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Il conquisto di Granata

di Girolamo Graziani

Canto XX

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 26.02.15 14:59

ARGOMENTO
La maga Belsirena invan alletta
a l’amor suo l’innamorato Hernando,
mentre il celeste Amor nel cor saetta
Arezia, ch’arde per Darassa amando.
Con gli altri quest’e quei la fuga affretta,
e porta seco il memorabil brando.
I suoi falli Arnaù col sangue paga,
e disperata muor la bella maga.

Dio manda Amore a turbare i piani del mago (1-4)

1Sotto al trono di Dio, cui fanno intorno
lucidissimo fregio ardenti stelle,
siede Amor, d’arco armato e d’ali adorno,
che vibra auree saette, auree facelle;
quell’Amor che accordò la notte e ’l giorno,
padre del mondo, autor de l’opre belle,
non quel che sparge ne i terreni cori
di lascivi desiri impuri ardori.

2Con libero domino ubbidienti
questi modera gli astri e la natura,
et ha de gli animai, de gli elementi
con fecondo tenor provida cura.
Tempra con pure voglie affetti ardenti,
regola i sensi e la beltà misura,
e congiunge ne l’uom con nodo amico
istinto naturale e amor pudico.

3In esso dunque il Creator del tutto
rivolse il guardo ond’è men chiaro il sole,
né bisognàr, perch’egli fosse istrutto,
del superno comando altre parole.
Amor lasciò, perché apparisse il frutto
del concetto di Dio l’empirea mole,
e volgendosi al mar che piega a l’Indo,
rapido scese a la magion d’Alchindo.

4Musa, tu non sdegnar che in mezzo a l’armi
spieghi del vano albergo i folli amori,
e che procuri con soavi carmi
di Marte raddolcir gli alti furori;
tu sola puoi ridire e sai mostrarmi
del cieco labirinto i vari errori,
tu spirando aura dolce al canto usato
de l’albergo fatale apri lo stato.

Belsirena tenta di adescare Ernando senza manifestargli i propri sentimenti ma invano (5-22)

5Sorto era già da l’odioso letto,
guarito di sue piaghe, Hernando afflitto,
fuorché di quella onde l’avea nel petto
per la beltà d’Elvira Amor trafitto;
né men languia, punta dal nuovo affetto
Belsirena, e sdegnava e l’aura e ’l vitto,
tranne quel che porgean mentre si dole
o la vista d’Hernando o le parole.

6La misera si strugge e pur non osa
al cocente desio chiedere aita,
e l’interna del cor fiamma amorosa
sol con lingua di foco il guardo addita.
Ben vorrìa palesar la doglia ascosa
prima che con l’ardir manchi la vita,
ma la voce al desio timida cede
e, per troppo bramar, nulla richiede.

7Degli arcani d’amor giudice esperto
Hernando se ne avvede, e non lo cura,
sperando che il rimedio abbia più certo
l’amoroso pensier che si trascura.
Ma più fervido il foco arde coperto
e sprezzato il desio vie più s’indura,
quasi che nel goder sembri più grato
quel ch’a l’avide brame è più vietato.

8Il cupido pensier dunque si avanza
nel sen di Belsirena e la tormenta,
pure il desio nutrisce e la speranza
e la piaga scoprir cauta argomenta;
ma il voler non è pari e la baldanza,
onde ogni arte, ogni via studia e ritenta
perché senza che chieggia al male aita
se ne avvegga colui che l’ha ferita.

9Quinci sovente a preziosa mensa
l’amato cavalier lieta raccoglie,
e ciò che l’aria, il bosco e il mar dispensa
con ricca pompa avido lusso accoglie.
Stagion contraria o lontananza immensa
non vagliono a frenar l’altere voglie,
cui per fasto maggior del gran convito
il cibo ch’è più raro è più gradito.

10Di pregiato licor le viti ispane
empiono tazze aurate a mensa lieta,
e l’egizie vindemie e l’africane
non cedono in paraggio al vin di Creta.
Con atti impuri e con parole vane
il Riso folle a l’Onestà discreta
dà l’esiglio, e riman Lascivia e Gioco,
che spargono d’intorno esca di foco.

11Mentre suggean di peregrine viti
l’allegre turbe il liquido tesoro,
e fean con dolce gara a i lieti inviti
risonar l’ampie sale e i vasi d’oro,
sciolse cantore iniquo inni graditi,
e diede a l’ebbro stuol nuovo ristoro,
ma i labbri l’arco e i versi fur gli strali
che portarono al cor piaghe mortali.

12«Udite,» egli cantò «Spagna rimbomba
d’armate schiere a i bellici furori,
et a cruda tenzon la fera tromba
quindi chiama gl’Iberi e quinci i Mori;
tempra l’orror del sangue e de la tromba
la speranza de i premi e degli onori,
e compra l’uom, folle assai più che sorte,
l’applauso popolar con dura morte

13D’ostro e di gemme il capitano adorno
vegga a i cenni tremar l’armi e i guerrieri,
e prema soggiogati i regni intorno
con aspre leggi e con superbi imperi,
che temuto e schernito in un sol giorno
lascia in preda a la morte i pregi alteri;
del fugace splendor l’ombra gli resta,
e chi vivo il temea morto il calpesta.

14Che val che i nomi illustri e i fatti egregi
de i feroci guerrieri in ogni parte
a le turbe divulghino et a i regi
su i mutati destrier rapide carte,
se a l’eccelse vittorie, a i chiari pregi
povero guiderdon morte comparte
d’infausti versi, onde il sepolcro inciso
faccia noto colui che giace ucciso?

15Lungi, lungi da noi pompe infelici,
miseri premi e lagrimosi onori.
Trattino armi d’amor guerre felici,
crescano i mirti e cadano gli allori.
Dolci risse, ove amando hanno i nemici
teneri sdegni e placidi furori,
ove a piaghe di baci Amore invita,
ove si muor per dare altrui la vita.

16Sì sì, dunque amiam tutti a i vezzi, a i baci,
che son l’armi d’amor, sono i contrasti;
cerchino oro e rapine alme rapaci,
brami tumido cor titoli e fasti.
Turbano alti disegni ore fugaci,
frena angusto sepolcro animi vasti.
Godiamo, amiam, che gode sol uom ch’ama,
sono favole e sogno onore e fama».

17Con tai detti spargea fiamme lascive
ne gli ebbri convitati empio cantore.
Solo Hernando pudico intatto vive
di tai lusinghe infra il comune ardore;
scaccia del nuovo amor l’armi furtive
la memoria d’Elvira, e chiude il core
al pensier che tentava a poco a poco
seminar dentro a i sensi il nuovo foco.

18Da le mense talor passa a le selve
Belsirena inquieta, et ivi spera
scoprire al cavalier qual si rinselve
nel suo cor d’aspre voglie occulta fera.
Tra dense macchie fuggono le belve
del vulgo cacciator l’arte guerriera;
le reti la vallea cingono intorno,
geme il bosco, urla il cane e stride il corno.

19L’innamorata donna esce a la caccia:
serico manto e di fin ostro eletto
copre il candido lin fino a le braccia,
ricca banda purpurea adorna il petto,
aureo nastro in più nodi il crine allaccia,
da gemmata faretra il fianco è stretto,
i coturni d’argento in vari giri
chiudon fibbie di perle e di zaffiri.

20Non si mostrò con sì leggiadre forme
Cinzia giamai per l’arcade pendici,
né mai sì vaga infra selvaggie torme
de l’Eurota abitò gli antri felici,
come costei, che dove stampa l’orme
sparge di nuovi fiori i campi amici,
e rende tributarie e prigioniere
con gli occhi e con la man l’alme e le fere.

21Pure amante d’Elvira Hernando sprezza
l’arti, la solitudine e i conviti,
onde armata di vezzi e di bellezza
par ch’a guerra d’amore essa l’inviti.
A l’antico desio l’anima avvezza
fugge di nuove insidie i lacci orditi,
e in vano Amore adopra in vari modi
doni, sguardi, lusinghe, offerte e lodi.

22Qual cacciator che per campagne aperte
o per selve intricate abbia smarrita
la fera, che creduto a l’orme incerte
lungo tempo ansioso avea seguita,
non dispera e non cede, anzi converte
ogni studio, ogni industria a nuova uscita,
e gli assalti e l’insidie in varia guisa
a la fera nemica in sé divisa,

Belsirena un giorno al giardino si apre ad Hernando ma lui la rifiuta, proponendosi di esserle al massimo cavalier servente: lei la prende male e lo mette in catene (23-49)

23tal costei riconforta i suoi desiri,
gli artifici conferma e le speranze,
e di sguardi lascivi arma i sospiri,
trova nuovi conviti e nuove danze.
Quando alfin nulla giova a i suoi martiri,
né par ch’altro rimedio al male avanze,
risolve abbandonar l’arte e ’l rispetto
e scoprir da se stessa il nuovo affetto.

24Sorge nel bel palagio ampio giardino
di lieti fiori e di fresch’erbe adorno,
cui sicuro dal giel serba il domino
placida aria e temperato giorno;
con libero orizzonte il mar vicino
da sublime balcon mirasi intorno,
e scherzano tra lor con dolci gare
i pregi della terra e quei del mare.

25Un dì ch’a lauta mensa avean già dato
prezioso ristoro a la natura,
mentre il cielo avvampava in ogni lato
usciro a respirare a la verzura.
Con alberi frondosi un verde prato
fa schermo ombroso a la cocente arsura
e conduce al balcon, ove confina
col superbo giardin l’ampia marina.

26Sorge appresso al balcon limpida fonte
cinta di verdi seggi, a cui di sopra
di cedri un padiglion vien che da l’onte
de gli strali del sol l’acque ricopra.
Qui la donna e ’l guerrier siedono a fronte,
quella intenta a pensar come gli scopra
il suo fermo voler, questi costante
nel suo primo desio d’Elvira amante.

27Di pallor, di sudor la fronte aspersa
Belsirena il color cangia e l’aspetto,
e tra vari desiri in sé diversa
vuole e non osa, e amor cede al rispetto.
A l’ondose campagne alfin conversa,
vide un legno, e rivolta al suo diletto
quinci a manifestar del suo tormento
la secreta cagion prese argomento.

28«Mira» dicea «quel legno; egli trascorse
popoli immensi e pelago infinito,
e senz’aver lume o favor de l’Orse
girò d’Africa e d’India il curvo lito.
Desio di poche merci ali gli pose,
e stese a vil guadagno il volo ardito:
tanto può l’or che l’uom pe ’l mar contento
corre dietro a la morte al par del vento.

29Orsù, vo’ che per lui fortuna amica
volga sereno il ciel, placidi i mari;
vo’ che giamai non provi aura nemica,
orridi scogli o perfidi corsari;
vo’ che goda i trofei di sua fatica
ritornato a la patria infra i più cari.
Pure alfin de i suoi rischi e del suo affetto
bionda massa di terra è solo oggetto.

30O follia de i mortali! Or chi pretende
più cara merce o più gentil lavoro
che quel che in duo begli occhi Amor ci rende,
che quel che in un bel crin si sparge in oro?
Saggio chi solca il mar cui non offende
il superbo furor d’Austro o di Coro,
quel mar che fra le pompe e fra gli amori
sommerge nel piacer naufraghi i cori».

31Qui tacque, e saettò d’Hernando al seno
un dolcissimo sguardo, a cui si oppose
la memoria d’Elvira, e duro freno
a le nuove lusinghe in lui ripose.
Egli, schernito il tacito veneno
che in quei detti serpea, così rispose:
«Vari istinti dal ciel piovono in terra,
altri segua gli amori, io vo’ la guerra.

32Si appaghi altri ne l’ozio e adori un viso
cui diano i pregi lor natura et arte,
serva a duo parolette, osservi un riso
che in duo labbri soavi amor comparte,
il mio cor non ritrova il Paradiso
a i nobili desiri in fragil parte
ma s’innalza colà dove lo chiama
a i trionfi guerrieri aura di fama».

33Disse, e colei soggiunse: «A la tua gloria
qual guiderdon ti fingi e qual diletto?
Forse tu di poema over d’istoria
il tuo nome figuri alto soggetto?
Deh che molti son parte a la vittoria,
ma pochi, o sia ventura o sia difetto,
o di chi ricompensi o di chi lodi,
son partecipi a i premi et a le lodi.

34Ma de’ suoi premi Amor non priva alcuno,
amor che per amor se stesso rende,
e che prodigo a gli altri, a sé digiuno
de i goduti piacer nulla pretende».
«Anzi (replica Ernando), egli importuno
molto vuol, nulla ottiene e tutti offende,
e cieco dispensier de i suoi diletti
i merti non distingue e men gli affetti.

35Quante volte idolatra un cor fedele
finta bellezza e barbari costumi,
e invan tenta ammollire alma crudele
di lagrime spargendo amari fiumi!
Quante inganna i suoi servi una infedele
con dolci risi e con soavi lumi,
e gode in sé di rimirarsi avanti
incatenato un popolo d’amanti!».

36«Ah (colei replicò), non sempre cieco
scocca da la faretra Amor gli strali,
ma congiunge il desire e tempra seco
di reciproco amor fiamme vitali.
Amore, ove ti piaccia, userà seco
placide le ferite e dolci i mali;
dirai, se provi amar quella che ti ama,
da chi gode in amor nulla si brama».

37Sorrise Hernando e disse: «Altri procure
le fortune d’amor, ch’io non le bramo;
indurato è il mio core a le sciagure,
onde fuggo il piacere e amar disamo».
Ella ardita risponde: «Alte venture
i casi tuoi, non infortuni io chiamo;
naufrago, moribondo e prigioniero
trovi porto, hai salute e fondi impero».

38Qui di color di rose adorna il volto
e tremante soggiunge: «E dunque ascrivi
fra le miserie tue ch’io t’abbia accolto
in questo albergo, ove per me tu vivi?
Così crudo sei dunque o così stolto
che più tosto fra i morti o fra i captivi
tu vorresti languir ch’essere amato
da chi salute e libertà ti ha dato?

39Sogni non ti racconto, a i cenni tuoi
Belsirena soggiace; in questo petto
siede impresso il tuo volto, ove tu vuoi
rivolge i miei desiri il cor soggetto;
l’occhio mio nel tuo sguardo ha i lumi suoi,
la tua dolce memoria è il mio diletto;
per te sol vivo e, se non ti è gradita,
di me stessa nemica odio la vita.

40Cedi, vergogna intempestiva, cedi,
i secreti del cor lingua palesa.
Sì, ti amo, sì, ti adoro, ecco a i tuoi piedi
io cado da te vinta e da te presa.
Taciturno, che pensi? Ancor non credi
ch’arda per tua cagion quest’alma accesa?
Vuoi che ti apra il mio cor? Vuoi per tuo gioco
l’origine mirar del mio bel foco?».

41Qui diè con un sospir fine a i lamenti,
e con pallido volto e cor tremante
aspetta qual sentenza a i suoi tormenti
pronunci il caro e supplicato amante.
Egli a’ teneri vezzi, a i dolci accenti
immobile compon l’alma e ’l sembiante;
antica fede a piacer novo oppose,
e con breve parlar così rispose:

42«Donna, è ver, ne i tuoi detti alta ventura
mi apre il destino e mi promette Amore;
veggo i pregi che il cielo e la natura
raccolsero a tua pompa e a mio favore;
so che debbo la vita a la tua cura,
confesso libertà, vita et onore
tuoi doni, e chiedi pur, so ch’è devuto
dal mio canto al tuo merto ogni tributo;

43duolmi sol che l’amare al petto mio
sia da che nacqui un sentimento ignoto:
sia furor, sia natura o pur sia Dio,
sol di studi guerrieri io son divoto.
Non conosce d’Amor legge e desio
quest’alma offerta ad altro nume in voto.
Fuorché affetto d’amor, ti fia concesso
dal mio sen tributario il core istesso.

44Dì pur, se vuoi, che tra l’armate schiere
ministra di rigor ruoti la spada,
dì, se ti par, che tra l’ingorde fere
ne i folti boschi a cimentarmi io vada:
scorta fia del mio braccio il tuo volere,
legge fia del mio cor ciò che ti aggrada;
eseguirò tue voglie in ogni loco,
o sia in terra o sia in mare o sia nel foco».

45Impallidì nel volto, arse nel ore
la donna altera a la risposta avversa,
e da gli occhi spirando ira e furore
con lingua minacciò di tosco aspersa:
«Or fa de i tuoi desiri altri signore,
non curare odio antico e fé diversa,
donagli libertà, vita e salute
perché poi ti disprezzi e ti rifiute.

46Che fere?, che battaglie? Io non ti chiedo
altro amore, e tu crudel lo nieghi?
L’impero di me stessa io ti concedo,
né pure a riamarmi il cor tu pieghi?
Ma ve’, sinché punito io non ti vedo
d’aver negletti i miei desiri e i prieghi
non vo’ cessar; sei de’ miei doni indegno:
chi non vuole il mio amor, provi il mio sdegno»,

47disse, e mostrò ne gli atti e ne l’aspetto
che femina sprezzata è un vivo Inferno.
Chiamò i sergenti e ’l condennò ristretto
d’un’oscura prigion nel fondo eterno.
E, per meglio sfogar del suo dispetto
il secreto rancore e l’odio interno,
vuol che costui che le avea il cor legato
gema fra duri lacci incatenato.

48Ma d’iniquo destin fiere percosse
sembraro alte venture al cor fedele,
che dal primo desio nulla si mosse
sia costei lusinghiera o sia crudele.
Supplicò, ste’ sospesa, infuriosse,
minaccie di velen, preghi di mele
propose in vano, e rigida e cortese
variando maniere offerse e offese.

49D’antica torre innaccessibil muro
non mai si vede in su lo scoglio alpino
così sprezzare immobile e sicuro
i fremiti di Borea e di Garbino,
come a l’ire, a l’amor nel fondo oscuro
soffre immobile Hernando il suo destino,
e fa veder che invitta fé disprezzi
violenza di sdegno, arte di vezzi.

Amore fa innamorare Arezia di Darassa, che crede un uomo: Darassa finge di essere incline al suo amore per liberarsi e pianifica la fuga, in cui intende coinvolgere tutti i prigionieri (50-70)

50Tal de i presi guerrieri era lo stato,
quando a i tetti d’Alchindo arriva Amore,
che girando lo sguardo in ogni lato
mira com’egli serva al suo Signore.
Quinci da la faretra un strale aurato
scegliendo saettò d’Arezia il core,
d’Arezia che Darassa in cura avea,
cui ne l’armi e ne l’opre un uom credea.

51Già sanata del piede era Darassa,
e seco a la prigion parla sovente
Arezia, e qui l’attende e qui le passa
il sen con l’aureo strale Amore ardente.
Quinci or fisa rimira, or gli occhi abbassa,
e timore e desio preme la mente;
vuol seguir, vuol ritrarsi, aborre e brama,
non cura amor, non crede amare et ama.

52«Lassa (dicea), deh qual mi straccia il seno
aspro dolor? Forse ch’io son ferita?
Ma dov’è il sangue? Ohimè, vedessi almeno
o lo strale o il nemico o la ferita.
Forse questo è venen? Ma qual veneno
fu giamai così dolce e che dia vita?
Dunque foco sarà; come e in qual loco
si vede ch’arda e non consumi il foco?

53Ah, ch’è piaga d’amor, tosco d’amore,
fiamma d’ardor ch’arde, avvelena, impiaga,
ma soave è il dolor, caro l’ardore,
fortunato il velen, dolce la piaga.
Qua si prova la morte e non si more,
qui si duole e nel suolo il cor si appaga.
O vicende d’amore, o strana sorte
che fa lieto il dolor, grata la morte!

54Già che dolce è la fiamma ond’io mi sfaccio,
perché almen non la scopro a chi mi accende?
Con dannosa vergogna a che mi taccio
e non cheggo pietate a chi m’offende?
Cor di foco mi dà, lingua di ghiaccio
Amor, che del mio mal gioco si prende.
Vuole Amor ch’io sia persa e non mi sciolga,
vuole Amor ch’io m’abbruci e non mi dolga».

55Tale Arezia vaneggia, e in mezzo al petto
cela il foco d’amor, ch’esce da gli occhi,
e portando a Darassa il chiuso affetto
studia che con lo sguardo il cor le tocchi.
Ma colei, ch’era intenta ad altro oggetto,
non sa che nuovi strali amor le scocchi,
e benché per Armindo arde in se stessa
non si avvede ch’Arezia arde per essa.

56Langue Arezia, e rinova impaziente
mute lingue d’amor sguardi furtivi,
da cui portato il suo desio cocente
a gli occhi di Darassa e al seno arrivi.
Forma caldi sospiri e finalmente
par che di moto e di color si privi;
se ne accorge Darassa e ne i sospiri,
caratteri del cor, legge i desiri.

57D’Arezia e del suo amor ride in se stessa
e simula dal cor vario il sembiante,
reciproco desio finge con essa,
mira, vagheggia e si dimostra amante;
o sorride o sospira, e se si appressa
ha pallido color, voce tremante:
così spera d’aprirsi a poco a poco
la cara libertà dal chiuso loco.

58Da l’esca di quei vezzi amor nutrito
nel sen di Arezia rapido si avanza,
e di lusinghe e di piacer condito
stimola il suo desio con la speranza.
Rende l’ardor più grave il cor più ardito
del suo nobile amor degna baldanza,
poiché a l’aspetto, a le maniere rare
scorge ben che Darassa è d’alto affare.

59Non può capir ne l’agitato petto
de l’afflitta donzella il foco ardente,
e invan procura il timido rispetto
render men vivo il suo desio cocente.
Risolve dunque il tormentoso affetto
scoprir l’innamorata impaziente,
ma il suo desio move la lingua appena
che la lingua e ’l desio vergogna affrena.

60Volle parlar, volle pregar ma stette
la timida fanciulla entro la gola,
e concentrossi e sovra il cor cadette
con più dolor la gelida parola.
Vergogna sparge et onestà riflette
dolce color di rosa e di viola,
ma se fredda la lingua agghiaccia e tace
parla in fervidi sguardi occhio loquace.

61Quando scorge Darassa arder già tutta
ne l’amor suo la misera donzella,
quale occulto dolor l’abbia ridutta
sì mesta a palesare un dì l’appella.
Dal caldo affetto in sì grand’uopo istrutta
dopo due lagrimette essa favella:
«La cagion del mio mal chiedi a i tuoi sguardi:
ti diran ch’io mi struggo e che tu m’ardi.

62Ardo, ma il foco tuo che abbrucia il core
non strugge l’onestà, che intatta vive
tra quelle che nel sen mi nudre Amore
col cibo del piacer fiamme furtive.
Ardo sì, ma non vo’ che sia il mio ardore
vergognoso trofeo d’opre lascive,
non vo’ che si dia vanto indegna brama
di macchiar la mia mente e la mia fama.

63Godrò, se piace a te, che il Ciel unisca
con laccio d’Imeneo l’anime amanti.
Se ciò non vuoi, non fa ch’io mai gioisca,
né che mai del mio amore altri si vanti.
Da te dipende o che il mio cor languisca,
da te sprezzato, in angosciosi pianti,
o che goda con te, se ti è gradito;
o che tu sia nemico o sia marito».

64Così disse, e nel fin di quei lamenti,
quasi che del suo ardir pentita fosse,
caddero i lumi, e di fini ostri ardenti
di nuovo fiammeggiàr le guance rosse.
Pronta allora Darassa in lieti accenti
così la lingua a la risposta mosse:
«Con quai grazie ti onoro, amica sorte,
ch’oggi di prigionier mi fai consorte?

65Eccomi, qual tu brami o servo o sposo,
di mia fortuna il tuo voler sia guida;
duolmi sol che non lice alcun riposo
tra l’insidie sperar di gente infida.
Deh, lasciam questo carcere odioso,
tu sciogli i lacci e a libertà mi guida;
quand’uscirem di questo angusto tetto
gl’imenei che proponi io ti prometto».

66Stette Arezia sospesa, indi soggiunse:
«Signor, dal tuo voler la scorta io piglio,
da che Amor del tuo merto il cor mi punse
fo legge de i miei sensi il tuo consiglio:
eleggo poiché il Ciel mi ti congiunse,
de la patria per te prender esiglio,
sia de i tesori e sia del padre io priva
purch’io ti segua e purché teco io viva».

67Darassa replicò: «Poiché assicura
la tua somma bontà la mia speranza,
dunque di liberar sia nostra cura
ogni prigion da l’odiosa stanza.
Se noi soli fuggiam da queste mura
quale al lor male altro rimedio avanza,
e quali adoprerà negl’innocenti
Belsirena sdegnata aspri tormenti?».

68«Sia (disse Arezia) abbandonato il regno,
la patria offesa e ’l padre mio schernito,
poiché d’arti esecrande esempio indegno
fu dal ciel, fu da me sempre aborrito.
Non pavento d’Alchindo il fiero sdegno,
non curo altre grandezze, altro marito,
un di quei guardi, ond’è il mo core acceso,
de i tesori ch’io lascio agguaglia il peso».

69Grazie le rende e le s’inchina allora
lieta Darassa, che richiesto avea
libero ognun poiché quel sol che adora
temea scoprir se per lui sol chiedea.
Quindi la fuga a la più tacit’ora
che con l’ombra e col sonno i cor ricetta,
differiro concordi, e fu divisa
la cura de la fuga in varia guisa.

70Prima devea da la caverna oscura
Arezia liberar la sua Darassa,
poi disciorre da i lacci era lor cura
quei che giaceano in parte assai più bassa;
denno alfin dare il tergo a l’empie mura,
indi scendere uniti ove il mar passa
a piè del monte, et ove a tal disegno
avrebbe Arezia apparecchiato il legno.

Arnaù, innamorato non corrisposto da Arezia, sente tutto e riferisce a Belsirena, che per evitare la fuga di Hernando avvelena Darassa (71-81)

71Fra i più noti guerrier che d’ogni lato
concorsero d’Alchindo al loco strano
ardea d’Arezia bella innamorato
Arnaù, minor figlio al re d’Orano.
Pianse, pregò, ma del suo regio stato,
del suo lungo servir fu il merto vano
appresso Arezia, e pur da lei negletto
non cangiò voglia e non scemò l’affetto.

72Sdegno, che suol d’amor spegnere il foco,
con arte nova entro il suo cor l’accende,
caro è il disprezzo e con diverso gioco
d’un’offesa mortal grazia si rende.
Vorrìa fuggire, e segue in ogni loco
la crudel che lo fugge e che l’offende;
de l’aspra servitù stanco, non sazio,
si appaga del suo mal, gode al suo strazio.

73Ama dunque il meschin senza speranza,
non senza gelosia, che segue amore,
e dove egli si ferma ella si avanza,
col sospetto congiunta e col furore.
I costumi, le pratiche e l’usanza
d’Arezia osserva, e spia gli affetti e ’l core,
e, bench’egli sia cieco a le sue pene,
a la cura d’Arezia Argo diviene.

74Vede colui che di Darassa è forse
Arezia a la prigion troppo frequente,
e prima sospettò, poscia si accorse
che l’una ha infermo il piè, l’altra la mente.
Quinci l’avvelenò, l’arse e lo morse
tosco grave, odio atroce e rabbia ardente,
e quanto meno spera ei più geloso
gli andamenti d’Arezia osserva ascoso.

75Allor dunque che fu de la partita
distinto il modo e l’ordine discorso,
Arnaù, ch’era in parte assai romita,
ascoltò non veduto il lor discorso.
Fu per cader, fu per uscir di vita,
ma il soverchio dolor gli diè soccorso,
poiché di tanti mali a la sciagura
l’alma fugace attonita s’indura.

76Forze riprese e in sé rivenne appena
che dal carcere occulto il piè rivolse,
e corse impaziente a Belsirena
e ’l duro caso in brevi detti sciolse.
Da grave sdegno e da gelosa pena
altamente trafitta ella si dolse,
ma le offerse nel subito periglio
cruda necessità fiero consiglio.

77- Neghittosa, che badi? Altri procura
goder ne le tue pene e tu dimori?
Sia proibir, sia prevenir tua cura;
tronca negli altri danni i tuoi dolori.
O mentita bontà!, chi ti assicura
se di Arezia t’insidiano gli amori?
La rocca d’onestà d’Arezia il petto
a le forze d’amor dunque è soggetto?

78Or vada ella superba e gli altrui pianti
stimi propri trionfi e di me rida,
perché soglio aborrir verso gli amanti
il titolo d’ingrata e d’omicida;
de i principi negletti ella si vanti,
mentre a vago stranier l’alma confida;
oggi Arezia la casta è giunta a segno
che per amor lascia la patria e ’l regno.

79Ma sarà del fuggir vano il pensiero,
io vo’ che di mortifero veneno
si porga atra bevanda al prigioniero,
che d’Arezia inesperta accese il seno.
Spento lui, de la fuga autor primiero,
a gli errori d’Arezia è posto il freno;
svanisce col desio la sua partita,
non giunge Amor dove non è la vita -.

80Così parlando entro al suo cor dispose,
e tosto che spuntò la notte oscura,
ch’a l’occulta partita altri propose,
al suo crudo pensier volse ogni cura.
Ne l’usata bevanda ella ripose
di mortifero tosco atra mistura,
il vaso n’empie et a colui lo rende
da la cui man Darassa il cibo prende.

81Quinci gode tra sé perché in brevi ore
spera ch’estinto cada il prigioniero,
e che poi, del fuggir spento l’autore,
non fugga più l’amato suo guerriero.
Crebbe la notte, e di profondo orrore
sparse la terra opaca e l’aer nero,
e ’l carcerier diè con l’usata cena
a Darassa il venen di Belsirena.

I guerrieri fuggono come stabilito, Belsirena gli manda contro i propri campioni (82-93)

82Beve il tosco Darassa e si conforta
di lasciar con Arezia il grave albergo.
Giunge l’ora prefissa, apre la porta
Arezia, e a la prigion volgono il tergo;
esce prima Darassa e fa la scorta
cinta del ferreo adamantino usbergo
che le avea dato Arezia allor che aperse
l’uscio odioso e libertà le offerse.

83Qual da chiuso serraglio esce superba
tigre lunga stagione ivi ristretta,
e con torvo occhio e con sembianza acerba
seminando furor sparge vendetta,
tale in vista feroce ella riserba
spirti guerrieri e ’l passo a l’opre affretta,
e non teme, or che vibra il ferro antico,
inganno occulto et impeto nemico.

84Scendono insieme a la prigion più bassa
e sciolgono da i lacci i prigionieri,
e prendono la via dove il mar passa
per far quinci ritorno a i liti iberi.
Lieta fratanto ad osservar Darassa
Belsirena volgea gli occhi e i pensieri,
e ad or ad or con ansioso viso
attendea di sua morte il caro avviso.

85Ma in vece di sua morte ascolta e vede
fuggir con essa i prigionieri amanti,
e scorge il suo guerrier volgere il piede
più veloce d’ogni altro a i tetti odiati.
Freme, prega, minaccia, e piange e chiede
consiglio, aiuto a i suoi campioni armati.
Vuol restar, vuol seguir, spera e diffida,
tutto vuol, nulla fa, supplica e grida.

86«O schernite speranze! A che si bada?
Su, movete, o guerrier, l’armi e lo sdegno.
Dunque tornando a la natia contrada
vanteranno costor vinto il mio regno?
Correte, combattete, estinto cada
l’iniquo autor del perfido disegno;
vo’ che mora egli solo, e gli altri tutti
ne l’antica prigion siano ridutti»,

87disse, e tosto volaro impazienti
i seguaci guerrier contra i prigioni,
con quel furor ch’a dissipar gli armenti
sogliono uscir famelici leoni.
Ma si rivolse, e l’armi e l’ire ardenti
Darassa fulminò contra i campioni
di Belsirena, e intrepida sofferse
d’assalto numeroso armi diverse.

88Si confonde la mischia e la feroce
a Corcusse di Lepti apre la gola,
mentre per minacciarla alza la voce
e la vita gli tronca e la parola.
Spinge quinci di punta il ferro atroce
et al crudo Ussiman l’anima invola
dal sen trafitto, e ’l misero abbandona
le promesse del padre e la corona.

89Questi nacque d’Euronte, il qual tenea
di Tunisi lo scettro, e che domato
da la rigida età che l’opprimea
offerse al caro figlio il regio stato;
ma quei, che già per Belsirena ardea,
avea l’impero e ’l genitor sprezzato,
onde a ragion qui disperato more,
inabile a regnar servo d’amore.

90Mentre ardea la tenzon ricorre Hernando,
ch’è disarmato, a la vicina stanza,
per trovare opportuno usbergo o brando
et in guerra tornar con più baldanza.
Qui la spada pendea del gran Ferrando,
che di vincer gl’incanti avea possanza,
e questa Hernando prende e corre ardito
ove il duro consiglio era innasprito.

91Quattro n’opprime in su la prima giunta,
che lor sciagura innanzi a lui presenta,
duo feriti di taglio e duo di punta,
la metà moribonda e l’altra spenta.
Dove la turba iniqua è più congiunta
più veloce e più lieto egli si avventa,
e qual di vil colombe avido augello
fa degli empi guerrier aspro macello.

92Tolte avea l’armi a un cavaliero estinto
Consalvo intanto, e fra il nemico stuolo
anch’ei pieno di sdegno erasi spinto
e duo spenti ne avea d’un colpo solo.
Mirava d’atro sangue il suol dipinto
Belsirena, e piangea d’ira e di duolo,
mentre, fatto già chiaro, il nuovo giorno
le scopria fra le stragi il proprio scorno.

93«Dunque, misera turba e prigioniera»
grida «di nostre palme andrà superba?
E farà di potente armata schiera
lagrimosa ruina e strage acerba?
Del libico valor la gloria altera
a quale opra più degna il ferro serba?
Se il vostro onor, se il nostro amor vi alletta
fuggiranno costoro? Ah no, vendetta.

Hernando, che ha la spada di Ferrando, libera per caso Elvira, tenuta in una stanza incantata da Alchindo (94-98)

94Da quei detti pungenti il cor trafitto
si trasse innanzi e si mostrò Campsone,
che di sangue real nacque in Egitto,
Belsirena adorò lunga stagione.
Alza la spada e sovra il braccio dritto
fère Hernando, che mira altra tenzone;
si volge al colpo e a la vendetta Hernando,
tuona la voce e folgoreggia il brando.

95Non sofferse del ferro e del sembiante
la minaccie Campsone e la ruina,
ma col piede e con l’animo tremante
a la stanza fuggì ch’era vicina.
Questo era il loco ove incantata avante
giacque immobile Elvira, e qui destina
l’arte d’Alchindo che ciascun che tenti
posarci il piede immobile diventi.

96Appena dunque in su le soglie estreme
de la stanza incantata innoltra il piede,
il fugace Campson, che perde insieme
i sensi e ’l moto, e più non ode o vede,
con la spada e col grido Hernando il preme
e ’l giunge alfine, e ne le spalle il fiede;
il ferro sanguinoso entra nel tergo,
e spunta da le coste e da l’usbergo.

97Posa quinci la punta a caso Hernando
nel pavimento, e cessa il fiero incanto,
cui la spada fatal del gran Ferrando
dissipò la possanza e tolse il vanto.
A la virtù del glorioso brando
ritorna in sé la bella Elvira intanto,
e racquista i discorsi e i sensi usati
che già l’arte d’Alchindo avea turbati.

98Al folgorar di quei begli occhi alteri
rimane Hernando attonito e conquiso,
e l’idolo fatal de’ suoi pensieri
mira, tremante il cor, pallido il viso.
Ma il tumulto de l’armi e de i guerrieri
ch’ognor s’avanza infra lo stuol diviso,
richiamò l’alma sua da lui partita,
che in estati amorosa era rapita.

Arnaù muore: aveva avvelenato il cibo già avvelenato di Darassa, annullando l’effetto del primo filtro (99-102)

99Ritorna dunque ove la pugna ardea,
e lo segue non lunge Elvira bella,
e trova che Arnaù ferita avea
ne l’omero mancin l’alta donzella.
Non di dolor, ma di furor fremea
Darassa, e vendicò l’onta novella:
d’una punta nel sen, che sparse il sangue,
Arnaù cede vinto e cade esangue.

100Cade il meschino e grida: «O tu, che sei
de le perdite mie contento appieno,
morto pagherai tosto i danni miei,
poiché il tosco letal chiudi nel seno:
senza ch’altri il sapesse io ti mescei
ne l’usate vivande atro veneno.
Piangerai dunque, Arezia, il tuo consorte,
io godrò nel tuo mal de la sua morte».

101Qui tace, e spira, e così fu palese
che, poiché favellò con Belsirena,
spinto Arnaù da l’ira il tempo attese
che portata a Darassa era la cena,
tra gl’incauti custodi il braccio stese,
e le vivande tacito avvelena,
sperando che restasse in guisa tale
dissipato l’amor, spento il rivale.

102Ma, sia fortuna o sia voler di Dio,
da le cui leggi la fortuna pende,
differente un velen l’altro impedio,
ne l’uno il giel, ne l’altro il caldo offende.
Quinci fu d’Arnaù vano il desio,
quinci invan Belsirena il frutto attende
del suo tosco letal, quinci a la prova
che giovan duo veleni il caso approva.

I guerrieri giungono a la barca e fuggono. Belsirena disperata impreca contro l’amante e si getta dalla rupe (103-119)

103Poiché tutti languìr morti o feriti
di Belsirena i cavalieri amanti,
s’incamminaro i prigionieri a i liti,
cui fe’ scorta fedele Arezia avanti.
Su il rapido battel tosto saliti
a gara flagellàr l’onde sonanti
co i remi fuggitivi, e diero il tergo
de l’empio mago a l’odiato albergo.

104Vide la fuga, e pianti e preghi in vano
sparse per impedire il lor disegno
l’afflitta Belsirena, e con la mano
fece al sen, fece al crine oltraggio indegno.
Quinci a l’alto balcon, che di lontano
scopriva i naviganti e ’l salso regno,
rapida corre, e quindi impaziente
spiega pe l’ampio mar l’occhio dolente.

105Già che dato non è seguir col piede,
almen lo sguardo al caro amante invia,
e per quanto il battello in mar si vede
volano gli occhi dove il cor desia;
tanto alfine al discorso il pianto cede
che il dolore a la voce apre la via,
e la misera donna in questi accenti
le sue pene distingue e i suoi lamenti:

106«Crudel, vita io ti diedi e tu mi uccidi?
Dunque per cortesia morte si rende?
Io piansi del tuo mal, tu di me ridi?
Queste sono d’amor giuste vicende?
Dunque barbari sono i nostri lidi,
ove d’uno stranier cura si prende,
e in Spagna, ove si applaude a gentilezza,
amor si sdegna e servitù si sprezza?

107L’africana empietà reca salute?
Spagna, in vece di grazie, odio ritrova?
Mira di strana incognita virtute
vanto prodigioso e gloria nova:
ingrato offendi e perfido rifiute
chi ti ama, chi ti serve e chi ti giova?
I tesori ti porsi, il cor ti apersi,
crudel, che mi restò che non ti offersi?

108Questa beltà, che tai guerrieri e tanti
trasse, qualunque sia, da varie parti,
sai pur che con sospiri, offerte e pianti
soggiogata da te giunse a pregarti.
Quella, che procurar sì degni amanti
d’acquistar con mille opre e con mille arti,
cadde a i tuoi piedi e serva tua divenne,
diè vita e chiese amore e non l’ottenne.

109Ma vanne pure, e ne la patria terra
numera fra i tuoi pregi i miei dolori.
Forse che pagherai giungendo in guerra
con la tua morte i miei negletti amori,
o forse il giusto Ciel, che mai non erra,
sommergerà dentro a i profondi orrori
del cupo mar prima che in Spagna arrivi
te, che uccidi colei per cui tu vivi.

110Già congiurati al tuo naufragio i venti
armano contra te le nubi e l’onde,
già piombano dal ciel folgori ardenti
e le fiamme con l’acque il mar confonde.
Siano sorde le stelle a i tuoi lamenti,
fuggano i porti e manchino le sponde,
cessi ogni aiuto e sia di te perverso
il legno, il corpo e ’l nome ancor sommerso.

111Misera me, che parlo? Ove mi tiri
con superbe querele ingiusto sdegno?
Cedete, o di furor ciechi desiri,
cessa d’alma ferina empio disegno.
Son beate le lagrime e i sospiri
che tragge dal mio core amor sì degno;
vivi, e ritorna al patrio suol bramato,
o caro, benché crudo e benché ingrato.

112Va’ pure, e vivi e godi in lunga pace
di più felice donna i dolci amori,
e non spenga giamai cura mordace
di gelosia, di sdegno i lieti ardori.
Io, già ch’al Cielo e già ch’a te sì piace,
resterò, vivrò solo a i miei dolori,
fiero dolor, ma che mi è caro in quanto
da sì bella cagione esce il mio pianto.

113Ma che brami, che pensi o Belsirena?
Tu negletta, tradita, abbandonata
goderai per chi gode a la tua pena?
Questa è viltà, ma non pietà chiamata.
Tu resterai sovra quest’erma arena?
Egli andrà, goderà la nuova amata,
e tu gli applauderai? Prieghi salute
a chi morte ti dà? Questa è virtute?

114Ah, che questa è viltà; su dunque ardita
scaccia dal nobil cor l’affetto indegno,
sprezza il Ciel, sprezza Amore, sprezza la vita,
sol t’infiammino il sen vendetta e sdegno.
Ma chi porge consiglio o presta aita
per sfogar contra l’empio il fier disegno?
Ahi, che mentre mi dolgo e il duol mi strugge,
io piango in vano e il traditor sen fugge.

115Ma che? Ti seguirò sin ne l’Inferno,
più tosto ch’esser viva e invendicata.
Vo’ morir, vo’ seguir con sdegno eterno
l’orme tue fuggitive ombra dannata.
Venite a secondar, Furie d’Averno,
da le furie d’Amor l’alma agitata;
vo’ gettarmi nel mar, vo’ diventare
a i danni del crudel Furia del mare.

116Sarò Furia del mar, contra il superbo
moverò, spingerò turbini e venti,
e vedrò nel suo mal con strazio acerbo
vendicati i miei danni e i miei tormenti.
Venite, o dèi d’abisso, a voi riserbo
quest’albergo; venite, e a che sì lenti?
Al mare il corpo, a i demoni si aspetta
quest’albergo e quest’alma; o dèi, vendetta».

117Così disse, e nel fin di tai parole
spinta dal suo furor lanciossi in mare,
che la rinchiuse entro l’ondosa mole
e del bel pegno ingelosito pare.
Così nel mar tramonta il nuovo sole,
così nel mar Venere nuova appare,
né potea minor caso e minor loco
coprir tanta bellezza e tanto foco.

118Vennero intanto al suo parlar costretti
i demoni veloci, e d’ogni intorno
occupàr l’ampie mura e gli alti tetti
del bel giardino e del palagio adorno.
Le nuvole e i vapori indi ristretti
turbaro il cielo et offuscaro il giorno,
e d’ombra e di caligine al gran monte
copriro il tergo e circondàr la fronte.

119L’altera cima e le superbe mura
folta nube perpetua altrui nasconde;
splendono i lampi infra la nebbia oscura,
che con alti ruggiti il tuon confonde.
Tal fino a questa età l’incanto dura,
vede il monte chi giunge a quelle sponde
e ’l chiama da i ruggiti onde risuona,
con vocabolo ispan, Serra Leona.