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La Cleopatra

di Girolamo Graziani

Canto VIII

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 25.03.15 10:57

ARGOMENTO
Veggono in mostra ne l’efesia riva
Antonio e Cleopatra il campo armato,
che s’imbarca, e ʼl mar solca e in Azio arriva,
ove il tempio ad Apollo è consacrato.
Quale evento a i gran moti il ciel prescriva
da regio sacerdote è nunziato
quivi al duce latin, cui frenar l’ire
consiglia il vecchio e la tenzon fuggire.

Antonio con il suo esercito giunge ad Efeso, e assiste alla rassegna (1-38)

1Giunti a l’efesio lito i regi amanti
reiteraro a i capitan gl’imperi,
onde d’Asia e di Libia a lor davanti
raccolgano in un campo i vasti imperi.
Quanti bevon l’Oronte e ʼl Nilo e quanti
l’Eufrate e ʼl Tigre e gl’Indiani e i Neri,
o soggetti od amici in loro aiuto
somministrano genti, armi e tributo.

2D’Efeso intorno a le superbe mura
ergon le tende l’adunate schiere,
coprono la montagna e la pianura
le turbe innumerabili guerrere.
De l’or, del ferro a i lampi il sol s’oscura,
scorgi a l’aura scherzar mille bandiere,
mille varie di lingua e differenti
d’abito e di color confuse genti.

3Già l’esercito immenso è radunato
a la fatal rassegna; ordin’a l’ora
Antonio ch’ei si mostri in campo armato
quand’i campi del cielo il sole indora.
Giace opportuno e spazioso prato
d’Efeso a fronte, e volto in vèr l’aurora
quivi al romano et a l’egizia inanti
schierati han da passar cavalli e fanti.

4Ed ecco alfin da l’indiche contrade
co ʼl sen colmo di rose e di viole
seminar di fioretti e di rugiade
l’aurora i campi e far la scorta al sole.
Già la stella d’amor languida cade
e sen fugge la dea ch’Efeso cole,
e già spargon di Febo i corridori
da le infiammate nari aurei splendori.

5Giunta è l’ora prefissa, odesi intanto
e l’arenoso lido e l’ampie valli
risonare al temuto orribil canto
de’ timpani, de i corni e de i metalli.
Sol fremiti e nitriti in ogni canto
s’odon de’ cavalieri e de’ cavalli,
sol vedi aste e bandiere e sol tu vedi
di guerrier, di destrier pomposi arredi.

6Sorge trono sublime in mezzo al prato
da cui s’ergea per cento gradi e cento,
che tessuto fra i Siri ombrello aurato
avea sopra, diviso a fior d’argento;
quasi stelle le gemme in ogni lato
fanno al serico ciel vago ornamento,
copre il solio maggior, ch’è tutto d’oro
pur di porpora e d’or ricco lavoro.

7Su la seggia real siedono insieme
gli amanti, e miran quindi ad una ad una
quante per lor da le riviere estreme
squadre il merigge e l’Oriente aduna.
Musa, quai dura legge e quai la speme
o di preda o d’onore a la fortuna
di Marte a l’or traesse o schiere o duci
or tu ne la memoria a me riduci.

8Prima Bocco l’astuto in guerra mena
quei che vivon là dove al vecchio Atlante,
ch’a sostener le stelle erge la schiera,
bagna il libico mar l’antiche piante;
quanti premon l’adusta e trita arena
Nasamone o Numida o Garamante
da le selve getule ubbidienti
vengon raccolte in un drapel le genti.

9Non ha il campo d’Antonio uomo che vaglia
quanto costui ne l’arti e ne le frodi,
e che sappia trovar ne la battaglia
più vantaggiosi e più sicuri modi.
Altri di forze e di valor prevaglia,
ne l’insidie ha costui le prime lodi:
sa che più giova, e che è d’onor più degno
che ʼl vigor de la man quel de l’ingegno.

10Tolto a i Numidi in su la spiaggia aprica
barbaro corridor sì lieve al corso
che non frange co ʼl piè l’arida spica
frena il rege african con aureo morso.
Gli arma in vece di piastra e di lorica
la pelle d’un leone il petto e ʼl dorso,
porta per elmo di un dragon la testa,
chi serve per cimier l’orrida cresta.

11Segue dopo costui Tarcodoonte,
re de’ Cilici, e con l’orribil faccia,
ove par che Medusa e Flegetonte
traslato abbian l’albergo, il ciel minaccia.
Tal giamai non alzò l’altera fronte
quei che l’armi trattò con cento braccia,
e tal giamai non vide Etna fumante
i folgori sfidar l’empio gigante.

12Stan del Tauro selvoso a le radici
ov’ei carca di giel la fronte innalza
del suo drapel le genti abitatrici
di quell’alpestre e ruinosa balza,
turba che suol sprezzar non che i nemici
la morte istessa, ancorché ignuda e scalza,
e che solo a la destra, a le saette
la speme sua, la sua ragion commette.

13Porta l’armi vermiglie e di serpenti
d’oro tutte consparse il re gagliardo,
e punge un corridore onde de’ venti
in paragon del corso il volo è tardo.
Così fa di sé mostra e par ch’avventi
fulmini di furor dal torvo sguardo,
trema il suol dov’ei passa, e con la vasta
fronte qual scoglio a l’onde altrui sovrasta.

14L’empio Archelao dopo costui sen viene,
uom che legge non cura e dei non crede,
e su l’Eusin ʼvi Capadocia tiene
il regio scettro e la potente sede.
Prive del proprio re le schiere armene
sotto l’insegne sue muovono il piede,
e lascian per seguirlo inabitate
le campagne ch’irriga il grand’Eufrate.

15Arma l’empio di tigre in riva l’onde
del caspio sen nudrita ispida pelle,
candida sì ma che ʼl candor confonde
di negre non sai di se macchie o stelle.
Tolto del mare a le famose sponde
a cui nome già diè la timid’Elle
baio preme un destrier, che ʼl fianco e ʼl dorso
mostra asciutto di carne e lieve al corso.

16Ecco poi Filadelfo effeminato,
tra le delizie solo e tra gli amori
agli ozi di Ciprigna avvezzo e nato,
non di Marte a i perigli et a i sudori.
Gli fiammeggia diadema aureo e gemmato
su la chioma, che spira arabi odori,
e ʼl brando che ritorto al fianco pende
d’adamanti, di smalto e d’or risplende.

17Sprona un destrier che inghirlandato e pieno
ha di nastri e di fiori a mille a mille
il lungo crine, e c’ha dorato il freno,
copron le ricche barde e fregi e squille;
egli reggea quei che lasciate avieno
di Paflagonia le remote ville,
che finitime al Ponto et al Bitino
son bagnate da l’Ali e da l’Eusino.

18De l’arti ignote studioso e vago,
non lunghi da costor vien Mitridate,
e guida a l’assemblea, guerriero e mago,
de’ Comageni le falangi armate.
Sciocco ingegno mortal, come presago
osi d’entrar ne la futura etate
se veder, se fuggir non puoi sovente
il periglio vicino, anzi presente?

19Nubilosa la fronte, ha il crine incolto,
rabbuffata la barba al petto scende,
di tartareo venen livido è il volto
e di fiamma infernale il guardo splende.
Preme un destrier cui superar di molto
non può l’occhio s’al corso il piè distende,
vario il pel, corto il crine, acceso il guardo,
una giumenta il generò d’un pardo.

20Tragge poscia in battaglia Alarco il Trace,
gente da la Bistonia, alta pallude,
che fra ʼl Rodope e l’Emo e ʼl mar si giace,
che quinci Europa et Asia indi racchiude.
Ne la fredda de l’Ebro onda rapace
attuffa il genitor le membra ignude
del pargoletto figlio, et a l’incarco
de gli strali l’avvezza e a curvar l’arco.

21Di sonora faretra il fier drapello
ingombra il tergo, e curva spada cinge,
e tolto a i paschi argivi asciutto e snello
il re feroce un corridor sospinge.
Di lui men ratto a fuggitivo augello
pellegrino falcon s’avventa e stringe,
e va sì lieve che la polve istessa
da l’orme sue né pur rimane impressa.

22Quei che di Ponto e de la Frigia a i lidi
già per Troia superba abbandonaro,
e quei de la Bitinia e i Cari e i lidi
conduce in un drapello Argeo l’avaro,
non perché in lui senno o valor s’annidi
o le glorie de gli avi rendan chiaro,
ma ricco d’oro al par d’ogni altro duce
di titoli costui gonfio riluce.

23Folta selva di piume in su ʼl cimiero
purpurea ondeggia, et è purpureo ancora
l’ammanto onde s’adorna il cavaliero
cui solo de’ tesori il pregio onora.
Di patria sorian preme un destriero
che co ʼl rapido piè la via divora,
tal costui passa, e quinci altri comprende
ch’a i sommi onor su scala d’or s’ascende.

24De l’Arabia Petrea, de la Felice
conduce Albumazar gli abitatori,
dove il rogo e la cuna ha la Fenice
tra moli incensi e preziosi odori,
et ha con lui de l’indica pendice
quei che miran del giorno i primi albori,
e i superbi nitriti odon sovente
de i destrieri del Sole in Oriente.

25Ne l’età giovanil le squadre erranti
de gli Arabi ladron questi seguia,
e da i boschi vicini i viandanti
era il primiero ad infestar la via,
ma de l’infame ardir chiari i suoi vanti
si spargeano in tal guisa, e tal s’udia
dal re d’Arabia il suon delle sue imprese
che ʼl volle in corte et obliò l’offese.

26In soccorso d’Antonio indi l’impero
de l’arabiche squadre a lui concede,
ei su destrier leardo in suono altero
i suoi infiamma a le future prede:
così di masnadier fatto guerrero,
anzi in un punto capitan si vede,
et or sen vien in guerra e mercar brama
con lodato valor più degna fama.

27La gente che lasciò de la Giudea
le piagge, ove trascorre il bel Giordano
il giovanetto Eleazar traea
d’Erode in vece al principe romano.
Di grazia e di beltà ne l’assemblea
chi pareggi costui tu cerchi in vano,
né se ʼl miri sai dir se più mortali
de l’occhio o de la man siano gli strali.

28Paggio del grand’Erode e favorito
fu da la prima sua tenera etate,
cresciuto poi fu più dal re gradito
l’animo bel ne la natia beltate;
quindi il garzone feroce e troppo ardito
volle in guerra condor le schiere armate,
avido d’ottener con doppia gloria
e de i corpi e de l’alme egual vittoria.

29Sparso di gemme e del color del cielo
l’orna serico manto, e ʼl bel crin d’oro
gli copre in parte in mille piaghe un velo,
torto con ricco e splendido lavoro.
Un ubin che qual neve ha bianco il pelo
cui pur dianzi versò gelido Coro
cavalca, e la faretra al tergo cinge,
la spada al fianco, e una zagaglia stringe.

30Segue Demetrio, che lo stuol feroce
di Licaonia e di Galizia mena,
a cui quindi confina il Capadoce
e fa quinci del Tauro ombra la schiena.
Grato il rende al suo re musica voce,
ond’a i boschi dà moto e i venti affrena:
meglio per lui se de l’onor del canto
pago, non aspirava a maggior vanto.

31Porta bruno il cimier, brune le spoglie
com’ha dolente il core e mesto il volto,
poiché ancor piange de l’estinta moglie
nel duro caso ogni suo ben sepolto.
Un destriero di Persia al corso scioglie
ond’a gli Euri volanti il pregio è tolto,
ha di dardo mortal la destra armata
e gli pende a l’arcion mazza ferrata.

32A la rassegna appo costor s’offerse
lo stuol di Media, ove il gran mare Ircano
la terra inghiotte, e de le genti perse
lo seguiva il drapel poco lontano.
L’ambizioso e tumido Artaserse
de l’una e l’altra schiera è capitano,
già scherzò tra gli amori, et or l’invita
dolce desio di gloria e dura vita.

33Merto ei non ha ch’al militare onore
l’innalzi, fuor ch’Aspasia a lui sorella,
Aspasia che del re l’acceso core
tiranneggia a sua voglia, Aspasia bella.
Dono real, spronava un corridore
baio che in fronte avea candida stella,
cui partorì di generoso padre
su al riva del Gange indica madre.

34Quindi, squallido in volto, in mostra viene
il falso Anafrodisio, e lo circonda
il popol che d’Egitto e di Cirene
nutre paese ove il gran fiume inonda.
Ebbe costui de l’arida Siene
plebeo natale in su l’aprica sponda,
et ancor fanciullo il trasse in corte
dal paterno tugurio amica sorte.

35Quivi al tempo adattossi, e lusinghiero
Cleopatra adulò sì che del regno
ottenne i primi onori, e con severo
sembiante ricoprì servile ingegno.
Un veloce unicorno ha per destriero,
di sì vil peso portatore indegno;
gli arma da l’ira ostil barbaro usbergo
d’un coccodrillo il cuoio il petto e ʼl tergo.

36Carco d’anni e di glorie a l’assemblea
Canidio i suoi Romani alfin conduce,
e nel campo trovar non si potea
gente più scelta o più famoso duce.
D’arnese adamantin cinto, parea
folgoreggiar d’una terribil luce
il fero stuol, che vanta e non è ch’erre
le sue vittorie eguali a le sue guerre.

37S’avvezzàr di costoro al caldo, al gelo
le giovanette membra, et a soffrire
de l’inimico ingiurioso cielo
con intrepido cor gli oltraggi e l’ire,
s’imbiancò fra l’armi il biondo pelo,
crebbe in lor con l’etate anco l’ardire,
né la faccia mostràr punto diversa
ne l’amica fortuna o ne l’avversa.

38De le partenopee feconde stalle
superbia e fiore, indomito destriero
c’ha nerboruto il petto et ampie spalle,
raro crin, piè balzan regge il guerriero;
d’una de le più rapide cavalle
che calpestin le sponde al fiume Ibero
ma di partenopeo padre già nacque
questi del bel Sebeto in riva a l’acque.

La poderosa armata compie la sua navigazione da Efeso ad Azio (39-45)

39Qui finì la rassegna, e qui la cura
de le genti terrestri a l’or fu data
a Canidio, e per lui deve sicura
del necessario vitto esser l’armata.
Stetter così finché risorse oscura
dal cimmerio confin la notte alata,
onde ognun riposossi e fu ʼl viaggio
differito del sole al nuovo raggio.

40Si diradano l’ombre e giunge l’ora
ch’a sé chiama Nettun l’oste possente;
la notte non avea ceduto ancora
libero in tutto il cielo al dì nascente
quando svegliò la sonnacchiosa aurora
de i bellici oricalchi il suon repente,
e rimbombar s’udiro e gli antri e i lidi
de l’ondoso ocean di mille gridi.

41Spiran dal lito intanto aure seconde,
suonano su ʼl partir vari instrumenti,
fuggono il porto e le vicine sponde,
restan di qua, di là mesti i parenti,
ingravidan le vele e gemon l’onde
de i legni al peso e de l’armate genti,
e provocate de l’occulto sdegno
spumeggianti e frementi altrui dan segno.

42Sotto i bosci di Grecia il salso flutto
vide un tempo così strider Micene,
onde l’alto Ilion cadde distrutto
e fumàr di Sigeo l’acque e l’arene,
o tal mirò de l’Asia in mar ridutto
il vastissimo impero un tempo Atene
dal tiranno crudel, la cui ruina
fe’ la riva immortal di Salamina.

43Resta adietro l’Egeo, varca e trapassa
le numerosi Cicladi vaganti
la poderosa armata, e a destra lassa
del magarico sen l’onde sonanti;
a sinistra riman Creta più bassa,
vede scorrer in mar l’Eurota innanti,
gira il Peloponneso, e de l’Alfeo
la favolosa foce e del Peneo.

44Le Strofadi a mancina e di Iacinto
la riva scopre, e in vèr la destra mira
gli scogli di Naupato e di Corinto
l’onda che in breve sen chiusa s’adira;
se n’entra poi dove d’Ambracia è cinto
il mar da gli Arcanani, e qui rimira
su picciol colle e con un bosco a tergo
d’Azio eretto ad Apollo il sacro albergo.

45Raccoglie ivi le vele, e ferma attende
del nemico navilio altre novelle
l’armata, cui tranquillo il sen difende
da l’improvise e torbide procelle.
Da l’acqua infastidito altri discende
su le piagge vicine amene e belle,
altri de l’armi, altri del vitto ha cura,
di risarcir le navi altri procura.

Antonio chiede un responso all’oracolo di Apollo: è negativo, gli è consigliato di abbandonare l’impresa (46-63)

46Mentre il tempo concede, Antonio intanto
di venerar del tempio i sacri altari
fra sé risolve, e parte, e solo a canto
Cleopatra conduce e i suoi più cari.
Quanto un dardo la man avventa o quanto
lo stral vola da l’arco i limitari
s’innalzano del tempio al mar vicini
ove stanno raccolti i curvi pini.

47Scorgono quivi a la gran figlia inante
uom che in candida veste il crine avvolto
ha di bende simili e scintillante
mostra d’alto vigore il crespo volto.
A la coppia real poco distante
con soave parlar questi rivolto
«Venite,» disse «o già gran tempo a noi
destinati dal ciel famosi eroi».

48Tacque, e seco nel tempio entràr coloro,
e l’imago d’Apollo ivi adoraro,
e su l’altar di ricche gemme e d’oro
preziosi olocausti al dio sacraro.
Poiché i voti compiti e i preghi foro
onde il celeste aiuto essi invocaro,
gl’invita il veglio, e lor facendo scorta
del solitario albergo apre la porta.

49Indi gli guida ove di placid’onde
innaffia un orticel rivo d’argento,
et ove dolcemente i fior, le fronde
sol co’ baci talor lambisce il vento.
S’accoglie in picciol lago e si diffonde
l’acqua. limpida sì che ʼl pavimento
di colorite pietre e in lei guizzanti
scopre i pesci distinti a i riguardanti.

50Di fruttifere piante e di viole
la terra molle è seminata intorno,
e qui più chiaro e più lucente il sole
fa il ciel più vago e più sereno il giorno.
Sorgon siepi di rose ove far suole
l’aura scherzando armonico soggiorno,
cantan gli augei tra i rami e ad ora ad ora
al lor canto risponde e l’onda e l’òra.

51S’innalza al ciel di pampinose viti
piegate in arco un padiglion frondoso,
e verdi seggi d’ellera guerniti
circondano d’intorno il loco ombroso.
Del sacerdote a i rinovati inviti
qui l’egizia e ʼl latin prendon riposo;
dopo breve silenzio indi s’affisa
nel vecchio Anonio, e parla in simil guisa:

52«Tu, che sacro a gli dèi traggi rinchiuso
in questo ameno albergo i dì quieti,
e ʼl futuro penetri et hai per uso
del destino svelar gli alti secreti,
deh t’innoltra a i miei preghi entro ʼl più chiuso
de i sommo inviolabili decreti,
e dimmi quale avverso o qual felice
evento a le nostr’armi il ciel predice».

53Tace, e l’altro risponde: «In van presume
baldanzoso et in sé troppo securo
spiegare umano ingegno audaci piume
de gli annali celesti entro il futuro,
solo a noi può scoprire il divin lume
quel che giace ne’ fati incerto e scuro;
dunque ciò ch’avverrà ch’io ti riveli
non è nostra virtù, ma don de i cieli.

54Febo, signor che la mia lingua inspira,
per me t’annunzia lagrimosi eventi,
poiché infausta del ciel minaccia l’ira
la maritima pugna a le tue genti.
Tu cedi al fato avverso e ti ritira
moderando del cor gl’impeti ardenti,
che in van popoli e regni altri corregge
mentre a i propri desir non sa dar legge.

55Anch’io provai quanto lusinga e piace
il titolo reale e come il petto
gonfi d’insidiosa aura fallace
con finte larve ambizioso affetto:
fui re d’Arabia, e alfin d’onor fugace,
visto come sia van breve diletto,
lasciai l’antica reggia e in questi chiostri
cambiai con rozze spoglie i bissi e gli ostri.

56Dolce è, dirai, con riverente omaggio
veder turbe divote a piè del trono
idolatrar di tue grandezze il raggio
e i più cari tessori offrirti in dono,
ma il ver rimembra, e scorgerai più saggio
che di livido tosco asperse sono
quelle dolcezze, e che ne l’urna estrema
son coperti del par sacco e diadema.

57Fra straniere delizie i propri mali
nutra superbo re, corra il Coaspe
a le splendide sue mense reali,
gli ministri i tesori il servo Idaspe,
vengan gli aurei broccati orientali
tributari per lui da l’onde caspe,
diluvi a i piedi suoi nembi di gemme
l’indica Teti o l’eritree maremme,

58che pro se in un momento il vecchio alato
i suoi piacer invola, e ʼl regio fasto
da l’angustie d’un’urna è terminato
che stringe in breve giro animo vasto?
Sono a i vermi del corpo effeminato
le tiranniche membra orrido pasto,
e l’antiche grandezze alfin riserra
dura legge fatale in poca terra.

59Invida la fortuna et incostante
ne le cose minor meno s’adira,
sol di regie ruine è che si vante
e i sommi imperi ambiziosa aggira.
Sorgon primieri il Caucaso e l’Atlante
de’ folgori di Giove esposti a l’ira,
l’alte quercie, non gli umili virgulti
del superbo Aquilon provan gl’insulti.

60Lunge di scettro e d’or torbida cura
qui l’eterna beltà contemplo ognora,
e vagheggio nel ciel lucida e pura
l’argentea luna e la dorata aurora,
più che i finti saluti in ricche mura
godo tra l’erbe il ventilar de l’ora,
e da gravi pensier non interrotti
traggo placidi sonni in liete notti.

61Odo ben qui di limpidi ruscelli
il dolce mormorio tra verdi sponde,
e tra i rami garrir canori augelli
e con l’aurette susurrar le fronde,
ma non d’uomini già maligni e felli
il mormorar ch’invido cor diffonde,
né i susurri noiosi e l’ire amare
di pertinaci insidiose gare.

62È mio primo diletto a l’erbe, a i fiori
con l’urna dispensar freschi alimenti
e la rosa amirar che spunta fuori
a riverir del sole i rai nascenti.
Miro quasi trofeo de’ miei sudori
le nudrite da me piante crescenti,
e da la nostra man tessute e fatte
le fiorite vagheggio ombrose fratte.

63Qui conchiudo; d’amor, d’onor, di regni
spegner l’accese voglie omai ti piaccia,
né provocar del cielo i gravi sdegni
che sinistri accidenti a te minaccia.
Non sempre risguardar gli altrui disegni
suol la fortuna con amica faccia,
et a chi più salisce è più vicina
di mortal precipizio alta ruina».