ARGOMENTO
Giungon l’armate a fronte e a la tenzone
escono quinci e quindi apparecchiate.
Iside a sciorre i venti Eolo dispone,
onde l’acque del mar siano agitate;
cedono a l’ire d’Austro e d’Aquilone
e nei porti vicini entran l’armate.
I venti scaccia e de gli estensi egregi
Proteo sorto da l’onde annunzia i pregi.
L’armata di Ottaviano giunge a un giorno di distanza da Azio, Antonio teme per le sorti della battaglia e pensa di portare la guerra a terra (1-6,4)
1Così il veglio ragiona, e a le parole
altamente d’entrambi il cor sospende,
e perché già con l’aureo carro il sole
a l’atlantico mar rapido scende,
rientrata nel tempio il nume cole
e dal saggio indovin congedo prende
la coppia, e co’ seguaci indi ritorna
ove ne l’azio sen l’oste soggiorna.
2Cesare intanto radunate avea
le squadre d’Occidente ove l’armata
di Taranto nel mar sparsa attendea
l’ora ch’a l’alta impresa è destinata.
Quinci, perché d’Antonio inteso avea
che l’oste ne la Grecia era assembrata,
scioglie i lini al soffiar d’aure soavi
onde i cerulei campi aran le navi.
3Passa gli Acrocerauni, indi Corcira,
e vede gli Arcanani al mar vicini,
e calpestato già freme e s’adira
l’Ionio al peso de’ guerrieri pini.
Pindo a sinistra e di Tessaglia mira
poco lontani i fertili confini,
e vede, armati il crin di duro gelo,
Pelio et Ossa cozzar quasi co ʼl cielo.
4Lascia adietro Ericusa, e poi la foce
onde il torvo Acheronte a l’oceano
dal palasgio terren corre veloce;
resta Giacinto in vèr la destra mano,
indi s’avanza, e con festiva voce
l’azio sen, che vedea poco lontano,
saluta, e scopre de’ nemici legni
benché indistinte ancor l’antenne e i segni.
5Di Cesare l’armata intanto vede
Antonio, e de le navi e de le genti
e la virtute e ʼl numero richiede,
e spia le forze loro e gli andamenti,
e da nunzio secreto ode e prevede
che de l’alba novella a i rai nascenti
fia la nemica poderosa armata
per sfidarlo a la pugna apparecchiata.
6Quindi l’irresoluto egizio amante
rimembra ciò che ʼl veglio avea predetto,
e gli par ch’un orror non mai più innante
conosciuto da lui gl’ingombri il petto.
La donna in tanto, a cui nel sen tremanteCleopatra soffre ancora di gelosia, chiede ad Antonio di non rifuggire la pugna navale: Antonio, impietosito, accetta (6,5-28,4)
tiranneggiava il cor timido affetto,
sollecita s’aggira, e in sé raccolta
molto osserva, assai chiede e tutto ascolta.
7Et ecco alfin novella acerba e dura
il cor pungendo a le sue orecchie arriva,
e scopre a lei che ʼl suo fedel procura
fuor de le navi esporla in su la riva,
poiché ardente d’amor gelosa cura
in lui tema eccitando intempestiva,
persuaso gli avea su ʼl vicin lido
di ricondurla a più sicuro nido.
8Ode ancor ch’a fuggire altri il conforta
la battaglia naval poco opportuna,
e che in prova miglior tentar l’esorta
con terrestre tenzon la sua fortuna.
Dogliosa nuova tal la donna accorta
ogni studio ripensa, ogni arte aduna,
per far ch’a sua richiesta il cavaliero
com’ella più desia cangi pensiero.
9Si copre a l’or di pietosa veste
cui d’un bel rancio aureo colore indora
in quella guisa ch’al balcon celeste
con la fronte di minio esce l’aurora,
da menfitica man le fila inteste
ago d’Assiria industrioso infiora
di superbi ricami, e in bei lavori
versa prodigo in lor le gemme e gli ori.
10Diviso è il ricco manto ove ricopre
il braccio a lunghi fregi, e a l’occhio altrui
offre il candido lin che i membri copre
ond’è tolta in candor la palma a lui.
Cinto di sottil velo il sen discopre
con insolita pompa i pregi sui,
e sotto il velo trasparente e lieve
miransi biancheggiar colli di neve.
11Stringe in parte la chioma, e mulo al manto,
serico nastro e d’aurei fregi adorno,
che le treccie dorate ergendo alquanto
quasi corona a lor s’avvolge intorno.
Pendon parte in anella in ogni canto
i capelli ond’ha l’ambra invidia e scorno,
e gli ha di varie piume e fior diversi
la bella man vezzosamente aspersi.
12Ricche perle eritree doppio monile
fanno a la bianca e delicata gola,
onde in paraggio l’alabastro è vile
ch’a le perle medesme il pregio invola.
Ride ne le sue guancie un lieto aprile,
ogni moto innamora, ogni parola,
ruotansi lascivetti in vaghi giri
de’ suoi begli occhi i tremoli zaffiri.
13Tal se n’andò dove sospeso a l’ora
i dubbi affari Antonio in sé volgea,
e in volto languidetta a chi l’adora
con soave parlar quindi dicea:
«Scusami tu s’a te importuna ancora
mi spinge a favellar fortuna rea,
e tu che ʼl tutto intendi e ʼl tutto reggi
del mio parer ciò che ti pare eleggi.
14A la battaglia Ottavio in mar ti chiama,
e non puoi tu senza che resti offesa
del tuo valor la gloriosa fama
schivar l’invito e differir l’impresa,
né lice a te, se pur da te si brama,
il modo rifiutar de la contesa,
or ch’a fronte d’Ottavio hai tu già tutto
il tuo potente impero in mar ridutto.
15Se la tenzon prolunghi affermi insieme
al marittimo agon d’esser men forte,
e de’ popoli sai quanto a la speme
de l’impero del mar la gloria importe.
Mezzo non lascia infra le cose estreme
o di buono o di reo l’ultima sorte,
e vano è il differir se del furore
sia ne l’impresa il dimorar peggiore.
16Siamo in luogo, signor, dove a i nemici
ponno sumministrar le genti e ʼl vitto
d’Italia agevolmente i lidi amici,
cui disgiunge di qua breve tragitto,
ma per noi l’asiatiche pendici
e le spiagge africane e de l’Egitto
troppo lunge le fertili contrade
ragunano soldati e mieton biade.
17Ch’io poi da te, da te mio cor partita
deggia mirar da lunge il tuo periglio
ciò fora a me, c’ho solo in te la vita,
dispietata pietà, crudo consiglio.
Sarà lieve il dolor d’ogni ferita
in paragon di così duro esiglio,
et ove t’allontani a gli occhi miei
una morte in fugir mille n’avrei.
18Soffri, signor, che qual già dianzi io fui
teco a parte sia ancor de la tua sorte,
che teco goda de’ trionfi tui,
ch’io sia ne la vittoria a te consorte,
o se, tolgalo il ciel, perderem nui
che qual in vita io t’accompagni in morte,
e che l’anima mia nel punto istesso
ne’ tuoi labri spirar mi sia permesso.
19Forse potrà dentro il mio petto ignudo
spuntarsi il ferro ostil pria che ʼl tuo fieda,
onde del sangue mio barbaro e crudo
sazio non fia che bere il tuo richieda.
Oh felice destin se d’esser scudo
a la tua vita il cielo a me conceda
se ʼl sangue per te sparso ottenga a noi
una lagrima sol da gli occhi tuoi».
20Tace, e di pianto innessicabil vena
versa da’ lumi e co ʼl guerrier s’abbraccia,
che i sensi rintuzzando il pianto appena
reprime, e la raccoglie entro le braccia;
indi risponde: «Ah cessa, e rasserena,
solo mio sol, l’addolorata faccia,
che pendendo da lei la vita mia
mesto io vivrò s’ella turbata fia.
21Non è viltà se cauto io non commetto
la mia sorte, il mio campo a gli Euri, a l’onde,
e s’adopro la destra e s’offro il petto
colà dove il valor non si nasconde.
Ivi l’onor de la vittoria aspetto
da la propria virtute e non altronde,
là pugnerò dove non ha fortuna
co ʼl suo indegno favor possanza alcuna.
22Tu n’anderai fra tanto ove sicura
da l’ingiurie nemiche esser ti miri,
poiché di salvar te mia prima cura
in cui tutti ho riposti i miei desiri.
Tu me in te stessa conservar procura
poich’io solo respiro ove tu spiri,
e in periglio simil deh non ti caglia
che ʼl mio consiglio al tuo desio prevaglia».
23Qui tacque, e scolorando essa le rose
dal nativo color fatta diversa,
in cotal guisa al cavalier rispose,
d’un leggiadro pallor nel volto aspersa:
«Dunque dopo sì lunghe e faticose
prove d’amica sorte e di perversa
non credi ch’addolcir potessi il fato
spirando nel tuo sen l’ultimo fiato?
24Per me saranno avventurose e grate
le mortali ferite ove benigno
tu mi raccolga in fra le braccia amate
il tiepido a versar spirto sanguigno.
Ma sì strane sciagure e dispietate
non averrà che piova il ciel maligno
su i nostri capi, e vuo’ ch’amici e lieti
ci crediam de gli dèi gli alti decreti.
25Nel mar da noi si pugni, e l’onda sia
d’Ambracia ampio teatro al tuo valore,
speriam felici eventi e la natia
virtù c’infiammi il generoso core.
Tu godi pur, ch’ove fortuna ria
si mostri a noi, non otterrà l’onore
alcun però de la tua donna, ch’essa
lieta trionferà sol di se stessa».
26Così diss’ella, e lagrimosa in volto
con affetto pietoso un guardo scocca,
onde il cor del roman, che ne fu colto
d’amorosa dolcezza ebro trabocca.
Come da i ceppi di cristallo sciolto
sen fugge il rio se tepid’aura il tocca,
così al dolce parlar sente il guerriero
il proposto svanir sensi primiero.
27Il pianto asciuga, e consolar procura
l’innamorata donna, e dice a lei:
«Si pugni ove a te piace e sia tua cura
regolar co ʼl tuo cenno i miei trofei.
Tosto ch’a discaziar la notte oscura
sorga il novello sol da i Nabatei
tu de la tua bellezza, io d’armi adorno
sorgeremo a la pugna a par del giorno».
28A l’amata reina, anzi al destino
che seco il tragge in cotal guisa a l’ora,
vinto s’arrende il cavalier latino
ché ripugnare al fato inutil fora.
Così stettero insin che ʼl mattutinoAll’alba le due flotte si fronteggiano, ma Iside, intuendo dai segni la disfatta degli Egiziani, si reca da Eolo e chiede che scateni una tempesta (28,5-47)
splendor del Gange annunziò l’aurora,
e che lasciate le gelose piume
mille lumi ristrinse in un sol lume.
29Vedesi a l’or che la nemica armata
co ʼl primo albor dal vicin porto uscita
già s’era a la battaglia apparecchiata
in ordine disposta e compartita.
Quinci d’Antonio in mar l’oste schierata,
l’Orto e l’Occaso a la tenzon invita,
e tuonano per l’aria in feri carmi
le sollecite trombe a l’armi, a l’armi.
30Già le navi più scelte e più spedite
da l’uno e l’altro corno impazienti
per dar principio a la sanguigna lite
vèr la fronte correan di sdegno ardenti
quand’a turbar la placid’Anfitrite
sorsero tosto infuriati i venti,
e le molli e pacifiche campagne
divvenner ruinose alte montagne.
31Nel ciel fra gli altri numi Isi sedea,
Isi de’ Tolomei tutrice e madre,
de l’Egitto fecondo amica dea,
inventrice per lui d’opre leggiadre;
or quindi mentre al basso ella volgea
gli occhi mirò de le feroci squadre,
altre serve d’Antonio, altre d’Augusto,
gemer sotto il gran peso il mare onusto.
32Udì il suon de le trombe e vide innante
volar d’orrida strage avidi legni,
e di pennuti strai nembo volante
versar pioggia di sangue a i salsi regni,
e vide ancor ch’a l’uno e l’altro amante
et al divoto Egitto a molti segni,
che lice a lei di preveder, vicina
minacciava già il ciel cruda ruina.
33Dal profondo sospira e in sé discorre
fra dubbiosi pensier modo potente
ond’ella possa i suoi seguaci tòrre
da l’estremo periglio et imminente.
Spera che se l’è dato a l’or distorre
con rimedio opportuno il mal presente,
influenze non più contrarie e felle
ma felici per lor ruotin le stelle.
34Dopo vari pensier risolve alfine
de i venti al regnator chiedere aita,
onde scosse da lui l’onde marine
la battaglia naval resti impedita;
quinci da l’ampie soglie adamantine
de l’eterna magion veloce uscita
lascia i seggi stellanti e l’aria fende,
indi rapida a piombo in giù discende.
35Come talor se da l’eccelsa mole
ch’Adriano innalzò razzi infocati
ad onorar quei ch’ubbidisce e cole
il gran fiume latin sono avventati,
il ciel tutto s’illustra e cangiar suole
i suoi azzuri in bei colori aurati
et a le faci luminose e chiare
di nuove stelle seminato appare,
36Isi cinta così d’aureo fulgore
d’una luce purpurea adorna il cielo,
e già sembra che l’aria innostri e indore
quasi a meravigliosa iride il velo.
Stupido resta a quel novel splendore
che stima emulo suo lo dio di Delo,
tal de’ seguaci suoi la bella dea
stimolata dal zel l’aria correa.
37Giunge a l’isola alfin dove la fronte
quindi Pachin verso l’Ionio innalza,
quinci del mar getulo immota a l’onte
del vasto Lilibeo sorge la balza,
l’onda tirrena di Peloro il monte
colà per flagellar tumida sbalza,
e ʼl carcere sdegnando ov’è ristretta
co’ fremiti minaccia alta vendetta.
38Qui tra l’aduste rupi il capo estolle
dei trofei de’ giganti Etna famoso,
e ʼl busto preme in cui fiammeggia e bolle
fra le viscere arsiccie il zolfo ascoso;
quivi Encelado a l’or ch’irato e folle
scote il sublime etneo peso odioso
fa l’isola tremare e vacillanti
titubar le città fra mura erranti.
39L’alta cima del monte altrui sol lice
con l’occhio di tentar, s’adorna e veste
il rimanente insino a la radice
di virgulti, di prati e di foreste;
quindi è ch’alquanto in su l’etnea pendice
l’immortal peregrina il piede arreste,
indi lasciata la Sicilia a tergo
ratta discende in vèr l’eolio albergo.
40Sorge nel mar Tirreno un’isoletta
che da molt’altre è coronata intorno,
ha l’Italia da i fianchi et è diretta
verso colà onde n’appare il giorno.
Del monte vede ov’ha la stanza eletta
il zoppo fabbro, il crin di fiamme adorno,
e de i Ciclopi affumicati e nudi
ode a i colpi sonar le ferree incudi.
41Di lucido metallo eccelse mura
de l’isola cingean la trita arena,
nel cui cinto giacea vasta pianura
u’ né pianta né colle il guardo affrena;
solo una rupe adamantina e dura
quivi de la superba orrida schiena
su le sassose et elevate cime
di bronzo sostenea rocca sublime.
42Eolo quivi alberga, e quivi ha il regno
sopra l’atre tempeste e sopra i venti,
e con lo scettro ei placa e tiene a segno
del feroce drapel le furie ardenti.
Con minaccioso mormorio di sdegno
fremono essi, del giogo impazienti,
rimbomba il sen del monte a le percosse
de i lor muggiti e a le catene scosse.
43De l’eolia magion l’altere soglie
entra d’Inaco a l’or la bella prole,
e pervenuta innanti al re discioglie
dolcemente la lingua in tai parole:
«Chiara stirpe di Giove, a le cui voglie
il mar s’inchina e la terrena mole,
e per cui sol su gli assi il ciel si gira
de l’indomito stuol sicuro a l’ira,
44già nel golfo d’Ambracia aspra tenzone
fra l’armata d’Egitto e la latina
s’accende, e già nel periglioso agone
veggo de’ servi miei l’alta ruina.
Or tu da i ceppi lor Noto e Aquilone
dislega ad agitar l’onda marina,
e in tal guisa a i lor fossi ella si turbe
che la pugna non segua e si disturbe.
45De le ninfe del Nilo a te prometto
la più leggiadra in premio a la fatica,
tu la godrai contento e del tuo letto
sarà, qual più vorrai, consorte o amica.
Meco il tempio commune avrai eretto
del mobil Faro in su la spiaggia aprica,
ove fien da gli Egizi a te sospesi
i voti, arsi gl’incensi e i lumi accesi».
46Iside così disse al re de’ venti,
et egli sorridendo a lei rispose:
«O bella dea, da le cui fiamme ardenti
né pur Giove sicuro in ciel s’ascose,
il cui savere e l’arti e gli alimenti
primo del Nilo a gli abitanti espose,
a te pregio maggior de gli altri dèi
che non offrire, e che negar potrei?
47Io scioglierò da i lacci adamantini
e Borea e Noto, e da gli ondosi regni
farò de i salsi e liquidi confini
de la potenza mia provin gli sdegni.
S’impedirà la pugna, e ne i vicini
porti ricovreranno erranti i legni;
ma che più tardo? Or tu mi siegui, e meco
vien nel sotterraneo orrido speco».
Eolo scioglie Borea e Noto, le due armate sono costretta a prender porto (48-59)
48Così ragiona, e con la dea s’interna
nel cavo sen de le sassose rupi,
e giungon dove giace ampia caverna
fra precipizi tenebrosi e cupi.
Sopra lo speco, ov’è la notte eterna,
sorgon le balze scoscese, alti dirupi,
e s’ode uscir da la spelonca un suono
con orrendo rimbombo emulo al tuono.
49Quinci da via secreta alfin condotta
la coppia fu dov’ella scorse irati
fremere i venti ne l’orribil grotta
fra i ceppi di diamanti incatenati.
Furo quei chiostri ove mai sempre annotta
da la dea risplendente illuminati,
ond’essi ponno rimirare il sito
de l’antro, che in più stanze era partito.
50Con torvo sguardo e minaccioso aspetto
fu nel chiostro primier Borea veduto,
a cui gli omeri alati e ʼl freddo petto
d’ogni intorno cingea cristallo acuto.
In durissimi globi accolto e stretto
l’atra bocca spargea lucido sputo,
bianche nevi scotea l’ispido crine,
da la barba cadean gelide brine.
51Ne la stanza seconda è Noto avvinto
fra duri lacci, e gli circonda il volto,
d’una oscura caligine dipinto,
velo di fosche nubi umido e folto.
Ne la fronte ha la nebbia, e grave e cinto
porta d’orridi nembi il crine incolto,
da le penne e dal mento in strana foggia
con rauco mormorio stilla la pioggia.
52Più dentro poi ne la caverna oscura
stanno con gli altri venti et Euro e Coro,
ma penetrar più innanti il re non cura,
ch’a i duo si volge, e così dice a loro:
«Ite, o del regno mio speme sicura,
o terror di Nettuno ond’io m’onoro,
itene ove d’Ambracia il mar rimbomba
a la latina et a l’egizia tromba.
53Colà d’Azio nel seno or voi sfogate,
miei fidi, in guisa tal l’ire e le posse
che la pugna si turbi e le duo armate
si ritirin da voi battute e scosse».
Qui tacque, e le catene indi slegate
con lo scettro fatal tosto percosse
la rupe, a l’or ne la spelonca alpestra
improvisa s’aperse ampia finestra.
54Quali sogliono uscir dal cupo orrore
del Tartaro profondo e di Cocito
Tesifone e Megera il lor furore
a versare, a sfogar su ʼl nostro lito,
tai sembraro da l’antro in uscir fuore
del lor rege temuto al primo invito
le duo furie del mare, e tosto udissi
rimbombar l’ima terra e i ciechi abissi.
55Di foltissime nubi orrido velo
contra i raggi del sol quindi congiura,
e fa ch’usurpi in un momento il cielo
a dispetto del dì notte immatura.
Scende stretta la pioggia in duro gelo,
splende l’aria a i balen di luce oscura,
de i venti il gran furor vie più s’infiamma,
cangiasi in acqua il cielo, il mar s’infiamma.
56Lo strepitoso e formidabil tuono
scorre di Giuno i tenebrosi campi,
ch’ad ora ad ora illuminati sono
da la luce de i folgori e de i lampi.
Esce da l’onde scosse orribil suono,
già par che il cielo e par che ʼl mare avvampi,
e quinci Noto e Borea indi confonde
il ciel co ʼl mar, le nuvole con l’onde.
57De’ torbid’ocean gli muggiti,
i gemiti e le strida in ogni parte
a gli esperti nocchieri et a gli arditi
togliono co ʼl vigor l’uso de l’arte.
Vedi de’ legni in mar rotti e sdrusciti
dispersi i remi e lacere le sarte,
e superba agitar l’ondosa Teti,
trionfo infausto, i temerari abeti.
58Ne le sciagure altrui lieto godea
l’un vento e l’altro, e in fellonia di sdegno,
e doppiando il soffiar gli assi scotea
onde di Giove è sostenuto il regno.
Cedendo a l’ora a la procella rea
l’armate, e differito il lor disegno,
del paese vicin ne i porti entraro
e da l’ira del mar si ricovraro.
59Nel regno di Nettun turbato e scosso
in cotal guisa insuperbiano i venti
e de gli oltraggi il mar tumido e grosso
doleasi, e i suoi muggiti eran lamenti,
con fier rimbombo rispondea percosso
il lido a le marine acque frementi,
e come sian cagion de le procelle
l’onde batteano ad or ad or le stelle,
Proteo sorge dalle acque e ferma i venti, poiché è destino che Ottaviano vinca: da lui discenderà, infatti, la casa d’Este (60-77)
60quand’ecco a l’improviso il mar s’aperse,
e Proteo dal profondo orrido seno
sovra un carro sublime a l’or s’offerse
che in vece di destrier foche traieno.
Avea ceruleo il crin, folte e diverse
conchiglie il tergo e ʼl petto a lui coprieno.
Sorto che fu ne i venti il guardo affisse
il fatidico vecchio e così disse:
61«E chi v’affida, e chi vi rende arditi,
o forsennati, ad agitar l’impero
del mio gran padre? e de i prefissi liti
chi vi spinge a turbar l’ordin primiero?
Tornate a gli antri onde già sète usciti,
nel vostro albergo solitario e nero,
o temerari; a che prendete a scherno
ciò che fisso ha nel ciel decreto eterno?
62Destinato è nel ciel che vincitrice
sia l’armata d’Augusto, onde poi tutto
sotto lo scettro suo grande e felice
sia il mondo tributario alfin ridutto;
da i poggi iberi a l’indica pendice
e dal fervente a l’agghiacciato flutto
sarà il nome d’Augusto in ogni lito
da i popoli temuto e riverito.
63Ne’ libri del destino i sommi dèi
hanno scritto lassù ch’inclita prole
nasca da lui, che innalzi i suoi trofei
e dove sorge e dove cade il sole.
Fia ch’a gli ultimi Sciti, a i Nabatei
l’aquila sua vittoriosa vole,
e che di sue virtù famose e belle
siano al gran nome sol meta le stelle.
64Questa pria de l’eccelsa alta vittoria
ch’otterrà nel mar d’Azio il grande Augusto
a perpetua e chiarissima memoria
d’Azia avrà in sorte il bel cognome augusto.
Quanti su ʼl Tebro mai ricchi di gloria
eroi fiorìr nel secolo vetusto
ella rinoverà, quando al suo fine
fia che ʼl mondo cadente omai decline.
65Et a l’or poi che barbaro furore
avrà il Lazio trascorso e depredato,
del nemico destin non al valore
cederà Caio in più sicuro lato,
e nel crescente universal terrore
sarà principe eletto e salutato
dal popol d’Este, ond’egli a i suoi primeri
darà il cognome e fonderà l’impero.
66Verrà dopo costui d’invitti eroi
nobilissima serie avventurosa,
onde vanti l’Italia i pregi suoi,
fatta per lor più chiara e più famosa.
Per loro in altra età diverrà poi
la Germania superba e gloriosa,
e porranno, colà traslati, il freno
a l’Albi altero, a l’indomabil Reno.
67Premerà de la grande estense reggia
nuovo Cesare alfin la nobil sede,
e fia che padre e che signor lui veggia
il popolo commesso a la sua fede.
In lui santa innocenza avrà la seggia,
per lui fia che rivolga addietro il piede
Astrea già fuggitiva, e che prudenza
congiunga co ʼl rigor saggia clemenza.
68Fia che stupido il mondo osservi e mostri
del gran padre maggiore il figlio appresso,
Alfonso calpestar gli scettri e gli ostri,
vincitor del suo regno e di se stesso.
Scorra de l’Asia i più remoti chiostri,
prema l’Indo sconfitto, il Perso oppresso
per saziar l’insaziabil fame
altri mondi Alessandro avido brame,
69questi più saggio a la real fortuna
volgerà il tergo, e in solitaria cella
avrà, nuova Fenice, in nobil cuna
dal cenere del manto alma più bella.
Non turberà il suo cor cura importuna,
sarà in povero ciel lucida stella,
e farà gli antri opachi e i muti orrori
insuperbir di regi abitatori.
70De la pianta real germe ben degno
di sì gran genitor figlio primiero
verrà Francesco, e sosterrà del regno
con la tenera man lo scettro altero;
preverrà gli anni, e con maturo ingegno
fia che veglio garzon regga l’impero,
e che supponga gli omeri costante
a la soma fatal giovane Atlante.
71Magnanima prudenza, alto intelletto,
parlar facondo e preveder lontano,
congiunto a maestà placido aspetto,
animo generoso, ardita mano,
farsi la gloria e la pietate oggetto
de i sensi raffrenar l’impeto insano
fieno i suoi studi, e in lui fia il minor pregio
l’ereditario scettro e ʼl sangue regio.
72Fia ch’a sposa real quindi l’unisca
con felici imenei pudico amore,
onde prole derivi in cui fiorisca
la fortuna de gl’avoli e ʼl valore.
Non dovrà la futura a l’età prisca
de l’alte imprese invidiar l’onore,
poiché questa avverrà che in lei ravvive
i latini trofei, le palme argive.
73Maria, prole d’eroi, gloria primera
de la Parma e d’Amore il ciel riserva
al bennato garzon, quando a più fera
barbara fiamma accesa Italia ferva.
De gli avi illustri e de’ suoi pregi altera,
emula di Ciprigna e di Minerva
vedralla il mondo, e fia ch’ammiri in essa
de la fortuna sua maggior lei stessa.
74Godrà co ʼl chiaro esempio Obizo poi
i vestigi seguir del gran germano,
e sarà de gli Estensi incliti eroi
ornamento primier, lume sovrano.
Di porpora sacrata a i merti suoi
tesserà degno fregio il Vaticano,
e fia che in lui di nuovo il Tebro aditi
lo splendor fiammeggiar de gli ostri aviti.
75Altri figli d’Alfonso et altri insieme
di Cesare verranno appo costoro,
pompa gentil de l’onorato seme,
del secolo cadente alto ristoro.
Ma che più tardo e in breve giro ho speme
di narrar, di spiegar le glorie loro?
Più non lice, ecco già che in Oriente
spunta, nunzio del sol, l’alba nascente.
76Ecco l’alba che seco il dì prefisso
già riconduce a la tenzon navale.
Itene voi, c’hanno gli dèi già fisso
che sia questa a la pugna ora fatale.
Verso l’eolio tenebroso abisso
ite, e spiegate voi rapide l’ale;
che più tentate? a che far più dimora?
dunque al ciel ripugnar sperate ancora?».
77A questi che distinse ultimi accenti
il famoso indovin l’ire frenaro,
e cessato il soffiar, stupidi i venti
de l’estense virtù l’opre ammiraro;
indi a i sacri divieti ubbidienti
vèr l’eolia magion l’ali spiegaro,
e quando essi lasciàr d’Azio le sponde
Proteo s’ascose e si tuffò ne l’onde.