rosalba al risonar di quella
voce sì nota e al caro nome, e grida:
«Dunque mi serbi ancor pena novella,
fortuna, del mio cor doppia omicida?
M’imprigiona, mi lega e mi flagella,
bastiti almen che tu me sola uccida,
e non voler che i tormenti ancora
di Consalvo mio cor duo volte io mora».
84Soggiunse il cavalier: «Lieta mia sorte
io chiamerei, se permettesse almeno
ch’io potessi esalar con dolce morte
l’afflitta anima mia nel tuo bel seno,
se poiché non fui vivo a te consorte
fussi morendo, o me felice appieno.
Fortunato morir, oggi mi tocca
la mia vita finir ne la tua bocca».
85Ella risponde: «Ahi, che sperar non lice
da nemico destino alta ventura,
con vicenda per noi troppo felice
sarìa campo d’amor la sepoltura.
Non lusinga speranza allettatrice
tanto il mio cor, che nel suo mal s’indura;
dolce premio sarìa del mio martire
congiunger destra a destra e poi morire».
86«Ah,» soggiunse il guerrier «lusinghi invano
col soave pensier l’afflitta spene:
fermano il piede e stringono la mano
con tenaci ritorte aspre catene.
Pur tra l’acque vicine arda lontano,
per la via de le gioie entrin le pene,
il tormento di Tantalo mi tocchi,
non mi tolgano almen Rosalba a gli occhi».
87«No no (disse’ella), in questo seno Amore
con gli sguardi scolpì tua bella imago,
qui dunque invan congiura ombra et orrore,
in te mi veggo e i miei desiri appago.
Se mi ami, egual ristoro avrà il tuo core,
onde goda il pensier cupido e vago;
verrà intanto la morte e sciolto il velo
vagheggiar ci potremo eterni in Cielo».
88Prorompe il cavalier: «Questi successi
a le nostre speranze Amor riserba?
Son questi i cari baci, i dolci amplessi
cangiati in duri lacci, in morte acerba?
Anzi, che più?, morire almen potessi!
Più grave de la morte il Ciel mi serba
crudo tormento, ond’egli vuol che sia
lenta morte per me la vita mia.
89Dura condizion, premio è la morte?
È rimedio del mal l’ultimo male?».
Rosalba replicò: «Questa è la sorte
di nostra umanità caduca e frale».
Così languian, così attendean che porte
il termine al penar l’ora fatale,
et Ordauro compagno a i lor tormenti
col suo pianto accrescea gli altrui lamenti.