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La Cleopatra

di Girolamo Graziani

Canto XIII

testo e note a cura di T. Artico | criteri di trascrizione
ultimo agg. 27.03.15 15:23

ARGOMENTO
Supplicante l’egizia al vincitore
il regno chiede, ei no ʼl promette o niega.
A la reina appare il suo amatore
che d’Augusto i pensier le svela e spiega.
Conferma il sogno e a lei del suo signore
i sensi Dolabella apre e dispiega,
indi l’ultime esequie al suo consorte
celebra Cleopatra e si dà morte.

Cleopatra pensa tra sé come fare per sedurre Augusto e recuperare il regno per i figli (1-8)

1De l’afflitta reina il vincitore
va quindi a sollevar la speme oppressa,
dubbioso ch’innasprito il suo dolore
l’onor del suo trionfo estingua in essa.
Dà tregua a l’or ne l’agitato core
a i suoi pensier l’egizia, et a se stessa
così ragiona, e allettatrice e molle
de la natia bellezza aura l’estolle:

2- Or chi potrà, benché selvaggio e fero
l’abbia nutrito il Rodope o l’Atlante,
a i miei teneri vezzi, al lusinghiero
sguardo negar di riverirmi amante?
Ben sa come più volte Amore altero
di superbe vittorie è che si vante
in mia virtute, e quai famosi eroi
miri avvinti per me da i lacci suoi.

3Non se pur di diaspro o di macigno
saldo riparo, impenetrabil muro
gli cingesse d’intorno il cor ferigno
da lo strale de’ miei sguardi andria sicuro.
Con un sorriso placido e benigno,
benché di ghiaccio adamantino e duro
s’armi rigido il seno a gloria mia,
esca al foco d’amor vuo’ ch’egli sia.

4Né ciò bram’io perché veder mi caglia
in amante cangiato il mio nemico,
ond’a lui corrisponda, in lui mi vaglia
incostante, e ripor l’affetto antico,
che non fia mai che nuovo amor prevaglia
a la memoria de l’estinto amico,
né ʼl cor che per Antonio incenerio
sarà mai che riscaldi altro desio,

5ma perché sol del mio fedel consorte
a l’innocente prole indi ottenessi
l’ereditario scettro, e di lor sorte
cangiassi i mesti in prosperi successi,
così fia che d’Egitto anco risorte
le cadute speranze io vegga in essi.
Che Marte ad Amor ceda, e ch’a vicenda
ciò che qui mi rapì, questi mi renda -.

6Cotal si vanta di se stessa altera
la bella egizia, e incenerir presume
del nemico latin l’alma guerrera
de’ suoi fervidi sguardi al dolce lume.
Ogni raro artificio, ogni maniera
di beltà, di parole e di costume
pensa, e ciò che placar puote lo sdegno
d’Augusto, et impetrarne il patrio regno.

7Qual capitan ch’a general tenzone
l’oste nemica provocar risolve
l’armi contempla, il sito e la stagione
e l’arti militari in sé rivolve,
indi i guerrier, le machine dispone,
mira i vantaggi et a suo pro gli volve,
né trascura sentiero, argine o fossa
che la vittoria agevolar gli possa,

8tal ritrova costei placide lodi,
mentito lagrimar, finti sospiri,
e quando muover possa et in quai modi
più cari altrui de’ suoi begli occhi i giri.
Preghi, vezzi, scongiuri, insidie e frodi
ciò che stima opportuno a i suoi desiri
prepara, e ciò che puote in parer bella
crescere, a studio antico arte novella.

Cleopatra prega Ottaviano di lasciare il regno ai figli, lui risponde in maniera ambigua ma risoluta (9-32)

9Da la turba seguace Augusto intanto
accompagnato a ritrovar lei viene.
Essa l’incontra, et a baciargli il manto
vuole a terra chinarsi, ei la ritiene;
quinci di lei dentro l’albergo a canto
al letto egli la guida e la sostiene.
Qui, partito ciascun, soli restaro
la mesta donna e ʼl vincitor del Faro.

10Preme essa il letto in aureo seggio assiso,
ei posa in grave e placido sembiante,
ella del pensieroso e flebil viso
dolci sensi d’amor tutta spirante,
ei l’occhio al suolo, ed essa in lui l’ha fiso,
ei de la gloria, essa del regno amante.
Così taceano, e alfin la donna accorta
a le supplici voci apre la porta:

11«Signor, di tue vittorie al grido altero
suona il libico mar, l’ultima Tile,
e ʼl vinto Idaspe e ʼl soggiogato Ibero
il tuo potente scettro inchina umile,
sono i raggi del sol meta al tuo impero,
a te del Nabateo la man servile
su i ricchi altari e fra i votivi lumi
vittime sacra et odorati fumi.

12Queste tue glorie anch’io fra gli altri ammiro,
ma tua gloria maggior non pongo in esse,
poiché lode commune ad altri io mito
l’aver con l’armi estranie genti oppresse:
varia la sorte il suo volubil giro,
e quei che dianzi a l’alte cime eresse
spinge a gli abissi, e suol de’ maggior regi
le ruine stimar suoi maggior pregi.

13Quella è dunque a ragion lode primiera
che da l’altrui favor nulla dipende,
e tal vegg’io fra la virtù guerrera
la famosa pietà che in te risplende.
Io, che mossi vèr te rubella, altera
di turbo marzial procelle orrende,
pur vinta e prigioniera ho di reale
ciò che doveasi a la mia sorte eguale.

14Da sì rara pietà quindi è ben dritto
che la reggia de gli avi a i figli miei
ancor speri concessa, e che d’Egitto
abbian l’antico scettro i Tolomei.
Così del pari e in guerra e in pace invitto
ergerai di virtù chiari trofei,
et incerto sarà se maggior gloria
si convenga al perdono o a la vittoria.

15Né mi turba, signor, né in me la spene
scema perché la sorte e le bandiere
seguite abbia d’Antonio, e di Cirene
e d’Egitto traendo armate schiere,
né ʼl grido popolar ch’altri sostiene
con accuse fallaci e menzognere
ch’io quella fui che già ne’ vostri cori
primiera seminai l’ire e i rancori,

16che ʼl decreto roman nulla curando
d’Antonio offerti a me de l’Asia i regni
temeraria accettai, forse bramando
e forse anco nutrendo i vostri sdegni,
ch’al solio di Quirin gonfia aspirando
con maniere impudiche e vezzi indegni
oprai ch’Ottavia, ond’ei me sola amasse,
del letto marital priva restasse.

17Poiché santa innocenza in mia difesa
l’armi rintuzzerà de l’odio altrui,
e mostrerà che di mortal contesa
non sparsi i semi e non autrice io fui,
il desio di regnar che l’alma accesa
avea d’entrambi suscitò fra vui
l’intestine discordie; io, sallo il cielo,
del’interna cagion fui solo il velo.

18E come io poi negar potea d’Egitto
de’ soldati e de l’oro il chiesto aiuto
al minacciar di capitano invitto,
di poderoso esercito temuto?
A che negare al vincitore il dritto
del promesso dovea fermo tributo,
donna sola et inerme, onde poi tutto
da lui non fosse il regno mio distrutto?

19Se fomentaro un tempo Aminta, Erode
e seguìr ne i perigli Antonio amico,
et oggi, tua mercé, possiede e gode
l’uno e l’altro di lor lo scettro antico,
benché di lor ciascun più saggio e prode
vie più di me giovasse al tuo nemico,
a che signor da te non deggio anch’io
sperare egual successo a l’error mio?

20Ch’io ricevessi le provincie in dono
de’ romani il confesso, or ciò che fia?
perché degg’io, s’a lui soggetta io sono,
ricusando adombrar la fede mia?
d’involontario error dunque il perdono
giusto sarà ch’a me negato or sia?
Non ricusai perché di fé non retta
l’importuna ricusa era sospetta.

21Ch’io di Quirin su la famosa seggia
premer tentassi il popolo romano
e chi sarà che non conosce e veggia
quanto sia de l’accusa il titol vano?
Sperar dovea di posseder la reggia
e lo scettro tener feminea mano
ch’a Cesare signor, Cesare istesso
non fu già pur di sostener permesso?

22Ch’alfin per mia cagion fu discacciata
Ottavia sol dal marital suo letto,
concederò che fosse ella sprezzata
colpa de l’amor mio, non mio difetto.
Era d’Antonio, io già no ʼl niego, amata
da troppo ardente e smoderato affetto,
ma per dio, chi potrà ne l’altrui seno
al fervido desire imporre il freno?

23Tralascierò ch’accorla in sua magione
forse con saggio avviso ei non dovea
a l’or che sanguinosa aspra tenzone
con incendio commun tra voi fervea,
ma siasi stato Amor di ciò cagione,
io de’ falli d’amor dunque son rea?
d’Amor, che in terra e in ciel scusa ogni colpa,
l’altrui colpa d’amor me sola incolpa?

24Pur qui m’accheto, e creder vuo’ che sia
del tuo perdono il mio fallire indegno,
ma chi dirà che non ingiusto fia
ch’anco ne’ fogli miei sfoghi il tuo sdegno?
Sia del mio error la pena anco sol mia,
né de l’antico ereditario regno
la prole mia per mia cagion rimagna
priva, benché a l’error non sia compagna.

25De’ Tolomei la chiara stirpe attende
per lunghissima serie a lei prescritto
il glorioso scettro, e in te contende
di pio la lode al titolo d’invitto.
Eguale al gran valor che in te risplende
l’alta clemenza ammirerà l’Egitto,
et essendo al tuo crin novelle palme
t’adorerà trionfator de l’alme».

26Qui cessa di pregar, ma son de’ preghi
facondi sguardi interpreti furtivi.
Or chi fia che non ceda e non si pieghi
a quei teneri suoi vezzi lascivi?
e tu pure anco il seno Augusto neghi
di sue lusinghe a i lacci, a gl’incentivi?
nulla possono in te con vari modi
preghiere accorte, insidiose lodi?

27Qual di lingua sagace al noto incanto
chiude tosto l’orecchie aspe africano,
o qual de le sirene il dolce canto
l’itaco cavalier rendé già vano,
tal de l’egizia a le parole, al pianto
a l’or mostrossi il vincitor romano,
e non lasciò che gli giungesse al core
da’ begli occhi di lei fiamma d’amore.

28Quindi gl’interni sensi asconde e preme,
e mentre al suo parlar breve risponde
non promette e non niega, e fra la speme
un dubbioso timor mesce e confonde.
«Non ha» diss’ei «fra le sciagure estreme
un magnanimo cor ristoro altronde
che da se stesso, e la virtù diversa
non sembra a la fortuna amica o avversa.

29Né perch’io vinsi insuperbir dovea,
né tu perché sei vinta esser negletta.
Scherza l’instabil sorte or lieta or rea,
et or cruda minaccia or dolce alletta;
foll’è colui che la volubil dea
favoreval mai sempre a sé prometta,
o ch’invilito a la percossa antica
la paventi mai sempre a sé nemica.

30Tu raffrena il tuo duolo, onde risorta
la primiera bellezza in te si veggia,
raddolcisci le cure, e ti conforta,
che intatta è la cittade e la tua reggia.
Spera, che quanto la ragion comporta
del popolo roman, ch’io possa e deggia
tu paga rimarrai, per quanto è giusto
io vuo’ che ti prometti amico Augusto».

31Così ragiona il vincitor cortese
a l’egizia, e da lei congedo prende,
e parte e porta le sue voglie illese
cui da l’ardor zelo d’onor difende.
Stupisce quella, che tant’alme accese,
ch’or sua beltà no ʼl muove e non l’incende,
pur somministra ancor di vana speme
esca debile e lieve al cor che teme.

32- Chi sa – dicea . ch’Ottavio or non infinga
da quel che chiude in sé vario il sembiante?
Fors’egli tace et ama, e si lusinga
di non volere amar, benché si amante.
Dunque io non so come talor si finga
il volto or mesto or lieto in un istante?
e come sia ne l’amorose scole
simulati gli sguardi e le parole? -.

Antonio compare in sogno a Cleopatra, le mostra la vita nei cieli e le sconfessa i progetti tutt’altro che concilianti di Ottaviano (33-48,4)

33Così dubbiosa la volubil mente
or quinci or quindi ella volgea sospesa,
e le facean nel core indifferente
la speranza e ʼl timor varia contesa.
Le parole d’Augusto è che rammente,
e gli atti e ʼl volto ella misura e pesa,
né sa ciò che risolva; alfin le scopre
virtù d’amor gli altrui pensieri e l’opre.

34Già spiegate nel ciel la notte avea
sparse d’ombra e d’orror le gelid’ali,
e già il silenzio altissimo premea
con l’acqua de l’oblio gli egri mortali
quando a l’egizia, a cui dal cor togliea
le cure il sonno e raddolciva i mali,
scintillante di fiamme ardenti e chiare
improviso splendore in sogno appare.

35Per mezzo i rai del suo fedel romano
riconobbe colei l’amata faccia,
e tre volt tentò raccorlo in vano
con frettolosi amplessi entro le braccia,
ch’altrettante l’incauta avida mano
scherne l’imago, onde sol l’aure abbraccia,
ella stupisce, e del guerrier si duole,
che sorride e prorompe in tai parole:

36«Non avvolto no io di mortal velo
come tu credi, e tu non sei là dove
con instabil vicenda il caldo e ʼl gelo
prova la terra, o dove tuona e piove.
Questo che miri e dove or siamo è il cielo,
cui l’anima del mondo informa e move,
che per tutto diffusa e perché aspira
solo a se stessa eterna in sé si gira.

37Un solo è il cielo, e falso erra tra voi
di tanti cieli il grido , e inutil era
che fossero distinti i cerchi suoi
ove a l’opra supplica una sol sfera.
Quindi l’anima scende e veste poi
caduche membra in terra, onde leggiera,
purgata da gli errori, in altro loco
spiega verso le stelle ali di foco.

38Ogni alma ha la sua stella, e son le stelle
l’alme del cielo elette abitatrici,
che godono quassuso eterne e belle
con tranquillo riposo i dì felici.
Ben talora scorgete auree fiammelle
ne le vostre cader basse pendici
da le piagge del ciel, ma quei fulgori
son stimati da voi lievi vapori.

39Quelle appunto che voi stelle cadenti
nomate, anime son ch’ad informare
il fragil vel di pure fiamme ardenti
tolte a l’alma del ciel soglion calare.
Di loro altre non viste, altre lucenti
s’offrono a gli occhi vostri, altre men chiare
poiché la luce si comparte in quanto
denno vestire ignoto o nobil manto».

40Volea seguir ma, il suo parlar rompendo,
l’addomanda l’egizia: «Or qual si vede
lucido stuol ch’or cala et or salendo
per diverso sentiero al ciel sen riede?».
Vèr l’additato loco a l’or volgendo
l’occhio il guerrier disse: «Da te si chiede
parte di ciò ch’a te sin ora ho detto:
or odi, e resterà pago il tuo affetto.

41Non solo il latteo cerchio abbraccia intorno
l’incurvato Zodiaco, ove raggira
l’aurato carro il portator del giorno,
né mai lungi da quello il piè ritira,
ma ʼl divide là dove il Capricorno
e ʼl Cancro opposto la gran zona aggira;
scendon per questa via ne i corpi vostri
l’alme, e riedon per quella a i sommi chiostri.

42Tu rimira colà tazza che splende
fra ʼl Cancro adusto e ʼl fier leon nemeo,
or quella a inebriar l’alma che scende
nel vostro corpo ivi locò Lieo,
quindi in un punto oscuro oblio la prende
de l’albergo primiero onde cadeo,
e circondata da terrene membra
de gli arcani del ciel nulla rimembra.

43Da la veste mortal poscia divisa
sen va là dove in sotterraneo loco
da le macchie corporee in varia guisa
soglion purgarla o l’aria o l’acqua o ʼl foco.
Indi verso le stelle il guardo affisa,
e sciolta da i legami a poco a poco
i terreni difetti ivi depone
et erge i vanni a l’immortal magione.

44Stanza è fra l’altre ove purgar si suole
da le colpe d’armo l’anima amante,
che dal suo ardor sol tormentata cole
di sacri mirti l’odorate piante.
Lieve è colpa amorosa, ond’è che vole
in breve tempo a la nati stellante
spera libera l’alma e pura e bella,
che di nuovo sia in ciel lucida stella.

45Anch’io, deposto il mio caduco velo,
e tra i mirti laggiù fatto soggiorno,
già poco dianzi a rivedere il cielo
da la valle mortal feci ritorno.
Qui stella io splendo, e d’amoroso zelo
ardo per te, quei raggi onde tu adorno
mi vedi sfavillar sono l’usate
de l’antico mio amor fiamme beate.

46Or qui t’attendo, e qui per te si serba
il nativo splendor. Scherni le frodi
del crudo vincitor, che ti riserba
del suo trionfo a le vergogne, a i nodi.
Qual s’occulta talor serpe ne l’erba
tal cela i suoi disegni in dolci modi.
Deh non mai gli occhi di nostre onte vaghi
con gl’indegni tuoi lacci Ottavio appaghi!

47Sdegna vita servil libero core,
né si perde co ʼl regno alma reale.
Vinse Cesare, è ver, non già il valore
ma la palma gli diè legge fatale.
D’intrepida virtù nostro è l’onore
cui sorte o fato ad oscurar non vale;
vanti Ottavio i trofei di fragil salma,
ma trionfi nel cielo invitta l’alma».

48Così disse, e nel fin di tali accenti
nel profondo de’ rai s’ascose e sparve,
e traendo del mar le rote ardenti
sovra l’indico cielo il sole apparve.
Destossi Cleopatra, e fra dolentiUn giovane comandante di Ottaviano rivela a Cleopatra che sarà portata in trionfo a Roma come preda: la regina decide di uccidersi (48,5-59)
pensier confusa a le vedute larve
non sa che ciò paventi e ciò che deggia
credere a i sogni, e irresoluta ondeggia.

49Qual peregrin che da crudel masnada
per alpestre sentier fugga smarrito
se giunge ove talor vieta la strada
d’orrida balza insuperabil sito
arresta il piè fugace, e incerto bada,
fra i diversi perigli inorridito,
e mira ad or ad or con vario duolo
or l’alto precipizio or l’empio stuolo,

50tal dubbia Cleopatra in sé risolve
i detti de l’amante, e teme e spera.
Così di Noto e d’Aquilon si volve
a l’opposto soffiar nebbia leggiera.
Or mentre ancor sospende e non risolve
se nieghi tutto o dia credenza intiera
a le sognate cose ond’è confusa,
i consigli d’Augusto altri le accusa.

51Tra quei che più famosi abbandonaro
de l’Oriente e de l’Occaso i regni,
quando le selve a l’ocean portaro
de’ romani guerrier gli odi e gli sdegni,
per se stesso e per gli avi illustre e chiaro
Dolabella seguì d’Augusto i segni,
e del sangue nemico a i biondi crini
innaffiati nudrì lauri latini.

52Era il garzon de la sua verde etate
non giunto ancor dal quarto lustro al quinto,
e da siepe gentil di piume aurate
era del volto il fior purpureo cinto.
Il cor, vago d’onor, tra schiere armate
non gli avea mai laccio d’amore avvinto,
poiché sol quei piacer l’alma gradia
che di gloria conditi il rischio offria.

53Pur gli occhi non sì tosto incauto aperse
a la vezzosa barbara reina
che libero mirar non più sofferse
l’incomparabil forma e pellegrina,
ma con avidi sguardi il core offerse
quasi olocausto a la beltà divina,
poiché audace lo rende e impaziente
de l’amor, de l’età la fiamma ardente.

54De l’amante novel cauta s’accorge
l’egizia, e il suo desio nutre e seconda,
e in mezzo al suo dolor mentre lo scorge
come in lui sol confidi appar gioconda.
Ora un riso ora un guardo or toglie or porge,
or tacita la vede et or faconda,
o rida o miri o parli al fine o taccia
il credulo amator più stretto allaccia.

55De la sua donna allettatrice e bella
a lo sguardo lascivo, al vago riso
dolcemente rapito è Dolabella,
e ʼl core abbrucia e incenerisce il viso.
Sembra a gli atti leggiadri, alla favella
già fuor di sé tutto da sé diviso,
e da l’esca de’ vezzi a l’or nudrito
più si rende in amar fermo et ardito.

56Di Cesare costui nel padiglione
ove talor co’ primi ei fa dimora
ode ch’a Roma il capitan propone
prigioniera condor quella ch’adora.
Impaziente il cupido garzone
da la tenda maggior s’invola a l’ora,
quinci di lei ciò che proposto sia
in breve scritto a Cleopatra invia.

57De la carta fatal l’intimo senso
legge la donna e impallidisce insieme,
e premendo nel core il duolo intenso
di magnanimo sdegno accesa freme.
«Così» dicea «mentre goder mi penso
il regno mio tradita è la mia speme?
così pur troppo in danno mio veraci
il futuro scoprìr l’ombre fallaci?

58Così le mie fortune egli schernio
coll’onorarmi, e fur gli onor dispregi?
dunque tra gli altri fui serbata anch’io
per eternar del suo trionfo i pregi?
a che vantar del gran lignaggio mio
le memorie e ʼl valor de gli avi egregi
se posta io son tra le vulgari prede,
s’alta vergogna a i lor trofei succede?

59Oh mentite parole, oh mio dolore,
tu non m’uccidi? a che m’adiro in vano?
Il dolor non m’uccide, e a mesto core
non somministra aita impeto insano.
Fingi lieto il sembiante al vincitore,
che così poscia il suo pensier fia vano:
tu morendo imporrai fine al tuo affanno
e l’arte schernirai con pari inganno».

Cleopatra celebra gli uffici funebri di Antonio (60-67,4)

60Qui tace, e per celar l’interno affetto
compone il volto e le parole, e chiede
celebrar de l’esequie al suo delitto
l’estremo onor dovuto a la sua fede.
Il vincitor, che ʼl desiato effetto
scorge di sue lusinghe, a lei concede
la pia richiesta, e d’affidar procura
del regno in lei l’ambiziosa cura.

61Cleopatra là dunque ove chiudea
il sepolcro real l’ossa onorate
vassene a scior quei che prefissi avea
di duolo ultimi uffici e di pietate.
in lugubre vestir seco traea
le donzelle d’Egitto addolorate,
tal gì dove a la tomba eran sospese
con profumi sabei facelle accese.

62Quivi su l’urna de l’estinto amante
cader si lascia, indi con lui divisa:
«Io con libera man già poco inante
ti seppellii, Antonio, et or derisa
serva agitata e prigioniera errante
le tue ceneri adoro in altra guisa,
custodita perch’io non tolga al vanto
del vincitore il corpo mio co ʼl pianto.

63Questi saran del mio sincero amore
l’ultime prove, a te prestar non lice
de l’animo fedel segno maggiore
poiché il vieta al desio sorte infelice.
Perdona tu se ne l’estremo onore
ch’io pago a la tua cara urna infelice
fur con misera pompa arsi et accensi
e mendicati lumi e servi incensi.

64Ma sieno pur servi gl’incensi, e sieno
ne le tue esequie mendicati i lumi,
liberi ti daran questi occhi almeno
di tributario pianto amari fiumi.
Liberi da i sospir di questo seno
avrai le faci e gli odorati fumi,
che del nostro destin vive al dispetto
in corpo prigionier libero affetto.

65Anzi fia che di pianto anco si toglia
ch’io lasciar possa il tuo sepolcro asperso,
e quei ch’unì già vivi una sol voglia
morti disgiungerà luogo diverso.
Farà che te roman l’Egitto accoglia,
me d’Egitto l’Italia il fato avverso,
che benché l’alme disunir non possa
godrà di separar la tomba e l’ossa.

66Ma se i preghi mortali odon gli dèi,
se i nostri voti secondar tu puoi,
non soffrir che d’Antonio erga i trofei
Ottavio e che di te trionfi in noi.
Tu ne l’urna m’accogli, io sol potrei
ceneri amate, riposarmi in voi;
avanza ogni dolor l’essere io viva
dopo tanti dolor d’Antonio priva».

67Quivi ella tacque, et abbracciando asperse
e ʼl gran sepolcro coronò di fiori,
indi l’estremo sacrificio offerse
di siri unguenti e d’achemoni odori.
Fornite alfin l’esequie, il piè converseLa regina si fa portare un serpente e si suicida (67,5-86)
a l’albergo reale, e i suoi dolori
ne l’interno del cor chiuse e coprio
con mentite sembianze il suo desio.

68Giunta al palagio ivi l’ancelle avieno
superbissimo bagno apparecchiato,
ove infuse e versò ciò c’ha nel seno
l’arabo suol di molle e d’odorato,
quanto gli Assiri o l’indico terreno
nutrono di soave e di pregiato,
ciò che l’Armeno o l’Etiopo aduna
la lussuria d’Egitto ivi raduna.

69D’alabastro è la pila ove s’accoglie
l’odorifero umor, quivi s’aperge
le seriche deposte aurate spoglie
la reina di Menfi, e vi s’immerge,
e di rose e di fior con varie foglie
le bianche membra si pulisce e terge;
l’asciugan poscia delicati e fini
pompe de la Giudea candidi lini.

70Quinci il bagno lasciato a lauta mensa
con tranquillo sembiante ella s’asside,
e celando nel sen la doglia intensa
con un finto piacer scherza e sorride.
Inquieta fra tanto aggira e pensa
e la credenza altrui saggia deride:
i modi onde trovare ha risoluto
ne le miserie sue l’ultimo aiuto.

71Son tolte alfin le mense, et ella parte
dal convito fatal gioconda e lieta,
poiché a gli occhi dal cor provida l’arte
a l’occulto pensier l’adita vieta.
Dà congedo a la turba, e ne la parte
del palagio più ascosa e più secreta
s’interna, e con due ancelle ivi si chiude
fra le care più fide e ogni altra esclude.

72Quivi poscia i suoi preghi e le sue doglie
spiega in supplice foglio al vincitore,
tentando d’impetrare a le sue voglie
con amica pietà l’ultim’onore.
Chiede con le caduche e frali spoglie
riunirsi ne l’urna al suo amatore,
onde quei ch’un voler congiunse in vita
abbiano ancor la sepoltura unita.

73Indi la carta al vincitore invia
ove gl’intimi sensi espressi avea,
e commette ch’a lei recato sia
aureo vaso ch’un aspe in sé chiudea.
Questo al custode il quale osserva e spia
ogni suo moto ascoso ella tenea,
che di fuggir da le sciagure estreme
ripose in lui la disperata speme.

74Venuto, è da colei mirato alquanto
l’infausto vaso al viver suo fatale.
Ne l’interno del cor frenando il pianto
intrepida ragiona in guisa tale:
– Misera, or godi e insuperbisci al vanto
di tradita beltà che nulla vale,
e che sol tanto altri conosce e stima
quanto de’ suoi trionfi è spoglia opima.

75Sfortunata beltà, di regi amanti
a che prese traesti inclite schiere,
che supposero vinti a i tuoi sembianti
sotto il giogo d’Amor le fronti altre
s’al carro trionfal d’Ottavio inanti
fra le turbe servili e prigioniere
dovevi indi appagar nel Campidoglio
del superbo roman l’odio e l’orgoglio?

76Rimanetevi pur di mia beltate
pompe infelici, inutili ornamenti,
che né pur d’impetrar la libertate
a i miei figli et a me fuste possenti.
Già cedo al fato, altronde or voi sperate
a la vostra ragion, figli innocenti,
giusto soccorso; oh figli, oh fera sorte,
piango il vostro restar, non la mia morte.

77Con la vita avrà fin la mia sciagura,
ma voi, voi cari figli, ah resterete
d’Ottavia in preda, ohimè, d’Ottavia in cura,
e voi de l’ira sua gioco sarete.
Lassa, deh chi m’affida e m’assicura
che matrigna crudel l’avida sete
nel vostro sangue ella non spenga e sazio
non renda il suo furor co ʼl vostro strazio?

78Pur che poss’io vivendo, io riserbata
al riso popolar fra indegni nodi?
Forse dal mio morir vosco placata
la sorte deporrà gli sdegni e gli odi.
Moiasi Cleopatra, avventurata
in quanto di morir libera godi,
ma infelice or che dire a i figli almeno
non puoi l’ultimo a dio, stringergli al seno -.

79Qui tace, e di venen gonfio e spumante
tragge dal vaso d’oro il serpe crudo,
che letal da le fauci aura spirante
tre lingue vibra e a sé di sé fa scudo.
Quindi gli porge ahi troppo cari inante
ahi troppo dolce pasto il braccio ignudo,
e lo stimola e sferza ond’ei s’adire
et accresca a i suoi danni il tosco e l’ire.

80Ma che? Produce affetto in lui diverso
il desiato effetto al suo disegno,
che mentre il braccio l’aspido perverso
s’avventa di venen livido e pregno
a quella dolce vista in sé converso
mitigato in amor cangia lo sdegno,
e aprendo a bacciar le fauci ingorde
la baccia sì, ma pur bacciando morde.

81Son morsi i bacci, che ʼl pestifer angue
altro vezzo d’amor non seppe usare.
Già del tosco mortal corrotto il sangue
il core insidia, e bieco il guardo appare,
già l’usato vigor stupido langue,
stille già di sudor gelide e rare
le rigano la faccia e ʼl seno, ed ella
con più languida voce a l’or favella:

82«Oh caro albergo un tempo, oh dolce letto,
oh finché piacque al ciel soavi spoglie,
ove in pace io solea co ʼl mio diletto
porger conforto a l’amorose voglie,
voi a l’anima mia date ricetto
e scioglietemi voi da le mie doglie,
voi dico, coi che fuste già felici
de’ miei piacer ministre e spettatrici.

83Vissi, e ʼl corso varcai che la fortuna
avea con varia legge a me prescritto;
regnai, non m’avanzò d’impero alcuna,
riverito per me vidi l’Egitto;
nel pregio di beltà vinsi ciascuna,
anzi vinsi con essa Antonio invitto:
più non mi è dato, indegno è ch’io più viva
del regno e de l’amante e, ahi, di me priva.

84Or si sazi il destin co ʼl mio morire,
dolce morir se ne la bocca esangue
d’Antonio avessi io già con pari ardire
l’alma spirata, e con lui misto il sangue.
Già non sarei costretta al mio martire
il refrigerio mendicar da un angue,
ma cadendogli in braccio almeno avrei
ne’ suoi labbri sepolti i baci miei.

85Misera, e pur vaneggio? Indarno, oh mie
speranze vi lusingo. Oh patri numi,
se con voglie giamai supplici e pie
vi porsi le preghiere, arsi i profumi,
concedetemi almen dopo sì rie
avversità che mi sian chiusi i lumi
da i cari figli, e ch’al mio Antonio a lato
il cadavero mio sia collocato.

86Del mio amore a bastanza il lieve errore
fu punito da voi con tante pene.
Lassa, ma come ohimè, da qual rigore
sento il sangue agghiacciarmi entro le vene?
Così rotte, così del vincitore
le barbare saranno aspre catene?
Oh cielo, oh figli, Antonio, Antonio, oh mio … »,
qui mancò, qui disvenne e qui morio.